Prepararsi al 2023. Riunito il Comitato militare della Nato
Si è conclusa la prima delle due giornate della 188esima riunione annuale del Comitato militare della Nato, nella sessione che riunisce insieme i capi di Stato maggiore della Difesa dei Paesi alleati. Ad aprire i lavori vi erano il vicesegretario generale della Nato, Mircea Geoană, insieme al presidente del Comitato militare dell’Alleanza Atlantica, Rob Bauer. In attesa di completare l’iter di adesione – che, come ricordato nella giornata di ieri dalla premier finlandese Sanna Marin al World Economic Forum di Davos, “dovrebbe essere più veloce” e non dovrebbe incontrare ostacoli – erano presenti anche i rappresentati di Finlandia e Svezia. Come racconta una nota diffusa dalla stessa Nato, obiettivo di quest’anno è discutere del rafforzamento della Difesa e della deterrenza dell’Alleanza “aumentando la prontezza, sviluppando le capacità e collegando più strettamente che mai la pianificazione militare nazionale e quella della Nato”. Non solo, anche la guerra russo-ucraina rappresenterà uno dei temi centrali per il Comitato.
Priorità strategiche per la Difesa alleata
Questa prima giornata di lavori ha visto tre diverse sessioni di lavoro, dedicate alle considerazioni strategiche del Comandante supremo alleato per la trasformazione (Sact) e del Comandante supremo alleato in Europa (Saceur), e in ultimo ai rischi legati al mantenimento di un adeguato ed efficiente livello di prontezza delle forze. Mentre domani le sessioni includeranno i partner operativi dell’Alleanza per discutere delle diverse missioni. Come la missione Kfor, la forza internazionale di mantenimento della pace guidata dalla Nato in Kosovo, e alla missione Nato in Iraq. Le quali precederanno la conferenza stampa congiunta che vedrà insieme Bauer, il Sact Philippe Lavigne, per parlare di bilanciamento delle capacità, e il Saceur Christopher Cavoli che fornirà invece considerazioni strategiche sulla postura dell’Alleanza, dal fianco orientale agli altri teatri.
Sicurezza globale instabile: l’Ucraina
Nel suo discorso di apertura, l’ammiraglio Bauer ha parlato del degrado dell’ambiente di sicurezza globale provocato dalla guerra in Ucraina. “Purtroppo, stiamo assistendo all’alba di una nuova era di difesa collettiva. Tuttavia, è un’era per la quale la Nato è pronta. Abbiamo dimostrato al mondo che siamo in grado di aumentare rapidamente la nostra presenza quando e dove necessario”, ha sottolineato il presidente del Comitato. “Abbiamo fornito un’assistenza senza precedenti per sostenere il diritto all’autodifesa dell’Ucraina. E questo ha fatto la differenza sul campo di battaglia. Questo sostegno è fondamentale per plasmare il futuro dell’Ucraina”, ha invece evidenziato Geoană facendo riferimento allo strenuo sostegno profuso dagli alleati in favore dello Stato aggredito. In conclusione, per il vicesegretario generale: “il 2023 sarà un anno difficile. E dobbiamo sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario”.
Puntare su Difesa, produzione di armi e digitale
Dal canto suo il vicesegretario generale, nel corso del suo intervento ha parlato delle tre aree di lavoro più strategiche per gli alleati, in vista anche del prossimo vertice Nato che si terrà quest’anno a Vilnius, in Lituania. Esse sono: investire maggiormente in Difesa (come testimonia la richiesta ai Paesi alleati di destinare alla Difesa almeno il 2% del proprio Pil nazionale), aumentare la produzione di armi e munizioni e infine trasformare la Nato affinché sia sempre più pronta per l’era digitale. A detta sua, inoltre, la Nato “deve mantenere la capacità militare e l’abilità di difendere l’Alleanza da tutte le sfide, ora e in futuro, anche in operazioni multidominio”.
(Foto: Nato)
#uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – Quando il medio-ceto…
Quando il medio-ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi
da Il nuovo liberalismo, “La città libera”, 15 febbraio 1945
L'articolo #uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – Quando il medio-ceto… proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Etiopia: dopo 600 mila morti una pace molto fragile
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 19 gennaio 2023 – Probabilmente, un bilancio esatto delle vittime del conflitto che ha insanguinato il nord dell’Etiopia negli ultimi due anni non sarà mai disponibile. Ma quelli forniti finora da diverse fonti parlano tutti di alcune centinaia di migliaia di morti.
In un’intervista al “Financial Times”, ad esempio, il mediatore dell’Unione Africana sul conflitto in Tigray, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, afferma che in due anni di guerra potrebbero essere morte fino a 600 mila persone.
Obasanjo ha ricordato che lo scorso 2 novembre, quando a Pretoria i funzionari etiopi hanno firmato un accordo di pace con i rappresentanti della guerriglia tigrina, i partecipanti alle trattative hanno parlato di una media di mille morti al giorno nei due anni di scontri tra l’esercito federale di Addis Abeba – e le milizie regionali alleate – e le forze del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino (Tplf).
«Sulla base dei rapporti dal campo, il numero di morti potrebbe essere compreso tra 300 mila e 400 mila solo tra le vittime civili causate dalle atrocità, dalla fame e dalla mancanza di assistenza sanitaria» ha detto sempre al “Financial Times” Tim Vanden Bempt, membro del gruppo di ricercatori attivo all’Università belga di Gand che indaga sulle conseguenze del conflitto.
Due anni di guerra e centinaia di migliaia di vittime
I combattimenti hanno avuto inizio il 4 novembre 2020, quando il primo ministro federale Abiy Ahmed ordinò l’intervento delle truppe etiopi contro le milizie del governo regionale del Tigray che poche ore prima avevano assaltato alcune caserme. A fianco di Ahmed – riconfermato nonostante la scadenza del suo mandato dopo la sospensione delle elezioni legislative a causa della pandemia – si schierarono anche le truppe dell’Eritrea e le milizie di alcuni stati regionali etiopi, come l’Amhara. Al fianco del TPLF – che aveva a lungo gestito il potere a livello federale prima di essere estromesso dalla corrente panetiopista capeggiata da Ahmed – si è schierato invece l’Esercito di Liberazione Oromo, che pur rappresentando l’etnia alla quale appartiene il primo ministro si batte per l’autodeterminazione del proprio territorio.
Per alcuni mesi sembrò che le truppe federali e gli eritrei – nemici storici di Addis Abeba prima che nel 2018 Ahmed siglasse la pace con il regime di Asmara aggiudicandosi un Nobel per la Pace – fossero in grado di sbaragliare le forze ribelli. Ma poi un’offensiva congiunta di tigrini e Oromo ha inflitto cocenti sconfitte alle truppe federali tanto che ad un certo punto i ribelli sembravano in grado di conquistare addirittura la capitale federale dopo aver conquistato ampie porzioni dell’Amhara e dell’Afar, nel centro-nord del paese.
L’Etiopia cerca nuovi alleati
Mentre Usa e Ue, ex sostenitori di Addis Abeba, imponevano sanzioni all’Etiopia, in soccorso di Abiy Ahmed si sono schierati Cina, Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, fornendo armi, supporto diplomatico e ingenti prestiti. Nel luglio 2021 l’Etiopia ha firmato con Mosca un accordo che impegna la Russia a fornire addestramento e tecnologie d’avanguardia per riorganizzare l’esercito di Addis Abeba. In cambio Mosca ha ottenuto un trattamento di favore nell’acquisizione di licenze per estrazioni minerarie ed energetiche.
Negli ultimi anni Ahmed ha rafforzato molto il legame con Pechino, che ha nel frattempo finanziato e realizzato decine di opere pubbliche e infrastrutture nel paese, compreso il treno che collega la capitale etiope con Gibuti, preso più volte di mira dal Tplf.
Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, nell’ambito di un lungo tour africano, ha firmato con l’omologo etiope Demeke Mekonnen diversi accordi bilaterali, tra i quali la cancellazione di una porzione consistente del debito etiope con Pechino (negli ultimi 10 anni la Cina ha prestato ad Addis Abeba 14 miliardi). Pechino ha confermato l’impegno per la realizzazione del Centro Africano per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc, l’agenzia sanitaria dell’Unione Africana), la cui sede – interamente finanziata dalla Cina con 80 milioni – sorgerà ad Addis Abeba.
Sono stati soprattutto i droni da bombardamento ricevuti dagli alleati – i cinesi Wing Loong 2, i turchi Bayraktar Tb2 e gli iraniani Mujaher-6 – a permettere alle truppe federali di infliggere dure sconfitte al Tplf costringendolo ad arroccarsi nel Tigray e a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale. Le forze federali hanno ampiamente fatto ricorso ai bombardamenti indiscriminati sulle città tigrine, colpendo duramente la popolazione già stremata.
Una pace molto fragile
Una lunga e difficile trattativa, mediata dall’Unione Africana, ha finalmente portato alla firma del cessate il fuoco e alla stesura di un’agenda condivisa per un ritorno alla normalità.
Nelle ultime settimane sono stati indubbiamente fatti dei passi avanti. Ieri, ad esempio, le truppe federali sono entrate ad Adigrat, a lungo controllata dal Tplf. Nei giorni scorsi, invece, sono state le milizie amhara a ritirarsi da Scirè, nel Tigray occidentale, ottemperando agli impegni assunti in sede negoziale. Già a fine dicembre la polizia federale etiope era tornata a schierarsi a Mekelle, la capitale del Tigray, dopo due anni di assenza.
Il 10 gennaio, poi, le forze tigrine hanno iniziato a consegnare le armi pesanti sotto il monitoraggio di un apposito team dell’Unione Africana istituito grazie all’accordo raggiunto dalle parti a Nairobi lo scorso 22 dicembre. Il team, in coordinamento con i rappresentanti dei due schieramenti e l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (Igad, che riunisce 8 paesi del Corno d’Africa) è incaricato di monitorare l’applicazione dell’accordo di cessazione delle ostilità e di segnalare ritardi e violazioni.
Nel frattempo, la ministra della Salute Lia Tadesse ha annunciato la riattivazione delle strutture sanitarie distrutte o paralizzate dal conflitto, la distribuzione dei medicinali salvavita e l’avvio delle vaccinazioni contro il morbillo. Anche gli aeroporti di Mekelle e Scirè sono stati riaperti ed alcuni voli hanno riportato nella regione alcuni degli abitanti che erano dovuti fuggire a causa dei combattimenti o delle persecuzioni.
Guerriglieri del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino
Disastro umanitario
Nella regione stanno arrivando anche, seppure a rilento, gli aiuti internazionali destinati alla popolazione, in precedenza bloccati quasi completamente dal governo federale.
Nel Tigray «si stima che 9 persone su 10 abbiano bisogno di assistenza umanitaria e 400mila circa siano vittime di una pesante carestia aggravata dal fatto che l’arrivo di aiuti umanitari è ancora limitato» scrive in un rapporto il Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani.
La siccità, oltre alla paralisi dell’economia locale, alla distruzione di molte infrastrutture e all’abbandono dei campi da parte degli sfollati, hanno causato in Tigray un vero e proprio disastro umanitario. Anche in altre regioni aride del paese, nel sud, le cose non vanno meglio: secondo Save the Children, attualmente 12 milioni di persone (su 115 milioni di abitanti totali) patirebbe la fame e 4 milioni di bambini sarebbero malnutriti.
L’incognita eritrea
Quella raggiunta il 2 novembre a Pretoria rischia di essere una pace incerta e provvisoria.
L’incognita maggiore è rappresentata dalla presenza in Tigray delle truppe eritree, negata per mesi sia da Abiy Ahmed sia dal dittatore di Asmara Isaias Afewerki, prima che la presenza di almeno metà dell’esercito del piccolo paese – resosi indipendente da Addis Abeba nel 1993 dopo una sanguinosa guerra durata due decadi – diventasse troppo ingombrante per continuare a nasconderla.
L’Eritrea rappresenta il “convitato di pietra” dell’accordo di cessate il fuoco permanente – alla quale non ha preso parte – e l’atteggiamento di Afewerki potrebbe rappresentare un ostacolo non secondario alla normalizzazione della situazione. Finché tutte le truppe eritree non avranno abbandonato il territorio tigrino, infatti, le milizie del Fronte di Liberazione difficilmente potranno disarmare. Al momento, il Tplf manterrebbe 20 mila miliziani armati schierati nelle zone di confine del Sudan.
Secondo Obasanjo e vari testimoni sul campo, gli eritrei avrebbero cominciato a rientrare lentamente in patria abbandonando ad esempio Axum e Scirè.
Ma ancora a gennaio il Centro di Coordinamento regionale per le emergenze – un gruppo di organizzazioni attive nel Tigray – ha denunciato le ennesime atrocità commesse dalle forze di Asmara contro i civili tigrini e contro gli oppositori di Afewerki che si erano rifugiati nella regione al confine con l’Eritrea.
Nei giorni scorsi molti dei 16 mila tigrini ospitati nel campo di Um Rakuba, nel Sudan orientale, hanno denunciato di non poter tornare a casa perché il loro territorio, nel Tigray occidentale, è occupato dalle milizie e da coloni Amhara o da soldati eritrei.
Secondo fonti tigrine citate dall’Avvenire, alla fine di novembre le truppe eritree avrebbero ucciso «3000 persone in una località a pochi km da Adua, 78 ad Adiabo e 85 nella provincia di Irob».
Nella regione, accusano sempre fonti tigrine, circa 120 mila donne sarebbero state violentate dai soldati etiopi ed eritrei e dai miliziani Amhara. Anche i guerriglieri del Tplf, però sono stati spesso accusati di atrocità nei confronti delle popolazioni delle regioni occupate durante l’offensiva contro Addis Abeba.
Difficilmente Afewerki – che arma milizie tigrine opposte al Tplf – rinuncerà a indebolire ulteriormente il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che guidava l’Etiopia durante la guerra per l’indipendenza dell’Eritrea.
Anche se finora ha rappresentato un utile alleato del leader etiope, il regime di Asmara potrebbe tentare di rimanere nel Tigray anche senza il consenso di Abiy Ahmed. Numerosi analisti si interrogano sull’effettiva capacità del governo etiope di costringere i combattenti eritrei ad andarsene. Ne potrebbero nascere nuovi scontri, questa volta tra i due paesi prima rivali e poi alleati.
Oppure, il premier etiope potrebbe tacitamente tollerare o addirittura sollecitare la permanenza delle truppe eritree in Tigray per garantirsi il controllo del territorio e al tempo stesso permettere all’esercito federale di concentrare le proprie forze contro la ribellione Oromo, che nelle ultime settimane sembra incendiarsi.
La ribellione Oromo
Mentre a nord si raffreddava il sanguinoso conflitto con i tigrini, Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva su vasta scala per distruggere le milizie dell’Esercito di Liberazione Oromo, che si batte per l’autodeterminazione della regione più vasta e popolosa dello stato (gli Oromo sono circa il 40% della popolazione totale) e la cui insurrezione si è recentemente estesa grazie all’indebolimento delle forze federali impegnate in Tigray. Anche in questo caso l’esercito federale sta facendo ampio uso dei droni sia contro le milizie dell’OLA che contro la popolazione civile. La stessa “Commissione per i diritti umani” di Addis Abeba ha documentato numerose esecuzioni sommarie compiute dalle truppe governative. D’altra parte l’OLA ha preso di mira gli Amhara che vivono nella regione mentre migliaia di Oromo sono stati cacciati o uccisi nelle regioni circostanti.
La situazione si sta «rapidamente deteriorando», ha avvisato l’agenzia di coordinamento degli aiuti dell’ONU. Centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case e i servizi essenziali sono sospesi.
I rappresentanti Oromo che sostengono il governo federale chiedono ora al governo di implementare un accordo di pace simile a quello adottato per il Tigray, invocando la mediazione dell’Unione Africana, e accusano Abiy Ahmed di aver esacerbato le contraddizioni etniche nel paese. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Chongryon tra Giappone e Corea del Nord
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Crosetto vede l’ambasciatore israeliano Bar. Ecco i temi dell’incontro
Questa mattina Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha incontrato Alon Bar, ambasciatore israeliano in Italia. Dall’incontro è emersa “la volontà di intensificare la collaborazione tra Italia e Israele”, si legge in una nota diffusa dal ministero della Difesa. I temi principali al centro del colloquio sono stati, oltre ai rapporti bilaterali, la cooperazione in ambito difesa, Ucraina e Mediterraneo allargato. Nel corso del colloquio l’ambasciatore Bar ha anche espresso il suo ringraziamento per l’importante contributo dell’Italia in Libano (Unifil) a favore della stabilizzazione della regione, si legge nello stesso comunicato. I due “hanno sottolineato le eccellenti relazioni bilaterali tra Israele e Italia in generale e in particolare nei settori della cooperazione militare e di sicurezza e hanno discusso le questioni regionali in agenda”, si apprende invece da una nota della diplomazia israeliana.
LA POLITICA
L’incontro giunge due giorni dopo la telefonata tra Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Esteri, ed Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano. Tajani ha annunciato all’omologo l’intenzione di visitare presto Israele, al fine di rafforzare il partenariato bilaterale in ogni settore, a cominciare dalla cooperazione economica e industriale. Cohen ha ribadito all’omologo che Israele è interessato a promuovere ed espandere le buone e cordiali relazioni tra i due Paesi nei settori dell’economia e del commercio, della tecnologia, dell’innovazione, della cultura e del turismo. Come raccontato nelle scorse settimane da Formiche.net, le diplomazie dei due Paesi sono al lavoro per un summit bilaterale tra i governi da organizzare a Gerusalemme già nella prima metà dell’anno.
LA DIFESA
A luglio il generale Amir Eshel, allora direttore generale del ministero della Difesa israeliano, era stato a Roma per incontrare l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato maggiore della Difesa, e il generale Luciano Portolano, Segretario generale della Difesa. L’obiettivo della visita era stato ribadire i legami tra i due Paesi e avviare un percorso di continuo potenziamento della cooperazione industriale anche in nuovi settori e attraverso il coinvolgimento delle rispettive Forze armate. Pochi giorni prima il gruppo italiano Leonardo aveva annunciato la fusione (perfezionata a fine novembre) tra la controllata statunitense Leonardo Drs (80,5%) e la società israeliana Rada Electronic Industries (19,5%).
LA SPONDA USA
Come raccontato allora su Formiche.net, l’accordo tra Leonardo Drs e Rada non è il primo a vedere un passaggio statunitense tra gli accordi del gruppo con Israele: ad aprile il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti aveva sottoscritto, infatti, un accordo con la società italiana per la fornitura di nuovi elicotteri da addestramento e multi-missione AW119Kx destinati a Israele, in aggiunta ai sette velivoli ordinati direttamente dal Paese mediorientale (un contratto del valore di 29 milioni di dollari). Una fornitura, si osservava ancora, che è rientrata nell’ambito dei Foreign military sales per Israele, il programma del governo statunitense per trasferire articoli e servizi di Difesa ai Paesi alleati. Non è stata neppure la prima volta che Tel Aviv ha scelto gli addestratori italiani: attualmente sono operativi a Israele una trentina di aerei M-346 utilizzati per formare i piloti dell’Aeronautica israeliana.
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Intervento del Presidente Giuseppe Benedetto alla Costituente LDE – Milano,14 Gennaio 2023
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L'amministratore delegato di Palantir e la follia sadica dei capitalisti della sorveglianza
L'amministratore delegato di Palantir e la follia sadica dei capitalisti della sorveglianza
L'amministratore delegato di Palantir, Peter Thiel afferma che l'affetto britannico per il servizio sanitario britannico è una specie di sindrome di Stoccolma.
La società guidata da Thiel, Palantir, è in lizza per un contratto NHS da 480 milioni di sterline
Palantir afferma che i commenti non riflettono le opinioni dell'azienda.
L'articolo è disponibile su Bloomberg
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Campagna "Noi non paghiamo": al Centro Popolare Autogestito Firenze Sud cena e concerto
Il 14 gennaio 2023 il Centro Popolare Autogestito Firenze Sud ha ospitato una cena di sottoscrizione e un concerto dei cuneesi #LouTapage e dei #MalasuerteFiSud, band che attorno al CPAFiSud gravita da quasi venticinque anni. Entrambe le iniziative, gremite, sono servite a sostenere la campagna #Noinonpaghiamo.
La #Lega ha deplorato anche di recente l'esistenza del Centro Popolare Autogestito Firenze Sud -che da trentaquattro anni ospita iniziative in cui i "valori" occidentali sono volta per volta confutati, svalutati, disprezzati, disconfermati o semplicemente derisi- e ha deplorato anche l'iniziativa specifica.
Due ottimi motivi per dare a entrambe le cose rilievo in ogni sede. Si è quindi pensato di pubblicare qualche video su Youtube, di scriverne sul Cinguettatore, su Instagram e su Blogger.
Tra i brani suonati dai Lou Tapage una cover di Fabrizio de André esplicitamente dedicata a Alfredo #Cospito, al momento in cui scriviamo vicino ai novanta giorni di sciopero della fame in segno di protesta contro il duro regime carcerario cui è sottoposto al sostanziale fine di chiudergli la bocca.
Ripetiamo.
Cospito è nato a #Pescara e non a #Shiraz e non è nemmeno una bella ragazza.
Soprattutto, certe cose vanno benissimo se fatte a #Tehran, a l'#Avana, a #Minsk o a #Caracas: gli appassionati di #raveparty si mettano fiduciosi sulla strada per #Kiev, troveranno l'approvazione dell'intero gazzettificio peninsulare e delle madri non sposate che si atteggiano a difensori dei valori cattolici cui il gazzettame ha tirato la volata per anni. Attenzione a non sbagliare latitudini perché nell'"Occidente" della democrazia da esportazione l'esistenza delle pecore nere non è prevista e basta una scritta su un muro per vedersela con la gendarmeria politica nel tripudio delle tolleranze zero e dei giri di vite che sono la passione degli stessi gazzettieri di cui sopra.
Viagra senza ricetta: cosa c’è da sapere
Il Viagra, un farmaco popolare per l’impotenza, ha rivoluzionato il modo di concepire la disfunzione erettile e il suo trattamento. Ha cambiato in meglio la vita di milioni di uomini in tutto il mondo. Sebbene l’idea di acquistare il Viagra senza ricetta possa sorgere, è importante essere consapevoli dei rischi e dei benefici associati. Prima di […]
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Più austerità nel 2023 alimenterà le proteste
Questa settimana i leader mondiali si incontrano a Davos per discutere della cooperazione per affrontare molteplici crisi, dal COVID-19 e l’aumento dell’inflazione al rallentamento della crescita economica, l’afflizione del debito e gli shock climatici. Solo tre mesi fa, i ministri delle finanze si erano riuniti a Washington DC per lo stesso motivo. L’umore era cupo. La […]
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Salvare i partiti per salvare la democrazia
È oramai uso comune lamentare la crisi che da tempo affligge i partiti. Ben pochi però analizzano le cause di un fenomeno che ha colpito, sia pur in diversa misura, quasi tutti i sistemi democratici. Vale dunque tentare di farlo.
Una prima causa del fenomeno risiede nel progressivo trasferimento di funzioni dallo Stato nazionale a istituzioni sovranazionali, processo che ha in parallelo provocato un rafforzamento dei governi nei confronti dei Parlamenti: la rappresentanza degli interessi nazionali nelle sedi internazionali è infatti affidata agli esecutivi e non alle assemblee, sede tradizionale dell’attività dei partiti. A ciò si aggiunga che i grandi gruppi economici dialogano sempre più con le istituzioni sovranazionali, o con i governi e le pubbliche amministrazioni, anziché con i partiti.
Una seconda causa dell’indebolito ruolo dei partiti discende dal radicale mutamento della comunicazione politica introdotto dapprima dalla tv e ora dai social channels. Alla comunicazione affidata ai media tradizionali e al rapporto face to face nei circoli dei partiti si è infatti sostituita una comunicazione impersonale affidata a slogan e influencer che ha contribuito non poco a trasformare i partiti dalle organizzazioni strutturate del Novecento agli attuali partiti leaderistici.
Un’ulteriore causa discende proprio dal maggiore successo delle nostre liberal-democrazie, e cioè dalla crescente integrazione che ha caratterizzato le nostre società con il venir meno della lotta di classe e di quei conflitti (etnici, religiosi, linguistici) che avevano dato ai partiti la loro diversa identità, aprendo così un ancor maggiore spazio per leadership personali fondate su carismi deboli e transitori. I fattori su ricordati rappresentano mutamenti strutturali delle liberal-democrazie, che le leadership dei partiti tradizionali non potevano modificare.
I nostri partiti di massa sono nati e si sono strutturati in parallelo con l’allargamento del suffragio, che ha portato nei Parlamenti a sostituire le instabili alleanze di singoli eletti, caratterizzate da un elevato tasso di trasformismo, con gruppi parlamentari rigidamente controllati dai rispettivi partiti e caratterizzati da una forte disciplina. Il recente riapparire nel Parlamento italiano di un elevato livello di trasformismo è una inevitabile conseguenza della crisi dei nostri partiti strutturati.
Il venir meno dei partiti tradizionali porta però una seria minaccia alla nostra democrazia rappresentativa. I partiti strutturati costituivano infatti un ideale strumento di intermediazione degli interessi, rappresentando spesso interessi particolari ma integrandoli con gli altri interessi presenti nel processo politico. Frammentata e affidata non alla dialettica di un forte sistema dei partiti, ma direttamente a un accesso alla pubblica amministrazione e ai singoli parlamentari, l’articolazione degli interessi trova oggi sempre più difficilmente un momento di aggregazione, con il risultato che gli interessi forti tendono a prevalere sugli interessi deboli molto più che in passato.
Questi fenomeni sono stati presenti in tutti i sistemi democratici. Perché allora in Italia la crisi dei partiti è apparsa più profonda? La risposta sta in una serie di improvvide decisioni istituzionali prese proprio dai leader dei nostri partiti. L’avere, ad esempio, resi stabili ed eletti direttamente i presidenti di Regione, trasformandoli in inamovibili «governatori» a termine, ha inevitabilmente indebolito il ruolo delle rispettive assemblee regionali, e l’influenza dei partiti nazionali. L’aver esteso ai presidenti di Regione quanto era stato positivamente deciso per i sindaci, senza tener conto della diversità di funzioni, si è rivelata una delle principali cause della crisi dei nostri partiti nazionali che sarà aggravata da un’eventuale attribuzione alle Regioni di un’ampia autonomia differenziata. Si aggiunga l’effetto perverso di leggi elettorali con liste bloccate: se si impedisce ai rappresentati di scegliere i propri rappresentanti il crollo della partecipazione è inevitabile e induce quella perdita di «senso di efficacia» che caratterizza buona parte dei nostri cittadini. In una democrazia, quando gli elettori ritengono di non «contare», le decisioni politiche vengono però viste come assunte non in loro nome ma anzi senza il loro consenso. È così che si erode la legittimità di un sistema democratico.
Infine, anziché varare una legge sui partiti, i nostri leader abolendo il finanziamento pubblico hanno indicato ai cittadini che i partiti non sono strumenti essenziali per una democrazia. Una concessione demagogica all’antipolitica, mentre si tollerano fenomeni lesivi della res publica come l’enorme evasione fiscale che si traduce in minori servizi essenziali. Abbiamo passato il limite del non ritorno? No. Purché si inizi a correggere gli errori e non si prosegua nello svilire il Parlamento, ricorrendo a governi a termine prendendo a prestito il modello presidenziale che nel nostro sistema indebolirebbe le istituzioni di garanzia. Ai fenomeni storici su ricordati non ci si può opporre; ma agli errori di politica istituzionale occorre rispondere con un deciso no. Almeno da parte di quanti ritengono i partiti ancora indispensabili alla nostra vita democratica.
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Haftar sta perdendo il controllo della Libia?
L’inviato del Segretario generale delle Nazioni Unite e capo della sua missione di supporto in Libia, Abdullah Batili, ha partecipato a un incontro con i membri del Comitato militare congiunto libico (5+5) nella città di Sirte per completare il loro percorso di consenso verso un’istituzione militare unificata all’interno del percorso militare per risolvere la crisi […]
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Resistere alla Russia un’opera d’arte alla volta
Ci risiamo. Un furto d’arte che rivaleggia con il saccheggio dei nazisti durante la seconda guerra mondiale è in corso proprio ora in Europa. Da quando è iniziata la sua invasione su vasta scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Russia ha saccheggiato oltre 30 musei, rubando migliaia di oggetti preziosi, dai dipinti ad olio ai […]
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VIDEOLETTURA. “Diario della Rivoluzione”: la Tunisia e la poetica di Mohammed Sgaier Awlad Ahmad
di Patrizia Zanelli
(la foto di Mohammed Sgaier Awlad Ahmad è dal Festival della Letteratura del Mediterraneo)
Pagine Esteri, 18 gennaio 2022 – Se un giorno il popolo vorrà vivere / il destino lo dovrà assecondare
La notte dovrà dissiparsi / e le catene si dovranno spezzare
Il mausoleo di Abu al-Qāsim al-Shabbi
Questi versi iniziali del poema “La volontà di vivere”, composto nel 1933 dal giovane poeta romantico tunisino Abu al-Qāsim al-Shabbi (1909-1934), ispirarono lo slogan più famoso della primavera araba del 2011: “Il popolo vuole la caduta del regime”. La scintilla delle rivolte esplose in più paesi dell’area era partita proprio dalla Tunisia, il 17 gennaio 2010, quando il ventiseienne venditore ambulante Mohamed Bouazìz si era dato fuoco in segno di protesta contro la disoccupazione e le vessazioni di uno Stato poliziesco. Ciò avveniva precisamente a Sidi Bouziz, capoluogo della regione in cui era nato Mohammed Sgaier Awlad Ahmad (1955-2016), considerato il poeta della stessa rivoluzione della dignità, sfociata nella caduta del regime di Zine El Abidine Ben ʿAli (1936-2019), il 14 gennaio 2011. Da lì a poco l’autore finì di comporre “La poesia della farfalla”, in cui propone un monologo immaginario di Mohamed Bouazìz, per commemorare l’auto-immIn “La poesia della farfalla”, Awlad Ahmad propone un monologo immaginario di Mohamed Bouazìz, per commemorare l’auto-immolazione del giovane ambulante che nel 2011 accese le proteste popolari in Tunisia che portarono alla caduta del dittatore Zine El Abidine Ben ʿAlilazione del giovane ambulante, morto dopo 18 giorni di ricovero in un ospedale di Ben Arous per le gravi ustioni riportate su oltre il 90% del corpo a seguito di quel gesto disperato, che aveva subito acceso le proteste popolari pacifiche in Tunisia. Il poeta incluse questa elegia e altri cinque componimenti nella raccolta “Diario della Rivoluzione”[1], pubblicata per la prima volta a livello internazionale in traduzione italiana da Lushir, nel settembre 2011.
Il piccolo volume in effetti contiene opere rappresentative di varie fasi della produzione poetica di Awlad Ahmad, che era originario di un villaggio situato in una regione semidesertica, povera e marginalizzata da ogni regime tunisino. L’infanzia vissuta in condizioni sociali difficili si rispecchia in molti testi dell’autore che era anche un giornalista e prosatore, voce del dissenso laico libertario sin dall’epoca dell’involuzione anti-democratica di Habib Bourghiba (1903-2000), padre socialista della Tunisia indipendente.
Awlad Ahmad si era politicizzato, mentre compiva gli studi secondari a Tunisi, partecipando al vibrante movimento studentesco degli anni ’70 e inserendosi nella sinistra tunisina. In quel periodo aveva anche iniziato a frequentare gli ambienti letterari della capitale. Dopo il diploma, andò in Francia per studiare psicologia all’Università di Reims. Tornato in Tunisia, iniziò la carriera giornalistica, scrivendo editoriali per quotidiani e periodici. Fu così che scoprì il proprio talento poetico e all’età di venticinque anni cominciò a scrivere poesie. Il suo primo componimento famoso è “L’inno dei sei giorni”, del 1984, dedicato alla “rivolta del pane” del gennaio di quell’anno, esplosa in risposta alle politiche neoliberiste adottate dal governo bourghibista. Il poema divenuto subito popolare fu bandito dal regime, e il poeta stesso fu incarcerato per poco tempo per avere partecipato a un sit-in a sostegno dell’Unione Generale Tunisina del Lavoro.
Nel 1987, invece, fu arrestato a Tunisi, mentre usciva da un bar, e poi condannato a un mese di carcere per stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico; a seguito della detenzione fu inoltre licenziato. Nel novembre di quell’anno salì al potere Ben Ali, destituendo l’anziano Boughiba con un colpo di Stato militare definito “medico”. Nel 1988, Awlad Ahmad poté finalmente pubblicare “Inno dei sei giorni” in un’omonima raccolta, la prima della sua carriera letteraria, seguita da “Ma io sono Ahmad” e da “Non ho problemi”, entrambe del 1989, e da “Il Sud dell’acqua”, del 1991. D’altra parte, tuttavia, l’autore era già entrato nel mirino non solo del regime di Ben Ali, ma anche dei seguaci dell’oscurantismo religioso cresciuto in Tunisia e altrove nel mondo arabo insieme al neoliberismo. Fu addirittura condannato a morte per apostasia dallo Sheikh Yusuf Qaradawi (1926-2022); e lui rispose a questa fatwa, una vera istigazione a ucciderlo, sporgendo querela contro lo stesso islamista qatariota di origine egiziana legato ai Fratelli Musulmani, che l’aveva emessa. Sentendosi perseguitato da tutti coloro che non sopportavano la sua penna graffiante, e osteggiato perfino da alcuni progressisti e capo redattori tunisini, nel 1992, Awlad Ahmad cominciò a comporre a Casablanca il poema “Il testamento”, che completò in Tunisia e pubblicò su più giornali arabi divenendo celebre nell’intera regione. Fu elogiato dal grande poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008), che lo aveva ispirato più d’ogni altro e con cui condivideva la propensione a raccontare come un cronista attento l’evoluzione storico-culturale della propria società.
Nel 1993, Awlad Ahmad riuscì a realizzare un vecchio sogno nel cassetto, diventando il fondatore e direttore della Maison de la Poésie (Bayt al-Shi‘r), istituita dal ministero della Cultura tunisino. Ben Ali cercava di presentarsi come un grande ammiratore e patrocinatore del poeta della “rivolta del pane”, che aveva preannunciato la fine del regime di Bourghiba, soltanto per promuovere la sua stessa immagine in Tunisia e soprattutto in Occidente. Il dispotico Presidente tunisino introduceva infatti riforme costituzionali puramente cosmetiche per darsi un minimo di parvenza democratica, falsità che diffondeva tramite la propaganda mediatica di Stato, ottenendo così il benestare degli Stati Uniti e dei paesi europei con cui era alleato. Awlad Ahmad era consapevole di questi giochi politici, che denunciava nei suoi testi; quindi, nel 1997, lasciò l’incarico alla Maison de la Poésie. Ripubblicò “Il testamento” in un’omonima raccolta del 2002 e poi lo incluse anche in “Diario della Rivoluzione”, volume che si apre con la poesia “Tunisia: qui e ora”, composta durante la fase iniziale della rivolta nata dalle “ceneri creative” del giovane ambulante Mohamed Bouazizi.
Dopo il successo delle proteste risultate nella fuga di Ben Ali in Arabia Saudita, Awlad Ahmad continuò a partecipare attivamente al processo di democratizzazione della Tunisia. Aveva paragonato la rivoluzione stessa, nata senza un progetto o inquadramento ideologico preciso, a un’opera poetica moderna che, a differenza di una poesia classica, nasce quasi spontaneamente, a partire da un’immagine o una parola viene costruita di giorno in giorno. Awlad Ahmad scriveva nutrendosi dei nuovi stimoli che riceveva man mano dalla realtà che lo circondava e con cui interagiva, usando un linguaggio puntualmente attuale, semplice, incisivo, vicino al colloquiale e spesso provocatorio. Adottò un metodo compositivo legato all’oralità e un lessico richiamante la quotidianità. Si serviva di assonanze e ripetizioni per conferire un ritmo particolare ai suoi componimenti, rendendoli facili da leggere, memorizzare, recitare e cantare. Durante le serate poetiche, con acompagnamento musicale, infatti, il pubblico li cantava insieme al poeta stesso. Awlad Ahmad creò esclusivamente poesie in prosa, ricche di metafore e perlopiù segnate dall’ironia, occupandosi di svariati temi, come l’amore, l’amicizia e la musica, mentre tendeva a improntare all’umorismo nero i testi di denuncia politica e sociale, usando talvolta il gergo giornalistico. Per ragioni che non riguardano lo stile poetico, si sentiva – ed è considerato – erede del già citato Abu al-Qāsim al-Shabbi, giovane poeta romantico, nella vita anticonformista, personaggio scomodo per le autorità governative e religiose tunisine degli anni ’20, e tuttora amato in quanto simbolo di libertà nel mondo arabo in genere.
La vittoria del partito islamista conservatore Ennahdha alle prime elezioni democratiche della Tunisia post-Ben Ali fu una battuta d’arresto del processo rivoluzionario a cui Awlad Ahmad rispose, come sempre, con la scrittura. Nel 2012, espresse le sue idee laiche, criticando apertamente il nuovo governo, durante un programma televisivo, e da lì a poco fu aggredito da alcuni cosiddetti “salafiti”, rappresentanti dell’islamismo più oscurantista. L’autore non smise mai di opporsi al totalitarismo di qualsiasi matrice fosse e alla relativa cultura del terrore; per farlo, usava “le bombe della poesia e i fulmini della prosa”, come lui medesimo definì i suoi strumenti culturali in un post pubblicato su Facebook. Lottò con altrettanta determinazione contro il cancro scoperto troppo tardi e di cui morì il 5 aprile del 2016, proprio il giorno prima del suo sessantunesimo compleanno. Nella prefazione a “Diario della Rivoluzione”, Mohammed-Salah Omri afferma che, dopo Abu al-Qāsim al-Shabbi, con cui condivideva la libertà di spirito, Awlad Ahmad è senz’altro il poeta tunisino più riconosciuto come tale. “Celebrato dalle voci della protesta, bandito dalle autorità politiche e religiose, ribelle nel vero senso del termine, bohèmien ma sempre prolifico”, era stato dagli anni ‘80 in poi l’intellettuale più rappresentativo della cultura della contestazione nella storia della Tunisia indipendente. Pagine Esteri
Per PAGINE ESTERI, Annalisa Comes legge tre componimenti della raccolta “Diario della Rivoluzione” di Mohammed Sgaier Awlad Ahmad: “Tunisia: ora e qui”, “La poesia della farfalla” e “Il testamento”.
Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Oltre a Diario della Rivoluzione, ha tradotto diverse altre opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī e la raccolta poetica L’autunno, qui, è magico e immenso (Il Sirente, 2013) del poeta curdo-siriano Golan Haji. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume: Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2022).
Costanza Ferrini è una comparatista di formazione filosofica, ricercatrice indipendente, saggista e artista. Si occupa di letteratura e cultura contemporanea del Mediterraneo. È stata corrispondente per l’Italia della rivista culturale La pensée de midi. Tra il 1997 e il 2002 ha progettato e curato la sezione letteraria della casa editrice Mesogea. Ha fatto parte per dieci anni del Comitato Scientifico del Festival di Letteratura Mediterranea di Lucera, di cui è stata anche direttrice artistica. Dal 2013, si dedica alla creazione di opere che coniugano scrittura e disegno, sia su argilla che su carta. I suoi lavori sono stati esposti in mostre collettive e personali organizzate in diverse città italiane ed europee. Ha pubblicato la monografia Venature mediterranee. Dialogo con scrittori di oggi (Mesogea, 1999). Oltre a Diario della Rivoluzione di Awlad Ahmad, ha curato molti altri volumi, fra cui la raccolta di poesie e opere d’arte di autrici di vari paesi, Di acqua e di tempo/Of Water and Time (Aiep, 2022), e l’antologia in due volumi Lingue di mare, lingue di terra (Mesogea,1999-2000).
Mohammed-Salah Omri è professore associato di Letteratura Araba e Comparata presso l’Università di Oxford. Si occupa specialmente di narrativa, di studi mediterranei, della percezione moderna dell’Islam in Occidente e di rivoluzioni arabe. Ha pubblicato le monografie: Confluency (Tarafud) Between Trade Unionism, Culture and Revolution in Tunisia (UGTT information and documentation unit, 2016) e Nationalism, Islam and World Literature: Sites of Confluence in the Writings of Mahmud al-Mas’adi (Routledge, 2006). Ha curato: con Mohsen El Khouni e Mouldi Guessoumi, University and society in the context of Arab revolutions and new humanism, (Rosa Luxembourg Foundation, 2016); con Maria Fusaro e Colin Heywood, Trade and cultural exchange in the early Modern Mediterranean: Braudel’s maritime legacy (Tauris, 2010); e The Novelization of Islamic Literatures: the intersections of Western, Arabic, Persian, Urdu and Turkish Traditions in Comparative Critical Studies, 2007.
NOTE
[1] Mohammed Sgaier Awlad Ahmad, Tūnis al-ān wa hunā. Diario della Rivoluzione, a cura di Costanza Ferrini, Prefazione di Mohammed-Salah Omri, tr. Patrizia Zanelli, Lushir, 2011.
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Guerra in Ucraina: gli afroamericani dicono no
Poiché i sondaggi dell’opinione pubblica americana mostrano un forte sostegno per il popolo ucraino e taiwanese in generale, vale la pena notare che in questi sondaggi, gli afroamericani riflettono una resistenza molto maggiore al potenziale impegno militare rispetto ad altri gruppi razziali. Un sondaggio di dicembre condotto dal Consiglio di Chicago ha rivelato che circa […]
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Fitness normativa: TLC vs OTT. Ora che la multa del #GarantePrivacy irlandese a #Meta ha cambiato lo scenario della pubblicità online, 4 Tlc europee ambiscono a rivoluzionare il settore
FITNESS NORMATIVA: TLC VS OTT. ORA CHE LA MULTA DEL #GARANTEPRIVACY IRLANDESE A #META HA CAMBIATO LO SCENARIO DELLA PUBBLICITÀ ONLINE, 4 TLC EUROPEE AMBISCONO A RIVOLUZIONARE IL SETTORE!
Quattro delle più grandi società di telecomunicazioni europee hanno formalmente informato la Commissione europea di una joint venture per costruire una piattaforma tecnologica per la pubblicità digitale, secondo una comunicazione depositata, pubblicata lunedì (9 gennaio).
Secondo il documento pubblicato un gruppo di pesi massimi delle telecomunicazioni, tra cui Deutsche Telecom, Orange, Telefonica e Vodafone, vuole "offrire una soluzione di identificazione digitale a norma privacy per supportare le attività di marketing e pubblicità digitale di marchi ed editori".
L'articolo di Luca Bertuzzi continua su Euractiv
Big European telecom operators seek EU antitrust clearance for online advertising bid
Four of Europe’s largest telecom companies formally informed the European Commission of a joint venture to bLuca Bertuzzi (EURACTIV)
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Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 23 gennaio 2023, Prato
23 gennaio 2023, ore 19:00 – Ex Chiesa di San Giovanni, Via San Giovanni, 9 – Prato
intervengono
ANDREA CANGINI
BENEDETTA FRUCCI
MARCO MARIANI
moderano
PASQUALE PETRELLA, IL Tirreno
NADIA TARANTINO, Notizie di Prato
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Ucraina e all-domain. Il primo Consiglio supremo di Difesa dell’era Meloni
Dalla situazione sul campo in Ucraina, agli equilibri geopolitici del Mediterraneo, passando per l’esame sull’efficienza dello strumento militare nazionale fino alle indicazioni sul rapporto con le alleanze di riferimento, Nato e Ue. Sono alcuni dei temi trattati dal Consiglio supremo di Difesa, presieduto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il primo del nuovo governo guidato da Giorgia Meloni. La riunione, inizialmente prevista per dicembre dell’anno scorso, era stata rimandata a causa della positività al Covid di Mattarella. Oltre al Capo dello Stato e al presidente del Consiglio, al vertice hanno partecipato i ministri della Difesa, Guido Crosetto; dell’Interno, Matteo Piantedosi; degli Esteri, Antonio Tajani; dell’Economia, Giancarlo Giorgetti; delle Imprese, Adolfo Urso; il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano; il capo di stato maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone; il segretario del Consiglio supremo di Difesa, Francesco Garofani; e il segretario generale della presidenza della Repubblica, Ugo Zampetti. L’occasione ha anche permesso al presidente Mattarella di rinnovare la soddisfazione per l’arresto di Matteo Messina Denaro, esprimendo le sue congratulazioni al ministro dell’Interno, all’Arma dei Carabinieri, a tutte le Forze dell’ordine e alla magistratura
Guerra in Ucraina
Il vertice si svolge a quasi un anno di distanza dall’inizio dell’invasione russa, e anticipa il prossimo vertice del Gruppo di contatto per l’Ucraina previsto presso la base aerea statunitense di Ramstein, in Germania, il 20 gennaio, a cui parteciperà il ministro Crosetto, e che dovrà decidere degli ulteriori aiuti da inviare a sostegno delle forze armate ucraine. Tra i differenti temi in agenda, oltre alla questione degli armamenti pesanti più volte richiesti da Kiev, ci sarà la questione delle batterie anti-missile Samp/T, un argomento che riguarda da vicino il nostro Paese. Nel corso del Consiglio di Difesa, che ha ribadito la condanna all’aggressione russa, rinnovando la volontà del Paese a continuare il sostegno al popolo ucraino per la difesa del proprio territorio.
Attenzione al Mediterraneo
Particolare attenzione è stata data allo scenario del Mediterraneo allargato, la principale area di interesse strategico italiano, e a quelle aree di crisi dove sono coinvolte le Forze armate italiane. In particolare è stato sottolineato come la presenza russa in diverse regioni già fragili, dalla Libia al Sahel, dal Medio oriente ai Balcani, stia causando l’aggravarsi dell’instabilità, con potenziali ripercussioni sugli scenari di sicurezza dell’intero bacino. Di fronte a queste crisi, il Consiglio ha rinnovato il suo appello alla Nato affinché “riservi adeguata attenzione anche al Fronte Sud dell’Alleanza”
La Difesa europea
Oltre all’architettura atlantica, il Consiglio è intervenuto anche sul tema della costruzione di una dimensione europea della Difesa comune. In quest’ottica, il Consiglio ha sottolineato la necessità di procedere alla promozione dello sviluppo di capacità militari in “modo cooperativo, anche nell’ottica di una razionalizzazione della spesa degli Stati membri per la difesa”.
Ammodernamento dello Strumento militare
Il Consiglio è stato anche l’occasione per fare un punto sullo stato di efficienza dello strumento militare nazionale, durante il quale sono state presentante le esigenze che si intende garantire dalle Forze armate, anche alla luce delle necessità di interazione con gli alleati europei e, soprattutto, della Nato. In questo senso, il Consiglio ha fatto emergere l’esigenza che la strategia d’impiego delle Forze armate italiani “coniughi sempre due linee d’azione parallele: quella operativa e quella cooperativa”. Un’integrazione interforze che faccia della interoperabilità delle Forze armate un punto centrale dell’azione della Difesa italiana. Un importante riconoscimento dell’importanza rivestita dall’azione multi-dominio da tempo intrapresa dalle Forze armate, che dovrà essere sostenuta anche dall’avanzamento tecnologico garantito dalla base industriale del Paese.
Irish Data Protection Authority gives € 3.97 billion present to Meta. Authority allegedly unable to assess financial benefit from Meta's GDPR violations.
L'Autorità irlandese per la protezione dei dati personali consegna a Meta 3,97 miliardi di euro. L'Autorità non sarebbe in grado di valutare i benefici finanziari derivanti dalle violazioni del GDPR da parte di Meta. Il DPC ha chiuso un occhio sui ricavi generati da Meta dalla violazione del GDPR dal 2018. Ignorando la richiesta dell'EDPB di includere le entrate illecite di Meta, ha ridotto la multa di 3,97 milioni di euro.
Prova di invio con menzione @ alla comunità feddit test e successiva menzione con @ al forum libri di poliverso
@Test: palestra e allenamenti :-)
Testo testo
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Informa Pirata
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