Iran: successione a Khamenei, i leader iraniani possono reinventare la Repubblica Islamica?
Il leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha 83 anni. E mentre ha vissuto abbastanza a lungo per assistere al 44° anniversario della rivoluzione iraniana, la lotta per succedergli non può essere lontana. Anzi, è già iniziato. Tutti i partiti chiave, non ultimo l’establishment clericale radicale, stanno ora manovrando per sostenere i loro candidati preferiti […]
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70 anni di Massimo Troisi: con la sua dolcezza fece gran chiasso
Il 19 febbraio prossimo, Massimo Troisi, avrebbe festeggiato i suoi 70 anni, essendo nato il 19 febbraio del 1953 a S. Giorgio a Cremano, a due passi da Napoli. Il mondo del cinema e quanti hanno voluto bene a questo attore dotato di un umorismo straordinario, surreale, ironico, lo festeggerà in vari modi: ricordandolo, proiettando […]
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Come studiare la pirateria spaziale a danno dell’umanità!
«A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca». È una delle tante frasi attribuite a Giulio Andreotti. Che sia sua o no, importa poco, ma una cosa è certa. Quanto il vecchio statista italiano avrebbe avuto ragione se avesse saputo che il 4 gennaio scorso è andato in briciole Cosmos 2499, causando […]
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Latinoamericana di Ernesto “Che” Guevara
Questo diario è il resoconto del lungo viaggio in moto attraverso l’America Latina intrapreso dal “Che” – ancora studente della facoltà di medicina – con il suo amico e compagno di studi Alberto Granado, tra il ‘51 e il ‘52.
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Italia e Grecia, tutti i dettagli dell’accordo Fincantieri-Leonardo
Il programma delle corvette della marina ellenica è uno degli obiettivi del memorandum d’intesa (MoU) siglato in Grecia da Fincantieri e Leonardo, a dimostrazione di una oggettiva vitalità dei players italiani che hanno, non solo la possibilità di avviare una possibile catena di fornitura in Grecia, ma anche di implementare l’accordo con Onex Shipyards & Technologies Group per la creazione di una linea di produzione e manutenzione di corvette lungo tutto il loro ciclo di vita, presso i cantieri ellenici di Elefsis. Più in generale, questa rinnovata cooperazione con l’ecosistema industriale ellenico si inserisce in un momento nevralgico delle iniziative nel Mediterraneo, dove l’Italia è protagonista.
Base Elefsis
Onex Elefsis Shipyards diventerebbe punto cardine “della strategia di Fincantieri qualora il Gruppo, in qualità di prime contractor, si aggiudicasse il programma delle corvette della Marina ellenica promosso dal Ministero della Difesa greco”, recita una nota del colosso italiano. Per questa ragione il Memorandum of Cooperation (MoU) è stato sottoscritto con otto società greche; Sunlight Group Energy Storage Systems S.A.; Eneral Commercial And Industrial S.A.; Farad S.A. Heat Exchangers; Environmental Protection Engineering S.A.; G. Ligeros O.E. (Psyctotherm); Ssa S.A.; Elfon; Tecross S.A.
La tempistica assume ancora più rilevanza dal momento che, come confermato da fonti diplomatiche, il governo conservatore guidato da Kyriakos Mitstotakis punta a chiudere l’ultimo grande programma di equipaggiamenti prima delle elezioni politiche previste nel mese di aprile. I due pretendenti del programma, l’italiana Fincantieri e il gruppo navale francese già collaborano con i due principali cantieri navali del Paese: due mesi fa avevano presentato le loro proposte migliorative per tre corvette, con un budget in entrambi i casi ridotto a 1,65 miliardi di euro, mentre entrambe le parti avevano presentato proposte per coprodurre le navi nei cantieri greci, con Fincantieri che si era alleata con Elefsina Cantieri Navali e i francesi con i Cantieri Navali Skaramangas e il gruppo cantieristico di G. Prokopios. La mossa italiana va nella direzione di coinvolgere maggiormente le aziende greche negli appalti, passaggio che verrà pesato dal governo nella valutazione dei due candidati.
Scenari
Tra l’altro i Cantieri Navali Elefsina sono attesi a breve dalla conclusione del processo di riorganizzazione, con la decisione del tribunale di accelerare la loro messa a regime e quindi renderli operativi entro quattro mesi: il che significa procedere, parallelamente, anche ad accordi con aziende high-tech americane per la rete 5G.
Inoltre entro il 2026 la Marina Ellenica cambierà volto: verranno aggiornate quattro navi pattuglia di classe Machitis (HSY56A) e quattro Mk V SOC, con Spike NLOS di Rafael e ER II ATGM e un sensore elettro-ottico; i quattro sottomarini AIP di classe Papanikolis (Tipo 214HN) e l’unico Okeanos (Tipo 209/1500) riceveranno nuovi siluri Seahake Mod 4 e i sistemi di lancio di esche Leonardo per l’autoprotezione contro le minacce.
Inoltre quattro elicotteri P3 Orion MPA & SIGINT saranno aggiornati e fortemente modernizzati assieme a sette elicotteri MH-60R . L’obiettivo del governo è quello di costruire entro il 2034 una moderna forza navale con 12 fregate, 6 corvette e 8 sottomarini proprio mentre ai 18 caccia Rafale acquistati dalla Francia si sommeranno anche gli F35 (non si sa ancora quanti), come ammesso dal senatore americano Bob Menendez.
Una mossa che nasce cinque anni fa, quella di rimodernare le forze armate greche, quando la consapevolezza del peso specifico ellenico agganciata a doppia mandata al dossier energetico legato ai gasdotti si è tramutata da semplice analisi a obiettivo geopolitico.
@FDepalo
#Fincantieri and #Leonardo signed a number of MoU with potential new Greek suppliers, setting basis for possible long term business relationships. The event took place today in the Onex #Elefsis Shipyards, the cornerstone site of the Group's strategy.t.co/sSs4E2kj8P pic.twitter.com/S9nBux8xMy
— Fincantieri (@Fincantieri) February 13, 2023
HONDURAS. Tra violenza e povertà, i tentativi di un governo che non comanda
di Andrea Cegna* –
Pagine Esteri, 14 febbraio 2023 – “Vivere in Honduras oggi è come essere condannati alla pena di morte” dice Itsmania Platero, giornalista esperta in diritti umani “significa vivere nel costante timore di non sapere cosa ti potrà accadere il giorno dopo”. Potente riassunto di almeno 50 anni di storia di un paese dove le persone che lo vivono si trovano a combattere quotidianamente tra la violenza e la povertà, ovvero il risultato delle scelte politiche ed economiche che hanno segnato l’Honduras a partire dagli anni ’70.
Tegucigalpa, la capitale, è un bigino del paese. Il centro si sviluppa attorno alla piazza della chiesa, da cui parte una corta strada che collega alla via commerciale. Poche centinaia di metri di strada chiusa al passaggio delle macchine, piena di negozi, due banche e molte persone. L’effimera e diurna sicurezza di questi pochi metri è “garantita” da decine e decine di poliziotti armati. Si vedono pochi turisti che sono per lo più centro americani. Occidentali affollano le zone di mare e per motivi di lavoro si trovano nelle città e nelle loro vicinanze. Il paese è stato colonizzato dalle multinazionali di tutto il mondo così le grandi catene la fanno da padroni e a differenza di quanto si vede in Messico o Guatemala è più difficile, nei centri urbani, incontrare venditori ambulanti e cibo di strada. Economie informali che riempiono le più zone povere della città a differenza della sporcizia che è generalizzata.
Nel centro di Tegucigalpa cumuli di spazzatura convivono con un traffico selvaggio che si alimenta con l’assenza di semafori. L’aeroporto internazionale si trova a San Pedro Sula, capitale economica del paese.
Non c’è taxista, nelle due principali città, che non racconti di assalti notturni, furti o di amici uccisi per poche lempiras da membri delle bande del crimine organizzato. Quando fa buio le città si svuotano per la paura di aggressioni.
I problemi economici alimentano il fenomeno della criminalità, l’aumento della criminalità aumenta l’insicurezza, e così l’Honduras è uno dei paesi con il più alto tasso di migrazione del mondo. “La povertà è una dato strutturale del paese” racconta Bartolo Fuentes, politico e giornalista, “povertà che negli anni di governo dittatoriale di Juan Orlando Hernandez è cresciuta enormemente. Oggi parliamo di un 74% della popolazione che vive in povertà, il 47% addirittura in maniera estrema”. Ed è così che aspettando la notte, ogni giorno, un numero variabile di persone prova a partire alla volta degli USA. Chi prova il grande viaggio si concentra attorno alla stazione dei bus di San Pedro Sula. Lì sono nate le carovane migranti, a partire dal 2018, che hanno avuto “il fondamentale ruolo di rendere visibile il fenomeno, un processo che esisteva da anni ma che era di fatto invisibilizzato” ricorda sempre Bartolo Fuentes. Le carovane secondo il politico honduregno sono state anche uno strumento che ha reso possibile anche ai poverissimi, “anche a chi non aveva nemmeno i soldi per prendere un bus per il Guatemala”, di provare a migrare. La povertà dell’Honduras e la svendita del paese non iniziano il 28 giugno del 2009 con il colpo di stato che destituisce il democraticamente eletto presidente Manuel Zelaya, e nemmeno nel 2014 con la vittoria alle elezioni di Juan Orlando Hernandez e così l’inizio di quello che viene definito “narco-governo”, giustificando l’idea di “stato fallito” e così togliendo le responsabilità storico-politiche che hanno generato l’attuale situazione. Bisogna tornare agli anni del Plan Condor e alla violenta azione colonialista degli USA sul centro e sud del continente Americano. L’Honduras, poi, dopo la vittoria Sandinista in Nicaragua, è stato considerato dagli Stati Uniti un avamposto di controllo del territorio, nonché luogo di formazione dei “contras” con tanto d’insediamento di basi militari. Questo scenario di asservimento agli USA si è dato negli anni, partendo dai colpi di stato del 1963 e del 1974. La storia dell’Honduras viene così segnata con violenza, omicidi e desaparecidos. A tenere alta la memoria e il collegamento storico-politico con l’oggi è la resistenza di organizzazioni come il Cofadeh (Comitato dei parenti degli scomparsi in Honduras), ONG nata nel 1982 dal coraggio di 12 famiglie di desaparecidos. Bertha Oliva de Nativì, una delle fondatrici, ricorda “l’organizzazione è nata come risposta alla dottrina di Sicurezza Nazionale che perseverando con forme di violenza simili a quelle della dittatura ha imposto il nefasto progetto neoliberista nel nostro paese”. Bertha sottolinea che la storia dell’Honduras è segnata dall’impunità e dalla corruzione “così la grande maggioranza del paese si trova in una posizione di svantaggio nei confronti di chi detiene il potere politico. Ma la verità è che nel paese chi comanda è chi ha il potere economico, militare e religioso che poi è chi controlla davvero la struttura statale. Dentro questa dinamica esiste una stretta relazione tra gli anni ’80 e il colpo di stato del 2009. Viviamo così ancora in una fase di incertezza perchè i poteri economici e la struttura criminale che li sostiene sono immutati, non sono stati smantellati”. Per Bertha l’arrivo al potere di Castro apre ad una fase di transizione, importante, che deve essere sostenuta dalle organizzazioni sociali, ma che può funzionare solo se allo stesso tempo il governo saprà ascoltare i movimenti sociali, “perchè se questo governo dovesse fallire, allora le diverse forze reazionarie di cui ho parlato avrebbero trionfato ancora e guadagnato altri quattro anni”. Per combattere violenza e corruzione il governo Castro ha lanciato una crociata contro i gruppi criminali che in alcuni quartieri, soprattutto di San Pedro Sula e Tegucigalpa, seminano il terrore e si fanno guerra. Una crociata sulla scia di quanto fatto da Bukele in Salvador ma, ad ora, con l’attenzione a non cancellare i diritti umani lasciando margine extra giudiziale alle forze armate – come avviene invece nel paese vicino – e a sviluppare, contemporaneamente, forme di Potere Popolare. Sergio Rivera, delegato del governo sul tema, dice “l’idea di questo governo è quella di non proporre progetti di assistenzialismo ma sviluppare progetti virtuosi e forme di economia popolare”. Un progetto in divenire, difficile e ambizioso, che risponde alla lettura secondo cui sia il radicamento dei gruppi criminali sia la crescita dei flussi migratori siano il risultato della svendita del paese, dell’insicurezza e della povertà. Anche perché, ricorda sempre Sergio Rivera “Libre e Castro hanno vinto le elezioni, ma non hanno il potere. Il potere è altra cosa, il potere è avere la possibilità di cambiare la realtà. Chi comanda ancora nel paese sono gli oligarchi e le forze armate”. Nella consapevolezza che il cambio di governo non è sufficiente a cambiare l’Honduras ci sono diversi gruppi che resistono e cercano di costruire forme d’alternative e autonomia. Ci sono le popolazioni Lenca, per esempio, che con il Copinh, organizzazione nata da Berta Caceres, difendono il loro territorio dalle multinazionali. Poi c’è la popolazione Garifuna che si divide nel territorio in 47 comunità e lotta per recuperare le terre a loro sottratte.
Nel 1979 hanno fondato l’OFRANEH, l’Organizzazione Fraternale Negra Honduregna, per difendersi dai continui attacchi che solo nel gennaio 2023 sono costati la vita di tre donne e un uomo. Secondo Roni Castillo, membro dell’organizzazione, la vittoria di Castro ha portato una ventata di ottimismo ma “per ora molto poco abbiamo visto del cambio che abbiamo sperato. Abbiamo anche subito recentemente uno sgombero molto violento da parte della polizia, polizia comandata dalla Presidente. Noi non perdiamo la speranza ma abbiamo la necessità, assieme alle comunità, di vedere riconosciuti i diritti umani e collettivi delle nostre popolazioni. Per questo lottiamo in rete con le altre popolazioni indigene e nere dell’Honduras, così da difendere i nostri percorsi di rivendicazione e costruire forme d’autonomia e autogestione”.
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*Andrea Cegna, classe 1982. Da qualche anno è pubblicista, da diversi redattore di Radio Onda d’Urto e capita di leggerlo, o ascoltarlo, anche altrove da Il Manifesto a Radio Popolare. Si occupa principalmente di Latino America, musica, sviluppo urbano e ideologia del decoro.
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Meno festa, più guerra. La Danimarca dice “no”
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 13 febbraio 2023 – Ormai, ovunque, la parola d’ordine è aumentare le spese militari, e per trovare risorse aggiuntive molti governi non si fanno scrupoli a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare. Alcuni esecutivi, poi, pur di fare cassa orchestrano soluzioni “creative”.
Via il “Grande giorno della preghiera”
È il caso del nuovo governo danese che, pur di rastrellare fondi da destinare al bilancio della Difesa, ha deciso di abolire lo “store bededag”, il “Grande giorno della preghiera”.
La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, due formazioni rispettivamente di centrodestra e di centro – ha inserito la cancellazione della festività nel programma di governo, insieme ai tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati.
L’esecutivo assicura che la misura porterebbe a maggiori introiti per lo stato di 430 milioni di euro, che permetterebbero al paese di portare la spesa militare al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza Atlantica – già nel 2030, raggiungendo l’obiettivo con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato nel marzo 2022 da socialdemocratici, Partito Socialista-Popolare, Liberali e Conservatori.
Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla “minaccia russa” e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. A gennaio, tra l’altro, un rapporto semestrale della NATO criticava la Danimarca per non aver investito sufficienti risorse nelle sue forze armate.
La Danimarca dice no
Ma il disegno di legge presentato dalla coalizione di governo ha scatenato nel piccolo paese nordico una levata di scudi generalizzata. Secondo un recente sondaggio ben il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti.
Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.
La protesta dei sindacati
In piazza sono scesi, soprattutto, i militanti della FH, la Confederazione dei Sindacati, un’organizzazione che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste.
La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Genera indignazione il fatto che l’esecutivo abbia scelto di penalizzare la classe lavoratrice per recuperare risorse da destinare alla spesa bellica.
«Non credo sia un problema dover lavorare un giorno in più. Stiamo affrontando enormi spese per la difesa e la sicurezza» ha detto Mette Frederiksen presentando al parlamento il proprio programma di governo. Ma i sindacati insistono nel difendere un giorno di riposo, per quanto la Danimarca sia tra i paesi europei in cui si lavora meno ore. «Abbiamo bisogno di tempo per riprenderci fisicamente e mentalmente, e per concentrarci sulle nostre famiglie e su noi stessi» ha spiegato all’emittente pubblica danese DR un educatore che partecipava alla manifestazione.
Inoltre, ha accusato la segretaria generale della Confederazione dei Sindacati Lizette Risgaard, la decisione del governo attacca il “modello danese”, nel quale la retribuzione e l’orario di lavoro vengono regolati da accordi bilaterali negoziati dalle organizzazioni dei lavoratori e da quelle degli imprenditori, senza l’intervento dello stato. Anche i sindacati dei dipendenti del settore militare hanno protestato contro il provvedimento.
Il no all’escalation
Non mancano poi gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali l’aggiunta di una giornata lavorativa permetterebbe di generare maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone, attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero assai più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Oltretutto nelle scorse settimane, nel tentativo di ammorbidire i sindacati, l’esecutivo ha offerto un aumento dei salari dello 0,45% come compensazione per la perdita di un giorno di ferie pagate.
Una parte dell’opinione pubblica, poi, sia per motivi etici sia politici, rimane contraria all’aumento della spesa militare, anche se alcuni dei partiti della sinistra l’hanno sostenuto nella precedente legislatura e, assieme alle opposizioni di destra, hanno presentato per gonfiare comunque il budget della Difesa che non prevede l’abolizione di una delle undici festività annuali.
Molti manifestanti, domenica scorsa, portavano cartelli che recitavano «Dì no alla guerra».
Il quotidiano Politiken, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un “autogol incomprensibile” il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Già dieci anni fa un altro governo, sempre a guida socialdemocratica, tentò di eliminare lo “store bededag” ma dovette rinunciare a causa delle forti proteste.
Militari dell’esercito danese
Sostegno a Kiev e coscrizione obbligatoria per le donne
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli anche a sei chilometri di distanza.
Come se non bastasse, in un’intervista alla tv pubblica danese, il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen ha affermato che il governo intende imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate.
Attualmente, le donne possono entrare nell’esercito solo su base volontaria mentre se vengono scelti tramite un sistema a sorteggio, gli uomini sono obbligati a prestare il servizio militare; normalmente la naia dura quattro mesi, ma in alcune circostanze può arrivare fino a dodici. Nei fatti, sebbene la legge consenta alle forze armate di imporre il servizio militare, attualmente solo l’1% degli effettivi delle forze armate del paese nordico viene arruolato in questo modo. Evidentemente l’esecutivo sta pensando di aumentare questa quota.
In Europa solo due paesi prevedono la coscrizione militare obbligatoria per le donne: la Norvegia dal 2013 e la Svezia dal 2018. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Elezioni regionali in Lazio e Lombardia: astensione record, l’elettorato stanco dice basta
Elezioni i cui risultati erano ampiamente previsti, prevedibili, scontati. Non è neppure il caso di infierire sui due candidati del Partito Democratico, Alessio D’Amato in Lazio, Pierfrancesco Majorino in Lombardia. Hanno fatto quello che potevano, consapevoli accettato il ruolo di kamikaze, si sono schiantati senza neppure un Mikado da servire. Non c’è stata neppure una […]
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In Cina e Asia – Mar cinese meridionale, Filippine accusano Pechino per attacco laser
I titoli di oggi:
Mar cinese meridionale, Manila accusa Pechino per attacco laser
Post Covid, in Cina tornano laureati e Ceo
Cambogia, Hun Sen chiede la chiusura di Vod
Giappone, l'opinione pubblica si schiera a favore delle coppie omosessuali
Giappone, eletto nuovo governatore della Banca centrale
Caso Adani: alleato di Modi rigetta le accuse: "Niente da nascondere"
Hanoi pronta a collaborare con gli Usa nelle relazioni commericiali sini-vietnamite
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#uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – Alla ribalta della discussione…
Alla ribalta della discussione, i liberali porteranno i seguenti problemi: in primissimo luogo la lotta contro la plutocrazia.
da Lineamenti di una politica economica liberale, Movimento Liberale Italiano, 1943
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Himalayan Seeds – La solitudine dei Bihari nelle baraccopoli di Dhaka
Da quasi 50 anni, più di 300 mila Bihari vivono nelle baraccopoli di Dhaka. La più grande, conosciuta come ‘Geneva Camp’, è solo una dei 66 campi creati dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) negli anni ’70 per proteggere la popolazione bihari dai militanti bangladeshi. Himalayan Seeds, la rubrica sull’universo indiano a cura di Maria Casadei Al momento della ...
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Ucraina: anche un orologio rotto (Berlusconi) segna l’ora giusta due volte al giorno
«Penserei che il Signor presidente americano, Joe Biden, dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli: “È a tua disposizione, dopo la fine della guerra, un Piano Marshall per ricostruire l’Ucraina da 9 mila miliardi di dollari, a una condizione, che tu domani ordini il cessate il fuoco, anche perché noi da domani non vi daremo più dollari […]
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Donne, libertà e diritti umani in Iran
Il 21 febbraio 2023 alle ore 15:00, presso la sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica si terrà la conferenza dal titolo “Donne, libertà e diritti umani in Iran”. Durante l’evento la Fondazione Luigi Einaudi presenterà il suo manifesto “per un Iran libero”.
Il 13 settembre 2022, la donna curda iraniana Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia “morale” iraniana, che regolarmente arresta, detiene arbitrariamente, tortura e maltratta giovani ragazze e donne, secondo loro colpevoli poiché non rispettano l’obbligo di indossare il velo. Mahsa, picchiata violentemente, è morta dopo tre giorni di coma. Da quel giorno su tutto il territorio del Paese dilagano mobilitazioni della società civile e proteste. Le donne dell’Iran manifestano da più di due mesi in nome dei loro diritti fondamentali, tra tutti quello di essere considerate esseri umani e non oggetti o esseri inferiori, quello di essere protagoniste della loro vita e non figure ancillari, quello di essere libere.
Saluti istituzionaliSen. Giulio Terzi di Sant’Agata
Amb. Mark D. Wallace
CEO e fondatore di “PaykanArtCar”
Dr. Hiva Feizi presenta:Masih Alinejad, giornalista e attivista
Hamed Esmaelion
Andrea Cangini,
Segretario Generale della “Fondazione Luigi Einaudi – FLE”, presenta il Manifesto “Per un Iran libero”
Saranno presenti:
Prof. Germano Dottori, analista
Dr. Francesco Galietti, analista
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Migranti: l’odio gentile della destra come male banale
Non crediamo mai abbastanza a ciò in cui non crediamo (M. Conte S. 2004) Accade che nei contrasti tra persone gli animi si scaldino la sudorazione aumenti come il battito cardiaco e l’emotività faccia alterare il tono della voce. In genere percepiamo l’urlìo quale manifestazione esteriore da rifiutare. Poi c’è uno stile più soft suadente […]
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Cina: riapertura improvvisata
La Cina ha avuto un’esperienza sulle montagne russe nell’affrontare la pandemia di COVID-19 dopo l’allentamento della politica COVID-zero. Mentre la situazione ora è gradualmente tornata alla normalità, le prime settimane dalla riapertura della Cina il 7 dicembre 2022 sono state estremamente difficili per milioni di persone nel Paese. Molte città erano affollate di persone che […]
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Ucraina: ‘come son tristi Parigi e Berlino, soltanto un anno dopo…’
“Macron ha indebolito l’Europa”: così la nostra Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha commentato l’improvvisa e imprevista tappa a Parigi, la sera prima dell’ultimo Consiglio Europeo, del leader ucraino Volodymyr Zelensky, per una cena organizzata in tutta fretta dal Capo dello Stato francese in presenza anche del Cancelliere tedesco Olaf Scholz. Le ricostruzioni più accreditate […]
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Gli Stati Uniti hanno bisogno di una politica ferma sull’Iran
Gli Stati Uniti dovrebbero adottare una politica Iran-Russia più ferma, che affronti adeguatamente la partnership in rapida crescita tra il regime iraniano e Mosca su più fronti, compresi quelli militare, strategico, nucleare ed economico. Sfortunatamente, la politica dell’amministrazione Biden riguardo ai legami Iran-Russia sembra aver incoraggiato, o facilitato, la strada per avvicinare Teheran e Mosca. […]
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La Crimea è una polveriera
La più grande minaccia di catastrofe nucleare che l’umanità abbia mai affrontato è ora centrata sulla penisola di Crimea. Negli ultimi mesi, il governo e l’esercito ucraini hanno ripetutamente promesso di riconquistare questo territorio, che la Russia ha sequestrato e annesso nel 2014. L’establishment russo, e la maggior parte dei russi, da parte loro, ritengono […]
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Dall’Alaska un segnale di profondo malessere dello spazio
Una cosa è certa: in questo momento l’intelligence americana è veramente molto occupata a comprendere che cosa sta accadendo sui suoi cieli. Da poche ore, dopo una consultazione tra la Premier canadese Justin Truedeau e il Presidente americano Joe Biden, due F-22 hanno abbattuto una sorte di aerostato, non si conoscono i dettagli, nei cieli […]
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Un’altra stabilità in Europa è possibile
La Commissione europea, dopo una consultazione durata quasi un anno, ha presentato un progetto sorprendentemente ambizioso e in qualche modo rivoluzionario
Questa settimana a Bruxelles inizia la trattativa sul nuovo Patto di stabilità, cioè sulle regole di bilancio che dovranno essere re-introdotte in Europa dopo la sospensione — all’inizio della pandemia — della vecchia versione del Patto. In questa trattativa l’Italia sarà rappresentata dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e dal nuovo direttore del Tesoro, Riccardo Barbieri.
Si partirà dalla proposta della Commissione europea la quale, dopo un processo di consultazione durato quasi un anno, lo scorso novembre ha presentato un progetto sorprendentemente ambizioso e in qualche modo rivoluzionario. Viene abbandonato il Patto basato su rigide soglie numeriche, identiche per tutti i Paesi: l’idea è di sostituirlo con piani di riduzione del debito che la Commissione negozierà con ciascun Paese e che saranno valutati chiedendosi se garantirebbero la sostenibilità del debito.
Una seconda innovazione è la proposta di usare, come strumento per garantire la sostenibilità del debito, il percorso della spesa pubblica al netto degli interessi. Mi pare una scelta saggia perché evita che una recessione, e la caduta del gettito fiscale che la accompagna, possano indurre politiche di bilancio pro-cicliche, cioè strette di bilancio che aggravano la recessione. Un approccio fondato su una regola di spesa e su piani a medio termine produce aggiustamenti meno sensibili alle condizioni economiche del Paese.
Infine, l’orizzonte per la riduzione del rapporto debito-Pil, in principio fissato in 4 anni, diventa anch’esso negoziabile. Il vecchio Patto prevedeva che il rapporto scendesse ogni anno di un ventesimo della distanza tra il livello corrente e il 60%. Con le nuove regole gli Stati membri potranno chiedere rientri più graduali, in cambio di riforme e piani di investimento sorvegliati da Bruxelles.
La proposta della Commissione, che ha molti elementi in comune con il progetto italo-francese proposto da Draghi e Macron nel dicembre 2021, si ispira all’esperienza del Pnrr il cui disegno è molto diverso dal vecchio Patto di stabilità. Il patto lasciava ai Paesi tutte le scelte economiche strategiche limitandosi ad imporre loro un insieme uniforme di regole. Il Pnrr invece affida ai Paesi e alla Commissione, che decidono insieme, la scelta di obiettivi comuni (transizione verde, digitalizzazione, riduzione delle disuguaglianze), con una forte discrezionalità nella formulazione dei piani nazionali tenendo conto della realtà istituzionale di ciascuno Paese.
Vecchio Patto e nuove regole differiscono anche nelle modalità di esecuzione. Con il Patto eventuali deviazioni dagli obiettivi concordati erano affrontate solo tramite la moral suasion, e questa non ha mai funzionato. Nel Pnrr invece il mancato rispetto degli impegni può essere sanzionato con la sospensione dei finanziamenti, e finora questa minaccia sembra essere efficace.
Ma dietro queste differenze fra il vecchio Patto e la nuova proposta vi è un diverso modo di ottenere la riduzione del rapporto fra debito pubblico e Pil. Un primo approccio consiste nell’agire sul deficit, riducendolo: contraendo, cioè, la spesa pubblica o aumentando la pressione fiscale. Se la contrazione del deficit avviene troppo rapidamente, e con un sostegno limitato della politica monetaria, oppure aumentando le tasse anziché tagliando le spese (perché molta spesa pubblica, in primis pensioni e sanità, è difficile da tagliare), si provocherà una recessione con il risultato paradossale che il rapporto tra debito pubblico e Pil, anziché scendere, salirà. Se poi la recessione è particolarmente grave, può avere effetti sul potenziale di crescita dell’economia — scoraggiando la creazione di imprese, l’innovazione tecnologica e l’apprendimento di tecniche nuove da parte dei lavoratori — e così avere benefici limitati anche nel medio/lungo periodo. Questo tipo di aggiustamento è stato adottato dall’Unione europea negli anni delle crisi di debito sovrano (2010-13), generando un’ondata di austerità, con il risultato che alla fine il rapporto debito-Pil anziché ridursi è aumentato: fra il 2011 e il 2013, un periodo di intensa austerità, il rapporto debito-Pil aumentò in Italia dal 120 al 132,5 per cento.
Diversamente si possono mettere in campo politiche economiche per favorire un elevato tasso di crescita dell’economia, sia stimolando gli investimenti, privati e pubblici, sia con riforme che migliorino l’allocazione delle risorse produttive, in primis il lavoro. Evidentemente questa seconda strada è preferibile, visto che aumentare la crescita economica è sempre positivo, anche ignorando gli effetti collaterali sulla sostenibilità del debito pubblico. È però anche un approccio più fragile: affinché un programma di investimenti pubblici abbia effetti duraturi sulla crescita, la scelta del tipo di investimenti è cruciale. Questo significa che la scelta di quali investimenti pubblici e quali riforme attuare durante un programma di riduzione del debito richiede una valutazione attenta e realistica di quanto possano contribuire alla crescita della capacità produttiva nel lungo periodo e non solo alla crescita della spesa totale nel breve periodo.
Nel complesso il Pnrr offre un esempio incoraggiante di questo secondo approccio. La crescita italiana degli ultimi due anni ha portato a una discesa veloce del rapporto debito/Pil: da 155 a 147 in soli tre anni. Parte di questa rapida crescita è dovuta a un effetto di recupero dopo la recessione molto acuta del 2020, e parte della crescita è crescita «nominale» dovuta all’inflazione. Ma è utile ricordare che dopo la recessione del 2009 non si era avuta una ripresa altrettanto veloce e l’inflazione era stata a lungo al di sotto dell’obiettivo della Banca Centrale Europea. È ragionevole supporre che la diversa performance dell’economia italiana negli ultimi due anni sia dovuta in parte significativa al supporto fiscale che il Pnrr consente. Non è certo che gli investimenti pubblici fatti grazie ai fondi del Pnrr portino a crescita duratura, ma sicuramente la selezione degli investimenti e delle riforme che li hanno accompagnati è stata guidata da obiettivi di lungo periodo.
L’interesse dell’Italia è tener fermi due punti: restare allineata con la proposta della Commissione, rivendicandone una qualche paternità; insistere su un modello di riduzione del debito fondato su investimenti e crescita. Se il primo richiede capacità di alleanze, il secondo richiede precisi indirizzi di riforme e altrettanto precisi investimenti pubblici, capaci di attivare anche quelli privati, necessari tanto quanto quelli pubblici.
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Coerranti
Bene collaborare, meno nello sbagliare. Si finisce con il trasformare un successo in un regresso. Conta la realtà: nelle ore in cui si concludeva il Consiglio europeo la Russia scatenava un nuovo e massiccio attacco missilistico. Putin non conosce e riconosce altra strada che quella del massacro, non lascia margini ad alcun negoziato. L’Unione europea ha preso diverse iniziative per aprire una via diplomatica, tutte respinte. Se non c’è la possibilità di negoziare l’Ucraina deve vincere. Questa è la partita. Sono stati commessi tre errori, ci si è trovati a errare insieme, ma insieme si continuerà ad essere erranti, assieme in cammino. I tre errori sono poca cosa rispetto al rinnovato successo: l’Occidente e l’Ue restano compatti, al fianco degli aggrediti.
La decisione di inviare armi all’Ucraina è caldeggiata e condivisa dalle istituzioni dell’Unione, ma è una decisione nazionale. Ciascuno decide per le proprie armi, senza vincoli esterni. Il che comporta delle differenze, anche perché diversi sono i rispettivi arsenali, e può portare a un coordinamento a geometria variabile. E, del resto, quando i leaders di Francia, Germania e Italia andarono assieme a Kiev, in treno, 24 capi di Stato o governo erano assenti. Non per questo “esclusi”. Per Meloni lamentare il mancato invito ad un incontro, all’Eliseo, è stato un errore. Poche ore prima i ministri della difesa di Francia e Italia avevano concordato il da farsi. Se il tedesco si fosse sentito “escluso” avrebbe sbagliato.
Un errore lo ha commesso anche il presidente francese, Macron. Era ragionevole che Zelensky vedesse separatamente il capo del governo britannico, essendo un importante fornitore di aiuti ed esterno all’Ue. Era anche ragionevole che incontrasse le guide di Francia e Germania, che forniscono armi che altri non inviano. Ma non è ragionevole che a un rilievo (sbagliato) Macron risponda che c’è un ruolo speciale di Francia e Germania, perché conosciamo la storia, conosciamo i numeri, ma dentro l’Ue non sono previste specialità. E siccome Macron è fra i più europeisti dei governanti europei, non gli sarà difficile riconoscere l’errore.
Un terzo errore lo ha commesso Zelensky, che in quanto invitato poteva tenersi fuori dalla polemica sugli inviti, ma ha voluto dire che con Macron e Scholz sono stati discussi temi di cui non si può parlare. Allora non lo dire. Perché questo non sposterà di un capello la posizione italiana o di altri europei, ma rischi e costi li corriamo e sosteniamo tutti, sicché ci sono le sedi adatte per parlare senza comiziare.
Questo tris è stato mal giocato, ma resta roba da poco rispetto allo scenario: fin qui si è aiutata l’Ucraina a resistere all’invasione e le armi sono servite ad evitare una vittoria russa (che per ciò stesso ha perso) e lasciare lo spazio ai negoziati, ma se i negoziati vengono esclusi dall’aggressore allora le armi non serviranno più solo a difendersi, ma a vincere. Lo ha capito bene un vecchio conoscitore del mondo, Kissinger, che stupisce sempre per la lucidità e non si smentisce mai in quanto a realismo. Ma questo porta anche a potere considerare l’attacco ucraino alla Crimea, cosa di cui scrive Lenzi a pagina quattro. Stiamo parlando di un passaggio destinato a segnare la storia dei decenni a venire. Chi se ne frega dell’invito, dell’errore e della replica.
Non c’è alternativa sensata al procedere assieme, come europei. C’è una convenienza politica ed economica a farlo integrando le difese e le industrie per la difesa. Non ci sono schieramenti alternativi in Ue (non i Paesi di Visegrad, visto che Polonia e Ungheria sono agli antipodi). Può esserci il rattrappimento nelle propagande vernacolari, fatte da crestuti che credono d’essere galli e sono invece polli.
Ciascuno rappresenta idee e interessi. È normale. I guai cominciano quando ciascuno vuol far vedere che sta rappresentando determinate idee o interessi. A quel punto non mira più al risultato, ma alla rappresentazione. Che sarà quella di un fallimento.
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Giudici e pm: la norma attuale è ipocrita. La separazione delle carriere serve subito – Gazzetta di Reggio
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Lavorare per conusmare di più | Comune-info
"Non è una teoria complottista quella che vede i consumatori ultimi ingranaggi di un meccanismo che punta a massimizzare produzione e profitti (per pochi) impoverendo la maggior parte di noi. L’esplosione di servizi finanziari, anche particolarmente rischiosi, per rateizzare in ogni modo i pagamenti ne rappresentano il suggello."
Meno festa, più guerra. La Danimarca dice “no”
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 13 febbraio 2023 – Ormai, ovunque, la parola d’ordine è aumentare le spese militari, e per trovare risorse aggiuntive molti governi non si fanno scrupoli a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare. Alcuni esecutivi, poi, pur di fare cassa orchestrano soluzioni “creative”.
Via il “Grande giorno della preghiera”
È il caso del nuovo governo danese che, pur di rastrellare fondi da destinare al bilancio della Difesa, ha deciso di abolire lo “store bededag”, il “Grande giorno della preghiera”.
La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, due formazioni rispettivamente di centrodestra e di centro – ha inserito la cancellazione della festività nel programma di governo, insieme ai tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati.
L’esecutivo assicura che la misura porterebbe a maggiori introiti per lo stato di 430 milioni di euro, che permetterebbero al paese di portare la spesa militare al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza Atlantica – già nel 2030, raggiungendo l’obiettivo con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato nel marzo 2022 da socialdemocratici, Partito Socialista-Popolare, Liberali e Conservatori.
Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla “minaccia russa” e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. A gennaio, tra l’altro, un rapporto semestrale della NATO criticava la Danimarca per non aver investito sufficienti risorse nelle sue forze armate.
La Danimarca dice no
Ma il disegno di legge presentato dalla coalizione di governo ha scatenato nel piccolo paese nordico una levata di scudi generalizzata. Secondo un recente sondaggio ben il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti.
Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.
La protesta dei sindacati
In piazza sono scesi, soprattutto, i militanti della FH, la Confederazione dei Sindacati, un’organizzazione che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste.
La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Genera indignazione il fatto che l’esecutivo abbia scelto di penalizzare la classe lavoratrice per recuperare risorse da destinare alla spesa bellica.
«Non credo sia un problema dover lavorare un giorno in più. Stiamo affrontando enormi spese per la difesa e la sicurezza» ha detto Mette Frederiksen presentando al parlamento il proprio programma di governo. Ma i sindacati insistono nel difendere un giorno di riposo, per quanto la Danimarca sia tra i paesi europei in cui si lavora meno ore. «Abbiamo bisogno di tempo per riprenderci fisicamente e mentalmente, e per concentrarci sulle nostre famiglie e su noi stessi» ha spiegato all’emittente pubblica danese DR un educatore che partecipava alla manifestazione.
Inoltre, ha accusato la segretaria generale della Confederazione dei Sindacati Lizette Risgaard, la decisione del governo attacca il “modello danese”, nel quale la retribuzione e l’orario di lavoro vengono regolati da accordi bilaterali negoziati dalle organizzazioni dei lavoratori e da quelle degli imprenditori, senza l’intervento dello stato. Anche i sindacati dei dipendenti del settore militare hanno protestato contro il provvedimento.
Il no all’escalation
Non mancano poi gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali l’aggiunta di una giornata lavorativa permetterebbe di generare maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone, attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero assai più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Oltretutto nelle scorse settimane, nel tentativo di ammorbidire i sindacati, l’esecutivo ha offerto un aumento dei salari dello 0,45% come compensazione per la perdita di un giorno di ferie pagate.
Una parte dell’opinione pubblica, poi, sia per motivi etici sia politici, rimane contraria all’aumento della spesa militare, anche se alcuni dei partiti della sinistra l’hanno sostenuto nella precedente legislatura e, assieme alle opposizioni di destra, hanno presentato per gonfiare comunque il budget della Difesa che non prevede l’abolizione di una delle undici festività annuali.
Molti manifestanti, domenica scorsa, portavano cartelli che recitavano «Dì no alla guerra».
Il quotidiano Politiken, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un “autogol incomprensibile” il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Già dieci anni fa un altro governo, sempre a guida socialdemocratica, tentò di eliminare lo “store bededag” ma dovette rinunciare a causa delle forti proteste.
Militari dell’esercito danese
Sostegno a Kiev e coscrizione obbligatoria per le donne
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli anche a sei chilometri di distanza.
Come se non bastasse, in un’intervista alla tv pubblica danese, il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen ha affermato che il governo intende imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate.
Attualmente, le donne possono entrare nell’esercito solo su base volontaria mentre se vengono scelti tramite un sistema a sorteggio, gli uomini sono obbligati a prestare il servizio militare; normalmente la naia dura quattro mesi, ma in alcune circostanze può arrivare fino a dodici. Nei fatti, sebbene la legge consenta alle forze armate di imporre il servizio militare, attualmente solo l’1% degli effettivi delle forze armate del paese nordico viene arruolato in questo modo. Evidentemente l’esecutivo sta pensando di aumentare questa quota.
In Europa solo due paesi prevedono la coscrizione militare obbligatoria per le donne: la Norvegia dal 2013 e la Svezia dal 2018. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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ThinkingRaven
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