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Internet veloce? Provate i modulatori plasmonici


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Laurenz Kulmer, ricercatore dell’Eth di Zurigo che ha guidato gli esperimenti sui modulatori plasmonici per la comunicazione ottica iperveloce. Crediti: Eth

Se avete la fibra a casa, riuscirete a scaricare dati con una velocità fino a 1Gb al secondo. Per quasi qualunque navigazione o download domestico, in pratica, non dovrete aspettare quasi nulla. Immaginate ora, invece, di avere la capacità di scaricare dati fino a 400 Gb al secondo, e di poter raggiungere anche 1 Tb al secondo: per riuscirci servono particolari convertitori di segnale chiamati modulatori plasmonici, come hanno dimostrato alcuni ricercatori guidati da Laurenz Kulmer dell’Eth di Zurigo. Dispositivi che potrebbero risultare utilissimi nelle future comunicazioni spaziali. Kulmer presenterà questo risultato al Frontiers in Optics + Laser Science, che si terrà dal 23 al 26 settembre 2024 presso il Colorado Convention Center di Denver. Media Inaf l’ha intervistato per capire qualcosa di più di questa nuova frontiera della comunicazione ottica.

Un po’ come essere ai cento all’ora in tangenziale e venire superati da un razzo che sta lasciando l’atmosfera terrestre ai 400mila chilometri all’ora. Ma cosa sono questi modulatori plasmonici e come fanno ad essere così veloci?

«Le telecomunicazioni ottiche sono la spina dorsale di Internet come lo conosciamo: innumerevoli fibre che collegano i server di tutto il mondo in modo economico e ad alta velocità. Queste fibre trasmettono le informazioni sotto forma di luce. I modulatori in generale sono un elemento costitutivo delle telecomunicazioni ottiche. Sono necessari per trasferire il segnale digitale, ad esempio 0 e 1, su una lunghezza d’onda ottica. A causa di limitazioni fisiche, questi dispositivi sono solitamente lunghi diversi cm. I modulatori plasmonici sfruttano una proprietà fisica che consente di ridurre le dimensioni dei dispositivi al di sotto del micrometro. Grazie a questo design del dispositivo, è possibile raggiungere frequenze ultraelevate, dell’ordine di centinaia di GHz. Ciò significa che i modulatori plasmonici possono trasferire gli zeri e gli uni su una lunghezza d’onda ottica più velocemente di qualsiasi altra tecnologia di dispositivi fino a oggi. In questo modo, è possibile trasportare più informazioni per fibra. Abbiamo quindi esplorato queste proprietà nei sistemi di comunicazione ottica classici, sulla Terra, raggiungendo velocità superiori a 400 Gb al secondo».

E per quanto riguarda l’applicazione spaziale?

«Il canale ottico nello spazio libero offre proprietà uniche, come una minore non linearità rispetto ai sistemi basati sulle fibre. Ciò rende i modulatori plasmonici particolarmente interessanti per questo ambiente e per un futuro utilizzo nello spazio».

La tecnologia attuale consente già di costruire un prototipo per testare questo tipo di comunicazione nello spazio, ad esempio sulla Iss?

«Attualmente abbiamo parzialmente testato i nostri dispositivi con la tecnologia delle radiazioni (in inglese radiations technology, ndr) e la modalità a 4K con buoni risultati. Ciò consentirebbe di costruire un prototipo che in futuro potrebbe andare ad esempio sulla Iss. Tuttavia, prima di inviare il prototipo nello spazio, bisognerebbe testare l’intero imballaggio, i collegamenti e i componenti del sistema per il volo spaziale».

E per quanto riguarda i costi rispetto alla tecnologia attualmente in uso? Potrebbe fare un breve confronto tra le due?

«È difficile confrontare i prezzi, perché i modulatori plasmonici sono ancora oggetto di ricerca e non sono prodotti in serie rispetto ad altre tecnologie. Confrontando i prezzi della ricerca, attualmente i modulatori plasmonici non sono più costosi di altri modulatori ad alta velocità. In futuro, con l’aumento delle capacità produttive, si prevede che il costo dei modulatori diventerà più basso».



Lo zampino dell’energia oscura primordiale


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Secondo un nuovo studio, l’energia oscura potrebbe aver innescato la formazione di numerose galassie luminose molto presto nell’universo. La misteriosa forza ancora sconosciuta potrebbe aver fatto sì che i primi semi di galassie (raffigurati a sinistra) facessero germogliare molte più galassie luminose (a destra) di quanto previsto dalla teoria. Crediti: Josh Borrow/Thesan Team

Secondo un nuovo studio condotto da fisici del Mit e pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’energia oscura primordiale potrebbe risolvere due dei più grandi enigmi della cosmologia moderna e colmare alcune importanti lacune nella nostra attuale comprensione di come si è evoluto l’universo. Uno degli enigmi in questione è la tensione di Hubble, una discrepanza nelle misurazioni della velocità di espansione dell’universo. L’altro riguarda le recenti osservazioni di numerose galassie luminose e particolarmente precoci, che esistevano già in un momento in cui l’universo sarebbe dovuto essere molto meno popolato.

L’energia oscura è una forma di energia ancora sconosciuta che si sospetta stia guidando l’espansione dell’universo. L’energia oscura primordiale – ipotizzano i ricercatori – è simile all’energia oscura ma nell’universo ha fatto solo una breve apparizione, influenzandone l’espansione nei suoi primi momenti, prima di scomparire del tutto. Sarebbe bastata questa breve capatina per giustificare la tensione di Hubble. Inoltre, parrebbe anche spiegare il numero eccezionalmente alto di galassie luminose osservate nell’universo primordiale.

In effetti, in base ai modelli cosmologici e di formazione delle galassie, l’universo avrebbe dovuto impiegare un certo tempo per far nascere le prime galassie, superiore a quanto riscontrato nelle osservazioni del James Webb Space Telescope (Jwst) che hanno invece rivelato un numero sorprendente alto di galassie luminose, grandi come la Via Lattea, nei primi 500 milioni di anni, quando l’universo aveva solo il 3% della sua età attuale.

Per i fisici, queste osservazioni implicano che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella fisica alla base dei modelli o un ingrediente mancante nell’universo primordiale di cui gli scienziati non hanno tenuto conto. Il team del Mit ha esplorato la possibilità di quest’ultima ipotesi, ipotizzando questa nuova forma di energia oscura, una sorta di forza antigravitazionale che si attiva solo in tempi molto precoci. Questa forza contrasterebbe l’attrazione della gravità e accelererebbe l’espansione primordiale dell’universo.

Poi, i ricercatori hanno considerato come l’energia oscura primordiale potrebbe influenzare la struttura iniziale dell’universo che ha dato origine alle prime galassie, concentrandosi sulla formazione degli aloni di materia oscura – regioni dello spazio in cui la gravità è più forte e dove la materia inizia ad accumularsi. «Crediamo che gli aloni di materia oscura siano lo scheletro invisibile dell’universo», spiega su Mit News Xuejian (Jacob) Shen, coautore dello studio. «Prima si formano le strutture di materia oscura e poi si formano le galassie all’interno di queste strutture. Quindi, ci aspettiamo che il numero di galassie luminose sia proporzionale al numero di grandi aloni di materia oscura».

Secondo gli autori, se l’energia oscura primordiale influisse sul tasso di espansione iniziale dell’universo – in modo tale da risolvere la tensione di Hubble – allora potrebbe influenzare l’equilibrio degli altri parametri cosmologici, in modo da aumentare il numero di galassie luminose che appaiono in tempi precoci. Per verificare la loro teoria, hanno incorporato un modello di energia oscura primordiale (lo stesso che risolve la tensione di Hubble) in un quadro empirico di formazione delle galassie, per vedere come le prime strutture di materia oscura si evolvono e danno origine alle prime galassie.

«Quello che dimostriamo è che la struttura dello scheletro dell’universo primordiale è alterata in modo sottile dove l’ampiezza delle fluttuazioni aumenta, e si ottengono aloni più grandi e galassie più luminose in tempi precedenti, rispetto ai nostri modelli più comuni», dice Rohan Naidu. «Significa che nell’universo primordiale le cose erano più abbondanti e più raggruppate».

«Abbiamo dimostrato il potenziale dell’energia oscura primordiale come soluzione ai due principali problemi della cosmologia. Se i risultati osservativi di Jwst venissero consolidati ulteriormente, potrebbe essere una prova della sua esistenza», conclude Mark Vogelsberger. «In futuro, potremo incorporarla in grandi simulazioni cosmologiche per vedere quali previsioni dettagliate otterremo».

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Spettacolo pirotecnico ai confini della Via Lattea


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Situata a 58mila anni luce dal centro galattico, dunque oltre il doppio più lontana di quanto non lo sia il Sistema solare, gli astronomi la chiamano Extreme Outer Galaxy. È la periferia della Via Lattea, la nostra galassia. Ed è lì in quella remota landa al confine con lo spazio intergalattico che il telescopio spaziale Webb, nel corso di una serie di osservazioni guidate da Mike Ressler del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, ha acquisito immagini con dettagli senza precedenti di due nubi molecolari note come Digel Cloud 1 e Digel Cloud 2.

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Quest’immagine, ottenuta con Jwst, mostra la regione di formazione stellare nota come Nube di Digel 2S. Si notano giovani stelle appena formate e i loro estesi getti di materiale. Sullo sfondo, un mare di galassie e, all’interno della regione, qui rappresentate in tonalità rossastre, alcune strutture nebulose. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, M. Ressler (Jpl)

Avvalendosi della sensibilità e dell’elevata risoluzione delle sue due fotocamere di bordo – NirCam per il vicino infrarosso e Miri per il medio infrarosso – Webb è riuscito a immortalare, in alcune regioni all’interno delle due nubi molecolari, protostelle molto giovani (classificate come di classe 0), outflows, getti di materia e caratteristiche strutture nebulose. Alcune le vedete nell’immagine qui sopra, che mostra la regione di formazione stellare Digel Cloud 2S.

«Già eravamo a conoscenza dell’esistenza di queste regioni di formazione stellare, ma non eravamo in grado di approfondirne le proprietà», spiega il primo autore dello studio pubblicato nel luglio scorso su The Astronomical Journal, Natsuko Izumi, ricercatrice all’Università di Gifu e all’Naoj, l’Osservatorio astronomico nazionale del Giappone. «I dati di Webb si basano su ciò che abbiamo raccolto progressivamente nel corso degli anni grazie a osservazioni precedenti con diversi telescopi e osservatori. Con Webb possiamo ottenere immagini molto dettagliate e impressionanti di queste nubi. Nel caso della nube di Digel 2, in particolare, non mi aspettavo di vedere una formazione stellare così attiva e getti così spettacolari».

Pur trovandosi all’interno della nostra galassia, le nubi di Digel sono relativamente povere di elementi metallici, come gli astronomi chiamano quelli più pesanti dell’idrogeno e dell’elio. Un aspetto, questo, che le rende simili alle galassie nane, nonché alla Via Lattea primordiale. Webb ha osservato l’attività in corso in quattro ammassi di giovani stelle all’interno delle nubi di Digel 1 e 2: gli ammassi 1A, 1B, 2N e 2S. Per 2S, in particolare, Webb ha volto lo sguardo verso l’ammasso principale, contenente stelle giovani e appena formate. È un’area densa e molto attiva, popolata com’è di numerose stelle che emettono dai poli lunghi getti di materia. Le osservazioni condotte con Webb hanno anche consentito di confermare per la prima volta la presenza, all’interno della nube, di un sottoammasso per il quale si aveva fino a ora solo qualche indizio.

«Sappiamo dallo studio di altre regioni di formazione stellare vicine che, quando le stelle si formano, durante la fase iniziale della loro vita, iniziano a emettere getti di materia dai poli», dice Ressler, secondo autore dello studio e principal investigator del programma osservativo. «I nuovi dati di Webb mi hanno affascinato, e anche sorpreso, perché mostrano la presenza di getti multipli, in tutte le direzioni, originati da questo ammasso stellare. Una sorta di spettacolo pirotecnico, con oggetti che sparano ovunque».

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La ricerca astrofisica italiana nel mondo


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Lo stand Inaf all’Assemblea generale dell’Unione astronomica internazionale 2024 (Cape Town). Crediti: Inaf

L’Assemblea generale dell’Unione astronomica internazionale (Iau) si è conclusa a Città del Capo con il passaggio del testimone all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che avrà l’onore, e l’onere, di organizzare la prossima assemblea a Roma nell’agosto 2027. In effetti sono molteplici gli eventi astronomici di punta che si sono svolti o si svolgeranno in Italia. A luglio, la riunione annuale della European Astronomical Society ha richiamato a Padova quasi 1800 astrofisici. A ottobre a Milano ci sarà la 75esima International Astronautical Conference, alla quale sono attesi diecimila partecipanti. Poi, ad agosto 2026 a Firenze, è prevista l’assemblea generale del Cospar, il Comitato mondiale per la ricerca spaziale, dove si aspettano quattromila partecipanti. Un numero di presenze paragonabile è previsto l’anno successivo per l’assemblea generale della Iau a Roma.

Ospitare eventi così importanti a livello mondiale è un chiaro indicatore della stima che la comunità astrofisica italiana gode nel panorama internazionale. L’Italia si posiziona molto bene a livello mondiale nel panorama della ricerca astrofisica, da terra e dallo spazio, che vede la nostra comunità in prima fila in molti progetti importanti.

La ricerca astrofisica italiana sta vivendo un momento d’oro reso possibile, oltre che dall’impegno di tutta la comunità, anche dalle disponibilità di finanziamenti Pnrr che hanno permesso la partecipazione a grandi progetti internazionali in parallelo all’aggiornamento delle strutture osservative e della loro strumentazione insieme al potenziamento delle infrastrutture di calcolo.

Fare astrofisica oggi significa analizzare grandi quantità di dati, magari con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, e spesso facendo leva su simulazioni complesse volte a ricreare condizioni irripetibili nella storia dell’universo.

Per essere competitivi, occorre utilizzare la strumentazione esistente, a terra e nello spazio, ma anche costruirne di nuova, magari sviluppata grazie a idee innovative di una comunità molto vivace e apprezzata a livello mondiale.

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Tre dei grandi progetti internazionali che vedono coinvolto l’Inaf. Da sinistra: Cta, Ska ed Elt

Dal momento che le informazioni arrivano da molti canali, occorre presidiare tutte le possibili emissioni celesti dalle onde radio, all’infrarosso, all’ottico, all’ultravioletto, ai raggi X e gamma, senza dimenticare le onde gravitazionali, i raggi cosmici ed i neutrini. Gli strumenti devono essere adattati a ogni intervallo di frequenza e ai diversi canali.

Inaf è socio fondatore dei grandi progetti internazionali che vogliono infrangere tutti i record precedenti in fatto di dimensioni e sensibilità. L’Extremely Large Telescope (Elt) in costruzione in Cile, nel deserto di Atacama, prevede uno specchio segmentato da 39 m di diametro che opererà all’interno di una struttura grande come il Colosseo che deve essere in grado di muoversi con precisione assoluta. Costruito dallo European Southern Observatory, vede l’Italia in prima linea nell’ingegneria e nella strumentazione per correggere la turbolenza atmosferica e ottenere immagini di nitidezza eccezionale. Per studiare le origini dell’universo, ma anche per cercare segnali di vita extraterrestre dai sistemi planetari vicini c’è lo Square Kilometre Array, il più potente osservatorio radio mai costruito, con una sezione in Sud Africa e una in Australia, luoghi tra i più radio quieti della Terra. Per seguire i fenomeni più energetici che avvengono nell’universo violento, Inaf è uno dei leader del Cherenkov Telescope Array, un grande osservatorio dedicato allo studio dei fotoni gamma più energetici prodotti dalle sorgenti celesti. Sarà formato da un centinaio di telescopi speciali posizionati in Cile e a La Palma per cogliere il lampo blu delle particelle figlie dei raggi gamma quando attraversano l’atmosfera. Ma Inaf è coinvolto anche nell’astronomia dallo spazio, nelle missioni di difesa planetarie oltre che in quelle che vanno ad esplorare i pianeti del sistema solare. La sonda Juice, che ha appena compiuto la manovra di doppio sorvolo della Luna e poi della Terra, ha moltissima Italia a bordo.

Un panorama esaltante con tanti progetti di successo che guarda al futuro con un po’ di apprensione. Cosa succederà dopo il Pnrr? Saremo in grado di tenere il passo? Riusciremo a fermare la fuga dei cervelli? Diventeremo attraenti per gli scienziati stranieri?

Guarda su MediaInaf Tv la playlist sui grandi progetti da terra e dallo spazio nei quali l’Inaf è coinvolto:

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Gerrei Astrofest, tre giorni di festival in Sardegna


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Locandina del Gerrei Astrofest 2024 (cliccare per ingrandire)

Segnatevi le date: 20, 21 e 22 settembre 2024. Manca poco alla seconda edizione del Gerrei Astrofest, il festival astronomico che l’Inaf di Cagliari organizza nel territorio che ospita il Sardinia Radio Telescope. I centri di San Basilio e Silius saranno animati da tante attività a tema astronomico, tutte gratuite, con gran finale al Sardinia Radio Telescope. Non mancheranno le osservazioni con i telescopi ottici, le visite guidate e il buon cibo.

Il Gerrei è un’area montuosa della Sardegna meridionale, un territorio aspro e affascinante costellato di piccoli paesi al centro del quale, in località Pranu Sanguni, nel 2013 è stato inaugurato il Sardinia Radio Telescope (Srt), il grande radiotelescopio da 64 metri di diametro gestito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).

«Srt è un’infrastruttura tecnologica di grande impatto che viene finanziata con soldi pubblici come quelli della Regione autonoma della Sardegna», spiega la direttrice dell’Inaf di Cagliari Federica Govoni, «per cui abbiamo il dovere di valorizzare e aiutare a crescere i territori coinvolti da questo progetto. Anzitutto spiegando in modo chiaro il lavoro che svolgiamo e l’importanza che Srt riveste nella ricerca scientifica e tecnologica mondiale e, in secondo luogo, invitando le popolazioni e le istituzioni locali a proporci idee di sviluppo compatibili con la presenza del telescopio».

Il Gerrei Astrofest nasce da un’idea dell’astrofisica dell’Inaf Silvia Casu proprio con l’intento di affiancare i momenti di incontro più classici, come i laboratori tenuti nelle scuole o le visite al Sardinia Radio Telescope, con attività in grado di coinvolgere più da vicino la popolazione. «In questi undici anni, e anche da prima dell’inaugurazione di Srt», dice Casu, «l’obbiettivo costante dell’Inaf di Cagliari è stato dialogare con le istituzioni e con le comunità locali per diffondere il più possibile la cultura scientifica. Le visite guidate non bastano, ogni tanto occorre uscire dagli uffici e dalle sale controllo per portare la ricerca fin dentro le strade dei paesi vicini. Da quest’anno la nostra collaborazione con le scuole si arricchisce anche di un tassello finora mancante, ovvero un corso di formazione per insegnanti di tutto il Gerrei, che diventeranno così protagonisti della didattica e della divulgazione in ambito astrofisico senza bisogno di una nostra presenza costante. Questo dovrà avvenire prima o poi anche con le guide turistiche e ambientali che gravitano intorno a Srt».

Dopo la prima edizione del 2022 che aveva coinvolto il comune di San Basilio, che ospita il radiotelescopio, quest’anno è entrato nel partenariato anche il comune di Silius, affiancati dallo storico patrocinio del Gal Sole Grano Terra.

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Osservazioni al telescopio a Pitzu Pranu, San Basilio. Crediti: Inaf

Ognuno dei tre giorni di eventi sarà dedicato a un luogo diverso. Si parte nel pomeriggio di venerdì 20 settembre a San Basilio con l’inaugurazione del festival alla presenza dei sindaci, seguita da una conferenza di Sergio Poppi, responsabile delle operazioni di Srt, e dalla presentazione del libro Oltre i bastioni della Via Lattea di Roberto Rampazzo e Valeria Zanini. La serata culminerà con l’osservazione del cielo dallo spettacolare rilievo di Pitzu Pranu, dove l’Associazione astrofili sardi metterà a disposizione del pubblico i propri telescopi.

«Il Gerrei si sta organizzando per accogliere molti visitatori», dice Albino Porru, sindaco di San Basilio, «soprattutto da Cagliari ma anche, perché no, da tutta la Sardegna e magari qualche turista ancora in giro in bassa stagione. Ci auguriamo una buona risposta di pubblico, perché vogliamo sperimentare eventi di questo genere per poterli migliorare negli anni e crescere in visibilità e offerta di servizi».

Sabato 21 sarà protagonista Silius con attività dedicate alle scuole, come il corso di formazione per insegnanti a cura di Silvia Casu (Inaf) e Alessia Zurru (Laboratorio Scienza), l’osservazione del Sole al telescopio a cura di Gian Luigi Deiana e una serie di mostre espositive e fotografiche a cura di Astrofili sardi, Associazione ogliastrina di astronomia e Gruppo di fotografia astronomica Sardegna (G.Fas) che al calar del sole condurrà le osservazioni con i telescopi ottici. Prima però ci sarà spazio per parlare anche di inquinamento luminoso con Emanuele Atzeni (G.Fas) e del tanto desiderato Einstein Telescope con il direttore del’Infn di Cagliari, Alessandro Cardini.

«La cosa positiva di un evento come il Gerrei Astrofest», dice soddisfatto il sindaco di Silius, Antonio Forci, «è che ha un ampio respiro in grado di favorire un leale spirito di collaborazione tra i piccoli centri di questa zona. Quest’anno ci sono Silius e San Basilio ma speriamo di allargare presto ad altri comuni per pensare ancora più in grande e proporci, almeno in certi periodi dell’anno, come territorio accogliente nel suo complesso».

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Visite al Sardinia Radio Telescope. Crediti: Inaf

Domenica 22 il protagonista sarà il Sardinia Radio Telescope a Pranu Sanguni, che aprirà a visite straordinarie su prenotazione. Per i più avventurosi e salutisti è previsto anche un Astrotrekking a cura della Proloco di San Basilio che partirà alle 6 del mattino e, snodandosi tra gole selvagge, colazioni all’ovile e dolci pascoli, arriverà al radiotelescopio dopo circa tre ore di cammino, al termine delle quali ci sarà la visita guidata del sito. Chi invece non ha voglia o modo di alzarsi presto potrà prenotare la visita delle 11 o quella serale delle 17, che sarà seguita dalla presentazione del libro L’universo che sussurra di Sabrina Mugnos, dove l’autrice sarà presente e felice di rispondere alle domande del pubblico.

Durante il festival sarà possibile mangiare sul posto grazie alle ProLoco di San Basilio e di Silius, che collaboreranno fianco a fianco per offrire al pubblico un servizio di ristorazione rapida a base di prodotti locali. Chi invece vorrà gustare un tipico pranzo agrituristico potrà farlo prenotando presso la Fattoria Didattica Ra.Ro. di San Basilio.

Incastonate lungo tutti i tre giorni, non potranno mancare le attività proprie dell’Inaf di Cagliari come il Codymaze astrofisico di Silvia Casu, Silvia Leurini e Gian Luigi Deiana, il laboratorio didattico “Costruiamo Srt!” di Paolo Soletta, la mostra “Gatti e Cosmo” di Sabrina Milia, il Furgone Acchiappaonde di Francesco Gaudiomonte e tanti altri appuntamenti, anche a cura dell’Agenzia spaziale italiana, disponibili sul programma presente sul sito del festival, dove si potranno trovare anche tutti i recapiti necessari per prenotarsi.

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Nuovo, fiammante vulcano sulla superficie di Io


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Venticinque anni dopo la missione della Nasa Galileo, le prime immagini ravvicinate di Io catturate dallo strumento JunoCam a bordo della missione Juno della Nasa documentano la presenza di un nuovo vulcano in una regione prima integra. Le immagini, presentate questa settimana all’Europlanet Science Congress (Epsc) di Berlino, mostrano colate laviche e depositi vulcanici che coprono un’area di circa 180 chilometri per 180 chilometri.

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Confronto tra i dati di JunoCam del febbraio 2024 e le immagini della sonda Galileo della stessa area nel novembre 1997 (inserto in scala di grigi), che rivela una nuova caratteristica vulcanica sulla superficie della luna di Giove, Io. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss/Europlanet

Vulcani, su Io, ce ne sono tanti. La superficie, come potete vedere dall’immagine qui a fianc0, ne è letteralmente costellata. Io è infatti uno dei luoghi geologicamente più attivi del Sistema solare. Questa nuova galleria verso l’entroterra irrequieto di Io si trova appena a sud dell’equatore, proprio a fianco di un grande vulcano pre-esistente chiamato Kanehekili. Lo potete vedere nell’immagine sulla destra, mentre nell’inserto in bianco e nero potete vedere la stessa regione immortalata nel 1997 dalla sonda Galileo.

«Le nostre recenti immagini di JunoCam mostrano molti cambiamenti su Io, tra cui questa grande e complessa struttura vulcanica che sembra essersi formata dal nulla dopo il 1997», dice Michael Ravine, advanced projects manager di Malin Space Science Systems, che ha progettato, sviluppato e gestisce JunoCam per il progetto Juno della Nasa.

Sul lato orientale del vulcano (a destra nell’immagine) si nota una macchia rossa diffusa dovuta allo zolfo che è stato espulso dal vulcano nello spazio ed è ricaduto sulla superficie di Io. Sul lato occidentale invece sono eruttati due flussi scuri di lava, ciascuno dei quali si estende per un centinaio di chilometri. Nel punto più lontano delle colate, dove la lava si è accumulata, il calore ha fatto evaporare il materiale ghiacciato sulla superficie, generando due depositi circolari grigi sovrapposti.

L’immagine migliore ottenuta da JunoCam di questa struttura è stata scattata il 3 febbraio 2024 da una distanza di 2530 chilometri e con una scala di 1,7 chilometri per pixel. Le immagini sono state prese sul lato notturno di Io con l’illuminazione proveniente solo da Giove, durante uno dei tre sorvoli della sonda Juno fra il 2023 e il 2024, durante i quali JunoCam ha acquisito circa venti immagini a colori visibili ravvicinate.

Per saperne di più:

  • Guarda tutti i dati di JunoCam pubblicati sul sito web della missione
  • Leggi l’abstract della scoperta pubblicato sul sito web della conferenza Epsc che si sta svolgendo a Berlino dall’8 al 13 settembre


Conclusa la prima “passeggiata spaziale” di privati


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Crediti: SpaceX

È stata un completo successo la prima passeggiata spaziale di privati della storia: iniziata alle 12:12 ora italiana e conclusa circa due ore dopo, ha visto due membri dell’equipaggio della missione Polaris Dawn, il comandante Jared Isaacman e la specialista di missione Sarah Gillis, uscire all’esterno della navetta Crew Dragon di SpaceX per testare le nuove tute pressurizzate progettate dalla compagnia di Elon Musk e destinate a coloro che in futuro parteciperanno a missioni sulla Luna o su Marte. Dopo la procedura di depressurizzazione della cabina, il portello è stato aperto alle 12:49 e pochi minuti dopo Isaacman si è preparato a uscire dalla navetta, che si trovava a circa 700 chilometri di altitudine dalla Terra, 300 chilometri più in alto rispetto alla Stazione spaziale internazionale.

La sua “passeggiata” è durata circa dieci minuti, e poi è stato il turno di Gillis. Entrambi hanno eseguito una serie di movimenti per verificare il comportamento delle nuove tute, rimanendo agganciati alla navetta tramite cavi lunghi circa 3,5 metri che forniscono ossigeno, energia e comunicazioni.

Watch Dragon’s first spacewalk with the @PolarisProgram’s Polaris Dawn crew t.co/svdJRkGN7K

— SpaceX (@SpaceX) September 12, 2024

Alle ore 13:17 entrambe le attività extraveicolari sono terminate e il portello è stato richiuso, permettendo l’avvio della procedura di ripressurizzazione della cabina. Anche la fase di controllo per eventuali perdite non ha evidenziato problemi. Per tutta la durata della passeggiata spaziale, il pilota di missione Kidd Poteet e la specialista di missione e ufficiale medico Anna Menon sono invece rimasti all’interno della Crew Dragon, monitorando i sistemi di supporto vitale.



Bolle sulla superficie d’una stella


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Per la prima volta, alcuni astronomi hanno catturato le immagini di una stella diversa dal Sole con un dettaglio sufficiente a tracciare il movimento del gas che forma bolle sulla superficie. Le immagini della stella, R Doradus, sono state ottenute in luglio e agosto 2023 con Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), un telescopio di cui l’Eso (European Southern Observatory) è partner: mostrano gigantesche bolle di gas caldo, 75 volte più grandi del Sole, che appaiono sulla superficie e sprofondano di nuovo nell’interno della stella più velocemente del previsto.

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Immagini dettagliate della superficie della stella R Doradus. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/W. Vlemmings et al.

«Per la prima volta la superficie ribollente di una vera stella può essere mostrata in questo modo», dice Wouter Vlemmings, professore alla Chalmers University of Technology, Svezia, e autore principale dello studio pubblicato oggi su Nature. «Non ci saremmo mai aspettati che i dati fossero di una qualità così alta da poter vedere così tanti dettagli della convezione sulla superficie della stella».

Le stelle producono energia nel proprio nucleo grazie alla fusione nucleare. Questa energia può essere trasportata verso la superficie della stella in enormi bolle di gas caldo che poi si raffreddano e affondano, come una lampada lava. Questo movimento di miscelazione, noto come convezione, distribuisce gli elementi pesanti formati nel nucleo, come carbonio e azoto, in tutta la stella. Si pensa anche che sia responsabile anche della formazione dei venti stellari che trasportano gli elementi nel cosmo per costruire nuove stelle e pianeti.

Finora i moti convettivi non erano mai stati tracciati in dettaglio in stelle diverse dal Sole. Utilizzando Alma, il team ha potuto ottenere nel corso di un mese immagini ad alta risoluzione della superficie di R Doradus. R Doradus è una stella gigante rossa, con un diametro di circa 350 volte quello del Sole, situata a circa 180 anni luce dalla Terra nella costellazione del Dorado. Le grandi dimensioni e la vicinanza alla Terra la rendono un bersaglio ideale per osservazioni dettagliate. Inoltre, la sua massa è simile a quella del Sole, il che significa che R Doradus è probabilmente abbastanza simile a come apparirà il nostro Sole tra cinque miliardi di anni, quando diventerà una gigante rossa.

«La convezione crea la splendida struttura granulare visibile sulla superficie del Sole, ma è difficile da vedere su altre stelle», aggiunge Theo Khouri, ricercatore alla Chalmers e coautore dello studio. «Con Alma, ora abbiamo potuto non solo vedere direttamente i granuli convettivi, con una dimensione 75 volte quella del Sole, ma anche misurarne per la prima volta la velocità».

I granuli di R Doradus sembrano muoversi con un ciclo di un mese, più velocemente di quanto gli scienziati si aspettassero in base al funzionamento della convezione nel Sole. «Non sappiamo ancora qual è la ragione di questa differenza. Sembra che la convezione cambi man mano che una stella invecchia in modi che ancora non comprendiamo», sostiene Vlemmings. Osservazioni come quelle effettuate ora su R Doradus ci aiutano a capire come si comportano stelle come il Sole, anche quando diventano fredde, grandi e ribollenti come R Doradus.

«È spettacolare pensare che ora possiamo visualizzare direttamente i dettagli sulla superficie di stelle così lontane e osservare una fisica che fino a oggi era osservabile praticamente solo per il Sole», conclude Behzad Bojnodi Arbab, studente di dottorato alla Chalmers, fra i coautori dello studio.

Fonte: comunicato stampa Eso

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube dell’Eso:

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Buchi neri supermassicci poco prima della fusione


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Rappresentazione artistica di due buchi neri supermassicci attivi (Agn) che convivono al centro della galassia che si è formata dalla fusione delle loro galassie ospiti. Crediti: Nasa, Esa, Joseph Olmsted (Stsci)

Quando due galassie si fondono, che succede ai buchi neri supermassicci al loro centro? Si fondono anch’essi. Quelli che vedete nell’immagine qui a fianco (una rappresentazione artistica, cliccare per ingrandire) sono proprio loro: i due buchi neri attivi che si trovavano al centro delle loro rispettive galassie, e che ora convivono nel cuore di Mcg-03-34-64, la galassia ricca di gas che si è formata dalla fusione delle due. Si tratta della coppia di buchi neri supermassicci più vicini mai osservati, e si trovano ad appena 800 milioni di anni luce di distanza. L’avvistamento è stato pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal.

Cominciamo dalla prima immagine: la rappresentazione artistica, dicevamo, di una coppia di buchi neri attivi nel cuore di due galassie in fusione. Del tutto simili a quelli osservati con Hubble, prima, e nei raggi X con Chandra, poi. L’immagine di Hubble – quella che vedete qui sotto – ritrae una galassia al cui centro si notano tre picchi compatti e distinti, provenienti da sorgenti che emettono ossigeno ionizzato. Una struttura altamente inusuale, anche se si sta osservando una galassia attiva, o Agn, come nel caso di Mcg-03-34-64.

E, in effetti, di galassia attiva si tratta, solo che al suo centro non ci sarebbe solamente un buco nero che emette getti di plasma e materiale altamente energetico, bensì due. A circa 300 anni luce di distanza uno dall’altro, sono entrambi circondati da un disco di accrescimento di gas caldo, mentre parte del materiale entrante viene espulso lungo l’asse di rotazione di ciascun buco nero sotto forma di getti energetici che sfrecciano nello spazio quasi alla velocità della luce, formando intensi fasci di energia. Sarebbe proprio il materiale che vortica e cade al loro interno a farli brillare come nuclei galattici attivi e ad averli resi visibili agli occhi di Hubble.

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Immagine in luce visibile del telescopio spaziale Hubble della galassia Mcg-03-34-064. La vista acuta di Hubble rivela tre distinti punti luminosi incastonati in un’ellisse bianca al centro della galassia (espansa nell’immagine in alto a destra). Due di questi punti luminosi sono la fonte di una forte emissione di raggi X, proveniente da buchi neri supermassicci. I buchi neri brillano perché stanno convertendo la materia entrante in energia e sono definiti nuclei galattici attivi. La loro distanza è di circa 300 anni luce. Il terzo punto è una chiazza di gas luminoso, ma la sua natura non è del tutto chiara. Crediti: Nasa, Esa, Anna Trindade Falcão (Cfa); Image Processing: Joseph DePasquale (Stsci)

Sistemi binari simili dovevano essere più comuni nell’universo primordiale, quando le fusioni di galassie erano più frequenti. Questo esempio così vicino, invece, è una rarità. Per questo, dopo aver osservato con Hubble questo triplo picco di emissione corrispondente a una grande concentrazione di gas ossigeno incandescente al centro della galassia, i ricercatori hanno cercato di capire meglio di che cosa si trattasse osservando l’oggetto ai raggi X con il telescopio spaziale Chandra della Nasa.

«Quando abbiamo osservato Mcg-03-34-64 nella banda dei raggi X, abbiamo visto due sorgenti separate e potenti di emissione ad alta energia che coincidevano con i punti luminosi ottici visti con Hubble», spiega Anna Trindade Falcão, ricercatrice al Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian di Cambridge, Massachusetts, e prima autrice dell’articolo. «Abbiamo messo insieme questi pezzi e abbiamo concluso che probabilmente stavamo osservando due buchi neri supermassicci strettamente distanziati».

Tre picchi, dicevamo. Due corrispondono ai due buchi neri, mentre il terzo non si sa. Potrebbe trattarsi di gas scosso dall’energia di un getto di plasma ad altissima velocità sparato da uno dei buchi neri, ma sono solo ipotesi. I ricercatori dicono che saranno necessarie osservazioni più dettagliate per comprendere meglio di che si tratta.

I due buchi neri supermassicci erano un tempo al centro delle rispettive galassie ospiti, che si sono fuse. Anche il loro destino sarà quello di fondersi. Continueranno ad avvicinarsi a spirale fino a incontrarsi, forse tra cento milioni di anni, facendo vibrare il tessuto dello spazio e del tempo sotto forma di onde gravitazionali.

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La rivincita delle stelle M


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Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile orbitante attorno a una stella M. Crediti: ESO/M. Kornmesser.

La ricerca esoplanetaria si è evoluta tantissimo negli ultimi trent’anni, tanto che oggi non si cerca più soltanto di individuare nuovi pianeti, ma anche di caratterizzare quelli che conosciamo già, studiando la storia evolutiva della loro stella e analizzando più a fondo l’ambiente circumstellare in cui si muovono. Si scopre così che anche alcune stelle generalmente considerate non adatte a originare la vita come la conosciamo, potrebbero esserlo state in passato, quando erano più giovani. È quanto accade alle stelle di tipo M, secondo uno studio pubblicato in agosto su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e guidato da Riccardo Spinelli dell’Inaf di Palermo, in collaborazione con l’Inaf di Brera (Merate), l’Università dell’Insubria e l’Infn sezione Milano-Bicocca. Un risultato che suona come una rivincita per questa classe di stelle, che costituiscono ben il 75 per cento delle stelle nella nostra Galassia, e che sono state spesso considerate ben poco ospitali per i pianeti che le accompagnano.

In una prima e lunga fase, cercare condizioni di abitabilità attorno a stelle diverse dal Sole coincideva con l’individuazione di pianeti in orbita all’interno della cosiddetta zona abitabile, una regione attorno alla stella all’interno della quale un pianeta potrebbe avere una temperatura adatta alla presenza di acqua liquida sulla sua superficie, elemento considerato fondamentale per la vita che osserviamo intorno a noi. Qualunque pianeta venisse scoperto orbitare attorno a una stella in questa zona veniva quindi classificato come “potenzialmente abitabile”. Dal punto di vista osservativo, cercare pianeti in queste condizioni si è rivelato particolarmente promettente attorno a stelle di tipo M, un po’ più piccole e più fredde del Sole, con un’età superiore a 3 miliardi di anni.

Ma l’abitabilità di un pianeta dipende anche da tanti altri fattori, come la presenza e la composizione della sua atmosfera, la sua attività geologica e persino l’emissione ultravioletta che riceve della stella madre.

«L’effetto della radiazione ultravioletta può essere sia positivo che negativo per la vita come la conosciamo», spiega a Media Inaf Riccardo Spinelli, dell’Inaf di Palermo e primo autore, «Diversi esperimenti hanno mostrato che una dose minima di radiazione ultravioletta sembra essere necessaria per la sintesi in soluzione acquosa di alcuni precursori dell’acido ribonucleico (Rna), una molecola fondamentale per la vita, mentre una dose troppo alta è negativa perché distrugge molte biomolecole. Partendo da questi presupposti si può definire una zona attorno alle stelle dove un pianeta può ricevere un flusso ultravioletto sufficiente per innescare la sintesi dei mattoni fondamentali della vita, ma non troppo alto da distruggerli».

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Riccardo Spinelli, ricercatore nella sede di Palermo dell’Inaf

Un delicato equilibrio cosmico a cui contribuiscono diversi fattori, dunque. L’esistenza di una zona di abitabilità ultravioletta, come si intuisce dalle parole del ricercatore, era già stata oggetto di un articolo pubblicato lo scorso anno dallo stesso autore, che prosegue: «In un precedente articolo eravamo giunti alla conclusione che i pianeti attualmente scoperti attorno alle stelle M nella zona abitabile “classica” non ricevono abbastanza radiazione ultravioletta dalle loro stelle per innescare la formazione dell’Rna».

Un bias osservativo, diremmo in gergo, poichè le stelle M con pianeti in zona abitabile che conosciamo oggi sono stelle vecchie, con età superiore a 3 miliardi di anni. Oggi quindi la loro luminosità ultravioletta è troppo debole per poter innescare la formazione di alcuni mattoni fondamentali della vita come la conosciamo. Questo ha portato a pensare che la maggior parte delle stelle nella nostra Galassia non sia adatta a sviluppare la vita secondo una chimica che prevede una giusta dose di radiazione ultravioletta.

Ma le stelle non sono immutabili, evolvono nel tempo e – in generale – subiscono un processo di raffreddamento che porta a una progressiva diminuzione della loro luminosità. È possibile, dunque, che durante i primi miliardi di vita, quando sono generalmente più luminose in ultravioletto, le stelle M riescano a irraggiare i pianeti nella zona abitabile con una dose sufficiente di radiazione ultravioletta? È quello che si sono chiesti Spinelli e il suo team di ricerca. «Abbiamo ricostruito l’evoluzione dell’emissione ultravioletta delle stelle M in esame – prosegue il ricercatore – trovando che in passato erano più luminose in banda ultravioletta e dunque la loro zona abitabile ultravioletta era più esterna rispetto a quella odierna».

In altre parole, quando una stella M è più giovane, ovvero nei suoi primi tre miliardi di anni di vita, la zona abitabile e la zona abitabile ultravioletta si intersecano, consentendo delle condizioni potenzialmente adatte all’origine e alla presenza di biomolecole. Ciò suggerisce che le condizioni per innescare la vita possono essere state molto comuni nella nostra galassia, anche se a tempi e per durate diverse a seconda della tipologia di stelle. Rimangono escluse da questo ragionamento – precisano i ricercatori – le stelle M più fredde, ovvero quelle con una temperatura efficace minore di circa 2500 gradi Celsius.

Lo studio si è basato sui dati raccolti dal telescopio spaziale Swift della Nasa, che osserva nella banda ultravioletta mediante il suo UltraViolet Optical Telescope (Uvot), e sulle osservazioni ottenute con il satellite Galex che hanno permesso agli autori di ricostruire un’evoluzione media della luminosità ultravioletta per ogni tipo di stella presa in esame. «Questo ci ha consentito di stimare a ogni tempo l’evoluzione della zona ultravioletta abitabile per ogni stella presente nel nostro campione e le possibili intersezioni nel passato e nel futuro con la zona abitabile “classica”» conclude Spinelli, «Come per Proxima Centauri, la stella a noi più vicina. Abbiamo stimato un’intersezione tra le due zone che può essere durata dai 200 milioni ai 3 miliardi di anni a seconda della composizione atmosferica del pianeta potenzialmente abitabile, una durata molto più lunga rispetto ad altre stelle M simili.»

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A gonfie vele, ma solari


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Dopo oltre quattro mesi di volo in orbita attorno alla Terra, è stata pubblicata sul social media X (precedentemente Twitter) della Nasa l’immagine della nuova vela solare, scattata dal suo sistema satellitare di ancoraggio. Si tratta di una tecnologia innovativa e rivoluzionaria progettata dall’agenzia americana che permette di sfruttare la pressione della luce solare per la propulsione di veicoli spaziali, senza la necessità di utilizzare il solito combustibile. Il dispiegamento della vela solare è avvenuto con successo il 29 agosto scorso, mentre è di ieri la pubblicazione dell’immagine del primo avvistamento da terra, avvenuto il 2 settembre scorso da Arlington, in Virginia.

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La vela solare nella prima foto scattata dal satellite al quale è ancorata. Nella parte inferiore dell’immagine si vede la superficie brillante dei 4 quadranti in cui è suddivisa la vela. Crediti: Nasa, via X

Da non confondere con i pannelli solari, la vela solare in questione fa parte del progetto Advanced Composite Solar Sail System (Acs3), un’iniziativa mirata a sviluppare tecnologie che possano ridurre i costi e aumentare l’efficienza delle future missioni spaziali, consentendo ai piccoli veicoli spaziali di “navigare con la luce del Sole”.

Le vele solari funzionano, infatti, in modo simile a una barca a vela: invece del vento, però, sfruttano la pressione esercitata dai fotoni della luce solare. L’Acs3 rappresenta una delle più avanzate tecnologie nel campo della propulsione spaziale e si basa su strutture dispiegabili e materiali compositi innovativi, capaci di offrire leggerezza e resistenza. Una delle caratteristiche più affascinanti della tecnologia è l’utilizzo di bracci compositi realizzati con polimeri rinforzati in fibra di carbonio che, dopo essere stati avvolti e stivati in modo compatto, vengono dispiegati nello spazio mantenendo robustezza e leggerezza. Inoltre, l’Acs3 utilizza un particolare sistema di “estrazione a nastro” per evitare inceppamenti durante il dispiegamento dei bracci della vela. Questo sistema potrebbe aprire nuove possibilità per missioni di lunga durata nello spazio profondo, eliminando la dipendenza da propellenti chimici o elettrici per i razzi.

Nella fotografia condivisa pubblicamente si può osservare la superficie estremamente brillante della vela solare, divisa in quadranti, e cinque indicatori luminosi alla base delle strutture portanti, che confermano la completa estensione della vela stessa. Sebbene l’immagine possa sembrare difficile da interpretare, la Nasa ha chiarito che il veicolo spaziale sta ancora effettuando rotazioni lente nello spazio. Questo comportamento è stato intenzionalmente lasciato senza controllo per raccogliere dati sul comportamento del satellite una volta dispiegata la vela.

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Ingegneri del Langley Research Center della NASA testano il dispiegamento della vela solare dell’Advanced Composite Solar Sail System. La vela solare spiegata misura circa 9 metri di lato. Poiché la pressione della radiazione solare è piccola, la vela solare deve essere grande per generare una spinta propulsiva efficiente. Crediti: Nasa

Lanciata a fine aprile di quest’anno, la vela solare dispiegata con Asc3 è solo un prototipo, ma i dati raccolti guideranno lo sviluppo di vele più grandi e potenti per future missioni spaziali. La Nasa prevede che questa tecnologia potrebbe essere utilizzata per missioni di monitoraggio del meteo spaziale, per la ricognizione di asteroidi vicini alla Terra o come ripetitore di comunicazione durante missioni con equipaggio.

Il vantaggio principale delle vele solari è che, una volta dispiegate, possono continuare a funzionare indefinitamente, a condizione che i materiali e i sistemi elettronici a bordo restino operativi. Ciò le rende ideali per missioni di lunga durata, riducendo drasticamente i costi legati al carburante e aumentando l’efficienza complessiva delle missioni spaziali.

Infine, per consentire a tutti di “vedere” la vela solare nel cielo, la Nasa ha ideato una campagna divulgativa #SpotTheSail che consente, usando un’applicazione scaricata sulle piattaforme mobili, di scoprire quando la navicella sarà visibile. L’applicazione, gratuita e disponibile su iOS e Android, fornisce un calendario specifico delle prossime opportunità di avvistamento e uno strumento integrato di realtà aumentata che indica agli utenti la posizione del veicolo spaziale in tempo reale.

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Majis conferma: la Terra è abitabile


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Una serie di 7 osservazioni effettuate in successione da Majis (su un totale di 19) acquisite durante il flyby della Terra il 20 agosto. La prima immagine rappresenta l’osservazione del lato notturno e termina con la parte diurna della Terra, corrispondente all’attraversamento del terminatore. Le variazioni di colore sono dovute alla presenza di nuvole e alle condizioni di illuminazione sopra l’Oceano Pacifico. La dimensione del pixel è compresa tra 1,3 e 1,5 km. Su alcune immagini (numero 4, 5 e 7) è stata applicata una selezione spaziale (una capacità molto utile dello strumento) per monitorare il potenziale segnale di luce parassita nei pixel fuori campo dello strumento (colonne scure). Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)

Durante lo storico flyby del 19 e 20 agosto 2024, la missione Juice dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha puntato i suoi strumenti verso il sistema Terra-Luna, un’occasione unica per raccogliere dati scientifici e calibrare i sensori a bordo. Tra gli strumenti utilizzati, lo spettrometro franco-italiano Majis ha dimostrato le sue straordinarie capacità, svelando dettagli senza precedenti sulla riflettanza e l’emissione termica della superficie lunare, acquisendo immagini della Terra con una risoluzione spaziale e spettrale eccezionale, e confermando che il nostro pianeta è abitabile. Queste osservazioni rappresentano un traguardo fondamentale verso la futura esplorazione del sistema gioviano, soprattutto perché Majis (insieme agli altri 9 strumenti a bordo di Juice) potrebbe scovare – nelle sottili atmosfere e sulle superfici ghiacciate dei satelliti galileiani – elementi alla base della vita come la conosciamo dando nuovo slancio al filone di ricerca che si occupa dei mondi potenzialmente abitabili.

Il Moons and Jupiter Imaging Spectrometer (Majis) a bordo di Juice, è stato realizzato grazie a due importanti contributi da parte della Francia e dell’Italia attraverso il supporto delle rispettive agenzie spaziali, Centre National d’études Spatiales (Cnes) e Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Il principale contributo scientifico e la responsabilità sono affidate all’Institut d’Astrophysique Spatiale (Ias) d’Orsay e all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).

Giuseppe Piccioni, Co-Principal Investigator dello strumento Majis per l’Inaf di Roma, commenta: «Dopo tanti anni di lavoro di preparazione e sviluppo di uno strumento spaziale, è sempre una bellissima emozione vedere i primi risultati di tanto sforzo. In un viaggio lungo come quello della missione Juice – oltre 8 anni solo per arrivare a Giove – i flyby di Terra, Luna e Venere, offrono delle ghiotte occasioni per verificare le prestazioni e le calibrazioni degli strumenti, in particolare per Majis».

Majis non si limita solo a fornire immagini; lo strumento è anche in grado di rilevare la presenza di elementi fondamentali per la vita sia nelle atmosfere che sulle superfici di corpi celesti. Durante il flyby del 20 agosto, Majis ha verificato questa capacità analizzando l’atmosfera terrestre, confermando la presenza di elementi adatti allo sviluppo della vita e con molta probabilità che sia effettivamente abitata.

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Lo strumento Majis analizzerà le sottili atmosfere e i ghiacci sulle superfici di alcune delle sue lune. Le sue misurazioni sulla Terra stanno aiutando a preparare lo strumento per la massima efficienza scientifica su Giove dando anche un assaggio di ciò che Juice può fare in termini di identificazione di diverse molecole in un’atmosfera. In questo grafico, alcune degli elementi chimici identificati sulla Terra. Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)

«Queste potenzialità – dice Piccioni – si rivelano fondamentali per la missione Juice, che esplorerà anche le lune ghiacciate di Giove, alla ricerca di ambienti potenzialmente abitabili. Le osservazioni di Terra e Luna effettuate durante il sorvolo di Juice hanno costituito la migliore opportunità per mettere alla prova le prestazioni e la calibrazione di Majis con bersagli estesi, simili per dimensioni a quelli che si prevede di incontrare su Giove durante la missione nominale. D’altra parte, Luna e Terra sono oggetti molto luminosi, il che richiede l’uso di modalità di osservazione speciali per evitare la saturazione dei rilevatori, un’altra importante prova della versatilità dello strumento Majis».

Majis è uno spettrometro a mappatura che opera nella finestra di lunghezze d’onda comprese tra 0,5 e 5,56 micrometri (milionesimi di metro) con una risoluzione di 150 metri da una distanza di 1000 km, in grado di fornire uno spettro con 1016 “colori” indipendenti del bersaglio osservato. Parte di questi colori rientra nello spettro visibile, ma la maggior parte si trova nell’infrarosso, una parte della radiazione non visibile all’occhio umano. Questo spettro consente di determinare la composizione e le proprietà fisiche del bersaglio osservato. Tutte queste caratteristiche rendono Majis uno strumento ideale per produrre mappe dettagliate della composizione superficiale dei satelliti galileiani e delle loro esosfere, oltre che per identificare le proprietà chimico-fisiche dell’atmosfera di Giove (l’obiettivo scientifico della missione Juice).

Piccioni sottolinea che «la qualità dei dati forniti da Majis è sorprendente, superiore alle più rosee previsioni, e questo apre un’ottima aspettativa per le osservazioni che verranno in futuro. Non sappiamo ancora se sarà possibile, ma il flyby di Venere potrebbe darci un’altra occasione unica per fare altre osservazioni e verificare la calibrazione dello strumento, oltre a fornirci importanti informazioni scientifiche del nostro pianeta gemello».

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Piattaforma della sonda spaziale Juice inclusa la testa ottica Majis fotografata dalla Juice Monitoring Camera durante il flyby della Luna il 19 agosto 2024. Crediti: Esa

«Oltre alla calibrazione – prosegue il ricercatore – le osservazioni durante il sorvolo offrono un importante contenuto scientifico. Majis ha fornito una copertura locale della superficie lunare con un dettaglio fino a circa 130 metri, dal visibile all’infrarosso termico. È stato possibile, ad esempio, confermare le prestazioni radiometriche dello strumento e identificare l’emissione termica e le radiazioni di riflettanza dovute ai mari lunari (o anche detti maria) e agli altopiani lunari».

Pur essendo molto simili a quelle che verranno effettuate attorno a Giove, le osservazioni effettuate da Majis nel sistema Terra-Luna sono state più impegnative: il flusso luminoso di Terra e Luna è molto più intenso rispetto a Giove, per la diversa distanza dal Sole; per evitare di saturare lo strumento, sono stati usati tempi di esposizione brevi e gestite condizioni termiche difficili, poiché MAJIS opera a -150°C per rilevare segnali deboli nell’infrarosso.

Le osservazioni della Terra effettuate durante il sorvolo sono composte da una serie di cubi di immagini acquisiti con risoluzioni spaziali dell’ordine del chilometro e risoluzione spettrale fino a 3,6 nanometri, coprendo una gamma di diverse geometrie di visione e illuminazione solare (dal lato notturno al lato diurno). Il procedimento di elaborazione ha poi previsto la creazione di un set di maschere per distinguere tra le diverse composizioni atmosferiche, utilizzando caratteristiche di riflettanza forti e consistenti specifiche delle singole topografie. MAJIS misura anche l’emissione termica, offrendo una vista spettacolare del lato notturno.

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L’Oceano Pacifico visto da Majis il 20 agosto alle 21:36 da una distanza di 8700 km a tre lunghezze d’onda selezionate per migliorare la variabilità della scena e la composizione. L’immagine 3 è stata acquisita nella lunghezza d’onda dell’infrarosso termico, che fornisce una mappa delle temperature della regione. Le macchie scure corrispondono a temperature più basse. Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)

Questo e molto altro ci regalerà la missione Juice all’arrivo nel sistema gioviano. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Space Science Reviews, dal titolo “Characterization of the Surfaces and Near-Surface Atmospheres of Ganymede, Europa and Callisto by Juice” e guidato da Federico Tosi dell’Inaf di Roma, esplora lo stato attuale della ricerca sulle superfici e le sottili atmosfere dei satelliti ghiacciati di Giove – Ganimede, Europa e Callisto – basandosi su dati raccolti da missioni spaziali e osservazioni telescopiche. La missione Juice dell’Esa giocherà, infatti, un ruolo chiave nell’approfondire la conoscenza di queste lune, studiandone la geologia, la composizione superficiale e i processi atmosferici, tra cui le misteriose emissioni di vapore d’acqua su Europa. L’articolo presenta anche mappe e misurazioni previste per ottimizzare le future osservazioni di Juice.



A Silvia Tosi il premio SIF 2024


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Silvia Tosi durante la cerimonia di premiazione

Sono iniziati questa mattina, 9 settembre, i lavori del centodecimo Congresso Nazionale della Società italiana di Fisica, che si terrà a Bologna fino a venerdì 13 settembre prossimo presso la sede dell’Università del nuovo Distretto Navile. La cerimonia di inaugurazione, che ha avuto luogo poche ore fa presso la Sala Bolognini del Complesso di San Domenico ha visto tra i protagonisti anche Silvia Tosi, a cui è stato conferito il Premio “Carlo Castagnoli” di operosità scientifica, destinato a giovani laureati in Fisica dopo il Maggio 2021.

Silvia Tosi si è laureata nell’anno accademico 2020/21 presso l’Università di Roma Tre con la supervisione di Paolo Ventura e Flavia Dell’Agli, dell’Inaf di Roma. La sua tesi magistrale, premiata oggi dalla Società italiana di Fisica, si intitola “Formazione di polvere negli inviluppi di stelle evolute della Galassia”, ed è proprio sulle stelle più anziane che si concentra il lavoro di ricerca di Silvia. La sua tesi di Dottorato, che sta svolgendo presso l’Osservatorio Astronomico di Roma dell’Inaf, sempre sotto la supervisione di Paolo Ventura e Flavia Dell’Agli, riguarda gli stadi finali di vita delle stelle, in particolare la transizione tra il ramo asintotico e la fase di nebulosa planetaria.

Il lavoro di Silvia ha già colpito l’attenzione della comunità scientifica, e non è la prima volta che le sue ricerche ottengono dei riconoscimenti ufficiali. Già a settembre 2023, infatti, durante il Simposio IAU dedicato alle Nebulose Planetarie, le era stato assegnato un premio come giovane astronoma che aveva presentato il lavoro più interessante e originale. Ultimamente si è occupata dello studio delle nebulose planetarie della Grande Nube di Magellano, con un articolo che uscirà a breve sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

«Ricevere questo premio per me è motivo di grande felicità», ci racconta Silvia Tosi. «Impegno, passione e dedizione sono gli elementi con cui affronto le molteplici sfide che la ricerca scientifica mi pone davanti Ringrazio di cuore il mio team e i miei cari che mi hanno sempre supportato e aiutato dentro e fuori l’ambito scientifico».




Una “rapina cosmica” nell’ammasso dell’Idra


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L’ammasso di galassie dell’Idra (Hydra I) immortalato con il Vst. Nell’immagine spicca la galassia Ngc 3312, nella parte inferiore sulla sinistra: si tratta di una galassia a spirale che sta perdendo parte del proprio gas mentre attraversa il mezzo diffuso che pervade l’ammasso. Le due sorgenti luminose a sinistra e in basso, sono stelle della Via Lattea riprese nell’immagine per un effetto di prospettiva (cliccare per ingrandire). Crediti: Eso/Inaf/M. Spavone, E. Iodice

Gli ammassi galattici, formati da centinaia di galassie oltre a enormi quantità di plasma caldissimo e della invisibile materia oscura, sono le strutture cosmiche più grandi tenute insieme dalla gravità. Si trovano nei nodi più densi della “ragnatela cosmica” che pervade l’Universo e sono luoghi tutt’altro che tranquilli: al loro interno, le galassie si scontrano e interagiscono tra di loro, spesso in maniera turbolenta, regalando immagini spettacolari ai telescopi che scrutano le profondità del cielo.

È il caso dell’ammasso di galassie dell’Idra (Hydra I), a oltre 160 milioni di anni luce da noi, nel quale un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha svelato deboli strutture mai viste prima nella luce diffusa che permea lo spazio tra le galassie. Questi dettagli permettono di ricostruire la travolgente storia dell’ammasso. Il lavoro è stato possibile grazie a immagini profonde e ad alta risoluzione ottenute con il telescopio italiano Vst (Vlt Survey Telescope), situato presso l’Osservatorio di Paranal dello European Southern Observatory (Eso) sulle Ande cilene e dal 2022 gestito interamente da Inaf.

Nell’immagine realizzata dal Vst spicca Ngc 3312, la più grande galassia a spirale dell’ammasso dell’Idra, nella parte bassa dell’immagine. La sua forma, che ricorda vagamente quella di una medusa con una serie di tentacoli, segnala un “furto cosmico” in atto: l’ammasso sta letteralmente “rubando” il gas dalle regioni più esterne della galassia. Questo fenomeno avviene quando una galassia attraversa un fluido denso, come il gas caldo sparso tra le galassie di un ammasso: la frizione del gas caldo contro quello più freddo alla periferia della galassia provoca la fuoriuscita di quest’ultimo, che va ad aggiungersi al materiale .

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Dettaglio sulla galassia a spirale Ngc 3312, la cui forma simile a quella di una medusa tradisce il fenomeno di ram pressure stripping, attraverso il quale il gas freddo delle regioni periferiche della galassia fuoriesce a causa della frizione con il gas, più caldo, che pervade l’ammasso. Crediti: Eso/Inaf/M. Spavone, E. Iodice

Il nuovo studio ha analizzato in dettaglio le strutture più fioche all’interno dell’ammasso, in particolare nella cosiddetta luce intra-ammasso (in inglese, intracluster light), una componente diffusa che pervade lo spazio intergalattico, prodotta da stelle che sono state anche in questo caso “sottratte” ad alcune delle galassie dell’ammasso mentre interagivano con le loro compagne. I risultati sono in corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy and Astrophysics.

«La nostra analisi fotometrica dell’ammasso di galassie dell’Idra permette di ricostruire la sua storia di formazione ed evoluzione e di capire quale dei possibili scenari di formazione abbia formato la luce diffusa in questo particolare ammasso» spiega Marilena Spavone, ricercatrice Inaf a Napoli e prima autrice del lavoro. «Le simulazioni forniscono diverse previsioni per spiegare la formazione della luce intra-ammasso negli ambienti densi degli ammassi di galassie, e per collegare la quantità di luce diffusa osservata alla fase evolutiva di un ammasso».

Per determinare in che fase evolutiva si trova l’ammasso, il team ha analizzato la distribuzione di luce di tutte le sue galassie per poter “isolare” la luce diffusa. In questo modo, è stato possibile stimare la quantità di luce intra-ammasso e studiare le strutture dovute alle interazioni tra galassie, come ad esempio le code mareali o i tentacoli di medusa osservati nella galassia Ngc 3312.

«Secondo la nostra analisi, l’ammasso dell’Idra presenta tre diverse regioni che mostrano sovradensità di galassie, e diverse strutture nel mezzo diffuso, oltre a grandi aloni stellari intorno alle galassie più brillanti», aggiunge la coautrice Enrichetta Iodice, ricercatrice Inaf a Napoli e responsabile del Centro italiano di coordinamento per Vst. «Tutti questi indizi mostrano che si tratta di un ammasso ancora in fase di evoluzione».

Le osservazioni dell’ammasso sono state raccolte nell’ambito del progetto Vegas (Vst Early-Type Galaxy Survey), un censimento cosmico ottimizzato per studiare le galassie sfruttando il grande campo di vista e la risoluzione di OmegaCam, la potente fotocamera del Vst. Questa fotocamera è un vero e proprio “grandangolo cosmico” in grado di osservare una porzione di cielo di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area apparente della Luna piena. Questi dati offrono un’anteprima delle osservazioni che saranno realizzate, con profondità e una risoluzione comparabili ma su porzioni del cielo ancora più grandi, dal satellite Esa Euclid, lanciato lo scorso anno, e dalla Legacy Survey of Space and Time (Lsst) dell’osservatorio Vera C. Rubin, attualmente in costruzione in Cile.

Guarda il video sul canale YouTube dell’Eso:

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Ascoltando il “chirp” d’una supernova che collassa


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È opinione comune che l’attuale generazione di rivelatori di onde gravitazionali Ligo-Virgo-Kagra (Lvk) possa rilevare le supernove da collasso gravitazionale del nucleo (Cc-Sne) all’interno della Via Lattea e comunque non oltre i suoi dintorni. Una nuova ricerca mostra che Lvk potrebbe rilevare le Cc-Sne più energetiche fino a distanze mille volte maggiori, fino all’ammasso della Vergine e oltre. Questa nuova prospettiva è stata recentemente presentata al convegno internazionale Cospar 2024 ed è riportata oggi su The Astrophysical Journal Letters.

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Sebbene le Cc-Sne siano piuttosto eterogenee, questa nuova prospettiva riguarda le supernove di tipo Ic, i cui progenitori esplodono (vedi animazione qui sopra) dopo aver perso gli inviluppi di idrogeno ed elio. Queste Cc-Sn sono note perché una loro sottoclasse, caratterizzata da grandi velocità di espansione, denominata Sne-Ic “broad lines” (Sne-Ic Bl) risulta associata con lampi gamma (Grb) di lunga durata. È importante sottolineare che eventi di questo tipo sono probabilmente caratterizzati, alla fine del collasso del core (il nucleo), dalla formazione di buchi neri in rapida rotazione. Il “serbatoio” di energia è rappresentato in questo caso dal loro momento angolare, che supera di gran lunga quello delle stelle di neutroni che alimentano eventi relativamente più frequenti.

Questa nuova prospettiva si basa su due ingredienti chiave: un buco nero in rotazione circondato da materia ad alta densità sotto forma di un disco o toro compatto. Questo toro può agire come catalizzatore e facilitare la conversione di parte dell’energia di spin in radiazione gravitazionale. Col tempo, il toro si espande, man mano che il buco nero perde lentamente velocità di rotazione, e questo processo produce un caratteristico chirp discendente nelle onde gravitazionali. Questo processo di perdita di velocità di rotazione del buco nero è stato osservato in Gw 170817B, associato alla kilonova At 2017gfo che ha seguito la fusione doppia di neutroni Gw 170817. Un’emissione molto simile è attesa da Cc-Sne energetiche, scalata per massa. È cruciale notare che Gw 170817B è stato osservato alla distanza extragalattica di 40 Mpc, circa mille volte il diametro della Via Lattea.

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Distanze dell’orizzonte in funzione della massa di buchi neri inizialmente in rapida rotazione mediante mass-scaling di Gw 170817B/Grb 170817A (punto blu) e miglioramento del rilevatore in O4 rispetto a O2. È evidenziato l’intervallo di massa previsto dei buchi neri prodotti in Cc-Sne energetiche (magenta). Crediti: Maurice H.P.M. van Putten et al., ApJL, 2024

«Considerando le attuali capacità degli osservatori Lvk e i nostri risultati, stimiamo che, in condizioni ottimali, potremmo rilevare fino a circa un evento all’anno. In modo più conservativo e forse più realistico, assumendo condizioni meno favorevoli e tenendo conto dei cicli di attività limitati dei rivelatori, stimiamo un tasso di detection di pochi eventi per decennio. Questo è comunque significativamente superiore ai due eventi per secolo previsti nella Via Lattea», dice Maurice van Putten dell’Università di Sejong, astrofisico associato all’Inaf che sta conducendo questo studio insieme alla ricercatrice postdoc Maryam A. Abchouyeh e a Massimo Della Valle dell’Inaf di Napoli.

Questo risultato, basato su calcoli accurati, deriva da tre semplici considerazioni, spiegano gli autori dello studio. Anzitutto, rispetto a Gw 170817, ottenuto durante l’O2 (secondo observation run) di Lvk nel 2017, l’attuale rivelatore O4 è più sensibile di un fattore 1,8. Secondo, si prevede che i buchi neri prodotti nelle Sn-Ic Bl siano relativamente più massicci. Questo consente – terza considerazione – un output energetico più elevato a frequenze inferiori, più vicine allo sweet spot della sensibilità del rivelatore Lvk (circa 100-250 Hz). Per O4, l’insieme di questi tre fattori spinge la distanza dell’orizzonte di osservabilità delle Sn-Ic Bl che producono buchi neri fino ad almeno decine di megaparsec, migliorando la prospettiva statistica di una rilevazione di circa due ordini di grandezza rispetto all’O2.

Osservazioni multi-messenger di Cc-Sne

Le onde gravitazionali potrebbero avere la capacità di rivelare il motore centrale e quindi la natura del remnant dell’esplosione stellare: stelle di neutroni o buchi neri. Distinguere tra questi due scenari basandosi solo su osservazioni elettromagnetiche appare notoriamente difficile. Anche per oggetti molto vicini come Sn 1987A, nella Grande Nube di Magellano, abbiamo dovuto aspettare circa 37 anni – con le recenti osservazioni del James Webb Space Telescope – per fornire prove convincenti dell’esistenza di una stella di neutroni come remnant dell’esplosione di Sn 1987A.

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Qui sopra, il chirp ascendente caratteristico della fusione di due oggetti compatti. La perdita di velocità di rotazione di un singolo oggetto compatto avrebbe invece come firma gravitazionale caratteristica un chirp discendente. Crediti: Ligo Collaboration

Una rilevazione di un chirp discendente di onde gravitazionali identificherebbe inequivocabilmente la perdita di velocità di rotazione di un oggetto compatto. Un output energetico superiore al budget limitato di una stella di neutroni in rapida rotazione rivelerebbe un buco nero, indicando un progenitore di massa relativamente alta. Alternativamente, una non-rilevazione fornirebbe prove indirette di una stella di neutroni, indicando una massa del progenitore probabilmente inferiore a venti masse solari, come per Sn 1987A.

La potenziale rilevazione di onde gravitazionali delle Cc-Sne ben dentro l’universo locale ha infine stimolato lo sviluppo di nuovi algoritmi per captare segnali che fino a oggi erano sfuggiti e per realizzare un’integrazione profonda con l’astronomia elettromagnetica tradizionale. «Il nostro studio indica che l’attuale generazione di Lvk potrebbe rivelare che alcune supernove potrebbero, in effetti, essere più luminose nella loro emissione di onde gravitazionali di quanto creduto in passato», spiega van Putten. «Questo pone l’astronomia delle onde gravitazionali all’avanguardia anche in settori come quello delle Cc-Sne, tradizionalmente terreno di caccia di astronomi “elettromagnetici”».

«Con l’entrata in funzione dei futuri rivelatori di nuova generazione, come il Telescopio Einstein nell’Unione europea e il Cosmic Explorer negli Stati Uniti, la missione spaziale Lisa e la missione satellitare di lampi gamma Theseus», conclude Della Valle, «il potenziale rappresentato da queste prospettive è immenso».

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Calcio all’asse di rotazione di Ganimede


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Zoom sulle striature che ricoprono la superficie di Ganimede. Esse presentano una struttura concentrica centrata nel punto indicato dalla croce. Crediti: N. Hirata

Ganimede è il maggiore fra i satelliti di Giove, nonché la luna più grande del Sistema solare. Più grosso persino del pianeta Mercurio, deve parte della sua notorietà alla presenza di oceani di acqua liquida al di sotto della sua gelida superficie. Come per la nostra Luna, il periodo di rotazione di questo satellite eguaglia il periodo di rivoluzione, cosicché esso rivolge a Giove sempre la stessa faccia. Numerose scalfitture segnano la superficie della luna, determinando una struttura concentrica che si estende per quasi ottomila chilometri. Erano gli anni ‘80 quando per la prima volta gli astronomi concludevano che queste striature rappresentavano le cicatrici di un evento disastroso che, quattro miliardi di anni fa, sconquassò il maggiore fra i satelliti medicei: l’impatto con un asteroide. «Le lune di Giove Io, Europa, Ganimede e Callisto hanno tutte interessanti caratteristiche individuali, ma ciò che ha catturato la mia attenzione è stata la presenza di questi solchi su Ganimede,» dice il planetologo Naoyuki Hirata dell’Università di Kobe in Giappone. Che aggiunge: «Sappiamo che questa caratteristica è stata creata dall’impatto con un asteroide circa quattro miliardi di anni fa, ma avevamo alcuni dubbi su quanto sia stato grande l’impatto e sugli effetti che ha avuto sulla luna».

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L’illustrazione rappresenta gli effetti dell’impatto con l’asteroide sull’asse di rotazione di Ganimede. Crediti: N. Hirata

Pare sia stato Plutone a dare allo scienziato l’ispirazione per sciogliere questi dubbi. Dai dati della sonda New Horizons si è appreso infatti che il pianeta nano subì una collisione con un asteroide che ne spostò l’asse di rotazione. Utilizzando un’analogia, Hirata ha ipotizzato che qualcosa di simile sia avvenuto per Ganimede. Specializzato nel simulare collisioni su lune e altri corpi minori, il planetologo ha potuto calcolare che tipo di impatto possa aver provocato un cambiamento dell’asse di rotazione. In particolare, Hirata si è reso conto per primo che il punto di impatto si trova quasi precisamente sul meridiano più lontano da Giove. In uno studio uscito questa settimana sulla rivista Scientific Reports, il ricercatore ha pubblicato i risultati delle sue simulazioni. L’asteroide che ha colpito Ganimede avrebbe avuto un diametro di trecento chilometri, un vero colosso se lo confrontiamo con oggetti analoghi. Per capirci, l’asteroide che sterminò i dinosauri – assieme al 75% delle specie viventi sulla Terra 65 milioni di anni fa – era venti volte più piccolo. L’urto avrebbe provocato la formazione di un cratere con dimensioni fra i 1400 e i 1600 chilometri. Solo un impatto con un corpo celeste di tale stazza sarebbe in grado di provocare una redistribuzione della massa della luna, determinando uno spostamento dell’asse di rotazione fino alla posizione attuale. L’esatto punto di impatto sulla superficie del satellite sembrerebbe avere poca importanza rispetto all’esito della collisione. «Voglio comprendere l’origine e l’evoluzione di Ganimede e delle altre lune di Giove. Il gigantesco impatto deve aver avuto un’influenza significativa sulle fasi iniziali dell’evoluzione di Ganimede, ma gli effetti termici e strutturali dell’impatto sotto la sua superficie non sono stati ancora investigati», conclude Hirata. «Credo che una ricerca ulteriore, applicata all’evoluzione interna delle lune ghiacciate, potrebbe essere condotta più avanti».

Ganimede sarà il capolinea della missione Juice dell’Esa, partita ad aprile 2023. La sonda entrerà nell’orbita della maggiore luna gioviana nel 2034, e la osserverà per i successivi sei mesi, raccogliendo dati che potrebbero far luce sui quesiti sollevati da Hirata.

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Inquinamento luminoso e Alzheimer


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Milano di notte. Crediti: Nasa Earth Observatory/Wikimedia Commons

L’esposizione alla luce durante la notte altera i ritmi circadiani. C’è questa premessa alla base di qualunque considerazione circa gli effetti fisiologici dell’inquinamento luminoso, su esseri umani e su animali. La conseguenza, dal momento che i ritmi circadiani regolano quasi tutti gli aspetti della biologia e del comportamento, è che una loro alterazione può promuovere una serie di malattie infiammatorie. E anche l’Alzheimer. Questo è il risultato di uno studio appena pubblicato su Frontiers in Neuroscience e che ha messo in relazione i dati di inquinamento luminoso e incidenza di Alzheimer in tutte le fasce d’età nella popolazione degli Stati uniti.

Il sospetto di una correlazione fra Alzheimer e alterazione del ritmo circadiano sembra non sorprendere Robin Michelle Voigt-Zuwala, professoressa associata al Dipartimento di medicina interna del Rush University Medical Center di Chicago e prima autrice dello studio. La ricercatrice ha detto a Media Inaf che la ricerca di questo legame, per lei che si occupa di come lo stile di vita e l’ambiente influenzino le malattie cerebrali come il morbo di Alzheimer o il morbo di Parkinson, sia stata un’estensione naturale del suo lavoro: «Ci sono molti meccanismi che si sovrappongono tra l’interruzione circadiana e il morbo di Alzheimer, cosa che ha reso plausibile cominciare questo tipo di ricerca».

L’esposizione alla luce artificiale esterna durante la notte è associata a numerosi effetti dannosi per la salute, tra cui disturbi del sonno, obesità, depressione, ansia, disfunzioni della memoria, aterosclerosi e cancro. Per indagare se, fra questi, si debba aggiungere anche la malattia neurodegenerativa più diffusa fra gli anziani, l’Alzheimer appunto, Voigt-Zuwala e coautori hanno unito i dati sull’incidenza della malattia in tutte le fasce d’età dall’archivio Medicare con l’intensità luminosa media notturna, calcolata a partire dai dati acquisiti via satellite per gli anni 2012-2018. I 48 stati Usa inclusi nell’analisi sono stati classificati in base all’intensità luminosa media notturna e sono stati suddivisi in cinque gruppi, da quelli con l’intensità luminosa media notturna più bassa (gli stati più bui) a quelli più illuminati durante le ore notturne.

I risultati hanno mostrato che per le persone di età pari o superiore a 65 anni l’aumento di incidenza del morbo di Alzherimer è più fortemente correlata all’inquinamento luminoso notturno rispetto ad alcuni fattori di rischio come l’abuso di alcol, le malattie renali croniche, la depressione e l’obesità. Ci sono poi altri fattori come il diabete, l’ipertensione e l’ictus che si sono dimostrati più fortemente associati all’Alzheimer rispetto all’inquinamento luminoso. Per le persone di età inferiore ai 65 anni, invece, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore intensità luminosa notturna è associata a una maggiore incidenza di Alzheimer con una correlazione più forte rispetto a qualsiasi altro fattore di rischio esaminato nello studio.

«Questa informazione suggerisce che le persone più giovani potrebbero essere particolarmente sensibili agli effetti dell’esposizione alla luce notturna», dice la ricercatrice. «Sappiamo che le persone che si ammalano di Alzheimer al di sotto dei 65 anni tendono ad avere una forte componente genetica, ed è quindi possibile che queste persone predisposte (ad esempio, il genotipo ApoE) siano più sensibili agli effetti della luce, ma questo richiederà un esame più approfondito».

Oltre a valutare l’esposizione alla luce notturna esterna, la ricercatrice si sta ora concentrando sull’effetto delle luci all’interno delle case, sia quelle ambientali sia le cosiddette “luci blu” dei dispositivi elettronici. Inoltre, sarà anche importante eseguire delle valutazioni individuali, che tengano conto delle abitudini delle persone e che possano seguirle per alcuni anni nel corso della propria vita. Insomma, lo studio mostra un legame e si pone, a oggi, come un primo indizio da verificare, a supporto del quale vanno cercate numerose prove. Nel frattempo però – dice la ricercatrice – qualche accortezza in più sulle luci notturne non dovrebbe costare molto sforzo e potrebbe mettere a riparo da effetti in maniera preventiva.

«I ritmi circadiani sono squisitamente sensibili all’esposizione alla luce durante la notte», continua Voigt-Zuwala. «Anche un solo impulso di luce può alterare i ritmi circadiani e l’impatto della luce varia a seconda del momento della notte in cui avviene l’esposizione. In generale, però, l’esposizione alla luce di notte, anche se fioca, ha un impatto negativo sulla salute. Il grado di impatto di questa perturbazione sulla salute dipenderà probabilmente anche da altri aspetti come la genetica e altri fattori di rischio (ad esempio, dieta, attività fisica, stress, obesità, condizioni di salute in comorbilità). Si dovrebbe adottare un approccio altamente personalizzato, in quanto ritengo che nessun fattore di rischio determini l’insorgenza o meno dell’Alzheimer, ma che sia necessario esaminare tutti i fattori di rischio nella loro totalità. Detto questo, è facile ridurre l’esposizione alla luce notturna, quindi perché non eliminare questo fattore di rischio? La luce blu ha un impatto maggiore sui ritmi circadiani, motivo per cui questo tipo di luce è il più dannoso. La luce blu è emessa da tv, monitor di computer, telefoni, tablet e persino da alcuni tipi di lampadine. Se condividete la camera da letto con qualcuno a cui piace fare doom scrolling, indossate delle mascherine, e se ci sono luci forti all’esterno della vostra camera da letto prendete in considerazione delle tende oscuranti e/o una maschera per gli occhi, sostituite quando possibile le lampadine con luci più calde e installate dei dimmer. I filtri per la luce blu sui dispositivi o l’uso di lenti progettate per ridurre l’esposizione alla luce blu sono semplici da attuare».

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L’ultimo lancio di Vega per Copernicus


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Il lancio di Sentinel-2C a bordo dell’ultimo razzo Vega dallo spazioporto europeo nella Guyana francese. Crediti: Esa–S. Corvaja

Il terzo satellite Copernicus Sentinel-2 è stato lanciato ieri in tarda serata a bordo dell’ultimo razzo Vega dallo spazioporto europeo nella Guyana francese. Sentinel-2C continuerà a fornire dati ad alta risoluzione per Copernicus, il programma dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di osservazione della Terra.

Si tratta dell’ultimo lancio del razzo Vega: dopo dodici anni di servizio, questo volo segna la fine della carriera del razzo Vega originale, che viene ritirato per fare spazio al razzo aggiornato Vega-C. Durante la sua attività, Vega ha lanciato missioni europee di punta tra cui il dimostratore tecnologico Proba-V, il satellite per il monitoraggio dei venti Aeolus, il veicolo di rientro Ixv e Lisa Pathfinder, un precursore della missione Lisa dedicata alla misurazione delle onde gravitazionali nello spazio. La famiglia Vega garantisce all’Europa un accesso versatile e indipendente allo spazio, completando la famiglia di razzi Ariane per il lancio di satelliti in qualsiasi orbita, con il continuo supporto di Vega-C e del razzo pesante Ariane 6.

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Il razzo Vega con a bordo il satellite Copernicus Sentinel-2C sulla rampa di lancio dello spazioporto europeo nella Guyana francese in attesa del decollo. Crediti: Esa

«Il razzo europeo Vega ha lanciato i due precedenti satelliti Sentinel-2 nel 2015 e nel 2017. Questo lancio rappresenta, quindi, un congedo appropriato per un razzo di così grande successo», ha dichiarato il direttore dei trasporti spaziali dell’Esa Toni Tolker-Nielsen. «È già in preparazione il prossimo lancio di Vega, l’aggiornato Vega-C, previsto entro la fine dell’anno. Il lancio di oggi è stato il ventesimo successo di Vega nei suoi 12 anni di servizio. Addio Vega, lunga vita a Vega-C!».

La missione Sentinel-2 è il risultato di una stretta collaborazione tra l’Esa, la Commissione europea, l’industria, i fornitori di servizi e gli utilizzatori dei dati, fornendo immagini ottiche ad alta risoluzione per una vasta gamma di applicazioni, tra cui il monitoraggio delle terre, delle acque e dell’atmosfera.

La missione si basa su una costellazione di due satelliti identici che orbitano nello stesso percorso ma distanziati di 180 gradi: Sentinel-2A e Sentinel-2B. Insieme, coprono tutte le terre e le acque costiere della Terra ogni cinque giorni. L’ingresso in orbita di Sentinel-2C comporterà la sostituzione di Sentinel-2A, dopo un breve periodo di osservazioni congiunte.

I dati di Sentinel-2 sono attualmente utilizzati per una vasta gamma di applicazioni, tra cui l’agricoltura, il monitoraggio della qualità dell’acqua e la gestione dei disastri naturali, inclusi incendi, eruzioni vulcaniche e alluvioni. La missione ha superato le aspettative iniziali, dimostrando tra le altre cose, la sua capacità di rilevare le emissioni di metano. Per l’agricoltura, la missione aiuta a monitorare la salute delle colture, prevedere i raccolti e facilitare l’agricoltura di precisione. Le sue immagini sono utilizzate per identificare il tipo di coltura e determinare variabili biofisiche come l’indice di superficie fogliare, il contenuto di clorofilla e il contenuto di acqua delle foglie per monitorare la crescita e la salute delle piante.

«Siamo entusiasti di celebrare il successo del lancio di Sentinel-2C, una nuova pietra miliare nella consolidata collaborazione tra l’Esa e la Commissione europea», ha commentato Simonetta Cheli, la direttrice dei programmi di osservazione della Terra dell’Esa. «Questa missione conferma ulteriormente il ruolo di Copernicus come programma di riferimento nella lotta contro i cambiamenti climatici e nel fronteggiare le sfide ambientali globali, garantendo al contempo la continuità di dati fondamentali per sostenere l’agricoltura, la silvicoltura, il monitoraggio marittimo e numerosi altri settori. Insieme, stiamo rafforzando l’impegno dell’Europa verso un futuro sostenibile, fornendo ai decisori gli strumenti necessari per proteggere il nostro pianeta».

In seguito, Sentinel-2D subentrerà poi a Sentinel-2B e in futuro la missione Sentinel-2 Next Generation continuerà a garantire la continuità dei dati oltre il 2035. I dati di Sentinel-2 sono disponibili gratuitamente tramite il Copernicus Data Space Ecosystem, che fornisce accesso immediato a una vasta gamma di dati provenienti sia dalle missioni Copernicus Sentinel missions che dalle Copernicus Contributing Missions.



Quanto è buio lo spazio?


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Illustrazione artistica della sonda New Horizons della Nasa nello spazio profondo. A oltre 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra, la sonda sta attraversando una regione del Sistema solare abbastanza lontana dal Sole da offrire i cieli più bui disponibili per qualsiasi telescopio esistente, e da fornire un punto di osservazione unico da cui misurare la luminosità complessiva dell’universo lontano. Sullo sfondo il disco della Via Lattea. Crediti: Nasa, Apl, Swri, Serge Brunier (Eso), Marc Postman (Stsci), Dan Durda

Lo spazio profondo? Nero, lo sanno tutti. Sì, ma quanto? Da sempre gli astronomi cercano di misurare l’oscurità dello spazio interstellare, del “vuoto” cosmico, se così si può impropriamente chiamare, dato che vuoto non è. Per capire, più che altro, quali siano le sorgenti che contribuiscono a creare quel fondo di luce che, alle varie lunghezze d’onda, permea lo spazio.

Ci hanno provato alle lunghezze d’onda della luce visibile anche con la sonda New Horizons della Nasa, che si trova ora a più di 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra: abbastanza lontano da non subire la contaminazione della luce dovuta al bagliore del Sole e della polvere nel Sistema solare. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal, mostra che la maggior parte della luce visibile che riceviamo dall’universo è stata generata nelle galassie, e che non vi sono altre sorgenti significative di luce attualmente non note agli astronomi.

In gergo – lo accennavamo prima – si parla del cosiddetto “fondo di luce visibile”, ovvero il livello di illuminazione minimo e costante dello spazio profondo a lunghezze d’onda visibili, sotto il quale non è possibile scendere proprio in virtù dell’esistenza delle strutture luminose che popolano e illuminano l’universo. Misurarlo è importante perché consente di stabilire una sorta di tara, e di sapere qualcosa di più su quante e quali sorgenti emettano in una determinata lunghezza d’onda.

Chiaramente, magari ci avrete già pensato, lo stesso ragionamento si può estendere a lunghezze d’onda non ottiche. Anzi, ad onor del vero, la prima definizione di un fondo cosmico di radiazione non riguarda le lunghezze d’onda dell’ottico, bensì le microonde, e risale alla celebre scoperta casuale della radiazione di fondo cosmico – il cosiddetto eco del Big Bang, o Cosmic Microwave Background, Cmb – di Arno Penzias e Robert Wilson negli anni Sessanta. In seguito, gli astronomi hanno trovato prove dell’esistenza anche di un fondo di raggi X, di raggi gamma e di radiazioni infrarosse.

Il rilevamento del fondo di luce visibile – più formalmente chiamato fondo ottico cosmico, o Cob (Cosmic Optical Background) – era quindi una naturale conseguenza. Un compito molto difficile, però, perché le fonti che inquinano la vista a queste lunghezze d’onda sono numerose e difficili da eliminare. Soprattutto se si osserva dalla Terra o dal Sistema solare interno. Le osservazioni dei telescopi Hubble e James Webb si sono rivelate importanti per misurare il Cob a partire dalla somma della luce emessa da tutte le galassie visibili, fino alle più deboli e lontane, un passaggio fondamentale per cercare di capire se la luce che vediamo sia in parte attribuibile anche a sorgenti diverse e sconosciute.

«Si è cercato più volte di misurarla direttamente, ma dalla nostra prospettiva del Sistema solare c’è troppa luce solare e polvere interplanetaria che disperde la luce, e queste creano una sorta di nebbia che oscura la debole luce dell’universo lontano», spiega Tod Lauer, co-investigator di New Horizons, astronomo al National Science Foundation NoirLab di Tucson, in Arizona, e co-autore dell’articolo. «Tutti i tentativi di misurare la forza del Cob dall’interno del Sistema solare soffrono di grandi incertezze».

La scorsa estate, New Horizons ha usato lo strumento Lorri (il Long Range Reconnaissance Imager), per raccogliere due dozzine di campi di immagini separati mentre il corpo principale della navicella fungeva da schermo per il Sole. I campi osservati sono stati selezionati in modo che fossero lontani dal disco luminoso e dal nucleo della Via Lattea e lontani anche dalle stelle luminose vicine. Dopo aver tenuto conto di tutte le fonti di luce conosciute, come le stelle di fondo e la luce diffusa da sottili nubi di polvere all’interno della Via Lattea, i ricercatori hanno constatato che il livello rimanente di luce visibile era del tutto coerente con l’intensità della luce generata da tutte le galassie negli ultimi 12,6 miliardi di anni. In altre parole, il Cob è completamente dovuto alle galassie. Al di fuori di esse, troviamo il buio e nient’altro.

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Nello spazio, i batteri intestinali vanno in tilt


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Edward H. White II, è stato il primo americano a uscire dalla sua navicella spaziale e a lasciarsi andare, andando di fatto alla deriva nello spazio a gravità zero. Era il 3 giugno 1965. Crediti: Nasa, James McDivitt

D’ora in poi, nella valigia degli astronauti saranno inserite scorte di Bifidus Actiregularis. No, scherziamo, questa è una provocazione. Tuttavia c’è un fondo di verità. Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’University College di Dublino (Ucd) e dalla McGill University di Montreal, Canada, in collaborazione con la Nasa, ha infatti rivelato come il volo spaziale possa alterare pesantemente la flora batterica intestinale, compromettendo significativamente la salute degli astronauti. Lo studio, pubblicato sulla rivista npj Biofilms and Microbiomes del gruppo Nature, è il più dettagliato finora realizzato sulla relazione tra permanenza nello spazio e batteri intestinali che gli astronauti portano con sé, dalla Terra allo spazio.

Il gruppo di ricerca ha utilizzato tecnologie genetiche avanzate per esaminare i cambiamenti nel microbioma intestinale, nel colon e nel fegato, di alcuni topi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) dopo 29 e 56 giorni di volo spaziale.L’analisi metagenomica dei batteri, cioè il sequenziamento del genoma di determinati microrganismi effettuato direttamente nell’intestino dei ratti, ha rivelato cambiamenti significativi in 44 specie del microbioma, tra cui riduzioni relative nel numero di batteri che metabolizzano gli acidi biliari.

«Il volo spaziale altera ampiamente la fisiologia degli astronauti, ma molti dei fattori che contribuiscono rimangono un mistero», ha affermato Emmanuel Gonzalez della McGill University, primo autore dello studio. «Grazie all’integrazione di nuovi metodi genomici, siamo in grado di esplorare simultaneamente i batteri intestinali e la genetica dell’ospite in modo straordinariamente dettagliato e stiamo iniziando a vedere modelli che potrebbero spiegare le patologie causate dal volo spaziale».

L’habitat intestinale dei roditori inviati sulla Iss dalla missione SpaceX ha fornito informazioni cruciali sull’impatto del volo spaziale sui mammiferi, rendendo possibile l’analisi di sintomi caratteristici di alcune malattie riscontrate negli astronauti. Sebbene le interazioni ospite-microbiota durante il volo spaziale siano ancora in via di definizione, i risultati hanno comunque rivelato modifiche significative in specifici batteri intestinali e nell’espressione genica dell’ospite. Tali cambiamenti sono associati a disfunzioni immunitarie e metaboliche frequentemente osservate nello spazio, fra le quali in particolare l’alterazione del metabolismo del glucosio caratterizzata da insulino-resistenza e l’irregolarità del metabolismo dei grassi, due processi che possono costituire un rischio significativo per la salute degli astronauti.

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Per la ricerca sono stati analizzati topi femmina di 32 settimane trasportati sulla ISS con SpaceX-13 e divisi in due gruppi: FLT_LAR, tornato a Terra dopo 29 giorni di volo spaziale nell’ambito della missione Live Animal Return, e FLT_ISS, campionato sulla ISS dall’equipaggio dopo 56 giorni di volo spaziale. Crediti: npj biofilms and microbiomes

«Queste scoperte evidenziano l’intricato dialogo tra specifici batteri intestinali e i loro ospiti murini, coinvolti in modo critico nel metabolismo degli acidi biliari, del colesterolo e dell’energia. Esse gettano nuova luce sull’importanza della simbiosi del microbioma per la salute e su come queste relazioni evolute sulla Terra possano essere vulnerabili alle sollecitazioni dello spazio», ha spiegato Nicholas Brereton, ricercatore della Ucd School of Biology and Environmental Science e coautore dello studio.

Gli studi sulle scienze della vita nello spazio, dimostrano come la comprensione degli adattamenti biologici al volo spaziale possa non solo far progredire la medicina aerospaziale, ma anche avere implicazioni significative per la salute sulla Terra e per la progettazione delle prossime missioni umane su Marte. «È chiaro che non stiamo mandando nello spazio solo uomini e animali, ma interi ecosistemi, la cui comprensione è fondamentale per aiutarci a sviluppare misure di salvaguardia per le future esplorazioni spaziali», ha aggiunto Gonzalez.

La collaborazione internazionale, guidata dall’Ucd e condotta assieme ai gruppi di analisi del GeneLab della Nasa, fa parte del recente pacchetto The Second Space Age: Omics, Platforms and Medicine across Space Orbits l’insieme di pubblicazioni su Nature Portfolio riguardanti le scoperte di biologia spaziale.

«Queste scoperte sono un tassello importante per la comprensione dell’impatto del volo spaziale sugli astronauti e contribuiranno alla progettazione di missioni sicure ed efficaci verso l’orbita terrestre, la Luna e Marte», ha commentato Jonathan Galazka, scienziato dell’Ames Research Center della Nasa e coautore dell’articolo. «Inoltre, la natura collaborativa di questo progetto è un esempio di come la scienza aperta possa accelerare il ritmo delle scoperte».

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Juice nelle fasce di Van Allen


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Infografica che mostra le due fasce di radiazione di Van Allen, la più esterna contenente elettroni energetici (in alto), la più interna contenente protoni energetici (in basso). Durante la sua doppia manovra di assistenza gravitazionale attorno a Terra e Luna di fine Agosto, Juice le ha attraversate entrambe utilizzando il suo strumento Radem per misurare i flussi di particelle. Crediti: Esa

Ricordate il doppio fly-by gravitazionale eseguito dalla sonda Juice dell’Esa lo scorso 19 e 20 agosto? Ne potete vedere rappresentata una piccola fase nell’infografica qui a fianco. Qui, il Jupiter Icy Moons Explorer (questo il nome per esteso di Juice) sta attraversando le fasce di Van Allen, zone di particelle cariche che circondano il nostro pianeta. Sono due: la fascia interna è piena di protoni energetici, mentre quella esterna è piena di elettroni energetici. La regione tra le due, invece, è per lo più vuota.

Se aprite l’immagine originale vi troverete uno slider: spostandolo a destra vi mostrerà la fascia bianca più interna corrispondente alla zona in cui si trovano i protoni, e che Juice ha incontrato lungo la propria traiettoria una sola volta, spostandolo a sinistra invece mostrerà la fascia bianca più esterna in cui si trovano gli elettroni. I cerchi bianchi concentrici indicano la distanza dalla Terra del veicolo spaziale, che nel tempo si muove (rispetto all’immagine) da sinistra verso destra. Spostandosi, dunque, Juice ha attraversato la regione degli elettroni due volte, indicate con i due picchi gialli nell’immagine in alto qui a fianco, e i protoni una volta soltanto, in corrispondenza del picco disegnato con punti blu nell’immagine in basso.

Ora che abbiamo capito come leggere l’immagine, qual è il punto? Si ritiene che gli alti livelli di radiazioni nelle fasce di Van Allen le rendano molto pericolose per l’elettronica e per l’uomo, ma non sono nulla in confronto alle fasce di radiazioni di Giove – l’obbiettivo finale del viaggio di Juice. Su Giove, gli elettroni estremamente energetici possono attraversare anche le schermature molto più spesse, e nel tempo potrebbero quindi danneggiare gli strumenti scientifici di Juice.

Juice è equipaggiato con uno strumento di monitoraggio delle radiazioni chiamato Radem per misurare continuamente l’esposizione del veicolo spaziale alle particelle ad alta energia. Lo strumento fa parte di un piano a lungo termine per comprendere meglio le radiazioni in tutto il Sistema solare e integra un altro strumento, il Plasma Environment Package: un insieme di sensori progettati per misurare le particelle cariche intorno a Giove e alle sue lune ghiacciate.

Il volo di Juice attraverso le fasce di Van Allen è stato quindi il primo grande test di Radem nello spazio. Test stato superato a pieni voti, fa sapere l’Esa, in quanto lo strumento è riuscito a misurare con successo gli elettroni nella fascia esterna, poi i protoni nella fascia interna e infine di nuovo gli elettroni mentre si allontanava dalla Terra. I punti blu e gialli nelle immagini, infatti, non sono casuali, ma indicano l’intensità degli elettroni e dei protoni misurati da Juice; in entrambi i casi l’intensità raggiunge un picco quando Juice attraversa la parte più densa della fascia. Non resta che attendere il confronto con Giove.



Giù al nord della stella di Keplero


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Vincenzo Sapienza (Università di Palermo e Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo), primo autore del nuovo studio su Sn 1604 pubblicato su The Astrophysical Journal. Crediti. Inaf Palermo

Il ruolo dei resti di supernova (nubi in espansione prodotte dalle supernove) nell’accelerazione dei raggi cosmici (particelle ad altissima energia presenti in diversi ambienti astrofisici) è noto sin dal 1995. La scoperta, realizzata da astronomi dell’Università di Kyoto, fu resa possibile dall’aver identificato la presenza di emissione non termica ai raggi X nel resto di supernova Sn 1006. I raggi X sono un tipo di radiazione ad alta energia, che può essere emessa da plasma a milioni di gradi (emissione termica) o da particelle ad altissima energia in vari processi (emissione non termica). In particolare, l’emissione non termica osservata in Sn 1006 era di sincrotrone, prodotta quando particelle ad alta energia si muovono lungo le linee di campi magnetici.

Un oggetto di grande interesse per lo studio di questi processi è il resto di supernova di Keplero, prodotto dalla supernova di tipo Ia (ossia la cui progenitrice era una nana bianca che accresceva materia da una stella compagna in un sistema binario) Sn 1604. Questo resto di supernova sta interagendo con una densa nube di materiale circumstellare nella sua porzione a nord. Questo fa sì che le proprietà del resto di supernova e la velocità di espansione dell’onda d’urto in quella direzione siano diverse rispetto alle altre regioni del resto di supernova. Infatti, in uno studio del 2022 condotto da ricercatori dell’Università di Palermo e dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo, è stato dimostrato che nel resto di supernova di Keplero l’accelerazione di raggi cosmici è più efficiente nella regione a nord rispetto alle regioni a sud.

Con l’obiettivo di proseguire le analisi iniziate nel 2022, un team di ricercatori guidato da Vincenzo Sapienza dell’Università di Palermo, associato Inaf, ha analizzato un lungo set di osservazioni ai raggi X ottenute con il satellite della Nasa Chandra del resto di supernova di Keplero. In particolare, gli autori hanno analizzato alcuni filamenti del resto di supernova, con lo scopo di misurarne il moto nel cielo (moto proprio) e di determinare i parametri dell’emissione di sincrotrone proveniente da queste regioni. Le osservazioni confermano la maggiore efficienza del processo di accelerazione di raggi cosmici nella regione a nord del resto di supernova.

«Il risultato non era scontato», sottolinea Sapienza, «in quanto l’accelerazione dei raggi cosmici dipende dalla velocità con cui si propaga l’onda d’urto del resto di supernova, che in questo caso risulta essere più lenta a nord proprio a causa dell’interazione con la nube del mezzo circumstellare. Questa interazione, però, innesca turbolenze che influenzano il campo magnetico locale, aumentando l’efficienza del processo di accelerazione dei raggi cosmici. Di conseguenza, la maggiore efficienza nel processo di accelerazione delle particelle osservata nelle regioni a nord del resto di supernova di Keplero nel 2022 nasce proprio dal bilanciamento tra gli effetti dovuti al rallentamento dell’onda d’urto e la topologia turbolenta del campo magnetico».

Per saperne di più:



Esame superato per Micado, la fotocamera di Elt


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Vista 3D di Micado basata su un rendering ingegneristico, con due persone in scala. Lo strumento sarà alto sei metri e peserà non meno di venti tonnellate. Crediti: Eso/Consorzio Micado/L. Calçada

Micado (acronimo di Multi-AO Imaging Camera for Deep Observations), la potente fotocamera ad alta risoluzione per l’Extremely Large Telescope (Elt) dell’Eso, ha superato la Fdr (final design review), vale a dire la revisione finale del progetto, ponendo così un’importante pietra miliare sulla strada verso l’operatività, prevista per la fine di questo decennio. Una volta completata, Micado consentirà agli astronomi di scattare immagini dell’universo con una profondità senza precedenti.

Lo scopo dell’ultima parte della final design review, articolata in più fasi, è stato quello di concludere il processo di progettazione in corso da diversi anni. Di solito la produzione inizia solo dopo il superamento della final design review, ma in questo caso il via libera alla produzione di molti componenti e sottosistemi era già stato dato in precedenza, per consentire al progetto Micado di continuare ad avanzare verso la prima luce di Elt. Per completare la design review, i membri del consorzio hanno lavorato con il personale dell’Eso per chiarire le questioni ancora aperte sul progetto dello strumento. Il superamento di questa pietra miliare consentirà ora al consorzio Micado – un team di 150 persone distribuite in sei paesi – di concentrarsi a tempo pieno sulla produzione e sul collaudo dello strumento.

La spinta alla realizzazione di Micado nasce dal desiderio di ottenere una precisione e una stabilità elevatissime per raggiungere l’alta sensibilità, la risoluzione, l’accuratezza astrometrica e la copertura dell’ampio intervallo di lunghezze d’onda richieste. Per arrivare a questo risultato, Micado sarà integrato in Elt posizionato al di sopra della piattaforma che ospita gli strumenti, in modo che la luce del telescopio possa essere trasmessa sia al sistema di ottica adattiva che corregge gli effetti della turbolenza atmosferica sia al criostato. In quest’ultimo, le ottiche e i rivelatori sono mantenuti freddi in modo da poter lavorare efficacemente alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso, senza interferenze da altre fonti di calore. Il funzionamento dettagliato dello strumento è controllato dall’elettronica, in gran parte montata proprio sotto di esso; il software consentirà agli utenti di eseguire le osservazioni a distanza.

Si tratta di un progetto molto sofisticato che consentirà a Micado di ottenere immagini ad alta risoluzione dell’universo, così da rivelare in dettaglio le strutture e i meccanismi di formazione delle galassie lontane, e permettere agli astronomi di studiare singole stelle e sistemi stellari presenti nelle galassie vicine, nonché i pianeti e la formazione dei pianeti al di fuori del Sistema solare. Micado sarà inoltre uno strumento straordinariamente potente per esplorare ambienti in cui le forze gravitazionali sono estremamente forti, come in prossimità del buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea.

Dopo alcuni anni di attività scientifica preliminare, le capacità di Micado saranno potenziate grazie al collegamento con Morfeo, il Multiconjugate adaptive Optics Relay For Elt Observations: uno strumento che consentirà a Micado di ottenere immagini più nitide su un campo visivo più ampio.

Fonte: annuncio Eso

Guarda su MediaInaf Tv il video “Micado, una super fotocamera per Elt”:

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Nuovo piano di volo per BepiColombo


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Le ultime parole scritte su BepiColombo non erano incoraggianti. Il 26 aprile scorso la sonda dell’Agenzia spaziale europea e della Jaxa aveva riportato un problema al sistema di propulsione durante una manovra orbitale e, da quel momento, alle molte domande circa le condizioni del veicolo e le possibili ripercussioni sulla missione non sono seguite altrettante risposte. Fino a ieri, quando l’Esa ha pubblicato un aggiornamento in vista del prossimo flyby attorno a Mercurio di domani, mercoledì 4 settembre. Le notizie, dunque, sono due. La prima è che il flyby si farà, come previsto, anche se BepiColombo dovrà avvicinarsi un po’ di più alla superficie del pianeta rispetto ai piani iniziali. La seconda è che l’arrivo e l’inserimento in orbita finale attorno a Mercurio, da sempre programmato per dicembre 2025, è stato posticipato di circa undici mesi ed è ora previsto per novembre 2026, proprio a causa della persistenza del problema al sistema di propulsione, che impedisce alla sonda di utilizzarne a pieno la potenza.

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Momenti chiave del quarto flyby di Mercurio di BepiColombo, il 4 settembre 2024. La sonda Esa/Jaxa passerà sopra la superficie del pianeta a una distanza di circa 165 km. È la prima volta che BepiColombo vedrà i poli di Mercurio, offrendoci nuove viste del pianeta dalla sonda. Tutte e tre le telecamere di monitoraggio di BepiColombo saranno attivate. Scatteranno immagini dal momento del massimo avvicinamento a Mercurio fino a circa 24 ore dopo. Crediti: Esa

Già dagli ultimi aggiornamenti di fine maggio la squadra dell’Esa di BepiColombo aveva confermato che il problema riguardava il Mercury Transfer Module (Mtm), che non era in grado di fornire energia sufficiente al sottosistema di propulsione elettrica. Fino ad oggi però non era chiaro se la missione sarebbe proseguita secondo la tabella di marcia prevista, né se il problema riscontrato fosse risolvibile.

«I problemi osservati persistono e sono stati in parte capiti», dice a Media Inaf Andrea Accomazzo, responsabile della Divisione missioni interplanetarie al centro di controllo dell’Esa a Darmstadt, dal quale si controllano le operazioni di volo e le manovre orbitali di BepiColombo. «Purtroppo alcuni effetti di questi problemi non sono risolvibili, altri possono essere mitigati. Siamo ragionevolmente sicuri, al netto di ulteriori problemi, che sia possibile raggiungere Mercurio. Abbiamo deciso di spalmare la realizzazione del “delta-V” finale [il cambiamento di velocità necessario per mettersi in orbita attorno a Mercurio, ndr] su un periodo più lungo, poiché dobbiamo usare i propulsori a una potenza più bassa per via delle limitazioni di performance dei pannelli solari. Per il flyby del 4 settembre, comunque, siamo tranquilli».

Per quanto riguarda l’anomalia al sistema di propulsione, il comunicato dell’Esa riporta che sono state individuate delle correnti elettriche inaspettate tra i pannelli solari del Mtm e l’unità responsabile dell’estrazione dell’energia e della sua distribuzione al resto della navicella, cosa che comporta una minore disponibilità di energia per la propulsione elettrica.

«Il problema è molto difficile da diagnosticare in maniera totalmente univoca», aggiunge Accomazzo. «C’è un’ipotesi, piuttosto articolata, che sembra spiegare quanto osserviamo e reggere ogni possibile confutazione. Questo ci permette di caratterizzare meglio il comportamento della sonda, in particolare dei pannelli solari, e di modellizzare l’evoluzione delle loro prestazioni. Abbiamo basato la pianificazione delle fasi restanti su queste ipotesi».

La prima modifica rispetto ai piani di volo iniziali, lo dicevamo all’inizio, riguarda proprio il prossimo flyby attorno a Mercurio (il quarto dall’inizio della missione), che avverrà mercoledì 4 settembre. Alle 21.48 ora italiana BepiColombo raggiungerà il punto di massimo avvicinamento a 165 km dalla superficie del pianeta, ben 35 km più vicino rispetto a quanto inizialmente pianificato, aggiustamento che dovrebbe contribuire a ridurre la propulsione necessaria per raggiungere il quinto (prossimo) flyby di fine anno. Sarà l’inizio di una nuova traiettoria per la sonda. Durante la manovra di assistenza gravitazionale, la prima che sorvolerà i poli di Mercurio, tutte e tre le telecamere di monitoraggio di BepiColombo saranno attivate. Scatteranno immagini dal momento del massimo avvicinamento a Mercurio fino a circa 24 ore dopo.

Questi passaggi intermedi attorno ad altri pianeti (BepiColombo ha fatto anche un flyby attorno alla Terra e due attorno a Venere, oltre ai sei attorno a Mercurio) sono necessari affinché avvenga l’inserimento in orbita finale, al quale la sonda dovrà arrivare con la giusta velocità e direzione. L’obbiettivo di BepiColombo, infatti, è ambizioso: Mercurio è il pianeta roccioso meno esplorato del Sistema solare, anche perché arrivarci è incredibilmente impegnativo. Quando una sonda si avvicina al Sole, la potente attrazione gravitazionale esercitata della nostra stella la fa accelerare verso di essa. A questa si aggiunge l’energia impartita durante il lancio, che sommandosi alla precedente si traduce in una velocità di arrivo troppo elevata perché la sonda possa essere catturata nell’orbita intorno al piccolo Mercurio. Per rallentare e arrivare con una velocità e una direzione adeguate non si può contare solo sul sistema di propulsione, nemmeno se questo funzionasse al cento per cento. Ci si avvale, pertanto, di un certo numero di manovre di assistenza gravitazionale (o flyby, nove per BepiColombo) che, pur allungandone il viaggio, aiutano la sonda a perdere energia, a rallentare e arrivare con un angolo adeguato all’inserimento in orbita.

Ora, dovendo BepiColombo fare i conti con la riduzione di spinta da parte dei propulsori, si è resa necessaria un’ulteriore riprogrammazione dell’arrivo a Mercurio, che risulterà ritardato di circa 11 mesi. Il quarto (4 settembre), il quinto (dicembre 2024) e il sesto (gennaio 2025) sorvolo di Mercurio di BepiColombo procederanno come previsto. Tutti e tre modificheranno la velocità e la direzione del veicolo spaziale, portandolo più in sintonia con l’orbita di Mercurio intorno al Sole. Il modulo Mtm accenderà i suoi propulsori tra settembre e ottobre 2024 per mettere BepiColombo sulla sua nuova traiettoria, con una manovra che risulterà finalizzata con il sesto flyby a gennaio. Insomma, la situazione sembra essere tornata sotto controllo, al netto delle difficoltà persistenti.



Countdown per Salsa-Cluster 2


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L’8 settembre 2024, il primo dei quattro satelliti che compongono la missione Cluster dell’Esa rientrerà nell’atmosfera terrestre sopra un’area disabitata dell’Oceano Pacifico meridionale. Si tratta del Salsa (Cluster 2), di cui vi avevamo già parlato in una recente news. Questo rientro segnerà la fine di una missione scientifica della durata di più di 24 anni, dedicata allo studio delle strutture su piccola scala che si generano in seguito all’interazione tra il vento solare e il plasma magnetosferico, alla dinamica globale della coda magnetica della Terra e al campo magnetico circumterrestre.

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Immagine che mostra il movimento del satellite Salsa-Cluster 2 (all’interno dei cerchietti bianchi), ripreso nella notte fra il 30 e il 31 agosto 2024 con lo strumento Tandem dalla Stazione astronomica di Loiano. Crediti: Inaf-Oas/Ssa-Sst Group

La strategia seguita dall’Esa per il rientro controllato del satellite consiste in un progressivo aumento dell’eccentricità orbitale mantenendo costante il semiasse maggiore, così da aumentare l’apogeo e abbassare il perigeo fino alle soglie dell’atmosfera. A un certo punto, durante l’ultimo passaggio al perigeo, l’attrito con l’aria sarà così intenso da ridurre drasticamente la velocità di Salsa e far così cadere il satellite verso l’Oceano Pacifico meridionale. Durante la caduta il satellite, non essendo dotato di uno scudo termico, si disintegrerà, anche se qualche frammento potrebbe sopravvivere e cadere in acqua.

Questi sono quindi gli ultimi giorni di Salsa, e dalla Stazione astronomica di Loiano il gruppo Ssa-Sst dell’Inaf Oas Bologna, coordinato da Alberto Buzzoni, ha voluto mettere alla prova le capacità di recovery del nuovo sistema Tandem (Telescope Array Enabling Debris Monitoring) per riprendere, misurare e tracciare una delle ultime orbite seguite dal satellite. Gli elementi orbitali ufficiali del satellite, codificati nel così detto Tle (two-line element), risalivano al 26 agosto scorso, mentre il recovery è stato fatto nella notte fra il 30 e il 31, sotto un cielo loianese trasparente e senza Luna.

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L’orbita del satellite Salsa determinata nella notte fra il 30 e il 31 agosto 2024 con le osservazioni fatte con il sistema Tandem di Inaf-Oas. Crediti: Ssa-Sst Group

Quattro giorni possono sembrare pochi, ma le orbite dei satelliti artificiali cambiano rapidamente per effetto del rigonfiamento equatoriale terrestre, l’attrito con l’atmosfera, le perturbazioni gravitazionali della Luna e così via, quindi la possibilità di ritrovare il satellite in cielo, anche con una posizione imprecisa, è stata demandata al grande campo di vista di 2° × 2° di ciascuno dei quattro telescopi Tandem.

La “caccia notturna” ha avuto successo e il satellite Salsa è stato immortalato con un tempo di posa di solo mezzo secondo come un puntino di magnitudine apparente +13, in rapida fase di allontanamento verso il perigeo. Durante la ripresa il satellite era a una distanza media di circa 35mila km da Loiano, non male per un oggetto di forma cilindrica, con un diametro di 2,9 m e un’altezza di 1,3 m (antenne escluse). Dalle posizioni misurate in cielo nell’arco di soli 40 minuti è stato possibile calcolare con buona precisione l’orbita geocentrica di Salsa, che risulta coerente con gli ultimi dati ufficiali, anche se si notano già dei cambiamenti. Una volta calcolati gli elementi orbitali si può ottenere l’altezza del perigeo che risulta di soli 199 km, oramai vicino alla soglia di 110-120 km al di sotto dei quali Salsa cadrà in atmosfera senza tornare verso l’apogeo.



Eclissi di Luna con Saturno e Cefeo


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La costellazione di Cefeo, a forma di casetta, con indicate la Stella Granata in alto e la variabile delta Cephei, capostipite delle variabili cefeidi

Con il mese di settembre è arrivato il momento di cambiare stagione. Il 22, precisamente, è l’equinozio di autunno e da questo giorno in avanti le ore di luce diminuiranno, favorendo l’osservazione del cielo notturno. Per gli amanti delle stelle e degli oggetti celesti deboli, il periodo migliore di osservazione è in assenza della Luna, che rischiarerebbe i cieli; e quindi sicuramente nei primi giorni fin quasi alla metà del mese e poi negli ultimi giorni di settembre.

Avremo modo di osservare ancora il triangolo estivo e le costellazioni più appariscenti, come quella del Cigno e della Lira, quella del Capricorno e l’Acquario, che in questo mese ospita Saturno, e ben imponente la costellazione di Pegaso con il suo quadrato e Andromeda. Cassiopea sarà ben alta sull’orizzonte, così pure Perseo. Ben visibili con un binocolo il doppio ammasso di Perseo e la galassia di Andromeda M31.

La costellazione che merita più attenzione in questo mese, anche se tutt’altro che appariscente, è la costellazione di Cefeo. Quasi allo zenith, dalla forma di classica casetta stilizzata con la punta del tetto vicino alla stella polare, da un punto di vista mitologico potrebbe celare un mitico sovrano dell’antica Mesopotamia (figlio di Belos), considerato addirittura l’inventore della scienza delle stelle. In questa costellazione attraversata dalla Via Lattea ci sono ricchi campi stellari e nebulose, e seppur non particolarmente evidenti ci sono due stelle incredibilmente interessanti. La prima è Delta Cephei, la capostipite delle stelle variabili cefeidi, fondamentali indicatori di distanza celeste con un periodo di variabilità che dipende dalla loro luminosità assoluta e che permettono di tarare altri indicatori di distanze in scala cosmica. Per saperne di più potete leggere questo articolo su Media Inaf.

L’altra stella particolare è la stella Mu Cephei o altrimenti chiamata dall’astronomo Giuseppe Piazzi “Stella Granata”. Anche Herschel, osservandola, la citò come stella con un bellissimo e profondo colore granata. Posizionata a circa metà strada delle due stelle che formano la base della casetta, con un binocolo anche in cieli cittadini è facilmente riconoscibile per il suo colore diverso dalle altre stelle e che è dovuto alla sua bassa temperatura superficiale di soli tremila gradi.

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Saturno con Titano prospetticamnente sopra il polo nord del pianeta. Simulazione del giorno 10 settembre 2024 alle ore 2:20 ora locale italiana con il software Stellarium

In questo mese migliorerà l’osservabilità di Marte e Giove che, con il passare dei giorni, anticiperanno il loro sorgere. Saranno sempre visibili nella seconda parte della notte. Venere sarà ancora troppo vicino al Sole per essere facilmente osservabile. Saturno invece sarà il pianeta che ci accompagnerà per tutte le notti. L’8 di settembre infatti Saturno sarà all’opposizione nella costellazione dell’Acquario. In questo giorno sorgerà alle 19:40, transiterà al meridiano all’una e un quarto raggiungendo un’altezza di circa 40 gradi sopra l’orizzonte e tramonterà poco prima delle 7 del mattino. Un’occasione per osservarlo al telescopio con i suoi anelli quasi di taglio. E proprio con questo angolo di vista è possibile, ma solo al telescopio, osservare Titano approcciarsi prospetticamente ai poli del pianeta con gli anelli. Accadrà per il polo sud il 18 alle ore 1:10, mentre per il polo nord il 10 del mese alle 2:20 e a mezzanotte e 10 tra il 25 e il 26 settembre.

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La luna durante la fase di massima eclissi del 18 settembre 2024. È visibile in basso a destra anche il pianeta Saturno dieci giorni dopo la sua opposizione. Simulazione ottenuta con il software Stellarium

Il 18 mattina presto ci sarà un’eclissi parziale di Luna. Purtroppo, la parte oscurata del nostro satellite sarà minima. La Luna entrerà nella penombra della Terra alle 2:41 del 18 in ora locale. In questa fase ci sarà un lievissimo abbassamento della luminosità di circa mezza magnitudine, difficilmente apprezzabile e poco interessante. La fase di ombra inizierà alle 4 e 12 minuti. Il massimo di oscuramento, comunque marginale, avverrà alle 4:44. Poi il nostro satellite inizierà ad uscire dal cono di ombra della Terra a partire dalle 5:15. In questa notte Saturno sarà vicino alla Luna eclissata, poco distante in basso a destra.

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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Un attimo prima che si scateni l’inferno


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Rappresentazione artistica di un quasar all’interno di una galassia. Crediti: Nasa, Esa and J. Olmsted (Stsci)

Alimentati da buchi neri supermassicci voracissimi, i quasar sono tra gli oggetti più energetici dell’universo. Negli ultimi anni numerosi studi hanno riportato l’esistenza di buchi neri supermassicci grossi quanto miliardi di soli quando l’universo era ancora un infante, ovvero non aveva compiuto il miliardo di anni di età. Gli astronomi si stanno arrovellando per trovare dei meccanismi che spieghino in che modo i buchi neri possano raggiungere certe stazze mastodontiche in tempi così rapidi. Ma non è solo la taglia dei buchi neri a farsi notare. Le galassie che ospitano questi colossi nelle loro regioni nucleari sono infatti animate da una frenetica attività di formazione stellare, che produce diverse centinaia se non migliaia di nuovi astri ogni anno. Per fare un confronto, la nostra parca galassia partorisce pigramente solo una stella all’anno grossa quanto il Sole. Gli astronomi si sono pertanto chiesti cosa sia in grado di alimentare al contempo lo sviluppo impetuoso dei buchi neri e la vigorosa attività di formazione stellare delle galassie ospitanti. Le fusioni tra galassie (o merger) potrebbero rappresentare una soluzione per tale mistero. Durante questi eventi, considerevoli quantità di gas possono essere infatti spinte verso il buco nero centrale, alimentandone la crescita. Allo stesso tempo, nel corso della collisione, il gas nelle galassie viene compresso, favorendo la costruzione di nuovi astri. Per capire se tale scenario sia effettivamente in atto c’è bisogno di catturare le galassie in procinto di fondersi tra di loro, prima dunque che il buco nero centrale si accenda come un luminosissimo quasar. Il problema è che, mentre i quasar sfavillano, le galassie progenitrici apparirebbero piuttosto blande agli occhi dei telescopi, rendendo estremamente ardua la loro ricerca.

Pare però che alcuni astronomi ci siano riusciti, a osservare due galassie in procinto di fondersi tra di loro, e che queste galassie ospitino non uno ma ben due quasar. E proprio i quasar sono stati stanati per primi. La scoperta è stata guidata da Yoshiki Matsuoka dell’Università di Ehime, in Giappone, ed è stata realizzata con il telescopio Subaru, che si trova alle Hawaii. Gli astronomi hanno utilizzato un set di dati estremamente profondi per delle grandi aree di cielo, che consentono di localizzare oggetti più deboli di quelli tipicamente osservati in survey di aree simili. In questo modo è stato possibile catturare la luce delle due sorgenti, che sono sì quasar ma molto deboli, fino a cento se non mille volte meno luminosi dei quasar più brillanti che si osservano nella stessa epoca. Si tratta attualmente della coppia di quasar più antica mai osservata e testimonierebbero le prime fasi di accrescimento su due buchi neri supermassicci. Tuttavia, se con Subaru si riesce a rivelare l’emissione dei due quasar, celata rimane invece la natura delle due galassie ospitanti, ovvero non si riesce a vedere se esse si stiano effettivamente fondendo.

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Le galassie che ospitano i due quasar osservate con Alma. La morfologia e i moti del gas freddo (tracciato dal carbonio ionizzato) indicano che le galassie sono in procinto di fondersi fra loro. La scala riportata in basso a destra corrisponde a 30 mila anni luce. Crediti: T. Izumi et al.

E qui arriva la seconda parte della storia. Di recente Takuma Izumi del National Astronomical Observatory of Japan e collaboratori hanno utilizzato l’interferometro Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), situato in Cile, per osservare le galassie in cui risiedono i due quasar. Con questo strumento si riescono a osservare molto bene le riserve di gas freddo contenuto nelle galassie e combustibile primario per la formazione di nuove stelle. Quello che i ricercatori hanno trovato è che la coppia letteralmente trabocca di gas freddo, che ha una massa pari a oltre cento miliardi di soli, confrontabile o addirittura maggiore delle tipiche riserve di gas delle galassie che ospitano i quasar più luminosi nell’universo lontano. Soprattutto, dalla morfologia del gas freddo, tracciato dal carbonio ionizzato, si vede che le due galassie sono connesse tra loro e presentano delle code mareali, tratti distintivi di una fusione in corso. Questi elementi, assieme al moto che caratterizza il gas, ci dicono che le due galassie sono in procinto di fondersi fra loro, formando nel prossimo futuro un’unica grande galassia. In questo scenario è estremamente verosimile che l’ampia disponibilità di gas freddo garantisca un’efficiente crescita dei due buchi neri, destinati dunque ad accendersi come un luminosissimo quasar. Allo stesso tempo questo gas può alimentare un’attività di formazione stellare di tipo esplosivo (o starburst) successiva alla fusione. Ci troviamo dunque di fronte ai possibili progenitori dei quasar antichissimi che sfavillavano nel cosmo solo 800 milioni di anni dopo il Big Bang, un “attimo” prima che questi si accendano. Lo studio è uscito la settimana scorsa su The Astrophysical Journal.

«Quando abbiamo osservato per la prima volta l’interazione tra queste due galassie, è stato come assistere a una danza, con i buchi neri nei loro centri che avevano cominciato la loro crescita. È stato davvero bellissimo» commenta Izumi riguardo alla scoperta. E riguardo ai programmi futuri aggiunge: «Combinando il telescopio Subaru e Alma, abbiamo cominciato a svelare la natura dei motori centrali (i buchi neri supermassicci) e del gas nelle galassie ospitanti. Tuttavia, le proprietà delle stelle nelle due galassie rimangono al momento sconosciute. Utilizzando il telescopio spaziale James Webb saremo in grado di imparare qualcosa riguardo alle stelle in questi oggetti. Poiché si tratta dei progenitori dei quasar di alta luminosità che cercavamo da tempo, che dovrebbero costituire dunque un prezioso laboratorio cosmico, spero che approfondiremo la nostra comprensione della loro natura e della loro evoluzione attraverso diverse osservazioni in futuro.»

Per saperne di più:



Quel triangolo di Sole


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La foto astronomica del giorno selezionata dalla Nasa è di Andrea Vanoni e ritrae una prominenza solare a forma di triangolo poco dopo la separazione dalla superficie della stella. Crediti: Andrea Vanoni

È un triangolo di plasma solare, quello che si libra sopra la superficie infuocata della nostra stella, ed è stato immortalato da Andrea Vanoni, 36enne astrofotografo veronese specializzato in riprese ad alta risoluzione del Sole. L’immagine è stata selezionata dalla Nasa come immagine astronomica del giorno, o Apod, di questo lunedì 2 settembre. Astrofotografo da 16 anni, questo è il primo approdo di Vanoni sotto i riflettori della Nasa. Media Inaf l’ha quindi contattato per sapere tutti i dettagli e i segreti del suo scatto.

Ci può svelare qualche dettaglio sullo scatto? Dove si trovava?

«Ho ripreso questo evento dal mio osservatorio privato, che si trova a Mantova, presso la mia abitazione. Mi sono accorto subito che fosse un evento particolare in quanto la protuberanza era quasi completamente distaccata dalla cromosfera solare, ma manteneva una forma veramente suggestiva. Ho quindi pensato di fare più filmati per immortalarla con il telescopio solare».

Che strumento ha usato?

«Il telescopio che utilizzo è un rifrattore acromatico da 152mm di diametro e 900 di lunghezza focale, abbinato a un filtro solare Daystar Quark Cromosphere e una telecamera Zwo Asi 178mm. In post produzione ho lavorato l’immagine con un software di stacking per avere il massimo dei frames e ottenere un’immagine molto nitida. Successivamente la cromosfera è stata invertita in negativo per dare maggior risalto alla “superficie”. Il colore è stato dato artificialmente in quanto utilizzo una telecamera monocromatica».

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Andrea Vanoni, 36 anni, originario di Verona, astrofotografo e appassionato di astronomia. Autore della Apod selezionata dalla Nasa il 2 settembre 2024, con il suo scatto della protuberanza a forma di triangolo sopra la superifice solare. Crediti: Andrea Vanoni

Come mai quel giorno ha deciso di volgere la camera al Sole?

«Quel giorno (il 26 agosto scorso) il Sole era particolarmente attivo, sia come macchie solari presenti sia come protuberanze. Quando posso riprendo il Sole con costanza, in quanto ogni giorno cambia e regala emozioni diverse».

Rispetto all’astrofotografia “notturna”, quella solare ha bisogno di accortezze in più. Quali?

«Rispetto alla fotografia notturna è necessario utilizzare filtri che siano totalmente sicuri per evitare in primis danni agli occhi e successivamente alla strumentazione. In questo caso è stato utilizzato un filtro solare (Daystar Quark Cromosphere) per permettere di osservare e riprendere il Sole in tutta sicurezza. Purtroppo, sono filtri molto costosi e per avvicinarsi a questo mondo suggerisco ai neofiti di rivolgersi a esperti».

Le capita spesso di fotografare il Sole?

«In tutti questi anni mi sono specializzato in riprese ad alta risoluzione di Sole, Luna e pianeti. Sono inoltre divulgatore scientifico con il gruppo Astroavventura. La mia passione è nata in giovane età, a otto anni, quando i miei genitori mi regalarono un piccolo telescopio per la comunione. Il primo pianeta che osservai fu Saturno e da allora è stato continuo amore».



Per mezzo volt, fuga dall’atmosfera


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In blu il terzo campo globale fondamentale della Terra recentemente scoperto: il campo elettrico ambipolare. Crediti: Nasa/Conceptual Image Lab

A sessant’anni da quando era stato ipotizzato, è stato rilevato per la prima volta con successo – grazie alle osservazioni del razzo suborbitale della Nasa Endurance – il campo elettrico ambipolare della Terra. Si tratta di un campo elettrico debole, esteso a tutto il pianeta, ritenuto un fattore chiave per la sua evoluzione – in modi che ancora non sono del tutto chiari – e fondamentale quanto i campi gravitazionale e magnetico. Le misurazioni effettuate da Endurance hanno confermato la sua esistenza e ne hanno quantificato la forza, rivelando il suo ruolo chiave nei meccanismi di fuoriuscita di particelle dall’atmosfera e, più in generale, nella forma della ionosfera. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature mercoledì scorso.

Alla fine degli anni ’60, durante un sorvolo sui poli terrestri, alcuni satelliti avevano rilevato un flusso di particelle diretto dalla nostra atmosfera verso lo spazio esterno. Da allora si sono cercate spiegazioni dettagliate del fenomeno, che gli scienziati avevano nel frattempo chiamato “vento polare”. Ci si aspettava che la luce solare facesse fuoriuscire alcune particelle atmosferiche, come il vapore che evapora da una pentola d’acqua, ma quello che si osservava era un fenomeno diverso: molte particelle all’interno di questo flusso erano fredde, eppure viaggiavano a velocità supersonica.

«Qualcosa doveva attirare queste particelle fuori dall’atmosfera», dice Glyn Collinson, responsabile scientifico della missione Endurance al Nasa Goddard Space Flight Center e primo autore dello studio.

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Il razzo Endurance lanciato da Ny-Ålesund, nelle Isole Svalbard (Norvegia). Crediti: Andøya Space/Leif Jonny Eilertsen

Era stata quindi ipotizzata la presenza di un campo elettrico molto debole generato su scala subatomica, con effetti talmente blandi da non essere percepibili con la tecnologia allora esistente. A partire dal 2016, ha preso vita il progetto di mettere a punto un nuovo strumento in grado di misurare del campo ambipolare della Terra. Il nome scelto per la missione è stato Endurance, in onore della nave che trasportò Ernest Shackleton nel suo famoso viaggio in Antartide del 1914,. Lo strumento è infatti pensato a un volo suborbitale lanciato dai poli, e in particolare dall’Artico – dal centro di lancio per razzi più settentrionale del mondo, che si trova nelle isole Svalbard, un arcipelago norvegese a poche centinaia di chilometri dal Polo Nord. «Le Svalbard sono l’unico posto al mondo da cui è possibile volare attraverso il vento polare ed effettuare le misurazioni di cui avevamo bisogno», spiega Suzie Imber dell’Università di Leicester (Regno Unito), coautrice dell’articolo.

Endurance è stato lanciato l’11 maggio 2022 e ha raggiunto un’altitudine massima di 768 chilometri, precipitando diciannove minuti dopo nel Mare di Groenlandia. Nell’arco dei 518 chilometri in cui ha raccolto i dati, Endurance ha misurato una variazione del potenziale elettrico di soli 0,55 volt. «Mezzo volt non è quasi nulla, è più o meno la tensione della batteria d’un orologio», dice Collinson. «Ma è la quantità giusta per spiegare il vento polare».

Tanto è bastato infatti per provare la presenza del campo elettrico ambipolare terrestre, in quanto gli ioni di idrogeno – il tipo di particella più abbondante nel vento polare – subiscono da parte di questo campo di forza una spinta verso l’esterno 10,6 volte più intensa della gravità. «Questa forza è più che sufficiente per contrastare la gravità, anzi, è sufficiente per lanciarli verso l’alto nello spazio a velocità supersonica», spiega Alex Glocer, scienziato del progetto Endurance al Goddard Space Flight Center della Nasa e coautore dell’articolo.

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Quando i fotoni provenienti dal Sole si scontrano con i gas presenti in atmosfera, gli elettroni possono essere liberati. Quando gli atomi e le molecole perdono elettroni, si caricano positivamente, diventando ioni. Questo processo è noto come ionizzazione. Crediti: Nasa/Conceptual Image Lab

Non solo gli ioni di idrogeno ma anche quelli più pesanti, come gli ioni di ossigeno, ricevono una spinta sufficiente verso l’esterno, e questo fatto comporta che il campo ambipolare aumenti la cosiddetta “altezza di scala” della ionosfera di circa il 271 per cento, permettendo alla ionosfera di rimanere più densa ad altezze maggiori di quanto lo sarebbe in sua assenza, «come si ci fosse un nastro trasportatore che solleva l’atmosfera nello spazio», dice Collinson.

Come funziona effettivamente il campo elettrico ambipolare? I fotoni solari hanno un effetto ionizzante sulle particelle atmosferiche, ovvero causano negli atomi e nelle molecole la perdita di elettroni, conferendo loro una carica positiva. Mentre gli elettroni sono molto leggeri e possono essere facilmente spinti nello spazio da un campo elettrico anche debole, gli ioni positivi sono almeno 1836 volte più pesanti e tendono dunque a ricadere verso il suolo. Se la gravità fosse la sola protagonista in questo bilancio di forze, le due popolazioni, una volta separate, si allontanerebbero nel tempo. A causa delle loro cariche elettriche opposte, però, si forma un campo elettrico che le tiene unite, impedendo la separazione delle cariche e contrastando alcuni degli effetti della gravità.

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Questa animazione mostra un insieme di particelle che sentono l’attrazione della gravità in competizione con quella degli elettroni eccitati. Crediti: Nasa/Conceptual Image Lab

Gli scienziati hanno ipotizzato che questo campo elettrico possa presentarsi a circa 250 chilometri di altitudine, dove gli atomi della nostra atmosfera si ionizzano., e che sia un campo elettrico bidirezionale o “ambipolare”, perché attivo in entrambe le direzioni. L’effetto netto del campo ambipolare è quello di estendere l’altezza dell’atmosfera, sollevando alcuni ioni ad un’altezza sufficiente per fuggire con il vento polare.

La scoperta si rivela preziosa non solo per la comprensione dell’evoluzione dell’atmosfera terrestre e della storia del nostro pianeta ma anche di alcuni aspetti ancora non compresi relativi ad altri pianeti, utili per esempio a determinare quali potrebbero essere ospitali per la vita. «Ogni pianeta con un’atmosfera dovrebbe avere un campo ambipolare», conclude Collinson. «Ora che finalmente lo abbiamo misurato, possiamo iniziare a capire come ha modellato il nostro e altri pianeti nel corso del tempo».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Earth’s ambipolar electrostatic field and its role in ion escape to space”, di Glyn A. Collinson, Alex Glocer, Robert Pfaff, Aroh Barjatya, Rachel Conway, Aaron Breneman, James Clemmons, Francis Eparvier, Robert Michell, David Mitchell, Suzie Imber, Hassanali Akbari, Lance Davis, Andrew Kavanagh, Ellen Robertson, Diana Swanson, Shaosui Xu, Jacob Miller, Timothy Cameron, Dennis Chornay, Paulo Uribe, Long Nguyen, Robert Clayton, Nathan Graves, Shantanab Debchoudhury, Henry Valentine, Ahmed Ghalib e il team della missione Endurance


Civiltà extragalattiche sintonizzandosi sui 100 Mhz


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Il radioastronomo Steven Tingay (Curtin Universityt), direttore del Murchison Widefield Array, il radiotelescopio australiano, formato da 4096 antenne (alcune si intravedono nella foto), impiegato per la ricerca di segnali da civiltà extragalattiche. Crediti: Curtin University

Sono andati in cerca di segnali radio emessi da civiltà extraterrestri – anzi, addirittura extragalattiche. Segnali a bassa frequenza: per la precisione, a 100 MHz. Come Ra‌diofreccia‌ a Trebisacce, Radio Gamma a Cesena o Ra‌dio Onda‌ d’Urto a Ponte di Legno, giusto per fare qualche esempio. Solo che questi arriverebbero da distanze che si misurano in milioni di anni luce. Parliamo di un progetto innovativo, illustrato questa settimana sulle pagine di The Astrophysical Journal, condotto dal Seti Institute, dal Berkeley Seti Research Center e dall’Icrar – l’International Centre for Radio Astronomy Research – avvalendosi del Murchison Widefield Array (Mwa), un’enorme distesa di 4096 antenne dalla forma che ricorda quella dei ragni installate nell’Australia Occidentale.

Si è trattato di un tentativo senza precedenti: mai prima d’ora era stata compiuta una ricerca sistematica di segnali di tecnologie aliene provenienti da galassie che non siano la nostra, concentrandosi sulle basse frequenze. A guidare il progetto – che ha passato al setaccio in un’unica osservazione circa 2800 galassie, 1300 delle quali a distanza nota – sono stati Chenoa Tremblay, del Seti Institute, e il direttore dell’Mwa, Steven Tingay, radioastronomo della Curtin University, che Media Inaf ha intervistato.

Professor Tingay, com’è possibile che un segnale artificiale arrivi a coprire distanze addirittura intergalattiche?

«Alle lunghezze d’onda radio, i segnali possono viaggiare nello spazio per distanze molto lunghe senza essere assorbiti da alcun materiale. Tuttavia, man mano che si allontana dalla sorgente, il segnale diventa più debole, perché si diffonde, come le increspature che si ottengono lasciando cadere un sasso in uno stagno. Anche se le onde radio possono viaggiare su tragitti lunghissimi abbiamo dunque bisogno di radiotelescopi molto sensibili per rilevarle, perché quando ci raggiungono i segnali sono estremamente deboli».

Radiotelescopi come il Murchison Widefield Array?

«Esatto. Il Murchison Widefield Array (Mwa) ha inoltre un campo visivo estremamente ampio, e questo ci consente, con una singola osservazione, di acquisire segnali da milioni di stelle e migliaia di galassie, il che lo rende molto efficiente per il Seti: possiamo cercare molti più oggetti e molto più rapidamente».

Perché ascoltare a 100 MHz? È proprio nel mezzo della banda 88-108 delle stazioni radio FM… non è una fonte significativa di rumore?

«Siamo in grado di osservare a 100 MHz – che in effetti è nel mezzo della banda radio FM – perché l’Mwa si trova molto lontano da città, esseri umani e trasmettitori. Pertanto le trasmissioni FM non raggiungono facilmente il telescopio e, quindi, non interferiscono con le nostre misurazioni».

Quanto è durata la vostra survey con l’Mwa? E com’è finita? Avete rilevato qualche segnale promettente, intendo?

«Negli ultimi dieci anni abbiamo trascorso centinaia di ore a fare osservazioni per il Seti. Non abbiamo trovato alcun segnale promettente, ma non stiamo nemmeno scalfendo la superficie del problema, quindi non ci aspettiamo necessariamente di trovare qualcosa a breve. Basti pensare che negli ultimi 50 anni di Seti, utilizzando tutti i telescopi e il tempo di osservazione, l’umanità ha ispezionato una minuscola frazione della nostra galassia. Se rapportassimo la Via Lattea agli oceani terrestri, tutte le osservazioni Seti dell’ultimo mezzo secolo equivarrebbero alla quantità d’acqua di una piscina. Trovare un segnale Seti sarebbe un po’ come estrarre a caso dall’oceano l’acqua di una piscina e trovarci uno squalo».

Ma allora che senso ha cercare segnali di civiltà aliene provenienti altre galassie quando non si è mai riusciti a captarne nemmeno uno dalla nostra?

«Be’, non abbiamo idea di che cosa potrebbe essere capace una civiltà aliena, ammesso che ne esistano. Il punto è che le civiltà aliene potrebbero essere estremamente rare, quindi anche tra i miliardi di stelle della nostra galassia potrebbe essercene un numero molto ridotto, magari una soltanto, la nostra. Osservando altre galassie, abbiamo accesso a molti miliardi di possibili civiltà per ciascuna di esse. Se osserviamo migliaia di galassie, ciò significa migliaia di miliardi di possibilità. Insomma, diventa una questione statistica. Inoltre, se non iniziamo a osservare mettendo un po’ da parte i nostri pregiudizi umani, potremmo perdere un segnale importante».


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News da Marte #31: zolfo per Curiosity, composti organici per Perseverance I Coelum Astronomia


News da Marte #31: zolfo per Curiosity, composti organici per Perseverance I Coelum Astronomia


"In questo nuovo appuntamento della rubrica ci sono aggiornamenti che interessano i due rover NASA Perseverance e Curiosity. Il primo sta esplorando delle aree a ovest del cratere Jezero e ha scoperto dei materiali di estremo interesse mentre il secondo, in modo decisamente fortuito, ha trovato dei materiali molto particolari all’interno di una roccia."


#31


Tensione di Hubble, la parola alle galassie a spirale


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In altro, sei galassie a spirale immortalate con la fotocamera infrarossa Hawk-I al Very Large Telescope (crediti: Eso/P. Grosbøl); in basso i tre autori dello studio pubblicato su Mnras (da sinistra, Balakrishna Haridasu, Paolo Salucci e Gauri Sharma)

La teoria del Big Bang è ampiamente confermata da numerose osservazioni che hanno portato al modello cosmologico noto come Lambda-Cdm, dove la ‘lambda’ (Λ) rappresenta la costante cosmologica associata all’energia oscura responsabile dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, e ‘Cdm’ sta per cold dark matter (materia oscura fredda), una componente costituita da particelle interagenti solo gravitazionalmente ed essenziale nella formazione delle strutture cosmiche. Un nuovo studio effettuato dai cosmologi della Sissa Sandeep Haridasu, Paolo Salucci e Gauri Sharma, pubblicato lo scorso giugno su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, ha aperto una strada per comprendere una delle predizioni della teoria che sembra essere in serio disaccordo con le osservazioni.

Recenti indagini hanno infatti evidenziato un’anomalia nell’attuale velocità dell’espansione dell’universo H0, nota come tensione di Hubble. «Il valore di H0 sembra essere infatti differente a secondo di come viene misurato», spiega Haridasu. Utilizzando le proprietà delle supernove e delle variabili cefeidi osservate nelle galassie vicine come misuratori delle loro distanze da noi, il valore risultante è H0=73 km/s per megaparsec, mentre le proprietà della radiazione cosmica di fondo che pervade tutto l’universo implicano H0=67 km/s per megaparsec. Queste due determinazioni sono estremamente precise: «la probabilità che siano statisticamente in accordo», , continua Haridasu, «risulta inferiore a una su un miliardo». L’anomalia della tensione di Hubble potrebbe essere il segno della presenza di una fisica sconosciuta, oltre le equazioni di Einstein.

Nel lavoro pubblicato da Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, Haridasu, Salucci e Sharma hanno ideato e utilizzato un nuovo metodo per investigare l’espansione dell’universo che si basa sulle proprietà delle galassie a spirale.
In queste, le stelle che si trovano a un certo raggio dai loro centri mantengono un equilibrio gravitazionale grazie alla loro velocità di rotazione: come conseguenza, la luminosità di una galassia e le velocità di rotazione delle stelle a specifici raggi sono strettamente correlate. Ciò porta a un nuovo misuratore delle distanze delle galassie che ha una precisione simile a quelli di cui sopra, ma che può applicarsi a un numero molto maggiore di oggetti.

Utilizzando questa tecnica, spiega Salucci, «siamo riusciti a tracciare l’espansione dell’universo fino a 150 megaparsec, analizzando un campione di 843 galassie a spirale». Il lavoro riporta 3650 misurazioni del rapporto tra il parametro di Hubble a diverse distanze da noi e il suo valore a redshift zero, ognuna con una precisione fino al 15 per cento. Queste misure implicano che, fino a 200 megaparsec da noi, l’espansione dell’universo corrisponde alle previsioni del modello standard Lambda-Cdm con il valore di H0=73. Non si osserva nessuna diminuzione di questa quantità via via che ci si allontana dalla nostra galassia, in contrasto con molte “spiegazioni locali” della tensione di Hubble che sono state proposte, tra tutte la presenza di un gigantesco vuoto cosmico nei pressi della nostra galassia. «Se è la presenza di nuova fisica l’origine della tensione di Hubble», conclude Sharma, «questa deve manifestarsi su scale molto più vaste di 200 Mpc, e forse addirittura nei primi istanti della vita dell’universo».

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Così le onde di Alfvén spingono il vento solare


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Le missioni Parker Solar Probe della Nasa e Solar Orbiter dell’Esa misurano a distanze diverse lo stesso flusso di plasma che si allontana dal Sole. Parker ha misurato abbondanti onde magnetiche vicino al bordo della corona (la “superficie di Alfvén”), mentre Solar Orbiter, situato oltre l’orbita di Venere, ha osservato che le onde erano scomparse e che la loro energia era stata utilizzata per riscaldare e accelerare il plasma. Crediti: Yeimy Rivera e Samuel Badman (i dati delle immagini solari provengono dal Solar Dynamics Observatory della Nasa; le immagini sono state create con il software open source SunPy)

Da dove proviene l’energia che riscalda e accelera il vento solare? Dati cruciali per rispondere a questa domanda, sulla quale gli astrofisici si interrogano da decenni, arrivano ora dalla sonda Solar Orbiter dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. Lavorando in tandem con la sonda della Nasa Parker Solar Probe, Solar Orbiter ha infatti permesso di scoprire che parte dell’energia necessaria ad alimentare il vento solare – un flusso costante di particelle cariche che fuoriesce dalla corona – ha origine nelle grandi fluttuazioni del campo magnetico della nostra stella.

Il vento solare – la cui collisione con l’atmosfera del nostro pianeta genera le aurore polari – può toccare velocità superiori ai 500 km/s, pari a ben 1.8 milioni di km/h. Quando fuoriesce dalla corona, però, ha velocità inferiori. Dunque dev’esserci qualcosa che lo accelera quando si allontana. E che lo “scalda”: dal milione di gradi iniziale, infatti, man mano che il flusso di particelle si espande e diventa meno denso ovviamente si raffredda, proprio come accade qui sulla Terra all’aria salendo in montagna, ma si raffredda più lentamente di quanto ci si attenderebbe.

Cosa fornisce dunque l’energia necessaria per accelerare e riscaldare le componenti più veloci del vento solare? I dati di Solar Orbiter e di Parker Solar Probe hanno fornito la prova definitiva che la risposta sta nelle oscillazioni su larga scala del campo magnetico del Sole, note come onde di Alfvén.

«Prima del nostro lavoro, le onde di Alfvén erano state contemplate tra le potenziali fonti di energia, ma non avevamo prove definitive», ricorda Yeimy Rivera del Center for Astrophysics – Harvard & Smithsonian (Massachusetts, Usa), prima autrice dello studio che illustra la scoperta, pubblicato oggi su Science e al quale ha preso parte anche Rossana De Marco dell’Inaf di Roma. «Il nuovo risultato è stato reso possibile solo grazie a un allineamento molto particolare dei due veicoli spaziali, che hanno potuto campionare lo stesso flusso di vento solare in fasi diverse del suo viaggio dal Sole».

Le onde di Alfvén sono particolari onde magnetoidrodinamiche. A differenza di quanto avviene in un normale gas come può essere l’aria, dove si formano solo onde acustiche, quando un gas raggiunge temperature straordinarie – come nell’atmosfera del Sole – si ionizza e diventa plasma: uno stato in cui risponde ai campi magnetici, consentendo così la formazione di un nuovo tipo di onde – le onde di Alfvén, appunto – capaci di immagazzinare energia e trasportarla in modo efficiente attraverso il plasma.

Sia Solar Orbiter che Parker Solar Probe hanno a bordo gli strumenti necessari per misurare le proprietà del plasma, compreso il suo campo magnetico. Pur operando a distanze diverse dal Sole e su orbite molto differenti, nel febbraio 2022 le due sonde si sono ritrovate allineate lungo lo stesso flusso di vento solare. Parker, in orbita a 13.3 raggi solari (circa 9 milioni di km) dal Sole, dunque ai margini esterni della corona solare, ha attraversato il flusso per primo. Solar Orbiter, che si trovava invece a 128 raggi solari (89 milioni di km), lo ha attraversato uno o due giorni più tardi.

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Infografica sulla doppia osservazione del febbraio 2022. Crediti: Esa

Approfittando di questo raro allineamento, il team ha così potuto confrontare misure dello stesso flusso di plasma ottenute in due punti diversi. Vicino al Sole, dove sono stati raccolti i dati di Parker, circa il dieci per cento dell’energia totale si trovava nel campo magnetico. Nei pressi di Solar Orbiter questa frazione era scesa ad appena l’uno per cento, e al tempo stesso il plasma si era raffreddato più lentamente del previsto e aveva raggiunto una velocità superiore. Confrontando questi dati, il team ha così concluso che ad accelerare il plasma e a rallentarne il raffreddamento – dunque a scaldarlo – è stata proprio l’energia magnetica mancante.

Dai dati è inoltre emerso il ruolo che hanno, nell’accelerazione del vento solare, particolari configurazioni magnetiche note come switchback. Ampie e repentine deviazioni delle linee di campo magnetico del Sole, gli switchback sono stati osservati già dalle prime sonde solari degli anni Settanta, ma la frequenza di rilevamento è aumentata drasticamente da quando Parker Solar Probe è diventato il primo veicolo spaziale a volare attraverso la corona del Sole, nel 2021,e ha rilevato che gli switchback si presentano a gruppi – e che questi gruppi contengono energia a sufficienza da poter essere responsabili della porzione mancante dell’accelerazione e del riscaldamento del vento solare, perlomeno di quello più veloce.

«Questo nuovo lavoro mette sapientemente insieme alcuni grandi pezzi del puzzle solare. Sempre di più, la combinazione dei dati raccolti da Solar Orbiter, Parker Solar Probe e altre missioni ci mostra come diversi fenomeni solari agiscano insieme per formare un ambiente magnetico straordinario», dice Daniel Müller, project scientist dell’Esa per Solar Orbiter.

Il lavoro del team nel frattempo va avanti cercando di estendere la ricerca anche alle forme più lente del vento solare, per capire se l’energia del campo magnetico del Sole gioca un ruolo anche nella loro accelerazione e nel loro riscaldamento.

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Buchi neri supermassicci a collasso diretto


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Un’immagine del James Webb Telescope mostra il quasar J0148 cerchiato in rosso. Due inserti mostrano, in alto, il buco nero centrale e, in basso, l’emissione stellare della galassia ospite. Crediti: Mit/Nasa

La formazione dei buchi neri supermassicci, come quello al centro della Via Lattea, richiede molto tempo. In generale, la nascita di un buco nero necessita di una stella con una massa pari ad almeno 50 masse solari che, in un tempo che può arrivare al miliardo di anni, esaurisce il suo combustibile nucleare e collassa su sé stessa. Tuttavia, con solo poche decine di masse solari il buco nero risultante è ben lontano dal buco nero di 4 milioni di masse solari che si trova al centro della nostra galassia, Sagittarius A*, o dai buchi neri supermassicci di miliardi di masse solari che si trovano in altre galassie. Questi buchi neri giganti possono formarsi da buchi neri più piccoli per accrezione di gas e stelle e per fusione con altri buchi neri, che richiede miliardi di anni.

Allora come mai il telescopio spaziale James Webb sta scoprendo buchi neri supermassicci all’alba dell’universo, quando non dovrebbero aver avuto il tempo di formarsi? È un po’ come trovare un’auto tra i resti di un dinosauro: come fa a essere lì? chi l’ha costruita? Ora gli astrofisici della Ucla sembrano aver trovato una risposta plausibile a questo mistero: se riusciamo a vedere buchi neri supermassicci così “precoci” dobbiamo ringraziare la materia oscura. La scoperta è pubblicata sulla rivista Physical Review Letters.

Alcuni astrofisici ipotizzano che una grande nube di gas potrebbe collassare per creare direttamente un buco nero supermassiccio, aggirando la lunga trafila prevista dalla teoria dell’evoluzione stellare delle stelle di grande massa. Ma c’è una fregatura: la gravità, in effetti, può riunire una grande quantità di gas, ma non in un’unica grande nube. Al contrario, nella nube si verrebbero a formare piccoli addensamenti che fluttuano l’uno vicino all’altro, che non vanno a formare direttamente un buco nero. Questo perché la nube di gas si raffredda troppo rapidamente. Finché il gas è caldo, la sua pressione può contrastare la gravità. Tuttavia, se il gas si raffredda, la pressione diminuisce e la gravità può prevalere in molte piccole regioni, che collassano in oggetti densi prima che la gravità abbia la possibilità di trascinare l’intera nube in un unico buco nero.

«La velocità con cui il gas si raffredda ha molto a che fare con la quantità di idrogeno molecolare», spiega Yifan Lu, primo autore dello studio. «Gli atomi di idrogeno legati insieme in una molecola dissipano energia quando incontrano un atomo di idrogeno libero. Le molecole di idrogeno diventano agenti di raffreddamento in quanto assorbono energia termica e la irradiano. Le nubi di idrogeno nell’universo primordiale avevano una quantità eccessiva di idrogeno molecolare e il gas si è raffreddato rapidamente, formando piccoli aloni invece di grandi nubi».

Lu e Zachary Picker hanno scritto un codice per calcolare tutti i possibili processi coinvolti in questo scenario, scoprendo che radiazioni aggiuntive possono riscaldare il gas e dissociare le molecole di idrogeno, alterando il modo in cui il gas si raffredda. «Se si aggiungono radiazioni in un certo intervallo di energia, si distrugge l’idrogeno molecolare e si creano condizioni che impediscono la frammentazione di grandi nubi», spiega Lu. Ma da dove provengono queste radiazioni?

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Vista in luce polarizzata del buco nero supermassiccio Sagittarius A* al centro della Via Lattea. Crediti: Eso

Solo una piccolissima parte della materia presente nell’universo è quella che costituisce il nostro corpo, il nostro pianeta, le stelle e tutto ciò che possiamo osservare. La stragrande maggioranza della materia, rilevata dagli effetti gravitazionali su oggetti stellari e dalla curvatura dei raggi luminosi provenienti da sorgenti lontane, è costituita da particelle che gli scienziati non hanno ancora identificato: la cosiddetta materia oscura.

Le forme e le proprietà della materia oscura sono quindi un mistero ancora da risolvere. Sebbene non si sappia cosa sia la materia oscura, i teorici delle particelle ipotizzano da tempo che possa essere costituita da particelle instabili in grado di decadere in fotoni. L’inserimento di tale materia oscura nelle simulazioni ha fornito la radiazione necessaria affinché il gas rimanga in una grande nube mentre sta collassando in un buco nero.

La materia oscura potrebbe essere costituita da particelle che decadono lentamente, oppure potrebbe essere composta da più specie di particelle: alcune stabili e altre che decadono velocemente. In entrambi i casi, il prodotto del decadimento potrebbe essere radiazione sotto forma di fotoni, che spezzano l’idrogeno molecolare e impediscono alle nubi di idrogeno di raffreddarsi troppo rapidamente. Anche un decadimento molto lieve della materia oscura produce radiazioni sufficienti a impedire il raffreddamento, formando grandi nubi e, alla fine, buchi neri supermassicci.

«Questo potrebbe essere il motivo per cui i buchi neri supermassicci vengono trovati molto presto», conclude Picker. «Volendo essere ottimisti, si potrebbe anche leggere questo dato come una prova positiva a favore di un tipo di materia oscura. Se questi buchi neri supermassicci si sono formati dal collasso di una nube di gas, forse la radiazione aggiuntiva necessaria proviene dalla fisica sconosciuta del settore oscuro».

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Quando la stella collapsar, c’è l’onda gravitazionale


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Simulazione che rappresenta la caduta di materiale stellare attorno al buco nero generato dal collasso di una stella massiccia chiamata collapsar. Secondo un nuovo studio pubblicato su Apj Letters, la caduta del materiale genererebbe onde gravitazionali rilevabili. Crediti: Ore Gottlieb

Le onde gravitazionali, finora, viaggiavano in coppia. Per rivelarle con gli interferometri attualmente costruiti sulla superficie terrestre, che misurano come il passaggio delle perturbazioni dello spaziotempo – le onde gravitazionali, appunto – modifica la lunghezza dei loro bracci, occorreva la forza di due oggetti massicci in fusione: due buchi neri, una stella di neutroni e un buco nero, o due stelle di neutroni. Secondo nuove simulazioni pubblicate su Apj Letters, però, anche le onde gravitazionali generate dal collasso di particolari stelle massicce chiamate collapsar potrebbero essere rivelate. Anche se farlo sarebbe molto più complesso.

Una collapsar è una stella molto massiccia il cui nucleo ha una massa superiore a 30 volte la massa del Sole, e che una volta esaurito il carburante per la fusione nucleare implode in un buco nero, lasciando il materiale residuo della stella spiraleggiare rapidamente verso l’oscurità. La spirale di materiale – che dura pochi minuti – è così densa da distorcere lo spazio-tempo circostante, creando onde gravitazionali che viaggiano attraverso l’universo. E che, secondo le simulazioni condotte al Center for Computational Astrophysics (Cca) del Flatiron Institute di New York, potrebbero essere già presenti nei dati d’archivio raccolti finora dagli interferometri Ligo e Virgo.

«Una delle domande più interessanti nel campo è: quali sono le potenziali sorgenti non fuse che potrebbero produrre onde gravitazionali e che possiamo rilevare con le strutture attuali?», dice Ore Gottlieb, ricercatore al Cca e primo autore dell’articolo. «Una risposta promettente, ora, è collapsar».

Un risultato sorprendente, dato che finora si pensava che le onde gravitazionali generate da oggetti singoli si perdessero nel rumore di fondo dell’universo, ma non esente da vincoli stringenti. Per una serie di ragioni, infatti, trovare le onde gravitazionali prodotte dalle collapsar sarebbe tutt’altro che semplice. Innanzitutto, le simulazioni hanno mostrato che il collasso di questi oggetti può produrre onde gravitazionali visibili dai nostri interferometri solo entro 50 milioni di anni luce di distanza. Distanza che sarebbe meno di un decimo rispetto al limite di rilevazione delle onde gravitazionali più potenti prodotte dalla fusione di buchi neri o stelle di neutroni, ma comunque più forte di qualsiasi altro evento non legato alla fusione finora simulato.

E se è vero che alcuni segnali potrebbero già essere presenti nei dati d’archivio degli interferometri, sapere come dovrebbero essere fatti, esattamente, non è affatto scontato. Nello studio infatti sono stati simulati solo pochi eventi di collasso, mentre le stelle che potrebbero generarli coprono un’ampia gamma di profili di massa e rotazione, cosa che comporta differenze nei segnali di onde gravitazionali in arrivo. Bisognerebbe – dicono gli autori – simulare almeno un milione di collassi per avere un numero sufficiente di casi con cui confrontare i segnali misurati, ma le simulazioni sono molto costose e a oggi questi numeri sono impensabili. Con quanto simulato finora sarebbe davvero improbabile trovare qualunque corrispondenza, poiché ogni stella produce un segnale potenzialmente unico data la propria massa e rotazione. Un’altra strategia potrebbe essere utilizzare altri segnali provenienti da eventi di collasso vicini rilevati con altri strumenti – come supernove o lampi di raggi gamma emessi durante il collasso di una stella – e poi cercare negli archivi di dati se sono state rilevate onde gravitazionali in quell’area del cielo nello stesso momento.

Insomma, c’è del potenziale ma manca una strategia e, forse, anche i mezzi. Trovare questi segnali, però, sarebbe importante non solo per dimostrare che anche eventi singoli generano onde gravitazionali misurabili, ma anche per comprendere meglio la struttura interna della stella al momento del collasso e, con essa, le proprietà dei buchi neri: due argomenti ancora poco conosciuti e, dicono gli autori, non indagabili altrimenti.

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Giovani astri negli abissi polverosi di Perseo


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Il nuovo straordinario mosaico di immagini prodotto dal telescopio spaziale James Webb di Nasa, Esa e Csa che vedete qui sotto mostra il vicino ammasso di formazione stellare Ngc 1333. La nebulosa si trova nella nube molecolare di Perseo, a circa 960 anni luce di distanza da noi.

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L’ammasso di formazione stellare Ngc 1333 immortalato da Jwst. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, A. Scholz, K. Muzic, A. Langeveld, R. Jayawardhana

La superba sensibilità di Webb permette agli astronomi di studiare oggetti giovani anche con masse estremamente piccole. Alcune fra le “stelle” più deboli presenti nell’immagine sono in realtà nane brune vagabonde (free-floating) appena nate, con masse paragonabili a quelle dei pianeti giganti.

Lo stesso ammasso era stato presentato come immagine per celebrare il 33esimo anniversario del telescopio spaziale Hubble nell’aprile del 2023. Poiché ci sono nubi di polvere a oscurare gran parte del processo di formazione stellare, l’immagine acquisita per l’occasione da Hubble era riuscita appena a scalfire la superficie di questa regione di cielo. Osservando con un’apertura maggiore e nella parte infrarossa dello spettro, Webb è invece in grado di scrutare attraverso il velo polveroso e rivelare – appunto – stelle neonate, nane brune e oggetti di massa planetaria.

Al centro dell’immagine, uno sguardo profondo nel cuore della nube Ngc 1333. Tutt’attorno si notano ampie macchie di colore arancione: rappresentano il gas che brilla nell’infrarosso. Formazioni come questa sono dette oggetti di Herbig-Haro e si formano quando la materia ionizzata espulsa da giovani stelle si scontra con la nube circostante. Sono segni distintivi di un sito di formazione stellare molto attivo.

Molte delle giovani stelle di questa immagine sono circondate da dischi di gas e polvere che potrebbero evolvere in sistemi planetari. Sulla destra si può intravedere l’ombra di uno di questi dischi orientato di taglio: due coni scuri che si propagano lungo direzioni opposte, visti su uno sfondo luminoso.

Come le giovani stelle di questo mosaico, anche il Sole e i pianeti del Sistema solare – 4,6 miliardi di anni fa – si sono formati all’interno di una nube molecolare polverosa. Il Sole non ha avuto origine in modo isolato, ma come parte di un ammasso, forse ancora più massiccio di Ngc 1333. L’ammasso nel mosaico ha invece solo 1-3 milioni di anni e offre dunque l’opportunità di studiare stelle come il nostro Sole, così come nane brune e pianeti liberi, nelle loro fasi nascenti.

Le immagini sono state acquisite da Webb nell’ambito del programma di osservazione 1202 (principal investigator Aleks Scholz), che ha rilevato una vasta porzione di Ngc 1333. Questi dati costituiscono la prima indagine spettroscopica profonda del giovane ammasso e hanno identificato nane brune fino a masse planetarie utilizzando lo strumento Niriss (Near-InfraRed Imager and Slitless Spectrograph) del telescopio. I primi risultati della survey sono stati accettati per la pubblicazione su The Astronomical Journal.

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube dell’Esa:

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Risoluzione senza precedenti per Eht


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Ubicazione degli osservatori utilizzati nel corso dell’esperimento pilota condotto da Eht: l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) e l’Atacama Pathfinder Experiment (Apex), in Cile, il telescopio Iram da 30 metri (30-M) in Spagna e il NOrthern Extended Millimeter Array (Noema) in Francia, nonché il Greenland Telescope (Glt) e il Submillimeter Array (Sma) alle Hawaii. Crediti: Eso/M. Kornmesser

La Collaborazione Eht (Event Horizon Telescope) ha condotto alcune osservazioni di prova, utilizzando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) e altre strutture, per raggiungere la risoluzione più alta mai ottenuta usando solo telescopi sulla Terra. Sono riusciti a compiere questa impresa rivelando la luce di galassie distanti a una frequenza di circa 345 GHz, equivalente a una lunghezza d’onda di 0,87 mm. La Collaborazione stima che in futuro si potranno realizzare immagini di buchi neri il 50 per cento più dettagliate di quanto possibile in precedenza, consentendo di mettere a fuoco più nitidamente la regione immediatamente al di fuori del confine dei buchi neri supermassicci vicini. Si potranno anche riprendere altri buchi neri oltre a quanto fatto finora. Le nuove osservazioni, parte di un esperimento pilota, sono state pubblicate oggi su The Astronomical Journal.

La Collaborazione Eht ha pubblicato nel 2019 alcune immagini di M87*, il buco nero supermassiccio al centro della galassia M87, e nel 2022 di Sgr A*, il buco nero al centro della nostra galassia, la Via Lattea. Queste immagini sono state ottenute collegando diversi osservatori radio in tutto il pianeta, utilizzando una tecnica chiamata interferometria a base molto lunga (Vlbi, per very long baseline interferometry), in modo da formare un singolo telescopio virtuale “delle dimensioni della Terra”.

Per ottenere immagini ad alta risoluzione, gli astronomi in genere si affidano a telescopi più grandi o a una maggiore separazione tra gli osservatori che lavorano come parte di un interferometro. Ma poiché l’Eht aveva già le dimensioni di tutta la Terra, aumentare la risoluzione delle osservazioni terrestri richiedeva un approccio diverso. Un altro modo per aumentare la risoluzione di un telescopio è di osservare la luce di una lunghezza d’onda più corta: questo è ciò che ha fatto ora la Collaborazione Eht.

«Con l’Eht abbiamo visto le prime immagini di buchi neri usando osservazioni a lunghezza d’onda di 1,3 mm, ma l’anello luminoso, formato dalla luce che si piega a causa della gravità del buco nero, sembrava ancora sfocato perché eravamo ai limiti assoluti della possibilità di rendere nitide le immagini», dice il co-responsabile dello studio Alexander Raymond, in precedenza ricercatore post-dottorato presso il Center for Astrophysics | Harvard & Smithsonian (CfA) e ora presso il Jet Propulsion Laboratory, entrambi negli Stati Uniti. «A 0,87 mm le immagini saranno più nitide e dettagliate, e ciò rivelerà probabilmente nuove proprietà, sia quelle che erano state precedentemente previste sia forse alcune che non lo erano».

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Immagini simulate al computer dell’emissione vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero simile a Sgr A* alle lunghezze d’onda di 1,3 mm (a sinistra) e 0,87 mm (a destra). Mostrano come sia possibile vedere molti più dettagli osservando un buco nero a lunghezze d’onda inferiori. La barra orizzontale indica una scala angolare di 40 microarcsecondi. Crediti:
Christian M. Fromm, Università Julius-Maximilian, Würzburg

Per dimostrare di essere in grado di osservare a 0,87 mm, la Collaborazione ha condotto osservazioni di prova di galassie distanti e luminose a questa lunghezza d’onda. Invece di usare l’intera schiera di Eht, sono stati attivate due sotto-schiere più piccole, entrambe comprendenti sia Alma che Apex (Atacama Pathfinder EXperiment), nel deserto di Atacama in Cile. L’Eso (European Southern Observatory) è un partner di Alma e co-ospita e co-gestisce Apex. Altre strutture utilizzate comprendono il telescopio Iram da 30 metri in Spagna e Noema (Northern Extended Millimeter Array) in Francia, così come il Greenland Telescope e il Submillimeter Array alle Hawaii.

In questo esperimento pilota, la Collaborazione ha ottenuto osservazioni con dettagli minuti fino a 19 microarcosecondi, corrispondente alla massima risoluzione mai ottenuta dalla superficie della Terra. Tuttavia, non sono ancora riusciti a ottenere immagini: mentre la rivelazione della luce da diverse galassie distanti è robusta, non sono state utilizzate abbastanza antenne per poter ricostruire accuratamente un’immagine dai dati ottenuti.

Questo test tecnico ha aperto una nuova finestra per studiare i buchi neri. Con l’intera schiera, l’Eht potrebbe vedere dettagli piccoli fino a 13 microarcosecondi, equivalenti a vedere dalla Terra un tappo di bottiglia sulla Luna. Ciò significa che, a 0,87 mm, si potranno ottenere immagini con una risoluzione circa il 50 per cento superiore rispetto a quella delle immagini di M87* e SgrA* da 1,3 mm pubblicate in precedenza. Inoltre, si potrebbero anche osservare buchi neri più distanti, più piccoli e più deboli dei due che la Collaborazione ha ripreso finora.

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I punti gialli presenti sulla mappa indicano la posizione delle antenne e degli array che hanno partecipato a un esperimento pilota condotto dalla Event Horizon Telescope (Eht) Collaboration. Per la prima volta è stata impiegata con successo la tecnica dell’interferometria a lunghissima linea di base – che collega telescopi distanti centinaia o migliaia di chilometri – per osservare la luce a una lunghezza d’onda di 0,87 mm, inferiore rispetto al passato, riuscendo così a ottenere osservazioni a risoluzione più elevata senza dover costruire un telescopio più grande. Le rilevazioni effettuate hanno la più alta risoluzione mai ottenuta dalla superficie della Terra. Crediti:
Eso/M. Kornmesser

«Osservare i cambiamenti nel gas circostante a diverse lunghezze d’onda», dice il direttore fondatore dell’Eht Sheperd “Shep” Doeleman, astrofisico presso il CfA e co-responsabile dello studio, «ci aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri attraggono e accumulano materia e di come possono lanciare potenti getti su distanze galattiche».

Questa è la prima volta in cui la tecnica Vlbi è stata utilizzata con successo alla lunghezza d’onda di 0,87 mm. Sebbene la capacità di osservare il cielo notturno a 0,87 mm esistesse prima delle nuove rivelazioni, l’utilizzo della tecnica Vlbi a questa lunghezza d’onda ha sempre presentato sfide che hanno richiesto tempo e progressi tecnologici per essere superate. Per esempio, il vapore acqueo nell’atmosfera assorbe le onde luminose a 0,87 mm molto più di quanto non faccia a 1,3 mm, rendendo più difficile per i radiotelescopi ricevere i segnali dei buchi neri alla lunghezza d’onda più corta. In combinazione con turbolenze atmosferiche sempre più pronunciate e accumulo di rumore a lunghezze d’onda più corte, oltre all’impossibilità di controllare le condizioni meteorologiche globali durante le osservazioni, sensibili alle condizioni atmosferiche, il progresso per il Vlbi verso lunghezze d’onda più corte, in particolare quelle che superano la barriera verso il regime submillimetrico, è stato lento. Ma con queste nuove misure, tutto è cambiato.

«I segnali Vlbi osservati a 0,87 mm sono rivoluzionari poiché aprono una nuova finestra di osservazione per lo studio dei buchi neri supermassicci», dice Thomas Krichbaum, coautore dello studio e dipendente del Max Planck Institute for Radio Astronomy in Germania, un’istituzione che gestisce il telescopio Apex insieme con l’Eso. «In futuro, la combinazione dei telescopi Iram in Spagna (Iram-30m) e Francia (Noema) con Alma e Apex consentirà di ottenere immagini di emissioni ancora più piccole e deboli di quanto sia stato possibile finora a due lunghezze d’onda, 1,3 mm e 0,87 mm, simultaneamente».

Fonte: comunicato stampa Eso

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