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La richiesta di impeachment per Glauber Braga è un attacco dei Bolsonaristi alla democrazia brasiliana


La destituzione di Glauber Braga svela la selettività, l’autoritarismo e gli interessi oscuri nella Camera dei Deputati del Brasile.

Il deputato federale Glauber Braga (PSOL-RJ) è oggetto di un processo di destituzione che, più che un atto disciplinare, rappresenta un attacco diretto alla democrazia e un messaggio inquietante rivolto a chi osa sfidare i poteri costituiti. In sciopero della fame dal 9 aprile 2025, Glauber affronta un tentativo di silenziamento promosso da forze che operano nella Camera dei Deputati e che trovano in Arthur Lira (PP-AL) uno dei loro principali esponenti.

Il Consiglio di Etica ha approvato la destituzione del parlamentare con 13 voti favorevoli e 5 contrari, basandosi su un episodio isolato in cui Glauber avrebbe reagito ad aggressioni verbali contro la sua defunta madre. Ma questo argomento, usato come pretesto, serve solo a mascherare la vera motivazione del processo: punire esemplarmente chi ha osato denunciare il miliardario del “bilancio segreto” e affrontare direttamente Lira, l’architetto di un meccanismo di corruzione istituzionalizzata.

La pena è sproporzionata, ingiusta e scandalosamente selettiva. Glauber, noto per la sua condotta etica, ferma e combattiva, viene trattato come un criminale. Nel frattempo, parlamentari accusati di crimini gravissimi, come omicidi o coinvolgimenti con le milizie, restano impuniti e mantengono tutti i privilegi.

Il caso dell’ex deputata Flordelis, il cui mandato è stato revocato solo dopo essere stata formalmente accusata di aver ordinato l’uccisione del marito, e l’ancora più sconvolgente caso di Chiquinho Brazão, uno dei mandanti dell’assassinio della consigliera Marielle Franco, illustrano plasticamente questo contrasto brutale.

Brazão, nonostante sia stato arrestato per decisione della Corte Suprema, continua a ricevere lo stipendio da deputato, ad avere un appartamento funzionale a Brasília e a mantenere 24 assistenti nel proprio ufficio. La domanda è inevitabile: perché Glauber è trattato in modo diverso?

La risposta ha un nome: Arthur Lira. Durante la sua presidenza della Camera (2021–2023), Lira ha concentrato un potere senza precedenti, strumentalizzando il bilancio segreto per acquistare sostegno politico e silenziare le voci dissidenti. Le sue alleanze hanno garantito protezione agli alleati e persecuzione sistematica contro chiunque osasse opporsi.

Le denunce di Glauber hanno contribuito a svelare uno dei più grandi scandali nella storia recente del Parlamento, spingendo la Corte Suprema a dichiarare incostituzionale il bilancio segreto nel 2022. Da allora, è diventato bersaglio di persecuzioni orchestrate, culminate in questo processo politico mascherato da questione etica.

Arthur Lira, coinvolto in continue denunce per corruzione, riciclaggio di denaro e illeciti amministrativi, rappresenta il ritratto di un’élite politica che opera ai margini della democrazia. Sebbene abbia lasciato la presidenza della Camera, la sua influenza resta determinante, plasmando decisioni e zittendo oppositori. La sua figura incarna un modello di potere fascista, basato sul ricatto, sulla manipolazione delle risorse pubbliche e sull’intimidazione di chi non si piega.

Il tentativo di destituire Glauber Braga non è solo un’ingiustizia contro un parlamentare combattivo. È un sintomo allarmante del processo continuo di erosione democratica che il Brasile vive sin dal tentativo di colpo di Stato dell’8 gennaio 2023.

Ora l’attacco è più sottile — ma non meno pericoloso: si cerca di eliminare dal Parlamento chi rappresenta la resistenza, la coerenza e l’integrità.
L’esito di questo caso dirà molto sul futuro del paese.

Mantenere Glauber Braga in Parlamento è più che salvaguardare un mandato — è difendere il diritto di denunciare, vigilare, resistere e rappresentare con coraggio il popolo che l’ha eletto.

Invece, se la destituzione di Glauber dovesse procedere, il messaggio sarà chiaro: in questo Brasile, chi osa sfidare i padroni del potere sarà punito.

Pertanto ribadiamo #glauberresta #glauberfica.

Thais Bonini

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Fediverso Possibile ha ricondiviso questo.


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Albania, queste sono deportazioni: chi rimane in silenzio è complice


DEPORTATI! Una quarantina di persone sono state deportate in Albania.

Sì, non esistono altri termini per descrivere quanto sta avvenendo. Con l’ultimo “dl immigrazione” il centro di Gjader è stato trasformato in CPR, come ne esistono già tanti in Italia. E a finire nei CPR, ricordiamolo, possono essere anche persone nate o residenti in Italia da tempo che magari hanno avuto problemi col permesso di soggiorno, ad esempio perchè hanno perso il lavoro. I CPR, infatti, sono centri di detenzione amministrativa, un paradosso giuridico. Per dimostrare che il piano della destra avesse un senso hanno dovuto raccattare persone rinchiuse nei CPR del sud Italia per provare a riempire quello di Gjader.

Le domande che poniamo sono tante, tra cui:

- Dove sono stati trattenuti prima del trasferimento che è stato rimandato per diversi giorni?

- È garantita loro la possibilità di comunicare con familiari e legali? Se si, avviene sotto stretta osservazione delle forze di polizia? Se così fosse che modo potrebbero comunicare eventuali violenze subite come tristemente noto per tutti i CPR in Italia?

- Se dovessero avere accesso a misure alternative o vincere ricorsi contro la misura di espulsione, dove verranno rilasciati?

Il tutto avviene senza che vi sia appiglio legale con le direttive UE attualmente in vigore, anche se anche a livello comunitario si sta lavorando per autorizzare queste misure disumane. Né che vi siano reali necessità di avere posti disponibili nei CPR, garantiti già a sufficienza sul territorio italiano.

Noi continueremo a chiedere la chiusura non solo del CPR di Gjader ma anche di tutti quelli presenti in Italia perché rappresentano dei luoghi in cui i diritti umani vengono calpestati quotidianamente.

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Fare la cosa giusta significa difendere chi non ha voce: Intervento di Gianmarco Capogna al Congresso di Europa Verde Lazio


È un onore per me portare il saluto di Possibile a questo importante congresso di Europa Verde Lazio. Siamo qui oggi non solo per riaffermare un’amicizia politica, ma per ribadire un impegno comune, concreto e necessario per il futuro della nostra regione.

Viviamo in un tempo segnato da crisi ambientali, sociali ed economiche che colpiscono in modo sproporzionato le fasce più vulnerabili della popolazione. La Regione Lazio, sotto la guida della giunta Rocca, si sta dimostrando incapace di affrontare queste sfide con la visione e la determinazione necessarie. Anzi, assistiamo a un continuo arretramento su temi cruciali come la tutela della salute, la mobilità sostenibile, l’accesso ai diritti e la partecipazione democratica. Noi non possiamo permettere che questo accada nell’indifferenza.

Vogliamo partire proprio da qui, dal nostro impegno per una sanità pubblica accessibile e di qualità. La Regione Lazio soffre da anni di un impoverimento delle strutture sanitarie territoriali, con liste d’attesa infinite e il continuo depotenziamento della medicina di prossimità. La destra continua a favorire il privato a scapito del servizio pubblico, aumentando le disuguaglianze nell’accesso alle cure. Dobbiamo ribaltare questa tendenza e riaffermare il principio che la salute è un diritto, non un privilegio.

Ma la salute non si difende solo nelle corsie degli ospedali: si tutela nelle città, nei quartieri, nelle case delle persone. L’inquinamento atmosferico, il consumo di suolo incontrollato, l’assenza di un piano serio per la mobilità sostenibile sono elementi che incidono direttamente sulla qualità della vita e sulla salute pubblica. Invece di investire su trasporto pubblico efficiente e accessibile, vediamo un sistema ferroviario regionale sempre più in difficoltà, con tagli al servizio e infrastrutture obsolete. Dobbiamo mettere al centro del dibattito un piano regionale per la mobilità sostenibile, che garantisca collegamenti efficienti e a basse emissioni, riducendo la dipendenza dall’auto privata.

Non possiamo parlare di futuro senza parlare di giovani. Siamo la regione della precarietà diffusa, dei tirocini gratuiti, dell’accesso negato al diritto allo studio, di una formazione spesso scollegata dal mondo del lavoro. Servono politiche attive per garantire a chi studia e lavora qui di poter costruire il proprio futuro con dignità. Ma non solo: vogliamo una regione che dia spazi di partecipazione reale ai giovani, non solo come destinatari di politiche decise altrove, ma come protagonistə di un cambiamento vero. Per questo dobbiamo rafforzare la partecipazione politica e istituzionale a livello provinciale e territoriale, creando strumenti concreti affinché le nuove generazioni possano incidere sulle decisioni che riguardano il loro futuro.

La povertà è un tema di cui si parla sempre meno, come se fosse scomparsa, ma la realtà è ben diversa. Nelle grandi città come nelle province, sempre più persone sono costrette a vivere in condizioni di precarietà economica, senza accesso a servizi essenziali, con salari insufficienti e un costo della vita in continua crescita. La giunta Rocca ignora queste realtà, preferendo una politica che premia pochi privilegiati e lascia indietro chi è più fragile. Noi dobbiamo riportare al centro del dibattito politico la lotta alla povertà, con misure concrete di sostegno al reddito, accesso a case popolari dignitose e servizi sociali realmente inclusivi.

Come ha detto Alexandria Ocasio-Cortez: “Il cambiamento richiede coraggio.” E il coraggio è contagioso. E fare la cosa giusta significa difendere chi non ha voce, costruire un futuro in cui nessuno debba scegliere tra dignità e sopravvivenza.

E quando parliamo di diritti non possiamo ignorare le battaglie per l’uguaglianza e l’inclusione. Il Lazio ha visto, negli anni passati, passi avanti importanti per la tutela delle persone LGBT+, con l’istituzione del servizio contro le discriminazioni e la promozione di politiche di inclusione.

Oggi tutto questo è a rischio, sotto attacco da parte di una maggioranza regionale che non ha esitato a ostacolare il Pride, a ridurre i fondi per le politiche di contrasto alla violenza di genere, a ignorare la necessità di un reale sostegno alle famiglie arcobaleno. Noi non faremo un passo indietro: vogliamo una regione che garantisca diritti per tutte e tutti, che riconosca e valorizzi le diversità, che costruisca comunità più aperte e solidali.

Come ha dichiarato Marine Tondelier, leader Europe Écologie Les Verts la sera dei risultati elettorali delle elezioni parlamentari: “Stanotte, la giustizia sociale ha vinto. Stanotte, la giustizia ambientale ha vinto. Stanotte, il popolo ha vinto. E tutto è solo all’inizio.”

Questo è esattamente il nostro obiettivo: non essere una presenza simbolica, ma la forza trainante di un cambiamento reale.

Mai come oggi serve essere profondamente europeisti, e la nostra visione è quella di un’Europa unita e politica, federalista, che sia un faro di pace e progresso. Il progetto visionario del Manifesto di Ventotene, che difendiamo e rivendichiamo, è oggi più che mai attuale. Perché l’Europa deve diventare una vera federazione, capace di rispondere con decisione alle sfide globali, alle emergenze ambientali e sociali, ma anche alle minacce autoritarie che provengono all’interno e dall’esterno dei suoi confini.

In questo contesto, è fondamentale ricordare che la difesa dei diritti umani e della democrazia non è una battaglia di parte, ma un impegno che deve vedere tutti uniti. Le gravi minacce che arrivano da paesi come l’Ungheria, che ha ormai dimostrato la sua natura illiberale, e l’aggressione russa all’Ucraina, ci impongono di costruire un’Europa più forte, capace di difendere i suoi valori fondamentali.

Inoltre, non possiamo restare indifferenti alla tragedia che si sta consumando in Palestina. Il genocidio di un popolo intero deve essere una chiamata urgente alla pace e alla giustizia. È nostro dovere alzare la voce e chiedere una fine immediata delle violenze, la tutela dei diritti del popolo palestinese e un impegno diplomatico internazionale per fermare questa carneficina. La pace in Palestina non è solo una causa per il Medio Oriente, è una battaglia per tutti noi, per la dignità di ogni essere umano.

Come ha affermato Terry Reintke, co-presidente del gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo: “L’Unione Europea—nonostante tutte le sue mancanze—è ancora il più grande progetto di pace di questo continente.”

E noi siamo qui per farlo, con determinazione e visione.

È fondamentale rafforzare il nostro rapporto, costruire spazi di confronto stabili tra Possibile ed Europa Verde e lavorare insieme per ampliare le alleanze con tutte quelle realtà che condividono con noi la necessità di un cambiamento radicale. Dobbiamo essere la voce di chi oggi non ha rappresentanza, di chi subisce le disuguaglianze, di chi chiede un’alternativa credibile e determinata.

Voglio chiudere questo intervento con un saluto e un ringraziamento ai Giovani Europeisti Verdi, che rappresentano un motore fondamentale per il futuro dell’ecologismo politico e della battaglia generazionale.

Costruiamo insieme il futuro che vogliamo. Non c’è più tempo per aspettare, è il momento di agire.

Grazie e buon lavoro agli organi che saranno eletti oggi!

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Le parole di Piantedosi sui CPR in Albania significano una sola cosa: deportazioni


I centri in Albania sarebbero dei CPR in un paese terzo, questo emerge dalle dichiarazioni del Ministro Piantedosi. Si punta a trasferire in Albania non più le persone migranti intercettate in mare, ma persone migranti presenti in Italia che hanno ricevuto un provvedimento di espulsione convalidato dal magistrato.

Il decreto che introduce la novità dovrebbe andare venerdì prossimo all’esame del Consiglio dei ministri. Ma vorremmo soffermarci sulle parole di Piantedosi.

“Non possono diventare Cpr perché il Cpr c’è già, all’interno della struttura polifunzionale”. Non ci avevano detto questo, però. Ci avevano detto che ci avrebbero portato le persone intercettate in mare, cosa che era già un fallimento etico, giuridico ed economico. Sorge però il dubbio che questo fosse stato il piano sin dall’inizio.

“Ce lo chiede l’Europa”, prosegue il Ministro. E anche questo non sarebbe propriamente vero.

Piantedosi farebbe riferimento alla Proposta di Regolamento dei Ritorni presentata l’11 marzo dalla Commissione Europea (l’esecutivo di Bruxelles) che deve ancora passare per i negoziati e che è stata immediatamente criticata. La proposta introduce la possibilità per gli Stati Membri di siglare accordi con Paesi Terzi per farci ritornare (leggere deportare) le persone migranti in strutture chiamate “hub di ritorno” (leggere prigioni per persone migranti).

Eurobserver ha già parlato di regime di deportazioni. Inoltre questo Regolamento è stato proposto senza una valutazione dell’impatto dei diritti umani, cosa gravissima che sta diventando un trend delle politiche migratorie europee essendo già la seconda proposta consecutiva che viene presentata senza valutazione di impatto sollevando critiche durissime di legali.

Il messaggio sembrerebbe chiaro, o almeno ancora più chiaro: dei diritti umani non ce ne sta fregando più nulla. E questo fa paura per tutte e tutti. I diritti rimarrebbero di facciata visto che si dice genericamente che in questi paesi terzi devono essere rispettati i diritti ma viene da chiedersi come, dato che non riusciamo nemmeno a rispettarli in casa. Lo sappiamo tutte che i CPR sono dei buchi neri, la morte dei diritti.

Questa è una vicenda gravissima che ci riguarda tutte perchè quando c’è di mezzo la libertà — di chiunque essa sia — siamo responsabili tutte. Non permettiamo all’uso del linguaggio burocratico, sia della Commissione che dei nostri, di neutralizzare la violenza di questo piano.

Se mai ci fosse stata una linea, è stata di gran lunga superata. Possono chiamarli “ritorni” e “hub di ritorno”, noi chiamiamoli per quelle che sono: deportazioni e prigioni in paesi terzi. Riconosciamone la gravità e opponiamoci.

Jessi Kume
Accoglienza Possibile

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Il caso Ginori è il paradigma di come funziona la destra al potere


Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere l’avvicendamento alla presidenza della Fondazione Museo Richard Ginori di Sesto Fiorentino, deciso dal ministro della Cultura Alessandro Giuli: Tomaso Montanari, il cui mandato era scaduto già lo scorso autunno, è stato sostituito da Marco Corsini, avvocato dello stato e attuale sindaco di Rio nell’Elba. Il clamore mediatico, insolito per una nomina riguardante una fondazione culturale, e certo amplificato dalla notorietà di Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, storico dell’arte di grande valore (e specialista di quel barocco che alimenta buona parte delle collezioni del museo Ginori, tra i più importanti al mondo per la storia della porcellana), ma anche intellettuale impegnato e apprezzato ben al di fuori della sua cerchia disciplinare, si deve soprattutto a una questione di metodo e a una di merito, entrambe collegate. In casi del genere la forma coincide con la sostanza, ma la sostanza finisce per avere una tenuta più lunga. Per questo è importante rifletterci a freddo. E per questo il caso Ginori è una sorta di paradigma.

Il presidente della Fondazione Ginori viene nominato dal Ministro della Cultura, sentiti il presidente della Regione Toscana e il sindaco di Sesto Fiorentino. Un passaggio meramente diplomatico (chi decide è il ministro, non una concertazione) ma indicativo di una buona politica, visto che il rapporto con il territorio rappresenta un valore fondamentale di istituzioni come questa. Questa volta il passaggio non c’è stato, e ne sono scaturite reazioni di netta contrarietà da parte di tutti gli interessati. Tanto più che il ministro aveva fornito, ancora a fine 2024, ampie rassicurazioni a Montanari circa la sua riconferma. Intendiamoci: è nell’ordine delle cose che un ministro possa ripensarci, e quindi nominare una figura che ritiene più adatta a un certo ruolo, ovvero più vicina alla sua visione politica. L’iniziativa di Giuli è dunque sgarbata ma non illegittima. Non possiamo ovviamente che condividere con Montanari una calorosa solidarietà, ma crediamo difficile che il ministro possa tornare sui suoi passi, anche a fronte di proteste vibranti come quelle che sono divampate appena la notizia si è diffusa. Il decisionismo assertivo, anzi, mira proprio a intimidire gli interlocutori, perché non si ferma davanti a nulla. E quindi comunica una falsa impressione di efficienza.

Quel che inquieta non è che il ministro abbia cambiato idea, ma che non abbia ritenuto di dover argomentare le ragioni del cambiamento. Una scelta così delicata deve discendere da una visione politica larga e articolata dei rapporti del museo con il territorio e con il Paese, e dunque richiede una riflessione ponderata che è dovere di chi governa condividere con l’opinione pubblica. Sempre che la visione ci sia. L’innesco della mancata riconferma sembra invece da riconoscere in un pretesto formale che di per sé non ha rilevanza alcuna. Il presidente non dovrebbe avere carichi pendenti, ma recentemente Montanari è stato querelato dal ministro Francesco Lollobrigida per alcune parole forti sul concetto di “sostituzione etnica” da cui il ministro si era sentito diffamato. Tanto sarebbe bastato per far uscire lo studioso dalla partita. Ribadito che una querela non è una condanna, e che qui si tratta semmai di reati d’opinione, è bizzarro che tanto rigore venga applicato al presidente di un museo mentre ministri e sottosegretari rinviati a giudizio o addirittura condannati per cose non proprio irrilevanti non pensino neppure di dimettersi. Lecito domandarsi se Giuli non abbia dovuto cedere a pressioni di una parte consistente (o influente) della maggioranza di destra che vede in Montanari un personaggio scomodo, se non addirittura un nemico da abbattere. In tal senso, togliergli un incarico importante (e di nomina ministeriale) è al tempo stesso una rappresaglia e un monito al dissenso. Se vuoi conservare una poltrona (in questo caso, peraltro, affatto gratuita), insomma, ti devi allineare. Se non ti allinei, resti fuori. Un metodo squadrista elevato a prassi di governo.

La questione di merito è tuttavia ancora più inquietante. Il ruolo di presidente di una fondazione museale è soprattutto politico e gestionale, ma non è vero che una fondazione valga l’altra, perché i musei sono istituzioni (e “opere pubbliche”) affatto particolari. Montanari è uno storico dell’arte che ha piena contezza di cosa un museo sia, voglia e debba essere; e soprattutto aveva avviato un percorso complicato di recupero, adeguamento e riallestimento di un museo, ricordiamolo, chiuso dal 2013, salvatosi perché acquisito dallo stato: solo ora si comincia a intravedere la conclusione della parabola, perché il 2026 dovrebbe essere l’anno della riapertura. Forse Giuli ha ritenuto che per chiudere il cerchio ci volesse una figura già collaudata nella gestione di grandi opere, con vasta esperienza giuridica messa a frutto sia nel ruolo di commissario straordinario (in Veneto, ad esempio, per l’autostrada Pedemontana, giunta Zaia) che di assessore (a Venezia, giunta Costa, e Roma, giunta Alemanno). E qui sta il punto. Dal vasto e importante curriculum di Corsini non risulta una sola esperienza in un’istituzione culturale. Risulta invece una fedeltà a una linea politica che evidentemente deve avere prevalso su tutto il resto. Come del resto fin dalla fase di composizione del governo in carica, per cui la competenza sembra essere stata nella maggior parte dei casi un fastidioso optional, e l’appartenenza (se non vogliamo chiamarla fedeltà al capo) un valore dirimente e quasi irrinunciabile. Ma siamo proprio sicuri, anche a prescindere dal colore politico, che governare un’autostrada e governare un museo sia esattamente la stessa cosa?

Il Governo Meloni non ha mai fatto mistero di perseguire una politica culturale fortemente nazionalista e identitaria, ma di fatto pretende di governare il patrimonio artistico più importante del mondo con l’antropologia di un clan ristretto di amici e parenti. E quand’anche il clan riuscisse a selezionare solo competenti indiscussi, dovrebbe comunque lasciare spazio per sviluppare idee diverse, per maturare quel confronto che fa progredire la conoscenza come la politica, e che serve a rappresentare un’idea di cittadinanza. La selezione della classe dirigente – politica e tecnica – è dunque un tema sul quale, oltre il caso specifico, dovremo continuare a ragionare e sul quale dovremo essere molto esigenti. Un grande tema del presente, gravido di ipoteche sul futuro (anche perché questa classe bisogna continuare a formarla). Che tuttavia sembra non stare in nessuna agenda politica, stranamente nemmeno a sinistra.

Nello scorso fine settimana purtroppo Sesto e la sua piana hanno fatto notizia anche e soprattutto per le conseguenze delle devastanti piogge che hanno provocato esondazioni, frane, allagamenti. Un territorio fragile ha bisogno di competenze, a tutti i livelli, che siano capaci di leggere storicamente il territorio, nelle sue complesse stratificazioni, per farne oggetto di una buona politica. Un museo di porcellane non ci protegge automaticamente dalle calamità naturali, ma ci aiuta a coltivare la sensibilità per il patrimonio. E ci aiuta a pensare storicamente: questo sì che giova alle buone pratiche del buon governo. Siccome le istituzioni culturali devono essere matrici primarie di cittadinanza, diritti, libertà e dunque buon governo, non sono irrilevanti le persone che le guidano. Per questo la loro scelta deve avvenire in modo trasparente, dandone conto all’opinione pubblica. Che non può essere ridotta al ruolo di spettatrice impotente e passiva, ma deve essere parte fondamentale di un processo partecipativo di cui i luoghi della cultura sono laboratori fondamentali.

Fulvio Cervini
Possibile Firenze — Comitato Piero Calamandrei

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Con Maysoon Majidi, sempre


Ieri, a Sant’Alessio in Aspromonte, abbiamo vissuto un momento di potente significato politico e umano: il conferimento della cittadinanza onoraria a Maysoon Majidi. Una scelta che va oltre la burocrazia e diventa un messaggio chiaro e necessario.

Maysoon, con la sua storia di resistenza, ci insegna che nessuna di noi è libera finché tutt* non lo siamo. Fuggita dall’Iran, ha trasformato il dolore della violenza e dell’esilio in un impegno quotidiano per la libertà delle donne e per i diritti di chi cerca rifugio. È un esempio di come la lotta contro il patriarcato, il razzismo e la violenza istituzionale sia una battaglia globale, che ci riguarda tutt*.

Un grazie speciale al Comune di Sant’Alessio per aver reso possibile questo gesto simbolico e politico. E un profondo riconoscimento alla CoopIsa di Luigi De Filippis e al progetto SAI di Antonella Attinà: realtà che ogni giorno dimostrano come l’accoglienza non sia un peso, ma una risorsa. Con il loro impegno costruiscono comunità solidali, promuovono autonomia e sostengono percorsi di autodeterminazione.

Un ringraziamento speciale anche a LBS — Bruno Salvatore Latella per il paste-up che ha impreziosito questa giornata e per il prezioso lavoro di squadra che ci ha permesso di esplorare la street art come strumento di ricerca materica e tecnica. Un’esperienza che ci ha aperto a nuovi scenari di rigenerazione urbana alternativa, dove l’arte diventa racconto, memoria collettiva e voce dei territori.

Noi di Calabria Possibile siamo e saremo sempre a fianco di queste realtà. Nel nostro simbolo c’è un uguale, a ricordarci ogni giorno che l’uguaglianza non è solo un valore, ma una pratica politica. E come ci ricorda la nostra storia:

“Le cause sono perse solo se nessuno è disposto a combattere per loro.”

Perché le donne con background migratorio in Italia affrontano una doppia, spesso tripla discriminazione: per il genere, per la provenienza e per la condizione economica. Il sistema patriarcale e razzista che le sfrutta nei lavori più precari e le ricatta con leggi repressive sulla cittadinanza è lo stesso che nega loro accesso a casa, salute e sicurezza.
Eppure, come ci insegna Sant’Alessio, le periferie possono essere il cuore pulsante del cambiamento. Progetti di accoglienza come questo dimostrano che un altro modello è possibile: un’accoglienza che non sia emergenziale, ma strutturale; che garantisca diritti e autonomia; che riconosca la dignità di ogni persona, a prescindere dal luogo di nascita.

Nessuna è libera finché non lo siamo tutt*. Continueremo a lottare per un sistema di cittadinanza giusta e inclusiva, per un’accoglienza che non conosca confini, e per un futuro in cui la libertà e la giustizia siano davvero di tuttə.
Grazie a chi ogni giorno costruisce questa possibilità.

Silvia Giandoriggio
Possibile Calabria

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Contro la detenzione delle persone migranti, per un’Europa che rimetta al centro i diritti


Lo scorso 15 marzo, a Roma, abbiamo partecipato all’assemblea promossa dal Network Against Migrant Detention, una rete transnazionale impegnata nella lotta per l’abolizione della detenzione amministrativa dei migranti. L’incontro è stato un’occasione preziosa per condividere riflessioni e strategie, alla presenza di attivistɜ, associazioni e organizzazioni politiche provenienti da diverse parti d’Europa. Come Possibile, eravamo presenti per portare il nostro contributo e riaffermare il nostro impegno verso un’Europa che rimetta al centro i diritti fondamentali delle persone.

L’assemblea ha visto la partecipazione di realtà provenienti da tutta Europa, unite dalla volontà di contrastare un sistema che criminalizza le migrazioni e normalizza la detenzione di massa, come fanno le nuove politiche migratorie dell’Unione Europea. È emersa la necessità di costruire una resistenza collettiva, capace di unire territori e comunità per opporsi a una deriva che minaccia i diritti umani e i principi di libertà e solidarietà.

CPR: Centri per il Rimpatrio o centri di privazione della libertà?

I CPR, presentati come strutture per il rimpatrio, sono in realtà veri e propri centri di detenzione, dove migliaia di persone vengono rinchiuse in condizioni disumane, con diritti limitati o inesistenti, in cui perfino il diritto alla salute non viene garantito.

In Italia, così come in altri Paesi europei, questi centri rappresentano il simbolo di politiche migratorie sempre più incentrate sulla repressione e sul controllo, piuttosto che sulla solidarietà.

Il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, che entrerà in vigore nel 2026, rischia di consolidare ulteriormente un sistema basato su detenzione, respingimenti e deportazioni: la via scelta sembra quella dell’istituzionalizzazione e normalizzazione della violazione dei diritti umani. Tra i punti più critici emersi vi sono:

  • Procedure accelerate e trattenimento obbligatorio di almeno sette giorni nei nuovi centri di frontiera, che limitano drasticamente l’accesso alla protezione internazionale;
  • Il concetto di “finzione di non ingresso”, che nega i diritti di chi si trova fisicamente sul territorio europeo.
  • La logica del “Paese terzo sicuro”, che permette il trasferimento di richiedenti asilo in nazioni fuori dall’UE, spesso senza garanzie reali sulla tutela dei diritti umani.

Queste politiche non solo violano i diritti umani, ma legittimano un sistema di esclusione e discriminazione, sostenuto da governi conservatori e sovranisti, con il supporto di grandi capitali.

Perché Possibile c’è

Come forza politica, Possibile si pone in prima linea nella lotta contro queste politiche oppressive. A febbraio, abbiamo partecipato, insieme alla rete No DDL Sicurezza, alla presentazione del State Trafficking Report a Bruxelles. In quell’occasione, è emersa con chiarezza la complicità dell’Unione Europea nel finanziare campi di detenzione al di fuori dei propri confini, dimostrando quanto i cosiddetti valori europei siano messi in discussione.

Durante l’assemblea di Roma, abbiamo proposto di rafforzare una rete tra amministratorɜ locali, parlamentari ed europarlamentari che lavori insieme per pianificare visite a sorpresa nei CPR. Queste visite, da realizzarsi in modo sistematico e su tutto il territorio nazionale, possono diventare uno strumento cruciale per denunciare le condizioni disumane di queste strutture e per coinvolgere la stampa, accendendo i riflettori su una realtà troppo spesso ignorata. Come Possibile, ci impegniamo a mettere a disposizione i nostri amministratorɜ locali per contribuire attivamente a costruire questa rete, capace di monitorare e denunciare le condizioni nei CPR.

Una chiamata alla mobilitazione

Questa assemblea non è stata solo un momento di analisi, ma soprattutto un appello all’azione. È urgente costruire una resistenza collettiva contro il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo e il Regolamento sui Rimpatri. Non possiamo accettare un’Europa che continua a finanziare la repressione e la criminalizzazione, sia dentro che fuori i propri confini.

Davanti a un’Europa che alza barriere e moltiplica le prigioni per migranti, la risposta deve essere un movimento collettivo, forte e determinato. Come ha dimostrato questa assemblea, le alleanze tra realtà locali e transnazionali sono fondamentali. Possibile è pronto a fare la sua parte, mettendo a disposizione competenze, energie e una rete di supporto per costruire un’Europa fondata sulla solidarietà, non sui muri e sulle prigioni.

Siamo pronti a fare la nostra parte, ma sappiamo che questa è una lotta che possiamo vincere solo insieme.

Possibile c’è, e continueremo a esserci.

Silvia Murgia
Accoglienza Possibile

Puoi scaricare qui il Vademecum Accoglienza Possibile

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Il discorso di Meloni su Ventotene è uno sfregio alla Resistenza antifascista europea


Nel suo intervento in Aula, la premier oggi ha esordito attaccando chi richiama i valori del Manifesto di Ventotene per un’Europa di pace, e li ha ridicolizzate affermando: “mi auguro che tutte queste persone il Manifesto di Ventotene non l’abbiano mai letto”.

È chiaro da tempo da che parte si sarebbe schierato il partito di Giorgia Meloni negli anni di “Ventotene” e la sua presa di posizione non ci stupisce.

Infatti, il problema non è tanto l’affermazione che quella di Ventotene non sia la “sua” Europa, ma il fatto che venga del tutto decontestualizzato e distorto il messaggio di un documento fondante del progetto di un’Europa democratica, unita, libera dai totalitarismi. E che ciò avvenga in un luogo di democrazia per definizione.

Taccuino alla mano (nulla di improvvisato quindi), Giorgia Meloni ha affermato di voler citare “i passi salienti” del Manifesto di Ventotene, ma nel suo intervento si è limitata a estrapolare dei passaggi del documento senza tenere conto del contesto storico in cui si inseriscono.

Una vera e propria mistificazione di un testo scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, durante il confino loro imposto dal regime fascista, il cui obiettivo era di indicare la strada da seguire nel dopoguerra per costruire un nuovo modello di società in un’Europa democratica e in grado di assicurare una pace duratura.

Il progetto di Europa federale di Ventotene si contrappone proprio alle derive dei nazionalismi che hanno condotto alla guerra.

La premier dovrebbe scusarsi ufficialmente per l’insulto rivolto alla memoria della Resistenza, e alle istituzioni europee, dove ad Altiero Spinelli è intitolato proprio uno dei palazzi simbolici a Bruxelles.

Sappiamo già che non lo farà, ma mentre assistiamo al ritorno di tendenze nazionaliste e liberticide in Europa e al di là dell’Atlantico, il progetto di costruire un’Europa democratica e federale non solo è attuale, ma più che mai urgente.

Silvia Romano @smv.romano
Europa Possibile @

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Un sindaco in Florida vuole sfrattare un cinema per aver proiettato No other Land


“No other Land”, il documentario che documenta le violenze dei coloni e dell’esercito israeliano in Cisgiordania e la distruzione delle case delle famiglie palestinesi nei villaggi come Masafer Yatta, ha appena vinto l’Oscar, nonostante le difficoltà a essere distribuito e anche solo proiettato.

Intanto in Florida il sindaco di Palm Beach già nei mesi scorsi aveva tentato di bloccare la proiezione del documentario diretto dall’attivista palestinese Basel Adra e dall’attivista israeliano Yuval Abraha che sui social ha commentato lo sfratto così: “Dopo aver visto la pulizia etnica di Masafer Yatta da parte di Israele, diventa impossibile giustificarla. Ed è per questo che il sindaco ha così tanta paura del nostro film”.

La nostra solidarietà ai registi, al cinema, a chi distribuisce il film. Nelle scorse settimane, grazie a Wanted Cinema, abbiamo già organizzato delle proiezioni in Italia, e vogliamo continuare a farlo, anche dopo che l’eco degli Oscar sarà passato. Nel frattempo, cercate sui loro canali la proiezione più vicina a voi e andate a vederlo.

Ancora una volta chi denuncia le atrocità subite dai civili palestinesi viene criminalizzato molto più di chi quelle atrocità le compie. E non si può rimanere in silenzio a guardare.

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Sul Salva Milano, alla fine, avevamo ragione noi


Alla fine, sul “Salva Milano” è prevalso il buonsenso. Anche se, fino a una settimana fa, Sala continuava a ribadire come un disco rotto la necessità di chiudere il prima possibile questa vicenda.

L’ultimo arresto ha forse fatto “svegliare” il sindaco.

Nel nostro piccolo, abbiamo voluto entrare nel merito della questione affrontandola su due livelli: giuridico e politico.

Il ritiro del Salva Milano è una notizia assolutamente positiva che abbiamo da sempre sostenuto. Ora, però, ci attendiamo e auspichiamo un vero e proprio cambio di rotta rispetto alle questioni urbanistiche ancora aperte, come San Siro e Piazzale Loreto. Rimane aperta la questione urbanistica, che deve ritornare a essere tale e non una semplice operazione edilizia a favore dei costruttori.

Il piano di governo del territorio deve avere obiettivi ambiziosi e, soprattutto, non dovrà confermare la colate di cemento viste in questi anni, così come le tante scelte sbagliate fatte in questi anni: le isole di calore formatesi in città, la mancata organizzazione e progettazione di un serio piano per la ciclabilità che sia degno di questo nome.

Chiediamo scelte più coraggiose nel contrasto ai cambiamenti climatici. Sul versante del consumo di suolo, chiediamo che nessun ettaro di suolo vergine venga impermeabilizzato.

Gli annunci fatti in questi anni sul fronte delle questioni ambientali sono stati una massiccia pennellata di greenwashing. Pretendiamo che Milano diventi veramente sostenibile come le capitali europee che hanno fatto un cambio di passo nella gestione della città, investendo in mobilità dolce, rigenerando interi quartieri, aumentando le superfici a verde e le zone pedonali rispetto alla quota di nuovo edificato.

Questo cambio di rotta deve essere accompagnato da un ricambio di assessori, soprattutto negli ambiti sacrificati in questi anni a favore delle scellerate scelte edilizie. Ambiente in primis, su cui pende anche il silenzio sul fronte dello sviluppo aeroportuale di Milano con la partecipata SEA, e poi l’urbanistica e l’assessorato alla Casa.

Continueremo a monitorare la situazione. L’iniziativa sul Salva Milano è solo l’inizio di una serie di appuntamenti e approfondimenti sulla Milano che vorremmo.

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Civati-Druetti: Referendum Cittadinanza occasione per adeguare la legge a una società già cambiata


“Per la prima volta dopo tanti, troppi anni si parla di migrazioni e cittadinanza in un modo diverso, pensando alle trasformazioni che hanno interessato il nostro Paese e a ciò che il nostro Paese è già diventato.”

Lo dichiarano Giuseppe Civati e Francesca Druetti, fondatore e segretaria di Possibile, a margine dell’assemblea nazionale del Comitato Referendum Cittadinanza, cui sono intervenuti in qualità di promotori.

“Ci sono già più di 150 realtà tra associazioni e partiti — continuano Civati e e Druetti — che vogliono cambiare attraverso questo referendum (cui abbiamo creduto sin dall’inizio del percorso della raccolta firme) una legge ingiusta, che tende a cristallizzare la demarcazione tra “noi” e “loro”, e che inevitabilmente si ripercuote in tutte le norme che riguardano le persone straniere o migranti.

Va detto nettamente: non è patriota chi non riconosce i diritti di cittadini attuali e futuri. Non è patriota chi divide il paese sulla base di etichette e pregiudizi. Non è patriota chi non considera le trasformazioni di un paese già cambiato. Di fronte a un governo che parla di “sostituzione etnica”, di “remigrazione”, che insiste sul complottismo e la diffidenza, la migliore risposta è andare a votare. Dalla campagna per il Referendum passa una responsabilità enorme, nei confronti di milioni di persone: quella di adeguare la legge a una società che è già cambiata.”

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Per una pace duratura, o meglio, “perpetua”


“Dobbiamo urgentemente riarmare l’Europa” dichiara Ursula von der Leyen uscendo dal vertice di Londra, in cui 12 leader europei, insieme ai vertici delle istituzioni dell’UE, al premier canadese, al ministro degli Esteri turco e al segretario generale della NATO, si sono riuniti per accordarsi su un piano di cessate il fuoco in Ucraina da discutere con gli Stati Uniti.

Eppure, non è sufficiente continuare a concentrare il dibattito unicamente sulle spese militari e sul loro rapporto percentuale al PIL. Non servirà riorientare verso le spese militari i fondi europei di coesione, ad esempio svuotando in Fondo Sociale Europeo, oppure tagliando il sostegno alla cooperazione internazionale come già avvenuto negli Stati Uniti pre mano di Donald Trump.

Con l’aggressione dell’Ucraina, che va avanti da tre anni, la Russia ha attaccato l’Unione europea e tutti i valori che rappresenta e che abbiamo l’occasione di incarnare appieno. Fin dal primo istante, senza esitare, il popolo ucraino ha rigettato la visione di Putin e guardato verso di noi per costruire un futuro comune, fondato sui valori di democrazia, di solidarietà e su una sovranità condivisa.

La risposta dell’Unione europea (un sostegno morale ed economico alla “sorella” Ucraina, basato essenzialmente sulla fornitura di armi, senza riuscire a proporre nessuna soluzione diplomatica per mettere fine al conflitto), è stata insufficiente, come dimostrano gli eventi degli ultimi giorni.

La difesa europea è di certo parte essenziale della soluzione, ma se non realizzata nell’ambito di una compiuta riforma istituzionale che ne assicuri la legittimità democratica e ne definisca un chiaro indirizzo politico, non vedrà mai la luce.

Mentre il contesto geopolitico si fa sempre più cupo, mentre due veri e propri bulli (a capo di Stati Uniti e Russia) si accordano per trovare il proprio conto in un eventuale e precario cessate il fuoco, l’Unione europea deve finalmente trovare il coraggio di diventare adulta e tradurre gli ideali di pace, libertà e democrazia su cui si fonda, attraverso soluzioni concrete.

Consapevoli della nostra storia e del futuro che intendiamo costruire, abbiamo il dovere morale di contrastare Putin e Trump e di continuare a mettere pressione ai leader europei per raggiungere un accordo in grado di stabilire una pace duratura. In questo contesto è fondamentale aprire spazi di mediazione e iniziare a ridurre il livello di violenza, nell’attesa di raggiungere una soluzione diplomatica adeguata, che veda attorno al tavolo dei negoziati anche l’Ucraina.

Perché la soluzione si traduca in una pace duratura, o meglio “perpetua”, occorre ritrovare lo slancio federale degli autori del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita.

Europa Possibile

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Le persone non sono pedine geopolitiche: Alberto Trentini libero


Non è la prima volta che persone italiane vengono detenute, senza motivo ufficiale o con accuse pretestuose, da governi illiberali.

Sono sempre le persone che secondo alcuni “se la vanno a cercare”, che si trovano in quei paesi per documentare ciò che accade o per aiutare chi ha bisogno.

A quanto pare, ciò che viene chiesto in cambio della scarcerazione sua e di altre sei persone italiane o italo-venezuelane detenute (tra cui un giornalista) è il riconoscimento da parte del governo italiano della legittimità di Maduro, un riconoscimento mai espresso dal governo italiano dopo le elezioni di luglio 2024.

Alberto lavora con Humanity and Inclusion, una ONG co-vincitrice di un Nobel per la Pace, che si occupa di diritti e aiuta in particolare le persone disabili. Dopo il suo arresto lo scorso novembre, senza un’accusa esplicita e senza consentirgli di parlare con la sua famiglia e di organizzare una difesa, la sua ONG si è rivolta alla Convenzione interamericana per la sparizione forzata di persone, che ha chiesto conto al governo venezuelano, senza ricevere alcuna risposta.

La Farnesina dichiara di star seguendo la vicenda, e di recente il Venezuela ha fornito una prova di esistenza in vita di Alberto. L’avvocata della famiglia, la stessa della famiglia Regeni, ha potuto scoprire alcuni dettagli sulla sua detenzione.

Dopo gli appelli della madre di Alberto, è stata avviata una petizione (change.org/p/per-il-ritorno-a-…) e i social media hanno accresciuto la loro attenzione al caso facendo circolare gli hashtag #Albertolibero | #FreeAlberto | #NotATarget e tramite l’iniziativa #albertowallofhope, mosaico digitale di selfie con cartelli per Alberto.

Le persone non sono pedine geopolitiche. Chiediamo a gran voce la liberazione di Alberto, uniamoci alla mobilitazione.

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