I ‘tweet’ di Elon Musk contro la democrazia
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Il 19 novembre appena passato alle ore 1:47 am vengono pubblicati su Twitter for phone dal sito personale […]
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Oggi il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha partecipato a Job&Orienta, all’evento “Idee, tecnologie e sostenibilità. È tempo di ITS”.
“È in luoghi come questo che si costruisce il futuro dell’Italia.
Mondiali Qatar 2022: ribaltamenti calcistici, politica e situazioni delicate
Appena fuori dai blocchi di partenza, la Coppa del Mondo in Qatar ha già prodotto una buona dose di sconvolgimenti, nonché situazioni e incidenti politicamente e personalmente delicati. La sconfitta per 2:0 del Qatar contro l’Ecuador nella partita di apertura del torneo ha rafforzato la convinzione dei critici che lo stato del Golfo non avrebbe […]
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USA: niente compromessi per la supremazia nell’ Indo-Pacifico
L’ASEAN Defence Ministers’ Meeting Plus (ADMM-Plus), ospitato dalla Cambogia, riflette ancora una volta i crescenti timori sulle ramificazioni a spirale delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, dove gli attori regionali interessati hanno opzioni limitate per ottenere sostegno o deterrenza. Facendo affidamento su piattaforme diplomatiche e di dialogo formali, tra cui ADMM+ come meccanismo per ridurre […]
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Cina: dominio nella catena del valore del solare fotovoltaico
La concentrazione della capacità produttiva del solare fotovoltaico (FV) in Cina, insieme al controllo della Cina sui minerali che entrano nella produzione di moduli solari fotovoltaici, ha determinato la leadership cinese, e il tentativo occidentale di reagire, il quale avrà un costo non indifferente
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BRASILE. Manifestazioni neonaziste raddoppiate in un anno
di Glória Paiva*
Pagine Esteri, 25 novembre 2022 – Il 1 aprile 1933, il regime nazista organizzò la prima azione coordinata contro gli ebrei in Germania, che divenne nota come il “Judenboykott”, il boicottaggio a gli stabilimenti di proprietà ebraica. Secondo i portavoce nazisti, i tedeschi “puri” non dovevano frequentare negozi, ristoranti, studi medici, avvocati o altri studi professionali ebrei.
Secondo l’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti, il boicottaggio era basato sull’idea che gli ebrei avessero “troppa influenza” nell’economia e che fossero i colpevoli della Grande Depressione. Per tutta la giornata, con le liste delle vittime in mano, i nazisti hanno marciato scandendo slogan antiebraici, disegnando sulle vetrine la stella di David e la parola “jude”, appendendo cartelli e intimidendo proprietari e clienti.
Ottantatré anni dopo, quel tragico episodio trova un’eco familiare dall’altro lato dell’Atlantico, con nuovi attori e nuove tecnologie. Alcuni giorni dopo la vittoria di Luís Inácio Lula da Silva al secondo turno delle elezioni presidenziali, la BBC Brasile ha denunciato la diffusione di una serie di “liste di elettori del PT” (Partito dei Lavoratori), cioè elenchi di professionisti, stabilimenti e istituzioni che presumibilmente sostengono Lula. Le liste, create e diffuse da militanti bolsonaristi, vengono condivise in gruppi su Whatsapp, Telegram o sui profili Twitter e Instagram, al fine di boicottare gli elettori di Lula.
Dai bar a chirurghi plastici e a dipendenti pubblici, il servizio della BBC Brasile ha denunciato casi come quello di Monika Ganem, parrucchiera a Maringá (stato del Paraná) che ha ricevuto una telefonata da una cliente chiedendole se stesse “lavorando per Lula”. “Mi sentivo come se fossi nell’inquisizione o nella dittatura militare”, ha detto Monika. Il reportage ha raccontato anche storie come quella di un ristorante di San Paolo che ha avuto le sue foto pubblicate su un social network filo-bolsonarista insieme a dei messaggi di odio e numerose offese.
Il fenomeno delle “liste del PT” non è un fatto isolato e si accompagna ad altre forme di manifestazioni e violenze di carattere politico, razzista, xenofobo e classista, da omicidi durante delle discussioni a sfondo politico agli attacchi ai lavoratori del Movimento Senza Terra da parte di gruppi della estrema-destra. In uno di essi, hanno inciso sui muri del Centro di Formazione Paulo Freire a Caruaru (stato del Pernambuco) il simbolo della svastica e hanno dato fuoco alla casa della coordinatrice dello spazio.
Nelle città di Porto Alegre e San Paolo, nell’ultimo mese, sono diventate note le dichiarazioni di studenti sui social che prendevano di mira la popolazione del nord-est del paese (regione decisiva per la vittoria di Lula) e gli studenti neri. “Voglio che questi nordorientali muoiano di sete”, ha condiviso uno dei membri di un gruppo Whatsapp di una scuola di Valinhos (SP), in cui anche gli altri partecipanti hanno inviato foto e meme di Adolph Hitler. Il gruppo è stato chiamato “Fundação Anti Petismo” e ha organizzato una protesta addirittura nella scuola contro i risultati del secondo turno delle elezioni presidenziali.
Allo stesso tempo, dal 31 ottobre si verificano atti antidemocratici sulle autostrade e nelle prossimità delle caserme delle forze armate in tutte le regioni del Brasile. I manifestanti rifiutano il risultato delle elezioni e chiedono “un intervento militare”, alcuni con passeggiate pacifiche, altri con metodi violenti come bombe fatte in casa, olio versato sulle autostrade, pietre lanciate e pneumatici in fiamme. In una di queste proteste, i sostenitori del presidente uscente, nel mentre bloccavano una strada a Santa Catarina, sono stati ripresi mentre facevano il saluto nazista. Secondo un reportage del quotidiano Estado de São Paulo, politici, agenti di polizia, sindacalisti e capi dell’agro-business incoraggiano le proteste e le finanziano.
L’idea di un intervento delle forze armate e il sentimento di un patriottismo violento, bianco, cristiano e patriarcale contro minoranze, nordorientali, antifascisti, donne e neri, hanno trovato risonanza e si sono nutriti dell’ideologia bolsonarista negli ultimi quattro anni. Le enormi campagne di disinformazione orchestrate dall’estrema destra hanno diffuso i principali messaggi di questa ideologia attraverso le reti sociali creando grandi bolle informative.
Gli studi rivelano una crescita significativa di gruppi, comunità virtuali e manifestazioni di carattere neonazista in tutto il paese. Secondo una delle principali ricercatrici sull’argomento, l’antropologa Adriana Dias, le cellule neonaziste sono più che raddoppiate, passando da 530 nell’ottobre dello scorso anno a 1.117 a novembre 2022. I gruppi sono presenti in 298 città brasiliane e lo stato di Santa Catarina, nel sud, è quello che concentra maggiormente questo movimento, con 320 cellule.
La ricercatrice riferisce di aver individuato 55 tipologie di correnti di pensiero e linee di azione. “C’è un gruppo brasiliano che difende il ritorno dell’apartheid in Sudafrica. Ci sono cellule di sostenitori del Ku Kux Klan e persino neo-confederati, movimenti degli Stati Uniti che hanno ripercussioni in Brasile. La maggior parte dei gruppi sono hitleriani e negazionisti dell’Olocausto”, afferma.
La maggior parte di questi gruppi, dice Dias, opera via internet. Tuttavia, in alcuni casi, le sue attività vanno aldilà dei limiti del virtuale. Il 14 novembre, un’operazione di polizia a Santa Catarina ha interrotto una riunione in cui otto uomini facevano apologia di nazismo. Uno degli arrestati indossava una cavigliera elettronica perché era già stato responsabile per la morte di un cittadino di origine ebraica. Successivamente, il gruppo avrebbe inviato una lettera alle autorità locali chiedendo l’annullamento di una fiera culturale con immigrati haitiani, l’espulsione di neri ed ebrei dallo stato e la liberazione degli otto arrestati – altrimenti, minacciavano, avrebbero compiuto un attacco terroristico, che fino ad ora non è avvenuto.
Secondo Adriana Dias, il neonazismo ha iniziato ad avere registri statistici in Brasile negli anni ’80 ed è cresciuto negli anni 2000 con gruppi revisionisti dell’Olocausto, principalmente nel sud del paese, che è stato in gran parte colonizzato dai tedeschi. Nel 2021, è stata la stessa antropologa a trovare una lettera di Jair Bolsonaro pubblicata su pagine neonaziste nel 2004. Nel 2011, i neonazisti di San Paolo hanno organizzato un atto pro-Bolsonaro. Per l’antropologa e altri specialisti, il bolsonarismo ha una forte relazione con la forte crescita di questi gruppi, in particolare negli ultimi quattro anni.
La strategia di comunicazione di Bolsonaro, sostiene Dias, oscilla tra due livelli. Da un lato, un discorso cristiano e fondamentalista rivolto al suo elettorato evangelico e conservatore, che crede in un Israele apocalittico e al secondo arrivo di Cristo. Dall’altro, un reiterato revisionismo storico segnato da messaggi pro-dittatura, antisemiti e pro-Hitler, e una chiara intenzione di creare un’identità nazionale. Nel 2020 è scoppiata una polemica quando l’ex segretario addetto alla Cultura, Roberto Alvim, ha proferito un discorso con dei frammenti chiaramente plagiati dell’ex ministro nazista Joseph Goebbels, con sottofondo un’opera di Richard Wagner. “Tutto questo non mi suona più come una serie di fatti casuali, ma come un progetto”, dice Adriana.
Sebbene esista, nel Codice Penale brasiliano, il reato di razzismo e di pregiudizio, esperti affermano che la mancanza di una legislazione chiara contro l’apologia del nazismo e l’incitamento all’odio è ancora il principale ostacolo per affrontare questo tipo di crimine. Pagine Esteri
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Gli attacchi turchi hanno ucciso 184 persone nel Kurdistan. Tra i morti 18 soldati siriani
della redazione
Pagine Esteri, 22 novembre 2022 – I sanguinosi attacchi turchi nel Kurdistan siriano e iracheno hanno causato dalla sera del 19 novembre almeno 184 morti. Lo ha affermato il ministro della difesa turco, Hulusi Akar, all’agenzia di stampa Anadolu, definendo “terroristi” i morti nei raid. Akar ha aggiunto che sono stati colpiti 89 obiettivi, inclusi rifugi, bunker, grotte, tunnel e magazzini appartenenti ai “gruppi terroristici” a Qandil e Hakurk nel nord dell’Iraq, e Kobane, Manbij, Zour Maghar, Tal Rifaat, Al Jazira e Al Malikiyah in Siria. Aree in cui si trovano postazioni sia dell’esercito regolare siriano sia delle Forze democratiche (Sdf) a maggioranza curda. L’aviazione e l’artiglieria di Ankara hanno anche martellato l’area a nord di Aleppo, nella Siria settentrionale, e una postazione militare siriana nel villaggio di Qarmough, a est di Kobane.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che l’operazione non si limiterà a “semplici raid aerei” e che chi provoca la Turchia ne pagherà le conseguenze. Da parte sua il ministro Hulusi Akar ha aggiunto “Faremo ciò che è necessario per far crollare le organizzazioni terroristiche del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e delle Unità curde di protezione del popolo (Ypg)”.
L’attacco turco è stato lanciato a circa una settimana dall’attentato che, il 13 novembre, ha colpito il centro di Istanbul provocando sei morti e 81 feriti. La Turchia ha accusato i curdi dell’attacco. Nonostante le smentite curde e l’opinione degli esperti che indicano in qualche gruppo jihadista il probabile responsabile dell’attentato, Erdogan ha colto l’occasione per prendere di nuovo di mira i curdi, suo bersaglio abituale.
Cresce nel frattempo la tensione tra Ankara e Damasco. È salito a 18 il numero di militari delle forze siriane governative uccisi durante gli attacchi lanciati dalla Turchia. In totale, il numero delle vittime provocate dai raid aerei in Siria ammonta a 37 ma il bilancio è destinato a salire per le gravi condizioni di alcuni feriti. La Russia alleata di Damasco ha inviato rinforzi militari nella periferia orientale di Aleppo. 25 veicoli e mezzi militari si sono diretti verso due basi militari nei pressi di Sarrin, nella Siria settentrionale, a sud di Kobane, e verso quella di Al Saidiyah, situata ad ovest della città di Manbij.
Intanto oggi ha preso nella capitale del Kazakhstan, Nur-Sultan, il 19mo round dei colloqui di Astana per la Siria, con la partecipazione dei rappresentanti dei tre Paesi promotori – Russia, Iran e Turchia – di due delegazioni siriane (governo e opposizione), dell’inviato dell’Onu , Geir Pedersen, e di Iraq, Libano e Giordania. Si discuterà soprattutto della situazione a livello economico, sociale e umanitario, oltre al progresso delle trattative. All’ordine del giorno ci sono anche il ritorno dei profughi siriani in Turchia, Libano e Giordania, la Commissione costituzionale e la stabilizzazione del cessate il fuoco nel nord-ovest della Siria. Pagine Esteri
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Oggi, #25novembre, si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale per l'eliminazione...
Oggi, #25novembre, si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999.
Ministero dell'Istruzione
Oggi, #25novembre, si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999.Telegram
SIRIA. Il narcos napoletano Bruno Carbone e la normalizzazione di Al Qaeda
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 21 novembre – Intriga i media arabi la vicenda di Bruno Carbone, narcotrafficante originario di Giugliano, in Campania. Camorrista, latitante da quasi venti anni, a capo di una rete internazionale di spaccio di stupefacenti, Carbone sarebbe stato catturato nell’aeroporto di Dubai, negli Emirati, e subito estradato in Italia. Questa almeno è la versione delle autorità di Roma. Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha anche ringraziato gli Emirati: «Questo ennesimo arresto testimonia un consolidamento dei rapporti di cooperazione giudiziaria tra Italia ed Emirati arabi uniti. Negli ultimi tempi questi rapporti – anche grazie agli accordi bilaterali in vigore – si sono notevolmente intensificati. Per questo nuovo slancio, vorrei ringraziare il mio omologo emiratino Abdallah al Nouaimi». Carbone, che manteneva rapporti diretti con i narcos colombiani, avrebbe trascorso gran parte della latitanza a Dubai dove peraltro è stato arrestato nel 2021 il suo socio e boss Raffaele Imperiale.
L’accaduto non sembra così chiaro come vorrebbero farlo apparire le autorità italiane. Sui media arabi continuano a riferire, con nuovi particolari, un’altra versione dei fatti, quella di Ha’ayat Tahrir al Sham (Hts), ossia l’ex Fronte al Nusra, il bracco siriano di Al Qaeda negli elenchi internazionali delle organizzazioni terroristiche, responsabile negli anni della guerra in Siria di atrocità a danno di civili, soldati dell’esercito regolare di Damasco e anche di militanti di organizzazioni politiche e militari legate alle varie espressioni dell’opposizione siriana. Nei mesi scorsi Hts ha tentato di fare piazza pulita del cosiddetto Esercito siriano libero, la milizia finanziata dalla Turchia, nella provincia siriana di Idlib, la porzione di territorio siriano che, nel silenzio di Usa ed Europa, il gruppo legato ad Al Qaeda, tiene in gran parte sotto il suo controllo «amministrativo». Se la versione non ufficiale della cattura di Carbone fosse confermata si tratterebbe della prima estradizione nota avvenuta tra un gruppo terroristico e uno Stato occidentale.
Alcuni giornali arabi riferiscono maggiori particolari rispetto a quanto apparso sui media italiani. Poco dopo l’annuncio delle autorità italiane di qualche giorno fa, sul suo account Telegram la sicurezza di Hts ha comunicato di aver arrestato «uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo». Ha spiegato che Carbone avrebbe lasciato l’Europa per la Turchia fingendosi cittadino russo, quindi è entrato nella Siria nordoccidentale dove sarebbe stato arrestato lo scorso marzo a Kaftin. Il narcotrafficante sarebbe stato «interrogato per mesi» dagli uomini del «ministero dell’interno» del «governo di salvezza» messo in piedi da Hts a Idlib, prima di essere «consegnato alle autorità del suo paese, con la mediazione turca». Carbone, scrive il libaneseL’Orient Le Joursi sarebbe presentato ai miliziani siriani come un messicano in fuga dal suo paese per aver gestito un traffico di orologi di lusso. A sostegno della sua versione, Hts ha diffuso una foto del ministro dell’interno del governo di salvezza, Mohammad Abdel Rahman, mentre legge il comunicato stampa con accanto la foto di Carbone che indossa la maglia da galeotto a righe.
Il resoconto di Hts non è così inverosimile. Tenendo conto degli accordi tra Roma e Dubai, Carbone potrebbe aver pensato di trasferirsi temporaneamente in territorio siriano, luogo giusto dove far perdere le sue tracce per un po’ ed evitare l’arresto. Poco credibile è invece la spiegazione data da una parte dei media arabi sull’interesse di Carbone per il Tramadol e Captagon, i farmaci antidolorifici largamente usati come stupefacenti in diversi paesi del Medio oriente. Un narcotrafficante di alto livello come il camorrista di Giugliano difficilmente può provare interesse per traffici poco redditizi rispetto a quello della cocaina. Quello che è certo è che il leader di Hts, Abu Mohammad al Jolani, sta provando in tutti i modi ad avviare rapporti amichevoli con l’Occidente. L’anno scorso è apparso più volte accanto al giornalista americano Martin Smith. E se fosse vera la sua versione dell’estradizione di Carbone, vorrebbe dire che al Qaeda comincia ad essere normalizzata, almeno il suo ramo siriano.
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MIGRAZIONI. Minori non accompagnati. La storia di Youssef
di Daniela Volpecina*
Pagine Esteri, 21 novembre 2022 – Il mio nome è Youssef e ho appena compiuto 15 anni ma a volte ho l’impressione di averne molti di più. Succede, dicono, quando sei costretto a separarti dalla tua terra e dalla tua gente e a ricominciare, da solo, a migliaia di chilometri di distanza. Proprio come è accaduto a me.
Nel 2021 ho lasciato l’Egitto, la mia famiglia, gli amici per affrontare un viaggio rocambolesco e pieno di incognite attraverso il mare e due continenti. Un’impresa enorme per un ragazzino che prima d’ora non era mai uscito dal suo villaggio.
Quando sono scappato, avevo ancora 14 anni. Non è stata una decisione facile e se non ci fosse stata mia madre a incoraggiarmi probabilmente ora sarei ancora nel mio Paese. A prendere bacchettate sulle mani dal maestro di scuola e a giocare a calcio in strada con un pallone fatto di stracci. Il destino però aveva in serbo per me qualcosa di diverso. Come avrei scoperto di lì a poco.
Il mio villaggio si trova nella parte occidentale dell’Egitto, in mezzo al nulla. Una terra arida, a tratti inospitale, famosa per il clima sahariano.
Per raggiungere la capitale ci vogliono quasi otto ore di treno, almeno così mi hanno detto, io al Cairo non ci sono mica mai stato. Le piramidi le ho viste solo in foto, su un libro di storia. Troppo lontane da quel fazzoletto di terra nel quale sono nato. Cheope, Tutankhamon, La Sfinge, sono la mia ossessione. Da quando ero alto appena una spanna. E immaginavo di essere stato un faraone in una delle mie vite passate. O almeno di aver fatto parte della famiglia reale. Una volta in tv hanno mostrato la Valle dei Re, dagli scavi sono emerse tantissime tombe e in ognuna ornamenti funerari, suppellettili, oro, oggetti preziosi. In alcune c’erano ancora le mummie, che impressione, chissà se ce ne sono altre sepolte lì da qualche parte. Ho sognato tante volte di essere un esploratore e rinvenire nuove tracce di questa antica civiltà dalla quale discende il mio popolo. Un sogno che ho accantonato da quando sono andato via. E’ difficile da spiegare ma a volte ho il sentore che non tornerò più. Non è un presentimento, è più un timore che alimenta tanti interrogativi. Interrogativi che mi pongo spesso da quando sono in Italia e soprattutto da quando ho scoperto che nelle scuole italiane un’ampia parte dei programmi è dedicata proprio alla storia del mio Paese. Mi domando se tornerò mai nella mia terra, se rivedrò i luoghi che mi hanno accolto quando ero ancora un bambino e se esiste un altro posto nel mondo che imparerò a chiamare ‘casa’. Probabilmente sì, ora riesco a vederlo con maggiore lucidità ma allora, spaventato com ero e poco preparato a tutto ciò che avrei dovuto affrontare, la mia mente era impegnata in ben altre riflessioni e turbamenti.
La prima volta che ho tentato di lasciare il Paese, l’ho fatto a piedi. Insieme ad altri ragazzi, tutti più grandi di me. Saremo stati dieci, forse dodici. Ci siamo messi in marcia al calar del sole e abbiamo camminato tutta la notte lungo i sentieri di montagna, seguendo un uomo che si è fatto pagare profumatamente con la promessa di portarci al confine con la Libia. Con me solo un piccolo zaino, un ricambio e qualcosa da mangiare. Che fatica! Se ci ripenso oggi. Era buio pesto e la strada tutta in salita. Faceva freddo ma era proibito persino battere i denti. Dovevamo muoverci con cautela e in gran silenzio per non rischiare di essere scoperti. Non saprei dire quanti anni avessero i miei compagni di viaggio e neanche da quale villaggio provenissero. Non ci furono presentazioni ufficiali, né tempo per una chiacchierata amicale. Di tanto in tanto solo il respiro affannoso di chi a stento riusciva a tenere il passo e lo scalpiccio dei sandali sul sentiero sterrato. Il rumore più assordante era però certamente quello generato dai pensieri e amplificato dal battito accelerato dei nostri cuori, le cui frequenze sono letteralmente impazzite quando la polizia di frontiera ha puntato le sue torce su di noi. La fortuna ci ha infatti voltato le spalle a pochi metri dalla meta. ‘Alt’, ‘Fermatevi subito’, sono le ultime frasi che sono riuscito a sentire prima degli spari. Quando mi sono voltato ho visto che gli agenti ci stavano già inseguendo. Troppo vicini per poterli seminare. Solo alcuni dei ragazzi sono riusciti a scappare e ovviamente si è data alla fuga anche la guida portandosi con se il mio zaino. Sono stato arrestato e messo in cella per cinque lunghi giorni. Quando mi hanno rilasciato, ho pensato che forse la seconda volta l’avrei fatta franca. Mi sbagliavo. C’ho riprovato ed è andata di nuovo male. Sono stato trattenuto dalle guardie per altri tre giorni, solo per aver tentato di lasciare il mio Paese.
All’epoca non potevo saperlo ma raggiungere i deserti orientali della Libia negli ultimi anni è diventato un miraggio. E sono sempre meno quelli che ci riescono. Il confine tra i due Paesi è presidiato infatti da decine di migliaia di truppe egiziane, cosparso di mine antiuomo e spesso monitorato anche dai cieli grazie al controllo aereo. Troppo alto il rischio di instabilità generato dal possibile passaggio di estremisti e militanti ostili alle autorità del Cairo, sempre più imponente il contrabbando di armi, droga ed esseri umani che si verifica lungo la frontiera.
Riflessioni e analisi che avrei maturato solo successivamente, come è possibile immaginare. In quel momento avevo solo una gran fretta di partire e pochi mezzi a disposizione per farlo. Tentare per la terza volta di attraversare il confine via terra, affidandomi a mercenari pronti ad abbandonarmi al mio destino al primo ostacolo, non mi sembrava più un’idea così eccezionale. L’unica soluzione possibile era quella di sorvolare la frontiera. Proprio così. Prendere un aereo fino a Bengasi. Lì sarei stato intercettato da un gruppo clandestino che avrebbe organizzato il viaggio in Italia. Un piano perfetto. Almeno sulla carta. Prima avrei dovuto racimolare i soldi necessari. Come fare? E’ stato in quel momento che ho sentito forte il sostegno di mia madre. Una donna che, lo dico con fierezza, ha sacrificato tutto per me. Per garantirmi un futuro migliore. Un destino diverso da quello truce che ha accomunato tanti miei coetanei. Ancora prima delle primavere arabe.
E’ stata lei, anche questa volta, a sbracciarsi le maniche e a darsi da fare. Ha lavorato sodo, ha venduto quel poco di oro che avevamo in casa, ha chiesto un prestito per mettere insieme la somma che avrebbe coperto tutto il tragitto. Anche quello via mare. Fino in Italia. E tutto ciò pur conoscendo i rischi che avrei corso e pur sapendo che, nella migliore delle ipotesi, avremmo dovuto separarci chissà per quanto tempo.
Ottomila euro. A tanto ammontava il prezzo della mia libertà. Il costo da pagare per un nuovo inizio a migliaia di chilometri da casa. In una terra dove nulla è come pensavo e dove tutto mi appare in forme e colori differenti da quelli che ero abituato a percepire.
Il giorno del decollo ero emozionatissimo. Non ero mai salito su un aereo prima di allora. Dal finestrino guardavo estasiato il tappeto di nuvole – scomposte e apparentemente inconsistenti – sotto di noi, unico grado di separazione tra il cielo e il mare. Infinito, terso e azzurro il primo, così cristallino e increspato il secondo. Uno spettacolo perfetto per alimentare i sogni di un viaggiatore inesperto. Fantasticavo su chi sarebbe venuto a prendermi all’aeroporto, probabilmente, pensavo, sarà un autista in livrea con l’abito gallonato e le scarpe con la fibbia pronto ad aprirmi lo sportello della sua limousine oppure un giovane vestito all’occidentale a bordo di un’auto sportiva con tutte le hit del momento sparate a palla da un mega stereo incorporato nel cruscotto. Penso, ad un certo punto, di aver immaginato anche di essere accolto in una villa su due piani vista mare, degustando cibi prelibati e assaggiando pietanze mai conosciute. Sogni. Fantasticherie di ragazzo. Una bella illusione durata esattamente due ore. Il tempo del volo.
L’uomo che è venuto a prendermi in aeroporto era vestito in modo molto anonimo. Di lui mi ha colpito il fatto che fosse volutamente taciturno e anche parecchio accigliato. Non mi hai mai rivolto la parola e a stento mi avrà guardato. Mi ha portato in un garage non lontano da Bengasi e lì sono rimasto rinchiuso per due giorni e due notti. Insieme ad altre trenta persone. Solo quando è arrivata la conferma del pagamento del viaggio da parte di mia madre, la porta del garage si è aperta e un altro uomo si è fatto strada nella penombra per prelevarmi e portarmi in auto a Tobruk. Con me altri sette uomini. Probabilmente anche i loro bonifici erano stati incassati. Questa volta il percorso è stato più lungo. Quasi interminabile. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per circa dieci ore.
Avrei voluto dormire. Sapevo sarebbe stato l’unico modo per tornare a sognare. Dopo i due giorni nel garage, avevo infatti smesso di fantasticare. Piuttosto avevo iniziato a temere. Temere per la mia sicurezza. Per la mia incolumità. Non sapevo con certezza dove fossimo diretti. Avrebbero potuto abbandonarmi lungo il percorso, in qualche anfratto dimenticato da Allah, far perdere le mie tracce, uccidermi persino. Chi avrebbe saputo di me? Del giovane Youssef che sognava di raggiungere l’Italia? Probabilmente nessuno. Tentai con tutte le forze che mi erano rimaste di scacciare questi orribili pensieri e cominciai a concentrare lo sguardo sul percorso. Fu allora che vidi una pattuglia della polizia libica. La prima. Lungo il tragitto incrociammo almeno tre posti di blocco. E tutte e tre le volte ci imposero di fermarci. Ufficialmente per controllare i documenti. Ma scoprii presto che non era solo per quello. Al termine della perquisizione gli agenti portarono via sigarette, soldi e anche cellulari. Il mio era nascosto in una scarpa (un vecchio trucco suggerito da un amico che aveva tentato invano di lasciare il Paese l’anno precedente) e così sono riuscito a sottrarlo alla bramosia degli uomini in divisa.
Poi il viaggio è proseguito nella sua disagevole e fastidiosa monotonia. Intorno a noi solo tanta desolazione. L’ultima fermata, prima della tappa definitiva, è stata programmata a pochi Km dalla destinazione esclusivamente per bendarci. Il percorso da quel momento in poi mi è apparso ancora più tortuoso e infinito. Quando l’auto ha decelerato per poi fermarsi e l’uomo alla guida del veicolo ha aperto lo sportello, era già buio. Eppure i miei occhi, ormai liberi dalla benda, hanno faticato ugualmente a mettere a fuoco il palazzo che si stagliava di fronte.
Non saprei dire quanti anni avesse questo edificio, in parte ancora allo stato grezzo, anche perché siamo rimasti davanti alla porta solo per una manciata di minuti. Dentro invece ci sarei rimasto per 45 giorni. Sempre nella stessa stanza. Insieme ad altri 120 uomini di diverse età e nazionalità. Tutti in attesa della barca che ci avrebbe traghettato in Italia. Una barca che però sembrava non arrivare mai.
Non è stato facile ritagliarsi quei pochi centimetri di pavimento dove rimanere seduto tutto il giorno, tutti i giorni, in religioso silenzio, fino al momento fatidico. ‘Dovete essere invisibili e silenziosi’, questo è ciò che ci veniva intimato quotidianamente in un dialetto arabo che non saprei riprodurre. Ci si poteva alzare solo per andare nell’unico bagno disponibile ma la fila era sempre lunghissima. Se qualcuno faceva rumore o alzava la voce, venivamo manganellati tutti, senza distinzione. Braccia, gambe, schiena. Se ti andava male potevi beccarti anche una scudisciata sul viso o sul capo.
Ho ricordi sfocati di quei giorni tutti uguali, scanditi soltanto dall’arrivo del cibo, quasi sempre bruciato e immangiabile, che ci portavano, due volte al giorno, uomini dai volti arcigni, armati di tutto punto, che aprivano bocca solo per minacciarci. Ricordo di aver pensato e ripensato mille volte al motivo per il quale mi trovavo lì e se ne fosse valsa davvero la pena. In alcuni momenti, ripensando a mia madre e al mio villaggio, mi rispondevo che avrei fatto meglio a rimanere a casa mia, poi però mi facevo forza, stringevo i denti e ripetevo a me stesso, quasi come fosse un mantra, ‘il peggio è passato, il meglio sta per arrivare’. E il bello è che in quei momenti ci credevo sul serio.
Più volte in quelle sei settimane ci avevano lasciato intendere che la partenza sarebbe stata imminente ma ai loro annunci non seguiva mai un segnale concreto. Ci illudevano, forse per scongiurare proteste o tensioni. I malumori, già alla fine della prima settimana, cominciavano infatti a farsi sentire ma chiedere spiegazioni o ribellarsi a quello stato di cose non era affatto consigliabile. Un siriano che ci aveva provato era stato malmenato e colpito ripetutamente alla nuca. Un gesto che ci zittì tutti. Definitivamente. Spegnendo sul nascere ogni possibile tentativo di rivolta.
Poi finalmente il segnale, quello vero, arrivò. Di quel giorno ricordo a malapena la data ma so che eravamo già a novembre. Dall’unica finestra della stanza, coperta da una tenda opaca, intravidi un cielo stranamente plumbeo. Al piano di sotto il calpestio ripetuto di passi pesanti e lo stridio di carrelli. Come se una massa di persone si fosse improvvisamente mossa tutta insieme. ‘Si stanno dando un gran da fare lì sotto’, brontolò un vecchio seduto poco distante da me. Erano già le 5 del pomeriggio quando uno degli uomini salì ad annunciare la partenza. Un’ora più tardi eravamo già in movimento. Ci hanno caricato, quattordici persone alla volta, in macchine di fortuna e piccoli furgoni. E ci hanno portato tutti in un’altra casa, questa volta non lontano dal mare. ‘Ci siamo’, mi sono detto. E ho stretto forte i pugni.
Quando ho visto la barca in lontananza ho pensato ad un miraggio. Solo quando si è avvicinata alla riva ho concretizzato che forse il momento tanto atteso e anche così temuto era arrivato. Ma l’imbarcazione non era proprio quella che avevo immaginato. Dire che si trattasse di un vecchio relitto rimesso in sesto per l’occasione non renderebbe affatto l’idea delle pessime condizioni in cui versava quel mezzo che avrebbe dovuto condurci fin sulle coste italiane. Rabbrividii quando scoprii che su quel peschereccio malmesso avremmo dovuto starci in 302. In prevalenza egiziani come me ma anche tanti siriani e qualche tunisino.
Appena salito a bordo ho avvertito uno sbandamento. Sarei caduto se ci fosse stato lo spazio per farlo. Ma intorno a me c’era già una bolgia di persone intente ad occupare i ponti, la chiglia e ogni centimetro calpestabile della barca. A stento e a fatica sono riuscito a inserirmi anch’io e a trovare un appiglio al quale aggrapparmi durante quelli che sarebbero stati i sei giorni più brutti della mia vita.
“Sono un ribelle/perché non voglio vivere nelle lacrime e nel sangue/perché non voglio la povertà e la fame…”era tanto che non sentivo questo brano, ho letto che in alcuni Paesi dell’Africa è stato censurato, lo canticchia un giovane seduto non lontano da me. Lo interpreto come un segnale di speranza e ottimismo. Che è poi il clima generale che si respira sul peschereccio. Sono tutti fiduciosi e soddisfatti per essere riusciti a imbarcarsi. Il cielo è sereno. E gli scafisti continuano a ripetere che in tre giorni saremo in Italia. Condizioni meteo permettendo. Anche le provviste imbarcate sono tarate per questo lasso di tempo. A bordo ci sono solo 15 litri di acqua disponibili al giorno, l’equivalente di un bicchiere e mezzo a testa. E’ chiaro fin dalla partenza che patiremo la sete.
Sul peschereccio si affollano uomini e ragazzini. Con due di loro ho stretto un’amicizia fraterna. Si chiamano Ahmed e Mahmoud, e sono entrambi egiziani. Abbiamo tanto in comune e tutti e tre desideriamo la stessa cosa. Studiare e crescere in un contesto democratico. In un Paese che sia in grado di riconoscere i nostri talenti e ci consenta di realizzare le nostre aspirazioni. Mi piace conversare con loro, rende il viaggio meno faticoso e il tempo scorre più velocemente. Finalmente, mi dico convinto, la fortuna è tornata ad assistermi, ma ho parlato troppo presto. Il mio ottimismo è destinato a infrangersi contro le onde sempre più alte del mare che non ho mai visto così agitato.
La tempesta è nell’aria e i primi ad averne sentore sono i veterani, quelli che hanno già tentato invano di raggiungere l’Italia una prima volta attraverso il mare. Per noi ragazzi il pericolo è qualcosa di astratto e affascinante ma fiutarlo è un’arte che spetta agli adulti. Ancor di più se non sei mai stato in balia delle onde in mare aperto per così tanto tempo. Molti di noi arrivano dal deserto. Alcuni non hanno mai messo piede fuori dal proprio villaggio. E non hanno mai visto il mare prima d’ora. C’è chi impreca, chi vomita, chi si contorce per gli spasmi allo stomaco. E tutto questo prima ancora che la tempesta raggiunga il suo apice.
Per tre giorni e tre notti la pioggia scende incessante. Senza mai concedere tregua. Esposti alle intemperie e senza alcuna possibilità di ripararsi, restiamo lì a inzupparci fino al midollo, ciascuno pregando il proprio Dio, qualcuno invocando persino il diavolo purchè metta fine al diluvio.
Leggo il terrore negli occhi di chi mi è accanto. Probabilmente sa che quella potrebbe essere l’ultima scena che vedrà in vita sua. Che il mio potrebbe essere l’ultimo sguardo che incrocerà. E allora mi faccio forza, gli allungo la mano, gliela stringo, forte, lui mi guarda sorpreso per un attimo, poi fa lo stesso con il suo vicino, e la catena umana cresce, fino all’ultimo centimetro visibile del ponte. E’ a questo punto che qualcuno intona un canto, triste e monotono, ma che ci fa sentire tutti meno soli.
Poi l’onda. Anomala. Selvaggia. Trascinante. E il buio.
Quando qualche ora più tardi ho riaperto gli occhi, la situazione intorno a me non era diventata affatto più rassicurante. I più fragili si ammalano, c’è chi vomita di continuo e chi non ha più la forza neanche di mangiare il panino al formaggio che ci hanno portato gli scafisti. Quando il motore va in avaria e il livello dell’acqua sale fino alle ginocchia, l’entusiasmo delle prime ore scompare del tutto per lasciare spazio alla paura e all’ansia.
Sono ore terribili. Quelle in cui rivedi, come in un film, tutta la tua vita al ralenti e maledici il giorno in cui hai deciso di intraprendere il viaggio. Quei momenti che non augureresti a nessuno. Quelli in cui realizzi che potrebbero essere gli ultimi della tua vita e che tu li stai vivendo con dei perfetti sconosciuti, lontano da chi ami. Un pensiero che devono aver fatto in tanti. E che qualcuno lassù probabilmente ha ascoltato.
Come per miracolo, a sbloccare la situazione è stato uno di noi. Un meccanico. Proprio così. Tra gli sciagurati che si sono imbarcati in Libia c’era anche un uomo abile con i motori. E’ grazie al suo intervento se il peschereccio non è affondato. Non ricordo il suo nome ma penso che lo ringrazierò in eterno. Così come quell’egiziano che vedendomi fradicio mi ha portato dei vestiti asciutti. Un gesto di grande umanità. Spero un giorno di poter ricambiare in qualche modo.
Sudici, spaventati, disidratati (l’acqua potabile a disposizione è terminata da un bel po’ proprio come avevo previsto) e ancora in balìa del mare mosso, così ci hanno trovato e recuperato i soccorritori italiani nella notte tra il 13 e il 14 novembre del 2021 al largo di Roccella Ionica nella Locride.
Non so come abbiano fatto ad avvistarci. Se fossero di passaggio in quelle acque o se siano stati allertati da qualcuno che era a bordo del peschereccio. Mi piace pensare che chi mi ama, abbia avuto la forza e l’istinto di spingere quella vecchia imbarcazione verso un porto sicuro. Ancorarla al molo di una terra ricca di opportunità e speranza per chi, come me, tenta di cambiare il proprio futuro. Un futuro ancora tutto da scrivere e costruire. Qui in Italia.
YOUSSEF OGGI
Youssef oggi vive a Caserta, ospite di una delle strutture di accoglienza del Cidis, insieme ad altri minori stranieri non accompagnati originari di Albania, Tunisia, Egitto, Gambia, Pakistan, Bangladesh e non solo. Dopo aver frequentato con successo l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado e superato gli esami per ottenere la licenza media, Youssef ha intrapreso un nuovo percorso scolastico in un istituto della provincia di Caserta finalizzato a conseguire il diploma di Tecnico per i servizi socio assistenziali – Odontotecnico. Nel frattempo continua a frequentare corsi di lingua italiana, svolge attività sportiva e partecipa attivamente come volontario a tutte le iniziative sociali di rigenerazione urbana messe in campo dal Cidis con una duplice finalità: consentire a questi giovani stranieri di contribuire alla riqualificazione del territorio nel quale vivono attraverso interventi di manutenzione e conservazione di parchi e spazi verdi, e al tempo stesso accelerare quel processo di integrazione sociale che non può prescindere da un ruolo di cittadinanza attiva.
Per tutti loro si tratta infatti di mostrare un segnale di gratitudine e di riconoscenza nei confronti del Paese che li ha accolti ma è anche un modo per migliorare la vivibilità del luogo in cui hanno scelto di studiare e lavorare. Il percorso di integrazione e inclusione sociale è naturalmente solo agli inizi ma sono tutti fiduciosi e certi di poter dare tanto al territorio nel quale stanno mettendo radici. Youssef in primis che non perde occasione per confrontarsi e dialogare con i suoi nuovi amici senza però dimenticare quelli vecchi. Ha mantenuto infatti vivo il suo legame con Ahmed e Mahmoud, i due egiziani conosciuti sul peschereccio, anche se per il momento si sentono solo telefonicamente perché i suoi coetanei attualmente sono ospiti di alcune strutture del nord Italia. E, grazie alle videochiamate, riesce a vedere quasi tutti i giorni la sua adorata mamma che continua a spronarlo a dare il meglio di se in tutte le circostanze. Adora il cibo italiano e ha ricominciato a sognare ad occhi aperti. Un giorno, ora ne è certo, tornerà in Egitto per riabbracciare la sua famiglia e per vedere finalmente le piramidi. Pagine Esteri
*Giornalista professionista freelance, Daniela Volpecina collabora con il quotidiano Il Mattino e l’emittente tv La7. Ha realizzato reportage in Italia e all’estero. Alcuni dei suoi lavori sono stati pubblicati da Avvenire, Donna Moderna, Informazioni della Difesa, TmNews e Agon Channel. Ha partecipato, con un suo scritto, alla raccolta di storie sulla pandemia ‘Ekatomére’ di Terra somnia editore. Un altro racconto, sul mondo del calcio, è inserito nel volume ‘Interrompo dal San Paolo’ pubblicato dalla Giammarino editore.
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Borsa: canapa, piccola ventata ottimista per Canada e USA
Una piccola -non si sa bene ancora quanto volatile- ventata positiva nelle Borse Canapa di USA e Canada, ovvero le due principali piazze borsistiche della Canapa a livello mondiale. Bisognerà vere cosa accadrà alla luce di fattori intervenienti esterni e terzi come l’andamento delle tratte commerciali, il costo dei propellenti, le materie prima e delle […]
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Lezioni dalla crisi dei missili cubani: Putin non è Krusciov
Che la storia faccia rima o meno, con la guerra che infuria in Ucraina e gli esperti russi che minacciano attacchi nucleari diretti contro gli Stati Uniti, forse una certa conoscenza del passato può essere utile per valutare dove si sta dirigendo questo conflitto. Si potrebbe obiettare che ora siamo in un momento paragonabile al […]
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Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”
«A chi non darebbe fastidio vedere l’arbitro – che, sia chiaro, ha condotto benissimo la gara – la sera dopo la partita, a cena, festeggiare la vittoria di una delle due squadre che poco prima aveva arbitrato?».
È da questo interrogativo, apertamente provocatorio, che muovono le brillanti riflessioni di Giuseppe Benedetto, consegnate al saggio “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”, edito da Rubbettino nel 2022, con la prefazione di Carlo Nordio.
Un volume agile, che si legge tutto d’un fiato, con cui l’Autore si incarica di sviscerare uno dei temi più controversi della giustizia penale, destinato ad occupare “instancabilmente” il dibattito scientifico e politico: la (comune) collocazione ordinamentale dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero.
A tal fine, lo scritto ripercorre le tappe, i dibattiti e gli scontri che hanno attraversato la storia del nostro processo penale: dalla spinta garantista sottesa alla promulgazione del nuovo codice di procedura penale, alla stagione – «reazionaria» – avviata dalla Corte costituzionale nel giugno del 1992, fino alla presa di posizione legislativa, volta a ribadire l’adesione a quell’ideale accusatorio, che, oggi, a più di vent’anni dalla riforma dell’art. 111 Cost., appare affievolito.
Un percorso culminato in un disegno rimasto sostanzialmente incompiuto, a cagione dell’assenza di un serio adeguamento dell’organizzazione del pubblico ministero al mutato rito. A stagliarsi con chiarezza sullo sfondo della ricostruzione storica sono, infatti, le ambiguità̀ e le aporie – tutte insolute – del nostro assetto processuale, in cui proprio la mancanza di un deciso ripensamento dei temi dell’ordinamento giudiziario ha finito per ostacolare la effettiva rimozione dell’ibridismo, tipico della esperienza inquisitoria, tra la figura del giudice terzo ed imparziale e quella dell’inquirente.
Con un duplice effetto, del quale le pagine di Giuseppe Benedetto, restituiscono una nitida fotografia. Anzitutto, una “giurisdizionalizzazione” silente del pubblico ministero, il quale viene comunemente (mal)inteso alla stregua di organo rappresentativo di una parte imparziale all’interno della dialettica processuale. In secondo luogo, una proclamazione meramente à la carte della terzietà del giudice, la cui collocazione ordinamentale, vicina a quella del pubblico ministero, ne “contamina” il ruolo: l’equidistanza, formalmente sancita nelle norme del codice, è tradita dalla prossimità̀ delle funzioni, dovuta alla presenza di un unico organo di governo autonomo.
Due conseguenze nefaste della contiguità̀ tra giurisdizione e pubblica accusa, che rendono subalterno il cittadino-imputato, alterando, di fatto, la struttura triadica del processo.
Come abbiamo già avuto modo di osservare in un nostro precedente scritto[1], l’idea del pubblico ministero-organo di giustizia conduce, infatti, alla creazione di una vera e propria presunzione di infallibilità̀ para- giurisdizionale di tale organo. Una presunzione a sua volta rinfocolata dalla retorica di un principio di obbligatorietà̀ dell’azione penale troppo spesso orientato verso la legittimazione di metodi procedurali a vocazione autoritaria.
Si pensi, nella prospettiva da ultimo indicata, al costante richiamo, nella prassi, al canone di obbligatorietà̀ per sponsorizzare, a vari livelli, una visione del processo caratterizzata dalla egemonia del pubblico ministero e da un ideale di ricerca della verità̀ dai connotati tipicamente inquisitori. Basti, al proposito, richiamare il rapporto tracciato dalla giurisprudenza di legittimità̀ e costituzionale tra principio di obbligatorietà̀ e poteri probatori del giudice dibattimentale anche in funzione di supplenza delle omissioni del pubblico ministero.
Un’ipertrofica estensione concettuale ed operativa del principio cristallizzato nell’art. 112 Cost. che, invece di potenziarne la portata, lo ha svuotato della propria forza concettuale, strettamente connessa alle dinamiche dell’azione.
In tal senso va letto anche l’uso anomalo del canone della completezza delle indagini, presupposto e corollario del principio di obbligatorietà̀. Anziché́ stimolare una attenta e seria riflessione sulla anatomia dell’errore e del pregiudizio investigativo, e sulle sacche di discrezionalità̀ inevitabilmente connesse alle opzioni selettive sottese ai profili organizzativi del lavoro del pubblico ministero, l’imperativo della completezza investigativa ha finito per trasformarsi nel presupposto logico da cui inferire la pretesa giurisdizionalizzazione dell’organo dell’accusa.
Ma la simbiosi “pubblico ministero-organo di giustizia” è destinata a cedere il passo all’ovvio rilievo che un soggetto deputato a svolgere funzioni d’accusa, qualunque ne sia la natura, persegue comunque un interesse di parte.
Anzi. Sul punto, le pagine di Non diamoci del tu ben evidenziano un dato fondamentale, all’apparenza controintuitivo: «più̀ il pubblico ministero è parte e più̀ il cittadino è garantito», perché «il giudice è veramente imparziale solo se l’accusatore è inequivocabilmente parte».
La struttura triadica del processo, quale conditio per la realizzazione del rito adversary, è, tuttavia, incrinata dalla commistione e reciproca contaminazione delle funzioni e delle carriere al di fuori della scena processuale. È la mancata separazione di queste ultime la responsabile delle principali storture che emergono quotidianamente dalla pratica giudiziaria e di cui il volume dà lucidamente conto: la espansione del potere inquisitorio delle procure, con la costante ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri e la estrema mediatizzazione del processo penale; nonché la conseguente assenza di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all’opinione pubblica.
Scrive, al proposito, icasticamente l’Autore: «l’avviso di garanzia è diventato sentenza non perché́ vi siano dei cattivi strateghi dell’informazione, ma perché́ il cittadino non addetto ai lavori ha difficoltà a distinguere i ruoli, pensa che i magistrati siano tutti uguali e che, dunque, se la colpevolezza è indicata dal pubblico ministero o dal giudice tutto sommato non cambia nulla. È necessaria una svolta culturale, che non giungerà̀ da sola, ma attraverso riforme che distinguano gli organi giudicanti da quelli requirenti, che rendano palese anche a un giovane delle scuole medie la differenza profondissima tra i ruoli. In questa nuova dimensione, in cui è limpido il carattere di parzialità̀ dell’ufficio di Procura, la giurisdizione non potrà̀ che essere centrale, perché́ ogni piccolo passo verso una delle posizioni in campo la comprometterebbe alla radice».
Dalla malattia, dunque, al rimedio. Ma come superare definitivamente ogni sorta di ibridismo giuridico tra le due figure, affinché la giurisdizione recuperi centralità e credibilità? È necessario risalire al peccato originale del fallimento del codice accusatorio, che, secondo la ricostruzione privilegiata nel volume, si consuma all’interno del CSM, dove pubblici ministeri e giudici decidono assieme delle sorti delle proprie carriere, cosicché «il PM di una corrente è in grado di influenzare la nomina del presidente di un Tribunale», con buona pace dei principi sanciti dalla Costituzione e della legge, che diventano, di fatto, «un nobile auspicio piuttosto che un baluardo per i diritti fondamentali del cittadino».
Di qui, la proposta contenuta nel citato disegno di legge, alla cui illustrazione è dedicata la seconda parte del libro. Si tratta, nello specifico, di un progetto di riforma che si muove lungo tre direttrici: il riequilibrio dei rapporti tra imputato e pubblico ministero; la trasparenza dei processi decisionali interni all’ordine giudiziario; la razionalizzazione del carico pendente sugli uffici di Procura.
In questa triplice prospettiva viene prefigurata una revisione delle disposizioni costituzionali dedicate alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, diretta, anzitutto, alla costituzione di due distinti Consigli Superiori, della Magistratura giudicante e della Magistratura requirente, destinati ad occuparsi separatamente di carriere, sanzioni disciplinari e trasferimenti.
Ciò permetterebbe all’organo giudicante di acquisire nuova centralità̀, affrancandolo dalle logiche odierne, in cui il Consiglio Superiore della Magistratura, dominato dal sistema correntizio, appare ostaggio della cultura dell’accusa, che è destinata a prevaricare le ragioni della giurisdizione, a cagione dell’evidente maggior peso mediatico delle Procure.
Del resto, come osserva Carlo Nordio nella Prefazione, «anche prescindendo dagli intrallazzi correntizi e dalle baratterie di cariche emerse dai recenti scandali, la ragione si rifiuta di ammettere che il pubblico accusatore possa promuovere o bocciare un giudice davanti al quale, un attimo prima, ha perorato una tesi che magari gli è stata respinta. Perché́ se decisioni così rilevanti continuano a essere prese congiuntamente, allora non stupisce che poi nel processo emergano rapporti di anomala collaborazione».
Così, l‘istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura si prefigge di garantire più efficacemente l’indipendenza istituzionale del giudice.
Organi di autogoverno dei quali, inoltre, si propone – opportunamente – di mutare la composizione, portando la componente laica da 1/3 a 1/2, senza però incidere sulla maggioranza, che rimarrebbe in capo ai membri togati grazie alla presenza di diritto del Procuratore Generale della Cassazione, nel Consiglio requirente, e del Primo Presidente della Cassazione, nel Consiglio giudicante.
Ciò consentirebbe, nelle intenzioni dei proponenti, di revisionare il funzionamento del Consiglio Superiore, allo scopo di restituirgli, insieme a un serio sistema di valutazione professionale, quell’aurea di rispettabilità̀ imprescindibile per l’amministrazione trasparente e armonica della giustizia. I membri nominati dal Parlamento, esperti in materie giuridiche, potrebbero, infatti, contribuire in modo indipendente a esprimere un giudizio sulla professionalità̀ del singolo magistrato.
Un ripristino di meritocrazia che appare cruciale alla luce dei recenti fatti di cronaca, nonché del nuovo ruolo assunto dalla giurisdizione.
Sotto quest’ultimo profilo, le riflessioni di Benedetto si lasciano particolarmente apprezzare. L’Autore sottolinea il trend degli ultimi decenni verso un radicale cambiamento del ruolo riservato alla giurisdizione, non più̀ mera esecutrice delle norme, ma soggetto che partecipa all’evoluzione del diritto. Le lacune della regolamentazione normativa, l’oscurità̀ della legge e l’immobilismo del Parlamento hanno, in effetti, finito per affidare un compito inedito al giudice. Ne discende l’esigenza, dibattuta in tutti i Paesi occidentali, di ripensare i rapporti col Parlamento, al fine di garantire una maggiore legittimazione democratica del potere giudiziario.
Ebbene, in quest’ottica si colloca l’incremento del numero dei membri laici, professori universitari e avvocati da almeno quindici anni nominati dal Parlamento in seduta comune, che potrà̀ indirettamente accrescere la legittimazione dell’ordine giudiziario, così da renderlo più̀ forte in futuro per l’assunzione di decisioni orientate al riconoscimento di nuovi diritti.
Infine, l’ultimo punto della proposta di riforma esaminata è diretto ad integrare l’art. 112 Cost. nei seguenti termini: «Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge». L’integrazione mira ad affidare al Parlamento il compito di stabilire criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, allo scopo precipuo di razionalizzare, in maniera trasparente, il carico di lavoro dei pubblici ministeri. Il che appare in linea con l’auspicio, da tempo formulato in sede scientifica, di legittimare, disciplinandone limiti e contenuti, quella discrezionalità̀ che anche oggi, nei fatti, i pubblici ministeri esercitano a causa del numero elevato di procedimenti pendenti presso gli uffici di Procura.
Si tratta, nel complesso, di un disegno riformatore equilibrato, nella misura in cui aspira a risolvere le principali contraddizioni della nostra giustizia penale, senza incorrere nella principale obiezione tradizionalmente sollevata dall’opzione favorevole alla separazione delle carriere: vale a dire quella di consentire l’esercizio di un controllo politico a discapito dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.
Non diamoci del tu ha il pregio di illustrare in maniera approfondita tale progetto, attraverso una riflessione “laica” e non prevenuta intorno ad un tema spesso ostaggio di un peculiare ostracismo ideologico e di un dibattito fondato su asserti di deciso impulso conservativo difficilmente giustificabili sul piano tecnico-giuridico.
Un approccio da cui l’Autore rifugge apertamente, prendendosi carico di stigmatizzare anche le altre obiezioni che surrettiziamente vengono mosse alle proposte di separazione delle carriere, attraverso l’analisi della disciplina della collocazione ordinamentale dei magistrati nelle più importanti democrazie occidentali.
La prospettiva comparata consente, infatti, di sgretolare alcuni “falsi miti” costruiti intorno al tema oggetto del volume, come l’idea secondo cui le carriere sarebbero divise solo nei Paesi di Common Law, o la preoccupazione circa il rischio di dare vita, tramite la costituzione di un ordine autonomo e distinto dei Pubblici Ministeri, ad una corporazione di “super-poliziotti” dai poteri illimitati.
Nell’ultima parte del libro risiedono, così, pagine preziose. Guardare all’esperienza anglosassone, tedesca, francese e portoghese significa rendersi conto di come la pubblica accusa italiana goda, in realtà, di uno status del tutto eccezionale, che lo rende, probabilmente l’accusatore più̀ potente al mondo, senza tradursi in una sua maggiore capacità investigativa e “repressiva”.
Il che testimonia l’urgenza di affrancare il dibattito italiano da atteggiamenti intrisi di stentoree affermazioni di principio, ma di sostanziale chiusura verso ogni forma di rinnovamento concettuale e culturale.
A questa impellente esigenza risponde il saggio Non diamoci del tu. A beneficio del lettore, Giuseppe Benedetto svolge al meglio tale compito, con una analisi lucida e profonda, arricchita dalla sensibilità che evidentemente deriva dal quotidiano contatto con la pratica del processo penale.
In conclusione: se nella premessa l’Autore esordisce confidando che “Non diamoci del tu” «è il libro che avev[a] in mente di scrivere da tempo», la riflessione finale del lettore è che “Non diamoci del tu” è il libro che avrebbe voluto leggere da tempo.
[1] R. Del Coco, La maschera e il volto della consulenza tecnica d’accusa, in Proc. pen. giust., 2021, p. 669 ss.
L'articolo Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
La magistratura di oggi e quella della quale l’Italia avrebbe bisogno, nel primo incontro della Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi – certastampa.it
Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, del nostro Paese racconta di rapporti tra magistrati che vanno ben oltre quelli che la legge considera leciti. E’ questa, la deriva malata di un “sistema” (come efficacemente descritto nel libro dell’ ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Palamara) che trova il suo spunto “peccato originale” nella mancata separazione delle carriere.
E’ stato questo il tema del primo evento della sezione abruzzese della Scuola di liberalismo della Fondazione Einaudi, che prepara il campo al primo vero e proprio “anno accademico” del 2023. Ospite dell’incontro, il Presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto, che ha voluto presentare a Teramo, in “prima” assoluta, il suo libro “Non diamoci del Tu: La separazione delle carriere”, che ospita anche una interessante prefazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio e uno scritto di Leonardo Sciascia, su quella che dovrebbe essere la sofferenza del magistrato chiamato al giudizio.
All’incontro, introdotto dal presidente della Fondazione Einaudi in Abruzzo, Alfredo Grotta, che ha visto la sala dell’Hotel Abruzzi affollata da un pubblico interessato, hanno preso parte l’ex senatore Paolo Tancredi, l’ex vicepresidente del Consiglio Regionale Paolo Gatti e Andrea Davola, ricercatore della Fondazione Einaudi e autore della postfazione. Moderatrice del dibattito, la docente di Diritto Processuale Penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo, Rosita Del Coco.
Negli interventi dei relatori, che hanno anche voluto portare testimonianze personali, sono stati analizzati tutti gli aspetti negativi della mancata separazione delle carriere, cominciando dal dettato del Codice Penale – nei fatti quasi utopia – che impone al pubblico ministero di cercare anche le prove a discolpa dell’imputato. Nei fatti, non succede, e poiché la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore, non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni, la Fondazione invoca una netta divisione dei ruoli, delle funzioni e delle carriere.
Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all’altra, ma che la stessa Fondazione Einaudi considera l’inizio di un non più rinviabile percorso di vera e più profonda riforma.
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La COP27 ha creato opportunità per guadagni geopolitici?
Washington dovrebbe vedere il risorto dialogo sul clima con la Cina come una vittoria bilaterale per riparare la loro relazione e il sistema internazionale
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Trasporto turistico in Campania: la risposta può venire dal cielo!
Quanto raccontato in una saletta appartata dello scalo aereo di Capodichino di Napoli sembrava una scena di fantascienza: aerei che arrivano e partono da grandi aeroporti, collegamenti con macchine silenziose simili a taxi che si alzano in cielo per portare i passeggeri nelle mete più ambite. Via traffico, via rumore nelle strade affollate di Napoli! […]
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USA: la maggioranza vuole che la cannabis per uso medico diventi legale
I risultati di un recente sondaggio hanno rivelato che la grande maggioranza degli americani ritiene che la cannabis dovrebbe essere legale per uso medico. E c’è un forte sostegno anche per l’uso ricreativo. Un sondaggio del Pew Research Center indica che il 59% degli americani ritiene che la marijuana dovrebbe essere legale per gli adulti […]
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PERÙ. Le destre fanno pressione, Castillo in difficoltà cede sulle politiche
di Davide Matrone – Peru: il governo di Pedro Castillo in difficoltà contro le pressioni delle destre.
Pagine Esteri, 25 novembre 2022 – Pedro Castillo lo sapeva bene che non avrebbe avuto vita facile, dopo aver vinto le elezioni lo scorso mese di giugno del 2021. In America Latina se vince un governo di centro-sinistra, di sinistra o che vuole realizzare riforme progressiste, non ha vita facile. I partiti conservatori, della destra moderata e recalcitrante son sempre dietro l’angolo a mettere i bastoni tra le ruote. Considerando inoltre, che l’America Latina continua ad essere il cortile di casa degli Stati Uniti, allora non ci vuole molto per capire quali sono le politiche economiche e sociali che secondo le destre bisogna mettere in campo. Da queste parti, il modello da applicare è sempre uno: Il Neoliberismo.
È difficile uscirne. Negli ultimi mesi, due paesi latinoamericani che hanno vinto le elezioni con una proposta politica progressista non se la passano molto bene. Mi sto riferendo a Bolivia e Perù. Quest’ultimo è sotto pressione da tempo. L’intenzione delle forze politiche di destra – maggioranza nel Congresso – è quella di destituire il Presidente Castillo e stanno facendo di tutto per raggiungere l’obiettivo. Per saperne di più ho intervistato il politologo peruviano Andy Phillips a cui ho rivolto le seguenti domande.
Qual è la situazione politica oggi in Perù?
Per capire la situazione odierna del Perù bisogna ritornare alle scorse elezioni. I risultati elettoriali dell’anno passato, riflettono in buona sostanza due fenomeni esistenti nel tessuto sociale peruviano. Al primo turno non ci fu nessun candidato che ottenne più del 20% dei voti ed inoltre si ebbe un calo importante nella partecipazione al voto. Questi elementi ci parlano di due fenomeni chiari: a) la frammentazione alta nella società peruviana, b) un alto livello di sfiducia nella politica e nei politici. Inoltre, secondo i dati di Latinobarometro la Democrazia non è considerata la miglior forma di governo. Nel secondo turno, poi, si è tenuto un processo di polarizzazione, simbolico più che di contenuti politici in quanto le proposte elettorali non erano molto distanti. Tutte si inquadravano dentro del sistema liberale e capitalista. Oggi c’è un alto livello di polarizzazione nel settore politico che si evidenzia nel Congresso dove abbiamo una maggioranza di destra vicina al Fujimorismo e ai poteri costituiti di sempre del paese e dall’altro lato un governo egemonizzato da lider politici provenienti dai settori popolari e che non appartengono alle lobby storiche del paese. La società è stanca, ha vissuto negli ultimi anni una serie di crisi che sono aumentate con la pandemia creando ulteriori distanze sociali ed economiche. Tuttavia, un elemento positivo che evidenzio di questa fase attuale è il piano di vaccinazione nazionale con un 80% della popolazione già vaccinata. Inoltre, gli indici di disoccupazione si stanno riducendo poco a poco. Ma i conflitti sociali aumentano e secondo quanto dichiara la Defensoria del Pueblo, in Perù esistono oltre 200 conflitti sociali attivi tra i territori e le multinazionali. Questo dà l’idea di un paese con enormi contraddizioni ancora aperte, che continua ad essere tra i paesi più diseguali del continente. I conflitti in atto si registrano in particolare nella gestione delle risorse comuni come: petrolio, minerali, acqua, terra, fiumi, mari, lagune. Le multinazionali e le organizzazioni criminali oltraggiano e sfruttano indiscriminatamente l’ambiente e si scontrano con le popolazioni locali , le comunità indigene e i settori popolari.
Quali sono gli effetti socio-politici delle ultime proteste in Perù?
La protesta più simbolica avvenuta in Perù è quella del 14 novembre 2020. È la più rappresentativa degli ultimi anni, quando un milione di cittadini di tutto il Perù manifestarono l’insoddisfazione per la classe politica in generale, per il Fujimorismo e per il neoliberalismo. In quell’occasione ebbero un ruolo fondamentale le nuove generazioni. La grande manifestazione del 2020 aveva una richiesta molto importante e solida: una Nuova Costituzione. Una rivendicazione che veniva specialmente dai settori progressisti del paese.
Per quanto riguarda le proteste convocate dai settori della destra di sette e otto mesi fa, stiamo parlando di proteste sostenute periodicamente contro il governo con l’intenzione di destituire Pedro Castillo. Tuttavia, queste manifestazioni non portano in piazza una maggioranza sociale. Inoltre, sappiamo che una buona parte dei partecipanti sono stati pagati. Il clientelismo politico della destra porta in piazza il 70% – 80% di manifestanti in questo modo. Poi c’è un 20-30 % di autoconvocati che appartengono ai settori urbani privilegiati e in gran misura sono spinti da un forte razzismo che viene dal lontano Colonialismo.
Qual è stato il ruolo dei mezzi di comunicazione in questo anno e mezzo di Governo Castillo?
Il ruolo dei mezzi di comunicazione in questo anno e mezzo è stato vergognoso, anti-democratico, pro golpista. È stata una stampa militante e a favore dei settori più conservatori del paese. È una stampa sensazionalista che crea titoli faziosi e in modo costante. C’è un allineamento politico dei grandi gruppi mediatici coi grandi conglomerati economici del paese che finanziano le campagne elettorali delle destre e del Fujimorismo. I mezzi di comunicazione sono la voce di questa parte politica che ha la sua strategia golpista da sempre. Questa pratica dei grandi mezzi di comunicazione ha generato molta tensione coi mezzi di comunicazione alternativi e regionali che sostengono in alcuni casi la voce dei settori popolari.
Una valutazione generale del Governo Castillo
Bisogna considerare vari fattori per rispondere a questa domanda. Sebbene sia certo che il governo Castillo abbia sofferto sin dal 1° giorno una strategia di delegittimazione costante con il discorso dei brogli elettorali messo in piedi dal Fujimorismo, sebbene ci siano una serie difficoltà di articolazioni e di dialogo con l’opposizione, bisogna essere onesti e dire che tutto questo già si sapeva. Avevamo chiaro sin dall’inizio che questo governo sarebbe stato tra i più controllati e attaccati. C’era e c’è ancora una grande aspettativa nella realizzazione delle politiche sociali promesse da Castillo per il benessere soprattutto dei settori popolari del paese. Ma dobbiamo constatare ancora l’assenza e il ritardo delle applicazioni di queste politiche. Il governo non ha dimostrato un orizzonte politico chiaro e nella sopravvivenza politica ha ceduto ai settori di destra più di quanto avrebbe dovuto fare per la realizzazione delle politiche sociali. Abbiamo un governo impotente, debole senza orizzonte o visione politica, a mio avviso. È presto fare un bilancio definitivo ma si consolida sempre più un sentimento di delusione più che di soddisfazione.
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Cina, Turchia e UE insidiano il primato russo in Asia Centrale (1a parte)
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 24 novembre 2022 – Nei giorni scorsi, il Tagikistan – che pure è il paese dell’Asia centrale forse più legato a Mosca – ha firmato un accordo con la Repubblica Popolare Cinese che prevede l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte “antiterrorismo” ogni due anni. L’intesa rafforza e stabilizza la cooperazione tra i due paesi in materia militare, dopo le esercitazioni congiunte già realizzate sporadicamente in passato.
Si tratta dell’ultimo segnale di un aumento dell’influenza di Pechino nelle ex repubbliche sovietiche che, per motivi storici, culturali, economici e militari, hanno a lungo rappresentato il cortile di casa di Mosca dopo lo scioglimento dell’URSS.
La penetrazione militare cinese in TagikistanNell’area la Federazione Russia gode di un primato militare ancora forte, controllando le basi di Baikonur, Sary-Shagan e Balkhash in Kazakistan, la base aerea di Kant in Kirghizistan e l’installazione di Dushambe in Tagikistan. Ma stando a voci via via confermate, già dal 2016 la Cina ha realizzato una struttura militare in un’area dell’est del Tagikistan vicina al turbolento confine con l’Afghanistan. Le autorità tagike hanno sempre negato la circostanza, ma recentemente il quotidiano locale “Asia-Plus” ha nuovamente confermato, citando fonti militari, la costruzione del sito – grazie a fondi cinesi – che avrebbe dovuto essere utilizzato esclusivamente dalle forze di Dushambe. Secondo la testata, non solo i militari di Pechino avrebbero nel frattempo iniziato a utilizzare la base nella regione di Gorno-Badakhshan, ma avrebbero realizzato in Tagikistan tre centri di comando, cinque avamposti in prossimità della frontiera e un centro di addestramento. Già nel 2020 il dipartimento della Difesa di Washington, riferendosi proprio al Tagikistan, rilevava come Pechino stesse «cercando di stabilire infrastrutture più consistenti all’estero per consentire al suo esercito di proiettarsi a più elevate distanze». Nell’ottobre del 2021, del resto, lo stesso governo di Dushambe aveva annunciato la costituzione da parte della Cina di guarnigioni fisse per le unità di intervento rapido nel villaggio di Vakhon.
L’invasione dell’Ucraina spaventa l’Asia centrale
L’espansione cinese in Asia Centrale è un processo, lento ma senza interruzioni, che risale quanto meno al 2013, con l’avvio da parte di Pechino del gigantesco progetto infrastrutturale denominato “Belt and Road Initiative” o “Nuova Via della Seta”.
L’aggressione russa dell’Ucraina e le difficoltà incontrate dalle forze armate di Mosca nel paese invaso hanno accelerato – per motivi opposti – il distanziamento delle cinque repubbliche ex sovietiche. I regimi locali temono che lo sciovinismo russo, incarnato dalla dottrina del “Russkij Mir” che guida la strategia del Cremlino, possa presto rappresentare una minaccia diretta per paesi che ospitano una quota consistente di popolazione russa o russofona. Al tempo stesso, i rovesci militari di Mosca in Ucraina orientale hanno appannato l’aura di invincibilità di cui godeva finora l’Armata Russa.
Il Kazakistan, enorme e ricchissimo paese scelto dalla Cina per lanciare la sua iniziativa egemonica verso ovest, è il paese che più si sta allontanando da Mosca.
Il Kazakistan si allontana da Mosca
A gennaio le truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza militare guidata da Mosca che include sei repubbliche ex sovietiche, salvarono il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev da una violenta ribellione. Il grosso dei 2500 soldati intervenuti a sedare nel sangue la rivolta – i morti furono alcune centinaia – apparteneva alla 45a brigata dell’esercito russo.
Ma l’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Tokayev a continuare a prendere le distanze da Mosca e a cercare nuovi partner a livello internazionale. Il presidente vuole trasformare il Kazakistan in uno dei 30 paesi più sviluppati del mondo, forte di un enorme territorio ricco di idrocarburi, carbone e uranio e quindi assai appetibile per gli investitori internazionali.
Il governo kazako non ha mai espresso né sostegno né comprensione nei confronti dell’operazione militare russa contro Kiev; inoltre, Astana non ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche del Donbass ed ha da subito implementato le sanzioni finanziarie, economiche e commerciali internazionali contro Mosca, mossa che ha irritato notevolmente il Cremlino. Alcuni media russi hanno infatti accusato Tokayev di aver addirittura inviato armi a Kiev tramite una triangolazione con Londra e Amman.
Astana ha annullato la parata del 9 maggio – il Giorno della Vittoria – per evitare ogni possibile sovrapposizione con la propaganda russa sulla “denazificazione dell’Ucraina”. Nelle ultime settimane, inoltre, il governo ha iniziato l’iter per consolidare la diffusione e l’utilizzo della lingua nazionale e limitare quelle del russo, ampiamente utilizzato nella scuola e nell’amministrazione pubblica nonché parlato da milioni di cittadini. Secondo vari osservatori, con la scusa di redistribuire in maniera razionale la forza lavoro, le autorità di Astana starebbero costringendo molti cittadini kazaki che tornano in patria dall’estero a insediarsi nelle regioni settentrionali del paese, quelle dove si concentra la popolazione di origine russa che rappresenta circa il 15% del totale.
Lo sciovinismo russo allarma AstanaD’altronde, le autorità di Astana sono state messe in allarme da alcune dichiarazioni di esponenti politici russi che hanno più volte messo in dubbio l’esistenza stessa di una nazione kazaka o che hanno fatto appello alla difesa delle popolazioni russofone del nord del paese. Tra questi il deputato comunista al parlamento cittadino di Mosca, Sergey Savostyanov, che ha suggerito di includere il Kazakistan in una «zona di smilitarizzazione e denazificazione» che protegga la sicurezza e gli interessi di Mosca. Ad agosto, poi, Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca, ha scritto sul social Vkontakte che la Federazione dovrebbe occuparsi del Kazakistan del nord definendo il vicino, con cui condivide più di 8000 km di confine, di essere uno “stato artificiale” e accusando il regime kazako di realizzare un genocidio contro la popolazione russa. L’ex presidente russo ha poi cancellato il post lamentando un hackeraggio del suo account, ma il segnale ha comunque allarmato Tokayev anche perché già nel 2014 lo stesso Putin aveva utilizzato argomentazioni simili. Nel 2020, in un intervento alla tv di stato di Mosca, il deputato russo Vyacheslav Nikonov aveva poi dichiarato: «Il Kazakistan semplicemente non esisteva, il Kazakistan settentrionale non era abitato e il Kazakistan di oggi è un grande dono della Russia e dell’Unione Sovietica».
Nelle scorse settimane Mosca e Astana sono stati protagonisti di un conflitto diplomatico: la Russia che pretendeva l’espulsione dell’ambasciatore ucraino ad Astana, colpevole di feroci dichiarazioni antirusse, e il governo kazako ha accusato la Russia di non comportarsi come un “partner strategico di pari livello”. Contemporaneamente Astana ha affermato che non riconosce l’annessione alla Russia dei territori conquistati da Mosca in Ucraina, ed ha dichiarato che le decine di migliaia di cittadini russi che arrivano nel paese per sfuggire all’arruolamento (o che temono di essere coscritti in una prossima nuova mobilitazione a sorpresa) non saranno consegnati alle autorità russe. Già a marzo il viceministro degli Esteri kazako aveva detto che il suo paese era lieto di ospitare le aziende in fuga da Mosca a causa delle sanzioni.
In questa situazione si è abilmente inserita proprio la Cina. A settembre, in visita ufficiale in Kazakistan prima di partecipare al vertice di Samarcanda (Uzbekistan) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il leader cinese Xi Jinping ha esplicitamente offerto a Tokayev il proprio supporto a difesa dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale del Kazakistan, riferendosi implicitamente proprio alle neanche troppo velate minacce russe.
Astana si rivolge alla Cina e alla Turchia
Per diminuire l’ancora consistente dipendenza del Kazakistan dalla Russia, il leader kazako persegue esplicitamente una rapida diversificazione delle esportazioni del petrolio, cercando di bypassare il territorio russo e di sottrarre quindi a Mosca un elemento di possibile, forte condizionamento. Ora quasi l’80% del petrolio esportato da Astana verso l’Europa transita nel Caspian Pipeline Consortium (CPC), di cui Mosca detiene il 31%, oltretutto dal porto russo di Novorossiysk. Mentre il CPC trasporta ogni giorno un milione di barili di greggio, attraverso la rotta alternativa nel Mar Caspio Astana ne transitano solo 100 mila barili quotidiani. Se la Russia decidesse di chiudere il CPC, Astana perderebbe il 40% dei propri introiti totali. Per aumentare in maniera consistente la quota di petrolio esportata attraverso metodi alternativi Tokayev e si è rivolto alla Turchia e all’Azerbaigian.
Per la prima volta dalla sua ascesa al potere, nei mesi scorsi Tokayev si è recato in Turchia, dove ha ottenuto da Erdoganil varo di una partnership strategica e l’impegno da parte dell’industria militare turca a produrre i propri droni in Kazakistan. Come se non bastasse, Astana ha siglato con Ankara un accordo sullo scambio di informazioni militari.
Interessato al porto di Baku – snodo internazionale utile a distribuire il proprio petrolio evitando il territorio russo – Tokayev si è congratulato con il dittatore Aliyev per aver ripristinato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconquistando la maggior parte dei territori del Nagorno-Karabakh. E questo nonostante il Kazakistan sia un alleato dell’Armenia all’interno del CSTO.
Per ampliare la propria tradizionale “politica estera multivettoriale”, Astana guarda anche ad occidente, come vedremo nella seconda parte dell’articolo. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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La magistratura di oggi e quella della quale l’Italia avrebbe bisogno, nel primo incontro della Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi
Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, del nostro Paese racconta di rapporti tra magistrati che vanno ben oltre quelli che la legge considera leciti. E’ questa, la deriva malata di un “sistema” (come efficacemente descritto nel libro dell’ ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Palamara) che trova il suo spunto “peccato originale” nella mancata separazione delle carriere.
E’ stato questo il tema del primo evento della sezione abruzzese della Scuola di liberalismo della Fondazione Einaudi, che prepara il campo al primo vero e proprio “anno accademico” del 2023. Ospite dell’incontro, il Presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto, che ha voluto presentare a Teramo, in “prima” assoluta, il suo libro “Non diamoci del Tu: La separazione delle carriere”, che ospita anche una interessante prefazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio e uno scritto di Leonardo Sciascia, su quella che dovrebbe essere la sofferenza del magistrato chiamato al giudizio.
All’incontro, introdotto dal presidente della Fondazione Einaudi in Abruzzo, Alfredo Grotta, che ha visto la sala dell’Hotel Abruzzi affollata da un pubblico interessato, hanno preso parte l’ex senatore Paolo Tancredi, l’ex vicepresidente del Consiglio Regionale Paolo Gatti e Andrea Davola, ricercatore della Fondazione Einaudi e autore della postfazione. Moderatrice del dibattito, la docente di Diritto Processuale Penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo, Rosita Del Coco.
Negli interventi dei relatori, che hanno anche voluto portare testimonianze personali, sono stati analizzati tutti gli aspetti negativi della mancata separazione delle carriere, cominciando dal dettato del Codice Penale – nei fatti quasi utopia – che impone al pubblico ministero di cercare anche le prove a discolpa dell’imputato. Nei fatti, non succede, e poiché la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore, non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni, la Fondazione invoca una netta divisione dei ruoli, delle funzioni e delle carriere.
Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all’altra, ma che la stessa Fondazione Einaudi considera l’inizio di un non più rinviabile percorso di vera e più profonda riforma.
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Scegli il tuo benessere con i brand più amati nel settore del CBD
L’uso del CBD è in piena espansione ed è ben lontano dall’essere considerato un ingrediente new-age che si può trovare solo sotto il bancone dei negozi di medicina naturale. L’industria della bellezza accoglie il CBD a braccia aperte, utilizzandolo come ingrediente nei sieri di bellezza o nelle candele al profumo di cannabis. Secondo Google Trends […]
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#uncaffèconluigieinaudi – In questa lotta altissima per il risorgimento morale
In questa lotta altissima per il risorgimento morale dell’Italia ci saranno forse delle soste (nel Parlamento); ma a farle cessare provvederà l’incessante vigile voce del paese
da Corriere della Sera, 21 marzo 1906
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Ucraina: (non)sanzioni e trattative di pace
Posto che quelle inflitte alla Russia non sono sanzioni ma ritorsioni, come in tutte le guerre da sempre, a un certo punto ci si mette d’accordo per cessare il fuoco e si iniziano trattative di pace, partendo dallo status quo. Si tratta da dove si sta
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In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il...
In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il Ministero dell’Istruzione e del Merito si unisce alle iniziative di sensibilizzazione: oggi e domani il Palazzo dell’Istruzione si illumina di rosso, dan…
«L’Italia mai forte quando fa da sola» L’alfabeto di Draghi
Da «Whatever it takes» all’«interesse nazionale»
Quanti usi per la parola, quando viene spesa in pubblico. Può blandire, imbonire, promettere, giurare, addirittura minacciare, oppure convincere, spronare, rassicurare.
Qualche volta, troppo spesso, ingannare, illudere, confondere. Se ne potrebbero aggiungere altri mille. Ma c’è anche un altro compito che la parola può svolgere, ed è quello non solo di precedere i fatti, ma di favorirli, accompagnarli, spingerli, renderli ineluttabili. È forse questa una delle chiavi per leggere il libro dal titolo Dieci anni di sfide , edito da Treccani, che raccoglie scritti e discorsi pubblici di Mario Draghi dal 2011 al 2022, con la prefazione di Lionel Barber del Financial Times.
Impossibile, per argomentare, sfuggire dal discorso del «Whatever it takes» del luglio del 2012, quando disse che la Bce era pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. Bastarono pochi minuti alla speculazione internazionale per capire che il gioco era finito, che il baratro alla fine del campo di segale nel quale era stata ferocemente spinta la Grecia aveva ormai di sentinella un intero continente, l’Europa, pronto a impedire che succedesse ancora.
Quante volte quella frase è stata richiamata.
Più che per celebrarne l’autore, per rubarne un pezzetto, per impadronirsi di un successo che tutti, anche se con un po’ di cleptomania, sentivano come proprio. Proprio Draghi, probabilmente, è quello che l’ha rivendicato di meno. C’è dell’eleganza e chissà, magari pure un po’ di vanità nel non autocelebrarsi. Ma c’è anche la convinzione profonda che si può essere, come popoli, artefici del proprio destino, anche quando si è sul punto di essere travolti da nemici inattesi e brutali, come la pandemia.
Lo dimostra l’intervento al Meeting di Rimini, quando ormai il suo governo era già caduto e si era a un mese dalle elezioni politiche che avrebbero portato Giorgia Meloni alla guida del Paese. Diceva Draghi, proprio riferendosi all’ora più buia della lotta al virus, con le famiglie e le imprese che non sapevano se sarebbero riuscite ad andare avanti: «Non è andata così. Gli italiani hanno reagito con coraggio e concretezza, come spesso hanno fatto nei momenti più difficili, e hanno riscritto una storia che sembrava già decisa».
Riscrivere una storia che pare già decisa è più che una sfida, non solo avverso alla pandemia, ma contro uno spettro che l’Europa si illudeva di aver sconfitto per sempre: la guerra.
Il 24 febbraio il continente si sveglia con la Russia che invade un Paese sovrano, l’Ucraina.
Ora sembra quasi scontato il sostegno a un popolo aggredito, l’adesione alle sanzioni, la collaborazione con gli alleati, l’invio di armi per aiutare la resistenza, fino a dire che la più sciagurata e improbabile delle ipotesi può vederci domani come sconfitti, ma mai come complici. Non era necessariamente così alla vigilia delle comunicazioni del presidente del Consiglio alla Camera. Incertezze, timori e compiacenze nella stessa maggioranza di unità nazionale sono fin troppo note. Le parole di questo anomalo banchiere, per un breve tratto prestato alla politica, non lasciarono spazio a interpretazioni furbesche, pur nella certezza che la linea della fermezza non avrebbe garantito la bella figura senza pagare un prezzo: «Tollerare una guerra d’aggressione nei confronti di uno Stato sovrano europeo — disse in Aula — vorrebbe dire mettere a rischio, in maniera forse irreversibile, la pace e la sicurezza in Europa. Non possiamo lasciare che questo accada».
E ancora nel settembre scorso, all’Onu, ricordava le riflessioni di Michail Gorbaciov secondo il quale, in un mondo globalizzato, la forza o la minaccia del suo utilizzo non potessero più funzionare come strumento di politica estera, serve piuttosto una nuova qualità della cooperazione da parte degli Stati.
E sotto la voce «cooperazione» c’è tanta parte del pensiero di Mario Draghi. Il suo discorso a Washington del maggio scorso lo sintetizza: «È evidente che i singoli Stati non possono far fronte da soli alle molte e difficili sfide che li attendono nei prossimi anni. Ciò che serve ora è uno sforzo collettivo, che ci unirà molto di più di quanto abbia fatto in passato». Vale per i cambiamenti climatici. Vale per la pandemia, contro la quale si combatte anche rifiutando il protezionismo sanitario e portando cure e vaccini anche nelle parti più povere del modo. Vale per l’integrazione europea, che ha bisogno di un federalismo pragmatico e ideale che sappia superare le pastoie delle decisioni all’unanimità. Vale anche quando, pensando al percorso che ha portato al Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha ricordato, nel suo intervento all’Accademia dei Lincei, che alcuni governi, in altri Paesi europei, hanno tassato i loro cittadini per poter dare denaro a noi sotto forma di sussidi.
«Protezionismo e isolazionismo – sostiene – non coincidono con il nostro interesse nazionale. Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che recentemente spingevano a lasciare l’euro, l’Italia non è mai stata forte quando ha deciso di fare da sola». Gli interventi di Draghi per ricordare il pensiero di Jean Monnet, di Alcide De Gasperi, di Carlo Azeglio Ciampi, guardano tutti allo stesso obiettivo: l’Europa come motore che garantisce non una cessione di sovranità, ma un suo livello più alto, condizione di crescita, di pace e benessere. Spesso i suoi discorsi si concludono con un contenuto esortativo, la spinta a lavorare insieme come chiave per affrontare tutti i problemi. Credetegli, se avverrà sarà sufficiente.
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Legge di bilancio figlia della premura
Per preparare la legge di bilancio il governo ha avuto pochi giorni, ma per preparare le idee con cui concepire un bilancio ha avuto anni.
C’è sproporzione fra quel che si sa di dovere fare e gli strumenti che s’intendono utilizzare. Sproporzione che discende da un’inversione logica, che coinvolge i tempi e i soldi. Oltre a “premura” nel senso di prescia se n’abbia nel senso di cura
La presidente del Consiglio ha detto che con questo andamento demografico l’intero stato sociale e il sistema pensionistico non reggono. Giusto. Poi nella legge di bilancio infilano il congedo parentale allungato di un mese e la diminuzione dell’Iva sui pannolini. Ma anche il modo per andare in pensione prima, salvo aumentare (simbolici 7 euro al mese) le pensioni non basate sui contributi versati. È contraddittorio.
La natalità non crescerà perché c’è un mese di congedo. Crescere i figli ha la gittata di una ventina d’anni. E l’Iva più bassa non invoglierà. Sono cose concrete, anche benemerite, ma ininfluenti. Sono cose nate dalla finzione che non si facciano figli perché non si hanno soldi, in un Paese che spende per gli animali domestici più del doppio di quel che spende per la prima infanzia. Se vuoi affrontare il problema – oltre a non far crescere ancora il numero e il costo di quanti riscuotono una rendita senza avere versato adeguati contributi – devi guardare ai fondi europei del Pnrr, alla costruzione di asili nido e di scuole con il tempo pieno, a una formazione che renda competitivi, a impianti sportivi dove far scorrazzare chi per natura non può e non deve stare fermo, alla mobilità sorvegliata (pulmini da casa al campo sportivo e ritorno). La differenza è che le prime cose posso disporle e darle subito, per le altre ci vuole tempo. Solo che le prime sono inutili.
Il che porta al tema dei tempi. Per preparare la legge di bilancio il governo ha avuto pochi giorni, considerata la data del voto. Il che giustifica ampiamente il ritardo nella presentazione. Ma per preparare le idee con cui concepire un bilancio ha avuto anni. L’impostazione di quel che si vuole ottenere dev’essere immediata, perché si suppone sia la ragione per cui ti sei candidato e ti hanno votato; la realizzazione arriva nel tempo. Se invece provo a far vedere cosa sono in grado di fare subito, rinviando nel tempo l’impostazione compatibile con la realtà, o non ho capito che così sono su un binario morto o non riesco a conciliare quel che raccontai con quel che posso fare. Il che porta alla questione dei soldi.
Meloni ha detto che ora l’Italia può riprendere a crescere. Cresce da due anni e come non mai. Ma c’è l’altra leggenda da sfatare: non ci sono i soldi. I soldi ci sono eccome. Non ci sono tutti i soldi necessari per fare tutte le cose promesse in campagna elettorale. E fortunatamente, altrimenti avremmo più pensionati ancora. Ma i soldi del Pnrr consentono di fare un bilancio assai alleggerito sul fronte degli investimenti. È moltissimo. Semmai sarebbe bene aggiornare tutti, non solo la Commissione europea, sullo stato dei lavori. Sprecare quell’occasione sarebbe rompersi l’osso del collo.
Il pericolo della gatta frettolosa, capace d’accecare la progenie, esiste anche all’opposizione. A dire che il governo sbaglia son tutti bravi, ma non ha molto senso che il Partito democratico convochi una manifestazione di piazza contro la «manovra iniqua» nel mentre i loro ex (ex?) alleati del M5S ne convocano una per protestare contro la cancellazione (che manco c’è) del Reddito di cittadinanza. Non ha senso perché il Pd votò contro quel reddito, sicché chiarisca se l’iniquità sono poche o troppe pensioni, pochi o troppi aiuti e così via andando. Altrimenti l’opposizione diventa solo il dire No al governo, con una premura oppositoria che rimanda a un imprecisato domani la definizione di cosa, invece, farebbero loro. C’è un solo modo per combattere la miseria: far crescere la ricchezza.
Il mondo continua a crescere. Le previsioni economiche europee sono di crescita più contenuta, ma di crescita. La politica sembra essere la sola a non saper crescere, dalla lamentazione alla realizzazione.
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8 miliardi di ‘problemi’, tra oro nero e oro blu
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Il 15 novembre scorso l’Onu ci ha comunicato che gli umani sono diventati 8 miliardi sulla terza pietra […]
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Ringraziamento: musica e parole … recenti
Gli inni del Ringraziamento hanno qualche secolo, al massimo, ma i salmi biblici di gratitudine e lode risalgono a migliaia di anni fa
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Le origini medievali della cucina del Ringraziamento
I primi americani hanno semplicemente imitato o adattato i piatti tradizionali, le combinazioni di sapori e i rituali dell'Europa del XVII secolo
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Arabia Saudita: la cautela di Biden
I recenti sforzi sauditi per placare l’amministrazione Biden sulla scia del sostegno del regno al taglio della produzione di petrolio dell’OPEC + del mese scorso assumono un significato aggiunto sulla scia delle recenti elezioni di medio termine negli Stati Uniti che hanno rafforzato Joe Biden e indebolito l’ex Presidente Donald J. Trump. L’insistenza saudita su […]
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India: nessun vincitore nella corsa presidenziale del Congresso nazionale
Il grande vecchio partito indiano, l’Indian National Congress (INC), ha eletto un nuovo presidente. Questa non dovrebbe essere una grande novità, ma è la prima elezione contestata in due decenni e solo la sesta nella storia dell’INC. È anche la prima volta dal 1998 che qualcuno che non si chiama Gandhi ha ricoperto l’incarico. Ma le prospettive di questo […]
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Scozia: sfida alla legittimità dell’ordine costituzionale del Regno Unito
La Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito all'unanimità che il governo scozzese non può indire un referendum sull'indipendenza senza il permesso di Westminster. Il verdetto espone uno scontro tra la legge costituzionale del Regno Unito e il mandato democratico ottenuto dalle forze politiche scozzesi
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