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CAMBIAMENTO CLIMATICO. Il potenziamento militare degli USA nell’Artico pone nuovi rischi geopolitici e ambientali


Una recente proposta del Senato USA finirà per creare le condizioni per un conflitto con la Russia, generando al contempo maggiori emissioni di gas serra. L'articolo CAMBIAMENTO CLIMATICO. Il potenziamento militare degli USA nell’Artico pone nuovi rischi

della redazione

Pagine Esteri, 1 settembre 2022 – Da diversi anni, le forze armate statunitensi si preparano ad espandere la propria presenza nell’Artico. Il 3 agosto, i membri del Senato hanno espresso il proprio interesse per una maggiore presenza militare in quella regione con l’introduzione dell’Artico Commitment Act. Presentata da Lisa Murkowski (R-Alaska) e Angus King (I-Maine), la legislazione propone “una presenza per tutto l’anno della Marina e della Guardia Costiera nella regione artica”. La legislazione si concentra anche sulla concorrenza degli Stati Uniti con la Russia nella regione. La sezione 7 dell’atto richiede l’”eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica”.

L’Artico è la regione che si riscalda più velocemente rispetto al resto del mondo.

Il Piano strategico della Marina per un Artico Blu pubblicato nel gennaio dello scorso anno spiega: “Le opinioni contrastanti su come controllare nell’Artico le risorse marine e le rotte marittime sempre più frequentate, gli incidenti militari, i conflitti e le ricadute della concorrenza tra le principali potenze, hanno tutte il difetto di minacciare gli interessi e la prosperità degli Stati Uniti”.

Mentre il segretario di Stato Antony Blinken annuncia, attraverso il suo portavoce, che ci sarà un nuovo ambasciatore generale per la regione artica, gli esperti avvertono che in un momento in cui le tensioni tra Stati Uniti e Russia stanno aumentando e la minaccia dei cambiamenti climatici cresce, un accumulo di forze militare in quella parte di mondo comporta nuovi rischi geopolitici e ambientali.

La ricercatrice Gabriella Gricius spiega che un rafforzamento degli Stati Uniti previsto nel disegno di legge del Senato alimenterà l’attrito con la Russia.”Ci sono certamente conseguenze reali per la maggiore presenza militare degli Usa nell’Artico”, ha detto Gricius. “Potrebbe essere vista come una provocazione dalla Russia e comportare un aumento delle esercitazioni militari russe”, ha aggiunto. In passato il Consiglio Artico ha supervisionato la cooperazione di vari paesi e nazioni indigene riguardo i rischi geopolitici e climatici ma l’invasione russa dell’Ucraina, il consiglio ha sospeso le sue attività.

Gricius avverte che la mancanza di cooperazione nella regione è un pericolo. “L’Artico russo costituisce circa il 50 percento dell’intero Artico, il che significa che non è possibile che la Russia sia esclusa, Mosca non può essere rimossa dall’Artico e continuerà ad essere un attore chiave nella regione”, ha spiegato.

Oltre al rischio di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, un potenziamento militare statunitense nell’Artico minaccia di esacerbare il cambiamento climatico. Sebbene il Dipartimento della Difesa e vari rami delle forze armate statunitensi abbiano recentemente pubblicato piani di “adattamento climatico”, il contenuto si concentra principalmente sull’adeguamento delle operazioni, piuttosto che sulla riduzione delle emissioni. La Marina ha pubblicato a maggio un piano che è stato redatto omettendo riferimenti alle sue navi e aerei da combattimento, le due principali fonti di inquinamento delle forze armate Usa. Peraltro, gran parte dell’impatto delle emissioni militari rimane sconosciuto a causa di una scappatoia nell’accordo di Parigi sul clima che esenta i governi dal segnalare le emissioni dei loro militari.

Secondo una ricerca il 30 percento delle emissioni dei militari provengono da “installazioni”, ossia dall’uso di energia in basi e altri impianti. L’altro 70 percento è generato da “emissioni operative” o dall’uso di energia durante le attività di addestramento, missioni, trasporti e altre attività. Pertanto, l’aumento delle attività militari nell’Artico si tradurrà in un aumento inevitabile dell’inquinamento. Gli aerei in particolare contribuiscono al 70 percento delle emissioni operative.

“Nonostante la frenesia dei media per la militarizzazione e il conflitto nell’Artico, il cambiamento climatico è la minaccia più grande e pervasiva per la regione”, ha affermato Gricius. Il cambiamento climatico, dice, dovrebbe essere un’opportunità di cooperazione. “Gli Stati Uniti, in particolare, dovrebbero e possono svolgere un ruolo importante sia nel sostenere le iniziative locali in Alaska sui cambiamenti climatici sia nell’unire progetti di cooperazione tra scienziati, diplomatici e altri attori nella regione”. Pagine Esteri.

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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre


Due giorni fa la Corte Suprema di Giustizia israeliana aveva rigettato la petizione che chiedeva il suo rilascio. Il detenuto, senza processo, era in “imminente pericolo di morte” dopo oltre 170 giorni di digiuno L'articolo Khalil Awawdeh sospende lo sci

AGGIORNAMENTO ORE 22

Il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 172 giorni contro la detenzione “amministrativa” (senza processo), ha sospeso il suo digiuno dopo che le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 2 ottobre. La liberazione di Awawdeh rientrava in un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e il Jihad islami che ha posto fine a tre giorni di attacchi aerei israeliani alla Striscia di Gaza il 7 agosto e lanci di razzi verso Israele che hanno ucciso circa 50 palestinesi tra cui 17 bambini e quattro donne.

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di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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OMICIDIO ABU AKLEH: Per Israele c’è un’ “alta possibilità” che ad ucciderla sia stato il suo esercito


Ma le autorità israeliane annunciano che nessuna indagine penale sarà condotta sull’assassinio della giornalista di Al Jazeera L'articolo OMICIDIO ABU AKLEH: Per Israele c’è un’ “alta possibilità” che ad ucciderla sia stato il suo esercito proviene da Pa

di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 05 settembre 2022 – Sono stati pubblicati nel pomeriggio di lunedìi risultati dell’inchiesta interna alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) in merito all’omicidio di Shireen Abu Akleh, la reporter di Al Jazeera morta l’11 maggio scorso a causa di un colpo d’arma da fuoco che l’ha colpita alla testa mentre documentava alcuni scontri a Jenin, in Cisgiordania, per conto del suo giornale.

Per quanto non si possa “determinare inequivocabilmente l’origine degli spari che hanno colpito la signora Abu Akleh”, si legge nel report, “c’è un’alta possibilità che la signora Abu Akleh sia stata accidentalmente colpita da colpi di arma da fuoco dell’IDF, che sono stati sparati contro sospetti identificati come uomini armati palestinesi armati, durante uno scontro a fuoco in cui sono stati esplosi colpi pericolosi, diffusi e indiscriminati contro i soldati dell’IDF”.

A condurre l’inchiesta, una task force prevalentemente costituita da comandanti dell’IDF – affiancati da “personale aggiuntivo” – che avrebbero fatto ricorso a interrogatori ai soldati presenti sul luogo dell’accaduto, ricostruzioni temporali e potenti tecnologie, non ultima l’analisi balistica in un laboratorio forense del proiettile estratto dal corpo di Abu Akleh. Il proiettile, infatti, era stato consegnato dall’Autorità Nazionale Palestinese che ne era in possesso allo Stato di Israele il 2 luglio scorso, affinché le autorità israeliane conducessero le proprie valutazioni tecniche. “Alla luce del cattivo stato fisico del proiettile”, si legge, “è difficile identificare la fonte da cui è stato sparato”.

Resta comunque, si conclude nell’indagine, l’”alta possibilità” della responsabilità dell’esercito israeliano nella morte della giornalista, uccisa mentre indossava, come i suoi colleghi, la pettorina con scritto “Press”. A dichiarare che a uccidere la reporter sia stato un soldato israeliano erano intervenute in questi mesi già diverse organizzazioni per i diritti umani, associazioni di giornalisti e numerose indagini condotte dalle Nazioni Unite. Dopo tali evidenze, la dichiarazione dell’IDF giunge non certo come un’ammissione di colpevolezza.

Nel report, infatti, si ribadisce più volte l’intento “antiterroristico” dei soldati presenti quel giorno sul campo. “E’ importante enfatizzare”, si scrive, “che durante tutto l’incidente, i proiettili dell’IDF sono stati sparati con l’intenzione di sparare ai terroristi che avevano sparato contro i soldati dell’IDF”. In conclusione, la morte della giornalista sarebbe stato un danno collaterale di un’operazione per la sicurezza israeliana.

Per questo motivo, “l’avvocato generale militare ha ritenuto che, nelle circostanze del caso, non vi sia alcun sospetto di reato che giustifichi l’apertura di un’indagine della polizia militare”. Il caso è chiuso per l’IDF, che esprime le sue condoglianze alla famiglia di Abu Akleh.

Il commento dei familiari di Abu Akleh all’indagine dell’IDF non si è fatto attendere. “Come previsto, Israele ha rifiutato di assumersi la responsabilità dell’omicidio di Shireen”, hanno dichiarato lunedì stesso, “La nostra famiglia non è sorpresa da questo risultato poiché è ovvio per chiunque che i criminali di guerra israeliani non possano indagare sui propri crimini”. Per questo, i familiari della reporter annunciano che non si fermeranno di fronte a questo “tentativo di Israele di nascondere la verità”.

La famiglia della reporter, insieme all’emittente di notizie Al Jazeera per la quale lavorava da oltre 25 anni, aveva già riferito il caso alla Corte Penale Internazionale.

Anche l’ANP ha commentato l’indagine ufficiale dell’IDF. Nabil Abu Rudeineh, portavoce del leader palestinese Mahmoud Abbas, ha bollato l’inchiesta come un “nuovo tentativo israeliano di evadere ogni responsabilità per l’omicidio”.

L’omicidio di Shireen Abu Akleh aveva scatenato forti proteste in Palestina, dove era un volto noto, una delle giornaliste di punta della tv palestinese. Severe erano state le condanne dell’opinione pubblica, colpita dall’omicidio a sangue freddo di una reporter uccisa mentre svolgeva il suo lavoro. Già prima di quest’ultima inchiesta delle autorità israeliane, tuttavia, la speranza in una sentenza che inchiodasse gli autori dell’assassinio era già stata smorzata dall’intiepidirsi dell’interesse internazionale nella faccenda. In particolare, gli Stati Uniti, che avevano inizialmente reclamato un’indagine “credibile e indipendente” sull’episodio, avevano successivamente ammorbidito la loro posizione. Anche negli USA, infatti, il proiettile era stato sottoposto a un’indagine balistica, e il 4 luglio il Dipartimento di Stato Americano aveva dichiarato l’impossibilità di “giungere a una conclusione definitiva circa l’origine della pallottola che ha ucciso la giornalista americano-palestinese”. Un responso molto simile a quanto stabilito dall’IDF il 5 settembre.

Abu Akleh sarebbe per il momento una vittima del fuoco incrociato, nonostante la sua famiglia continui a chiedere giustizia. Il suo nome, secondo il sindacato dei giornalisti palestinese, si aggiunge a quello di almeno altri 45 giornalisti uccisi a Gaza e in Cisgiordania da parte di Israele dal 2000 ad oggi. Pagine Esteri

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CISGIORDANIA. In vigore le nuove regole per gli stranieri, se sposeranno palestinesi avranno un visto ridotto


Le nuove restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi e imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all'estero pur di conservare la famigli

della redazione

Pagine Esteri, 5 settembre 2022 – Stando agli ultimi sviluppi riferiti dalla stampa locale, gli stranieri in Cisgiordania per motivi di lavoro, in visita o per attività di volontariato non dovranno più informare il ministero della difesa israeliano se hanno avviato una relazione sentimentale con un/una palestinese. Tuttavia se il rapporto instaurato porterà al matrimonio dovranno andarsene dopo 27 mesi per un periodo di almeno sei mesi. Pressioni Usa e dell’Ue, sostiene il Times of Israel, avrebbero spinto il Cogat, il dipartimento delle Forze armate responsabile per gli affari civili nei Territori palestinesi occupati, a rivedere in parte le nuove regole per gli stranieri in Cisgiordania che entrano in vigore oggi.

Erano già pronte lo scorso febbraio ma ricorsi e petizioni le hanno tenute congelate sino ad oggi. Le 97 pagine della «Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria», il nome biblico che Israele usa per la Cisgiordania palestinese, vanno ben oltre le relazioni sentimentali tra stranieri e palestinesi. Le nuove restrizioni colpiscono aziende, uomini d’affari, i programmi di aggiornamento professionale nella sanità, le organizzazioni umanitarie e tanti altri settori perché le limitazioni alla durata dei visti e alle loro estensioni consentono agli stranieri di restare in Cisgiordania solo per brevi periodi. Impongono alle università palestinesi una quota di 150 visti per gli studenti e 100 per i docenti stranieri, limiti inesistenti in quelle israeliane. Questa misura, sempre secondo la stampa israeliana, sarebbe stata eliminata. La Commissione europea si è detta «preoccupata» per le discriminazioni che le nuove procedure causeranno allo svolgimento del programma universitario Erasmus+.

Le nuove regole in ogni caso non si applicano a coloro che visitano Israele e gli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania. Ciò rende evidente la doppia legislazione che Israele applica da decenni nel territorio palestinese sotto il suo controllo. Ad esempio, un italiano che volesse lavorare in un villaggio palestinese della Cisgiordania sarà soggetto alle procedure restrittive stabilite dal Cogat, cioè le forze armate, mentre se vorrà farlo in una colonia ebraica a un paio di chilometri di distanza da quel villaggio, dovrà rispettare le disposizioni, decisamente più leggere, previste per gli stranieri che entrano o intendono risiedere in Israele.

Le regole stabiliscono inoltre che i possessori di passaporto straniero, a cominciare dai palestinesi che vivono all’estero, intenzionati a visitare la Cisgiordania (ad eccezione degli insediamenti coloniali), non potranno più ottenere il visto all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e invece dovrà farne richiesta con almeno 45 giorni di anticipo. E dovranno entrare dal valico di Allenby/King Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania, quindi dovranno atterrare ad Amman.

Per i palestinesi queste procedure si inseriscono «in un disegno ampio volto a colpire gli stranieri che fanno volontariato e cooperazione nei Territori occupati». Secondo Jessica Montell, direttrice dell’ong israeliana HaMoked, che ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana contro le restrizioni, «siamo davanti all’ingegneria demografica della società palestinese e del suo isolamento dal mondo esterno. Le nuove regole renderanno la vita difficile alle persone che intendono lavorare nelle istituzioni palestinesi, investire, insegnare e studiare».

Le restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi in Cisgiordania dove migliaia di persone continuano a vivere con uno status legale incerto o sono costrette a lasciare le loro famiglie. La campagna «Right to Enter» denuncia che le procedure del Cogat «imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all’estero pur di conservare la famiglia unita».

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Sono state presentate oggi, al Ministero dell’Istruzione, le Linee guida OCSE per il riconoscimento dei crediti nei CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti).


‘Credibilità’ degli Stati Uniti intatta un anno dopo il ritiro dell’Afghanistan


I falchi hanno denunciato il ritiro dall’Afghanistan per molte ragioni, ma una delle loro lamentele ricorrenti era che minacciava di rovinare la credibilità degli Stati Uniti nel mondo. Secondo la visione standard da falco, ritirarsi da una guerra fallita segnala debolezza e mancanza di determinazione, che a sua volta fa perdere fiducia agli alleati negli [...]

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GNL, lo spiraglio di speranza in Europa?


Negli ultimi mesi l’Europa è stata colpita da una crisi energetica. Nel mezzo della guerra in Ucraina, che ha visto sia l’Unione Europea che la Russia cercare di liberarsi dalle loro reciproche dipendenze energetiche, la questione più urgente per l’Europa oggi sembra scongiurare un blackout energetico. Mentre misure come la regolamentazione del consumo di energia [...]

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Afghanistan: le decisioni talebane riflettono il disaccordo interno


Quando l’anno scolastico è iniziato in Afghanistan nel marzo 2022, i giornalisti erano pronti a occuparsi del ritorno delle ragazze all’istruzione secondaria. I leader talebani a Kabul si erano impegnati a consentire un’istruzione separata per le ragazze purché seguissero il codice di abbigliamento imposto dai talebani. Invece, le telecamere hanno registrato ragazze deluse che venivano [...]

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Ucraina: guardando la guerra dalla televisione russa


Chi guarda la televisione russa per seguire la guerra in Ucraina vive in una realtà alternativa. I commentatori delle stazioni televisive russe di proprietà dello stato hanno diffuso la falsità secondo cui l’Ucraina sta organizzando falsi attacchi alle proprie città per far sembrare che la Russia sia l’aggressore. Le emittenti di notizie russe hanno anche [...]

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I cileni bocciano la nuova Costituzione. Duro colpo per Boric, ma la disfatta della Carta ‘più progressista del mondo’ non frena la richiesta di cambiamento.


Vittoria di Pirro Liz Truss è la nuova leader del Partito Conservatore britannico e (da domani) premier del Regno Unito.


L’elezione più importante nelle Americhe è in Brasile


L’ex Presidente brasiliano Luíz Inácio Lula da Silva (noto come Lula) corre sul palco del Memoriale dell’America Latina a San Paolo. Era lì il 22 agosto 2022, parlando alla presentazione di un libro con fotografie di Ricardo Stuckert sui viaggi di Lula in giro per il mondo quando era Presidente del Brasile dal 2003 al [...]

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Referendum russi truccati: il piano di Putin per annettere l’Ucraina occupata


Con la fine dell’invasione russa dell’Ucraina, il Cremlino si sta attualmente preparando a organizzare falsi referendum nelle regioni occupate del Paese come preludio all’annessione. Sebbene vi sia poco pericolo che la comunità internazionale riconosca ufficialmente i risultati di tali scrutini ovviamente truccati e illegittimi, i piani referendari della Russia hanno comunque il potenziale per intensificare [...]

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L’invasione autolesionista della Russia cioè perché Vladimir Putin ha perso l’Ucraina per sempre


L’invasione genocida dell’Ucraina da parte della Russia aveva lo scopo di estinguere la statualità ucraina e sradicare l’identità ucraina. Invece, sta dando il turbo alla de-russificazione del Paese. Nei sei mesi dall’inizio dell’invasione, il sostegno ucraino alla de-russificazione è diventato un vero fenomeno nazionale, raggiungendo livelli record di gran lunga superiori al sostegno pubblico significativamente [...]

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Il Festival Nazionale dell’Economia Civile al ritorno ‘in buona compagnia’


“La pandemia, la guerra in Europa, il ritorno dell’inflazione che erode il potere d’acquisto e ci rende più poveri, l’emergenza climatica sullo sfondo ed il rischio di un progressivo e sempre maggiore riscaldamento globale. Viviamo un’epoca di shock e sfide e ci domandiamo se e come ne usciremo come persone, famiglie, imprese e comunità”. Questa [...]

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Artemis 1: fallito anche il secondo tentativo della NASA


Sabato sera sarebbe dovuto partire il primo degli Space Launch System progettati per riportare gli esseri umani sulla Luna. Anche il secondo tentativo della NASA -dopo le difficoltà riscontrate alla prima finestra programmata- è stato annullato a causa di una perdita rilevata durante il caricamento dell’idrogeno liquido. È stato la direttrice del lancio Charlie Blackwell-Thompson a [...]

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Instagram - La fiera della vanità

Grazie a un tweet di @Alexis Kauffmann, ho trovato su Arte questo documentario: “Instagram - La foire aux vanités” sulla nascita, l’evoluzione, l’enorme diffusione di Instagram, i meccanismi che ne regolano il funzionamento e l’impatto negativo che ha sui suoi utenti. Considerando anche il fatto del grandissimo numero di giovani che utilizzano questo social network (quasi tutti i miei studenti, ad esempio), il documentario offre, secondo me, diversi spunti di analisi di grande interesse.

C’è anche una versione in lingua originale con sottotitoli in italiano, la si trova qui: https://www.arte.tv/it/videos/095729-000-A/instagram-la-fiera-virtuale-delle-vanita/
Il documentario è disponibile in rete fino al 28.10. 2022.

Qui sotto, trovate la traduzione dell’introduzione alla versione francese, più completa e più chiara rispetto a quella italiana, nella versione in tedesco il titolo è ancora più esplicito: “Instagram – Il social network tossico”.

Lanciato poco più di dieci anni fa, il social network Instagram ha conquistato il mondo. Questa approfondita indagine analizza i meccanismi della sua ascesa e ne evidenzia gli effetti deleteri.
Due miliardi di utenti attivi al mese, 100 milioni di video e foto condivisi ogni giorno: lanciato nell'autunno del 2010, nel cuore della Silicon Valley, da Kevin Systrom e Mike Krieger, due studenti dell'Università di Stanford, il social network Instagram ha conosciuto un'ascesa fulminante. Sfruttando lo sviluppo della fotografia mobile, l'applicazione, inizialmente pensata per modificare (grazie ai suoi famosi filtri) e condividere le foto, ha rapidamente attratto le celebrità e attirato l'attenzione dei giganti digitali.
Nel 2012 Mark Zuckerberg, a capo di Facebook, ne ha intuito il potenziale commerciale e l'ha acquistata per l'incredibile cifra di un miliardo di dollari. Due anni dopo, lsul sito è comparsa a pubblicità, portando a un'esplosione dell'influencer marketing. Da quel momento in poi i marchi si sono rivolti alle personalità più seguite per promuovere i loro prodotti. Le star con milioni di abbonati, come Cristiano Ronaldo o Kim Kardashian, guadagnano cifre astronomiche, mentre in fondo alla gerarchia, soggetti a una concorrenza spietata, i "nano-influencer" si accontentano di contratti pagati in natura o di benefit promozionali.
Trasformata in un gigantesco centro commerciale, la rete dà in pasto ai suoi utenti visioni modificate della realtà, con corpi giovani e svestiti, luoghi turistici che vengono immediatamente fpresi d’assalto e immagini di cibo esteticamente gradevoli, etichettate come "food porn". Conseguenze: la chirurgia estetica tra i giovani è in aumento, facendo arricchire professionisti senza scrupoli, mentre l'ansia e la depressione aumentano in modo preoccupante tra gli adolescenti, che sono particolarmente permeabili a questi ideali standardizzati.

La tirannia
Messa sotto accusa per i suoi eccessi, Instagram ha tuttavia trovato una seconda possibilità durante la pandemia, diventando un luogo per l'espressione artistica, l'intimità e le lotte delle minoranze. Partendo dalla sua nascita fino alla sua recente evoluzione, l’autore, Olivier Lemaire (Le musée et le milliardaire anticonformiste, Let’s Dance) si avvale di una serie di testimonianze (l'influencer Maya Borsali, il "Dr. Miami", chirurgo star dei social network, il sociologo Dominique Boullier e Sarah Frier, autrice di No Filter: The Inside Story of Instagram, oltre alle famiglie di adolescenti vittime di questa tirannia delle immagini) per decifrare l'influenza di una rete che plasma le nostre vite, sconvolge la nostra economia e ridisegna il nostro rapporto con la realtà, spesso in peggio.
Diretto da: Olivier Lemaire
Paese: Francia
Anno: 2022

@informapirata :privacypride: @Le Alternative @maupao @Scuola - Gruppo Fediverso

in reply to MAD7

@MAD È già in grassetto all'inizio del post: arte.tv/it/videos/095729-000-A…
@MAD7

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Pronostico rispettato, era da settimane che Elizabeth Truss, detta Liz, dominava nei sondaggi, un vantaggio incolmabile l’ha costantemente divisa dall’altro candidato, Rishi Sunak.E così è stato.


Alec Ross – I furiosi anni venti


L'articolo Alec Ross – I furiosi anni venti proviene da Fondazione Luigi Einaudi. https://www.fondazioneluigieinaudi.it/alec-ross-i-furiosi-anni-venti/ https://www.fondazioneluigieinaudi.it/feed


Come creare un logo online


Il logo fa parte dell’impressione dell’azienda, perché è una delle prime immagini visive che l’acquirente incontra. Quanto bene viene letto il logo e quanto piacevole alla vista dipende dall’associazione che l’utente avrà con l’azienda. Pertanto, è importante affrontare il processo della sua creazione con tutta serietà. Turbologo è un creatore di loghi semplice e conveniente che [...]

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La lezione (ignorata) della realtà


Non vedendo la realtà, le forze politiche non riescono a risolvere i problemi, e dei propri fallimenti incolpano la burocrazia La politica attuale pecca di irrealtà. Prende per reale il contingente e il quotidiano, spesso l’effimero. Fa programmi che sono

Non vedendo la realtà, le forze politiche non riescono a risolvere i problemi, e dei propri fallimenti incolpano la burocrazia


La politica attuale pecca di irrealtà. Prende per reale il contingente e il quotidiano, spesso l’effimero. Fa programmi che sono tutti al presente, senza prospettare un futuro. Elenca promesse, ma non indica tempi e costi. Guarda alla tasca, in una sorta di bengodi, prospettando un’orgia di sgravi, bonus, superbonus, stabilizzazioni, adeguamenti stipendiali, senza chiedersi con quali mezzi finanziarli e come gestirli.

Fa quindi promesse molto simili: un cittadino che leggesse i diversi programmi elettorali, senza conoscerne la provenienza, potrebbe con molta difficoltà stabilire da quale forza politica sono stati scritti.

Poiché la politica non sa vedere la realtà, è prigioniera di un circolo vizioso: non riesce a interpretare i bisogni sociali; ha difficoltà a capire che cosa bisogna fare per soddisfarli, e con quali mezzi; non riesce, quindi, a risolvere i problemi, e dei suoi fallimenti incolpa la burocrazia.

Una politica che riuscisse a ispirarsi all’osservazione della realtà si chiederebbe, innanzitutto, quali sono le smagliature della rete sanitaria che hanno reso così difficile affrontare la pandemia. Abbiamo tutti sotto gli occhi gli impedimenti incontrati dalla sanità territoriale, quella a più diretto contatto con i cittadini.

Una politica che sapesse guardare la realtà si renderebbe anche conto della sofferenza che ha subito la rete scolastica. Essa si aggiunge ai bassi investimenti nell’istruzione e alla bassa scolarizzazione, e contribuisce ad aumentare le diseguaglianze sociali, mentre è stato dimostrato che livello di benessere e livello di istruzione vanno di pari passo.

La lezione della realtà dovrebbe anche insegnare che è urgente liberarsi del gas russo: bisogna evitare di rimanere ostaggi nelle forniture di energia da Paesi che le usano come arma di ricatto politico, come osservato da un grande esperto della materia, Alberto Clò, in un libro appena uscito, intitolato «Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità», edito da «Il Sole 24 Ore».

Il problema dell’autonomia energetica — ricordiamolo — fu posto in Italia già negli anni 30 del secolo scorso e venne riproposto, negli anni 50, da Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, mentre le generazioni successive l’hanno dimenticato. Ora dovremmo accelerare la capacità generativa elettrica da fonti rinnovabili e migrare consumi di gas e di prodotti petroliferi verso consumi elettrici.

La lezione della realtà dovrebbe, inoltre, insegnare che «il valore aggiunto per persona occupata è sceso del 5 per cento (nella media degli Stati europei, invece, cresceva a doppia cifra). Nello stesso periodo, la produttività totale dei fattori, l’indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2 per cento. Accrescere la produttività consentirebbe di trasformare il rimbalzo in corso in una crescita duratura e sostenibile», come ha osservato Veronica De Romanis in un articolo pubblicato su «La Stampa» l’11 agosto scorso.

Se la politica prende proclami e promesse per progetti, promette senza calcolare il costo delle promesse, confonde il parlare con il fare, utilizza i mezzi digitali per comunicare, non per ascoltare, ne discende anche che è disattenta all’amministrazione. La politica è anche amministrazione, anzi è soprattutto amministrazione; invece, siamo bravi a gestire le emergenze e ad affrontare le situazioni straordinarie, non altrettanto a gestire l’ordinario e a fare una buona manutenzione (delle istituzioni come delle strade, delle scuole, degli ospedali).

Questo spiega lo stato critico degli apparati pubblici ed anche la freddezza dell’elettorato, nonché le sue oscillazioni alla ricerca di voci nuove (ieri a favore del Movimento 5 Stelle; oggi, secondo i sondaggi, a favore della destra).

Il Corriere della Sera

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Aiutarsi


La settimana prossima il Consiglio dei Ministri tornerà a predisporre misure che limitino gli effetti negativi del rialzo del prezzo del gas. Intitolare questi provvedimenti al concetto di “aiuto” è un errore che corrompe la comprensione, come se ci fosse

La settimana prossima il Consiglio dei Ministri tornerà a predisporre misure che limitino gli effetti negativi del rialzo del prezzo del gas. Intitolare questi provvedimenti al concetto di “aiuto” è un errore che corrompe la comprensione, come se ci fosse qualcuno o qualche entità che possa decidere se aiutare o meno chi ne ha bisogno. Ammesso che i decreti debbano avere un nome, “aiutarsi” sarebbe più adeguato: qualsiasi scelta si compia si spera sia efficace, ma è certo che avrà un costo, sicché si deve sapere quale e a carico di chi. Altrimenti siamo al linguaggio gassoso, per di più assai rarefatto.

Dall’inizio del rialzo del prezzo delle materie prime energetiche, che data dalla seconda metà dell’anno scorso, quindi prima della guerra, sono già stati impegnati 30 miliardi di euro, per mitigarne gli effetti. Le accise sui carburanti sono ancora sospese. Non lo si ricorda non solo (anche) per faziosità demagogica, ma perché qualsiasi cifra intestata ad “aiuto” sarà sempre insufficiente, mentre i costi di “aiutarsi” indurrebbero maggiore attenzione.

La campagna elettorale non è l’occasione migliore per la sobrietà verbale, talché circolano due concetti che sarebbe prudente cancellare subito: scostamento e sanzioni. Sul primo ci siamo già soffermati, aggiungiamo che il Btp ha messo la testa sopra il tetto del 4% e che i tassi d’interesse cresceranno, in ragione dell’inflazione. Pensare che indebitarsi ulteriormente, essendolo oltre al collo, sia una soluzione vuol dire confonderla con la dissoluzione. I soldi si trovino nel bilancio esistente, nel maggior gettito fiscale indotto dall’aumento dei prezzi, nella ardita e necessaria tassazione dei profitti impropri, indotti dal prezzo del gas. Chi aggira il problema proponendo lo scostamento come extrema ratio, abbia la compiacenza di chiarire cosa intende per extrema, salutando ratio.

Supporre di mettere in discussione le sanzioni è fuori discussione. Ipotesi zero. A parte il disonore e la viltà di barattare la vita altrui per un vantaggio economico, che lo si faccia come Occidente è impossibile, mentre che lo si faccia come Italia significherebbe tagliarsi fuori dai più ricchi mercati delle nostre esportazioni. Un suicidio sulla pubblica piazza. A parte il risvolto morale. Le sanzioni colpiscono la Russia, in recessione profonda, e la piegheranno. Putin può decidere di chiudere il gas, ma solo scommettendo che il nostro cedimento arrivi prima del suo crollo. Se lo scordi.

Osserva The European House-Ambrosetti che la mancanza di una politica estera comune ha prodotto occasioni commerciali perse, per l’intera Unione europea, in dieci anni, pari a 914 miliardi di euro. Senza Ue le opportunità perse sarebbero maggiori, ovviamente. Non saprei sulla quantificazione, ma il concetto è giusto: potenza politica e militare accompagnano e seguono quella commerciale. Ripassino il concetto quelli che pensano di fare un buon affare portando l’Italia al fianco dell’Ungheria. Venir meno alle sanzioni ci danneggerebbe irreversibilmente.

Dice Carlo Bonomi che se la Russia dovesse chiudere il gas un quinto del nostro sistema produttivo, il 20%, sarebbe compromesso. Non ne dubitiamo. E anche senza arrivare all’ipotesi chiusura, già così il danno è consistente. Ma è quello il punto, per “aiutarsi”: concentrare gli sforzi dove il rischio è maggiore, per le aziende di andare fuori mercato e per le famiglie di andare in bancarotta. Gli strumenti analitici per distinguere ci sono, ma si deve avere onestà e coraggio di scegliere. Fare politica significa scegliere. Vivere significa scegliere. Promettere o reclamare tutto per tutti significa prendere per scemi gli altri, agevolati dal concetto di “aiuto” al posto di “aiutarsi”.

Qualsiasi cose decida il governo, la settimana prossima, nessuno dirà che è troppo, pochi osserveranno che è giusto, i più lamenteranno che è poco. Peccato che questo genere d’approccio, improntato alla geremiade altolocata, sia il niente.

La Ragione

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Dante e Shakespeare, il giro d’Italia in teatro si è concluso a Ravenna – Il Corriere della Sera


Monaldi & Sorti, il giro d’Italia di Dante e Shakespeare concluso a Ravenna Alla tomba di Dante a Ravenna il gran finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in

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Monaldi & Sorti, il giro d’Italia di Dante e Shakespeare concluso a Ravenna

Alla tomba di Dante a Ravenna il gran finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola. Il concorso, patrocinato dalla Società Dante Alighieri e dalla Fondazione Luigi Einaudi, è basato sull’omonimo libro di Monaldi & Sorti (Solferino Editore). Ogni esibizione è tratta o ispirata da passi del romanzo teatrale-narrativo, e può vantare due sostenitori d’eccezione: il regista Pupi Avati, che ha lodato lo «sguardo sacrale» di Monaldi & Sorti, e l’attrice Monica Guerritore, che li ha definiti «direttori artistici della pagina scritta». Dante e la Divina Commedia sono diventati protagonisti di un dramma di Shakespeare, rappresentato in brevi spettacoli replicati nel corso della giornata, secondo la formula del teatro di strada.

A Ravenna è andato in scena lo spettacolo “Dante e Piccarda”, proposto – a pochi metri dalla Tomba di Dante, nel giardino della Biblioteca Oriani – dagli attori Cristina Ugolini, nei panni della Chiacchiera e di Piccarda, e Riccardo Cecere, nei panni di Dante, che ha anche curato le musiche dal vivo. Tema è stato un dialogo inatteso, tra serio e faceto, fra il Poeta e la religiosa, tratto dal I atto di “Ahi, serva Italia!” di Monaldi & Sorti. Dante confessa le sue visioni a Piccarda.

Tra l’inaugurazione a Firenze e la chiusura a Ravenna, questo giro d’Italia si è snodato finora da Verona a Vibo Valentia, toccando varie regioni, dalla Liguria alla Campania, tra grandi città come Roma, preziosi borghi storici come Assisi e panorami mozzafiato quali le scogliere di Cagliari.

Premiazione infine a Roma il 14 settembre, anniversario della morte di Dante, presso il Globe Theatre, luogo shakespeariano per eccellenza della capitale, con un banchetto nello stile del Trecento fiorentino. Monica Guerritore ha commentato: «L’incontro tra Dante e Shakespeare funziona: Shakespeare ci mostra come le passioni agitino l’uomo sulla terra, e Dante quale direzione invece gli fanno prendere nell’aldilà. Qui in Ahi, serva Italia! si fa questo doppio viaggio, nella lingua di Shakespeare e nella vita e nelle opere di Dante».

«Gli spettacoli di piazza sono nel DNA sia della Commedia che del teatro elisabettiano», spiegano Monaldi & Sorti, tradotti in 26 lingue e definiti in Francia da L’Express «gli eredi di Umberto Eco» e in Germania dalla Frankfurter Allgemeine «la coppia letteraria italiana di livello internazionale».

«Dante vola così in alto – dicono i due autori – che può essere raccontato solo da Shakespeare. La Commedia era ben nota in Inghilterra sin dal Medioevo: i drammi shakespeariani sono pieni di richiami ai suoi personaggi, dal conte Ugolino a Pier delle Vigne, oltre al parallelo tra le coppie Romeo-Giulietta e Paolo-Francesca. Non a caso il primo ritratto a stampa dell’Alighieri è stato pubblicato in Inghilterra da un editore della cerchia di Shakespeare».

Il Corriere della Sera – Bologna

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CISGIORDANIA. In vigore le nuove regole per gli stranieri, se sposeranno palestinesi avranno un visto ridotto


Le nuove restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi e imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all'estero pur di conservare la famigli

della redazione

Pagine Esteri, 5 settembre 2022 – Stando agli ultimi sviluppi riferiti dalla stampa locale, gli stranieri in Cisgiordania per motivi di lavoro, in visita o per attività di volontariato non dovranno più informare il ministero della difesa israeliano se hanno avviato una relazione sentimentale con un/una palestinese. Tuttavia se il rapporto instaurato porterà al matrimonio dovranno andarsene dopo 27 mesi per un periodo di almeno sei mesi. Pressioni Usa e dell’Ue, sostiene il Times of Israel, avrebbero spinto il Cogat, il dipartimento delle Forze armate responsabile per gli affari civili nei Territori palestinesi occupati, a rivedere in parte le nuove regole per gli stranieri in Cisgiordania che entrano in vigore oggi.

Erano già pronte lo scorso febbraio ma ricorsi e petizioni le hanno tenute congelate sino ad oggi. Le 97 pagine della «Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria», il nome biblico che Israele usa per la Cisgiordania palestinese, vanno ben oltre le relazioni sentimentali tra stranieri e palestinesi. Le nuove restrizioni colpiscono aziende, uomini d’affari, i programmi di aggiornamento professionale nella sanità, le organizzazioni umanitarie e tanti altri settori perché le limitazioni alla durata dei visti e alle loro estensioni consentono agli stranieri di restare in Cisgiordania solo per brevi periodi. Impongono alle università palestinesi una quota di 150 visti per gli studenti e 100 per i docenti stranieri, limiti inesistenti in quelle israeliane. Questa misura, sempre secondo la stampa israeliana, sarebbe stata eliminata. La Commissione europea si è detta «preoccupata» per le discriminazioni che le nuove procedure causeranno allo svolgimento del programma universitario Erasmus+.

Le nuove regole in ogni caso non si applicano a coloro che visitano Israele e gli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania. Ciò rende evidente la doppia legislazione che Israele applica da decenni nel territorio palestinese sotto il suo controllo. Ad esempio, un italiano che volesse lavorare in un villaggio palestinese della Cisgiordania sarà soggetto alle procedure restrittive stabilite dal Cogat, cioè le forze armate, mentre se vorrà farlo in una colonia ebraica a un paio di chilometri di distanza da quel villaggio, dovrà rispettare le disposizioni, decisamente più leggere, previste per gli stranieri che entrano o intendono risiedere in Israele.

Le regole stabiliscono inoltre che i possessori di passaporto straniero, a cominciare dai palestinesi che vivono all’estero, intenzionati a visitare la Cisgiordania (ad eccezione degli insediamenti coloniali), non potranno più ottenere il visto all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e invece dovrà farne richiesta con almeno 45 giorni di anticipo. E dovranno entrare dal valico di Allenby/King Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania, quindi dovranno atterrare ad Amman.

Per i palestinesi queste procedure si inseriscono «in un disegno ampio volto a colpire gli stranieri che fanno volontariato e cooperazione nei Territori occupati». Secondo Jessica Montell, direttrice dell’ong israeliana HaMoked, che ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana contro le restrizioni, «siamo davanti all’ingegneria demografica della società palestinese e del suo isolamento dal mondo esterno. Le nuove regole renderanno la vita difficile alle persone che intendono lavorare nelle istituzioni palestinesi, investire, insegnare e studiare».

Le restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi in Cisgiordania dove migliaia di persone continuano a vivere con uno status legale incerto o sono costrette a lasciare le loro famiglie. La campagna «Right to Enter» denuncia che le procedure del Cogat «imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all’estero pur di conservare la famiglia unita».

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Pensione di invalidità: come ottenere gli arretrati?


La pensione di invalidità è uno dei sostegni economici che vengono erogati da parte dell’INPS a coloro che versano in una condizione di disabilità al 100% che non gli permette di svolgere un normale lavoro. Questo assegno viene riconosciuto sulla base del reddito complessivo del richiedente. In caso di mancata erogazione della pensione, o anche [...]

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L’accerchiamento (di Cina -Russia) e l’irrilevanza (dell’ Europa occidentale)


Questo è quanto (da parte USA) sul terreno. Il 25 settembre segnerà il 'di qua' o il 'di là': al lavoro per la costruzione dell'Europa 'sovrana' (Draghi) o accucciati nell'Europa che non 'serve' più (Meloni e soci)

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Elezioni 2022: far ridere non fa vincere


Una campagna elettorale in generale deprimente, respingente, con politici provano a far ridere. Intanto ci aspetta l'autunno: durissimo

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L’inaspettata resistenza ucraina continua a contrastare i piani iniziali della Russia


Mentre le forze ucraine combattono un contrattacco di fine estate per strappare la provincia meridionale di Kherson al controllo russo, il Presidente russo Vladimir Putin sta imparando una lezione che molti leader politici hanno imparato in precedenza: la guerra è spesso molto più lunga e più costosa del previsto. Nei sei mesi trascorsi da quando [...]

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La crisi del sistema politico: parlamentarismo, ordoliberismo, tecnocrazia | La Fionda

"La crisi del sistema politico non investe solo il parlamentarismo o la tenuta delle istituzioni; sono piuttosto i rappresentati, le classi sociali meno abbienti i soggetti maggiormente colpiti dall’ordoliberismo e da una democrazia plasmata sui principi tecnocratici."

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Enrico Zanetti: contro il caro bollette non basta un extra profitto scritto male


Il Governo ha scelto di lasciare le regole di determinazione dei prezzi così come stavano e di introdurre una complicata tassa sugli extra-profitti che quelle regole immutate consentono di continuare a conseguire agli operatori della filiera sulle spalle

Le Istituzioni sembrano non percepire il pericolo sociale per famiglie e imprese che sta dietro l’esplosione delle bollette?
L’esplosione folle e insostenibile delle bollette del gas e dell’energia elettrica è ancora per molti, troppi, un tema di dibattito, anziché un numero scritto nero su bianco con richiesta di pagamento. A rinviare il sapore (amaro) sulla pelle del tema gas, ci pensa la stagione.

Per quanto riguarda l’energia elettrica?
Le bollette di luglio arrivate nelle scorse settimane sono le prime in cui chi ha tariffe a prezzo variabile tocca con mano che il costo non si “limita” a raddoppiare, ma “vola” a tre, quattro e anche cinque volte i corrispondenti periodi dell’anno scorso; chi, invece, è ancora per qualche mese sotto il cappello protettivo di contratti con prezzo bloccato per 12 mesi stipulati alla fine dell’anno scorso, scoprirà tutto d’un fiato alla loro scadenza e rinnovo che, su per giù, il nuovo prezzo bloccato offerto per i successivi 12 mesi potrà arrivare a essere anche dieci volte tanto quello che sta continuando a pagare adesso.

E a quel punto?
Se nulla sarà stato fatto, tra un paio di mesi succederà letteralmente il finimondo e non interesserà a nessuno di chi sono le colpe per essersi presi in così grave ritardo nel cercare di attenuare il più possibile i rincari.

Dove e come si potrebbe agire?
Una cosa è certa: mentre sul gas i margini di manovra politica di breve periodo sono quasi impalpabili sul versante dei prezzi (e si può agire con una minima efficacia solo sul lato del contingentamento dei consumi), sull’energia elettrica c’è molto più margine di manovra.

Abbiamo perso mesi in cui si poteva fare di più?
In questi lunghi mesi di avvicinamento al ciglio del burrone, il Governo, anche quando era nella pienezza dei poteri, ha scelto di non mettere mano alle regole che stanno alla base della determinazione dei prezzi del kW al consumo che vengono poi incorporati nelle offerte commerciali dei singoli operatori.

E cioè?
Ha scelto di non farlo pur avendo chiara consapevolezza che quelle regole, nel mutato scenario geopolitico e conseguentemente economico, consentono alle imprese che producono e vendono energia elettrica in Italia di realizzare degli ingenti extra-profitti, la cui stessa esistenza è la prova inoppugnabile di come le attuali regole di determinazione del prezzo al consumo dell’energia non ribaltano “a valle” i maggiori costi sopravvenuti “a monte”, ma ben più.

Cosa ha fatto quindi il Governo?
Di fronte a questa banale evidenza, il Governo ha scelto di lasciare le regole di determinazione dei prezzi così come stavano e di introdurre una complicata tassa sugli extra-profitti che quelle regole immutate consentono di continuare a conseguire agli operatori della filiera sulle spalle dei consumatori di energia elettrica. In questo modo ha lasciato in campo una distorsione economica e ci ha aggiunto pure una complicata distorsione fiscale.

Cosa sarebbe stato meglio fare?
Molto meglio sarebbe stato attivarsi per tempo per cambiare le regole di determinazione del prezzo “base” del kW al consumo, così da meglio riflettere “a valle” le dinamiche di aumento nei costi “a monte”, per lasciare certamente intatti i legittimi profitti degli operatori di filiera, ma circoscrivere all’origine la formazione di extra-profitti che, in questa situazione, contribuiscono ad affossare famiglie e imprese. Non è stato fatto (ed è molto, molto male), lo si faccia prima che la situazione precipiti.

Tutto sbagliato insomma.
Gli italiani hanno bisogno di una bolletta elettrica con i minori rincari possibili, non di un Governo che passa mesi a studiare come tassare nel nome del popolo italiano una briciola degli extra-profitti che quello stesso Governo permette si formino a spese di quello stesso popolo italiano.

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Oggi il Cile al voto per una delle costituzioni più avanzate del mondo


Il Plebiscito potrebbe portare in costituzione il diritto all’eguaglianza di genere, all’aborto, alla giustizia ambientale, ai beni comuni naturali per un Cile plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico. Abbiamo intervistato l'Ex Presidente de

di Emanuele Profumi* –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Da Santiago del Cile. Oggi ci sarà uno dei Plebisciti più importanti della storia del Cile. Come quando nell’Ottobre del 1988 il 56% dei cileni decise di impedire a Pinochet di restare al potere sino al 1997, o quando, solo due anni fa, l’80% decideva di archiviare la Costituzione forgiata in dittatura e applicata paradossalmente con il ritorno alla democrazia negli anni ‘90. Questa volta si tratta di approvare o rifiutare il lavoro che per un anno hanno svolto i 155 padri e madri costituenti eletti nella “Convencion Constitucional” sulla base di liste civiche, in maggioranza indipendenti rispetto ai partiti politici ed espressione di un largo consenso territoriale.

Il nuovo progetto di costituzione ha tutte le carte in regola per essere una delle Carte Magne più avanzate del mondo in materia di diritti umani, parità di genere, diritti della natura, ordinamento plurinazionale, come si può leggere sin dal primo articolo: “Il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”. L’impianto complessivo è volto alla creazione di una nuova forma di Welfare State, dove l’educazione, la sanità e il sistema pensionistico diventino pubblici e di qualità, arricchito da nuovi diritti, nati dalle ultime grandi questioni epocali sostenute da profondi e ampli movimenti della società. Sopratutto la crisi ecologica e la richiesta di una reale parità di genere. Si introducono, infatti, per esempio, il diritto all’eguaglianza di genere (art.25) e il diritto all’aborto (art. 61), oppure il diritto alla giustizia ambientale (art. 108) e quello ai beni comuni naturali (art. 134-39).

Tuttavia, ormai da mesi, tutti i sondaggi di opinione indicano che la maggioranza della popolazione non accetta la nuova proposta. Forse per paura, forse per incomprensione, forse per manipolazione mediatica o perché semplicemente si sta proponendo un nuovo patto sociale e politico troppo innovativo (il famoso passo più lungo della gamba). Fatto sta che, ad oggi, la vittoria del “Rechazo” è un reale problema per chi vuole fortemente abbandonare l’eredità velenosa di Pinochet, ossia la sua costituzione, croce senza delizia degli ultimi trent’anni.

Nonostante tutto, Maria Elisa Quinteros Cáceres, medico e ricercatrice universitaria eletta come indipendente nel distretto 17 (Maule Nord), e diventata la seconda “Presidenta” della Convencion Constitucional dopo la mapuche Elisa Loncon, quando la incontriamo è pacata e tranquilla. Sicura della bontà del lavoro svolto e convinta che la popolazione cilena sarà in grado di comprendere anche quello che, sino ad oggi, sembra generare maggiore avversione.

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Maria Elisa Quinteros Cáceres

Michelle Bachelet (Presidente dal 2014 al 2018, ndr), ha messo in piedi una “Riforma costituzionale partecipata” a cui hanno aderito attivamente 220 mila persone in tutto il Paese. Niente di paragonabile ai quasi due milioni che complessivamente hanno partecipato alla scrittura della nuova Carta Magna. Non le sembra, in ogni caso, che quella riforma abbia aiutato l’attuale processo costituente?

Credo di sì, sebbene quel processo sia stato guidato principalmente da alcuni gruppi sociali. Non c’è stata una vera e propria partecipazione di massa. È stato espressione di una specie di élite politica, che aveva accesso ad internet. Gli accademici, come me, hanno partecipato molto, così come molti dirigenti delle organizzazioni sociali e sindacali. La Presidenta non ha avuto neanche la possibilità di inviare in tempo i risultati di quella riforma, e non c’è stata una vera e propria rappresentanza di tutti i settori della società. Tra l’altro, per lei era molto complicato poterla implementare per via della composizione delle forze parlamentari: nonostante avesse appoggio popolare, non aveva la forza politica per poterla sostenere. Detto questo, credo che è stata molto importante, e va considerata il preambolo di quello che alla fine è successo, e in cui ancora ci troviamo.

Sembra che, dopo l’inizio delle grandi manifestazioni dell’Estallido Social del 2019, fonte principale di tutto il nuovo processo costituente, sono stati creati dei “Cabildos” (Consigli territoriali, ndr), dove, principalmente, sorge con forza la richiesta di una nuova costituzione. Non è così?

Dopo i primi momenti, in cui abbiamo vissuto una specie di shock, in cui non si sapeva bene perché stavamo manifestando e perché lo facevamo tutti giorni, e non c’era nessun tipo di leader, maschile o femminile, perché era un movimento acefalo, con il passare dei giorni, in ogni città del Paese si cominciano a creare dei dibattiti pubblici nei Cabildos. Vivo a tre ore da Santiago, e nella mia città è stata la federazione degli studenti a organizzarli. Molte persone vi parteciparono, e proprio loro hanno riassunto le conclusioni del dibattito pubblico. Tuttavia, è a partire dalle marce che si è cominciato a parlare della necessità di una nuova costituzione. Progressivamente è risultato chiaro che quella era la richiesta più forte che si stava generando nelle manifestazioni di protesta.

Lei è stata una delle principali rappresentanti della Convencion Constitucional, ci potrebbe spiegare in poche parole perché è così importante approvare il nuovo testo costituzionale?

Storicamente è molto importante, perché in Cile esiste ancora una costituzione che ha un’origine illegittima, dato che è stata scritta quando ancora c’era la dittatura. Ed è stata imposta con la forza al popolo, scritta da soli uomini, scelti personalmente da Pinochet, senza alcuna forma di rappresentanza e priva di qualsiasi prospettiva democratica. Una costituzione che si concentra principalmente sull’acquisizione di un modello economico che perde di vista qualsiasi forma di umanità, e i diritti fondamentali che invece avevano altre costituzioni precedenti. La nuova costituzione, al contrario, è la prima ad essere stata scritta grazie ad un processo democratico, scelto dalla cittadinanza, con una rappresentanza paritaria di donne, scranni riservati, e con la presenza di cittadini indipendenti dai partiti. Inoltre, è molto importante anche dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità di base della popolazione. Nel 2019 abbiamo manifestato pacificamente per chiedere dei miglioramenti fondamentali della nostra condizione di vita, ossia per il rispetto dei diritti sociali, assenti nell’impianto giuridico della vecchia costituzione, tutta concentrata sulle libertà e che, alla fine, ha portato allo sviluppo di una società segnata da una terribile diseguaglianza sociale. Nonostante il Cile sia un Paese in cui ci sono dei redditi molto elevanti, la diseguaglianza è abissale. Tutto ciò impone necessariamente un cambio.

Nella vostra proposta costituzionale emergono alcune importanti novità storiche. Secondo lei quali sono le più rilevanti?

Indipendentemente dal risultato del 4 di Settembre, che ovviamente spero sia positivo, se lo vediamo come un processo storico, il fatto che la popolazione si è riunita a parlare di politica, è qualcosa che non ha precedenti nella storia della Post-Dittatura. Penso che questo ci cambierà enormemente come società. La società si sta rendendo conto che, quando ci riuniamo, uomini e donne, il potere è nostro, ce lo abbiamo noi. Anche se, va sempre ricordato che il costo di tutto questo è stato molto alto, vista la tremenda violazione dei diritti umani che abbiamo subito durante tutto questo percorso. Ciò che è maggiormente rilevante, quindi, è questa partecipazione popolare insieme alla consacrazione dell’articolo 1. Il cuore della proposta è quello di trasformare uno Stato assente in uno “Stato sociale e democratico di diritto”. Sappiamo bene che è un cammino lungo, che vi si dovrà arrivare, e che non è il risultato di una magia. Ma abbiamo altrettanto chiaramente la speranza che l’unione popolare che si è creata, ed è presente, la possiamo mantenere nel tempo e usarla per incidere a diversi livelli. Per esempio, nel mio caso, come indipendente, lo potrò fare sia a livello dell’organizzazione sociale sia a livello dell’Università, anche se non a livello della politica dei partiti. La novità di questa nuova costituzione, non a caso, è che non teme il popolo che l’ha proposta. A differenza della costituzione del 1980, ancora vigente, che non vuole che il popolo si impegni e si interessi degli affari pubblici, per garantire una “democrazia sorvegliata”. La nostra costituzione, invece, sostiene lo spazio della partecipazione. Non solo nella forma del controllo politico, ma dal punto di vista della buona fede delle proposte che arrivano dalla cittadinanza. Perché anche ai cittadini e alle cittadine comuni possono sorgere delle buone idee politiche, quando ci riuniamo. Inoltre, anche il tema della parità di genere è nuovo nel mondo. Sicuramente frutto della sensibilizzazione femminista, e del lavoro de “Lastesis” (gruppo cileno femminista che fondò la canzone “Un violador en tu camino”, diventata virale nel mondo, ndr). Oltre a questo sicuramente è rilevante la decentralizzazione regionale e la preoccupazione per l’ambiente, perché nel nuovo testo, finalmente, si riconosce che dipendiamo dalla natura. Questi sono i principali aspetti della nuova Carta, come viene ben sintetizzato dall’articolo 1.

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Mi sembra che lo stesso si possa dire della centralità che rivestono i diritti umani, non è così?

Sì. Perché è parte della nostra storia. Prima di tutto dato quanto successo con i popoli originari, poi con la dittatura, e, in ultimo, con la repressione dei giovani manifestanti del 2019. I diritti umani saranno al centro dello Stato e del suo “che fare”. Come si vede chiaramente per quanto riguarda la formazione delle forze di sicurezza, interne ed esterne: i diritti umani sono al centro della formazione delle forze di polizia e delle forze armate. Tutto questo è il frutto di ciò che abbiamo vissuto. Credo che le costituzioni siano il riflesso di quello che una società è, e per questo per la società cilena è stato importante poter implementare questo tema.

La “defensoria del pueblo” (istituzione autonoma dallo Stato che servirà a sanzionare lo Stato e i privati che si macchieranno di crimini contro i diritti umani, ndr) e la “defensoria de la naturaleza” (istituzione autonoma che farà lo stesso in relazione ai diritti della natura e ai diritti ambientali), mi sembra siano altre due novità degne di nota, non trova?

Certo. Per fare in modo che quei diritti non restino solo sulla carta, abbiamo dovuto pensare a istituzioni in grado di garantirli. Oltre alle modifiche che abbiamo apportato al sistema giudiziario, con queste due istituzioni sappiamo ora a chi ci possiamo rivolgere in caso di problemi. Perché attualmente, come cittadini, “facciamo rimbalzare la palla”, come diciamo qui (giriamo come trottole, ndr), ossia chiediamo alle istituzioni di intervenire, e queste ci rimandano sempre a qualche altra istituzione, senza poter concludere nulla. Nessuna ci sostiene veramente. Tra l’altro, siccome è un processo economicamente dispendioso, alla fine molti si arrendono. Non hanno la capacità economica per riuscire a fare giustizia. Queste innovazioni garantiranno quei diritti fondamentali.

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Lei pensa che grazie al nuovo testo si potranno finalmente abbandonare i frutti velenosi del patto Post-dittatoriale? Mi riferisco in particolare all’economia neoliberista e allo Stato repressivo, che sono stati al centro delle proteste dell’Estallido Social.

La costituzione è solo un inizio. Per rendere reale quanto c’è scritto dipende moltissimo da cosa farà la classe politica e da cosa faremo noi cittadini. Innanzitutto ciò dipenderà se riusciremo a lasciarci alle spalle l’idea che la politica è negativa, perché, secondo la mia percezione, la maggioranza del popolo cileno si definisce come a-politico. Si dice spesso: “Non voglio entrare in questioni politiche”, “non mi interessa”. Ma tutto ciò sta cambiando, anche se è un cambiamento lento. Per poter arrivare a fare quello che lei mi sta domandando, dovranno succedere un paio di cose: prima di tutto che esista una connessione tra la nostra classe politica e la gente, la base. Basti ricordare che pochissime persone militano nei partiti e che esiste una grande scollamento tra la base e il vertice, e che questo è parte della profonda crisi politica e sociale che viviamo. In secondo luogo, c’è bisogno di rafforzare la partecipazione. Che la gente possa partecipare. E non mi riferisco al fatto che tutti diventino militanti di qualche partito, ma che lo facciano attraverso i meccanismi di partecipazione che abbiamo creato a tutti i livelli dello Stato (comunale, regionale, etc), o attraverso le istanze della democrazia diretta, per superare la visione negativa della politica che è anche il frutto di quello che voleva la dittatura nei confronti della popolazione. Le persone che partecipavano “troppo” alla politica dovevano essere de-politicizzati. Siamo diventati il riflesso di tutte le politiche neoliberiste che implementate durante quel periodo, ma anche di quelle implementate durante il ritorno alla democrazia, perché, alla fine, la costituzione del 1980 è diventata effettiva in democrazia. Insomma, penso che ci sia ancora moltissimo da fare e che non si risolve tutto il 4 di Settembre. Tuttavia, se vinceremo, sarà possibile continuare a lavorare per fare in modo che questi cambiamenti siano effettivi nei prossimi dieci anni. O forse qualcosa di più.

Quindi ciò che unisce i due problemi è che hanno portato alla de-politicizzazione della cittadinanza.

Esatto. È quello che ho vissuto come studente: c’era davvero poca partecipazione alle federazioni degli studenti. Non c’erano manifestazioni, come se non esistesse nessun problema. Questo continua ad accadere. Qualche anno fa le federazioni erano ancora molto politicizzate, anche se in termini di partito. Oggi sono presenti molti più studenti indipendenti in queste federazioni. Si vede che esiste una trasformazione. Penso che tale situazione potrebbe ancora cambiare in positivo, ma, per il momento, l’interesse della cittadinanza è ancora molto basso quando si tratta di affari pubblici, nella ricerca del bene comune o nella comprensione che quando si partecipa si possono ottenere dei miglioramenti sociali. Temo che su questo non abbiamo ancora fatto progressi, e che sia il frutto della visione neoliberista della società, dato che il neoliberismo, e il suo individualismo, ha lasciato un’impronta profonda.

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Il fatto di aver avuto un’assemblea costituente senza che venissero meno gli altri poteri istituiti, come il parlamento e il governo, non è qualcosa di strano per un processo costituente?

No… è che è la unica che abbiamo avuto sino ad ora… quindi non possiamo compararla con nient’altro. Le altre costituzioni sono state generate in contesti molto distinti (in dittatura, dopo una guerra civile, etc). Almeno, per quanto riguarda il processo cileno, mi sembra che sia stato naturale che essa si sia affiancata ad altri poteri. È come quando uno nasce: il contesto è quello che è, non lo puoi decidere. Sicuramente è stato complesso. Soprattutto per la presenza del settore più conservatore, che ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione, che sono super concentrati. Abbiamo avuto tutto contro, a dir la verità. Ma questo, mi sembra, è ciò che il popolo cileno ha sempre vissuto: affrontare le cose difficili. Non ci è mai successo di ottenere quello di cui avevamo bisogno in maniera semplice. Lo abbiamo visto con la dittatura, ed è chiaro se guardiamo a tutta la nostra storia. Insomma, è stato complicato perché il governo di Piňera ci ha reso la vita molto difficile. Mentre con il secondo governo la relazione è diventata semplicemente più cordiale. Tuttavia penso di poter dire che l’autonomia del nostro potere, quello della Convenzione, è stata difesa durante tutto il processo.

In molti articoli della vostra proposta esiste un comma finale che rimanda il grosso dell’organizzazione giuridica al lavoro del potere legislativo. Questa costituzione permette una larga e importante interpretazione della sua lettera da parte del potere politico. Ciò potrebbe generare dei problemi?

A me non sembra. Questa è una “costituzione civica”. Quando si dovranno generare le leggi ordinarie, dovranno rispettare lo spirito che la informa. Sebbene non mi occupi di diritto, mi sembra che si possa dire che le leggi dovranno essere armonizzate a questo. La classe politica dovrà essere sufficientemente preparata per comprendere lo spirito con cui abbiamo redatto l’impianto delle norme. Tra l’altro, tutto è ormai registrato. Le discussioni, gli atti. Nessuno potrà dire: “Non ho ben capito in che termini interpretare questa o quella norma”. Dato che vengo dall’Università, posso dire senza problemi che per poter fare bene il proprio lavoro, uno si deve informare, studiare e poi, soltanto alla fine, realizzare il lavoro. In effetti, quello che lei sottolinea è stato oggetto di una lunga discussione. Alla fine abbiamo pensato che la cosa necessaria è che si riesca a superare la “democrazia della sfiducia”, che vige oggi, per arrivare ad una “democrazia della fiducia”. Ciò può succedere, però, solo se la classe politica sarà all’altezza: facendola finita con la corruzione, dando risposte alle necessità delle persone. Avevamo tutti lo sguardo incatenato, e pensavamo che nulla si potesse modificare, all’inizio. Poi, il senso comune e il dialogo tra di noi ci ha portato alla convinzione che la democrazia debba continuare il suo cammino, e che le generazioni del futuro potranno fare in modo che le proprie necessità vengano accolte, perché la società sarà distinta da qui ai prossimi dieci o quindici anni. Quindi, personalmente, vedo questo aspetto del testo costituzionale come un vantaggio, e non come un problema. Sempre che i cittadini e le cittadine siano all’altezza della sfida.

Perché è così importante la plurinazionalità dello Stato che voi proponete?

In Cile siamo tutti meticci, proprio come nell’attuale Latinoamerica, e abbiamo un debito nei confronti dei popoli originari, eliminati dallo Stato cileno per varie generazioni. A volte sono state annichiliti interi popoli originari, che il resto della popolazione sente vicini: durante l’Estallido, non a caso, tutte le marce avevano le bandiere mapuches. Basta rivedersi le foto. Esiste una vicinanza con queste popolazioni. I gruppi più conservatori non hanno questa prospettiva. Non hanno vicini mapuches, perché vivono in certe comunità isolate rispetto a queste realtà, dove si concentrano lo stesso tipo di persone. Che vanno alla stessa scuola sin da piccoli. Esiste, insomma, un’interessante endogamia in questa parte della popolazione, che non accetta la plurinazionalità. Quello che stiamo proponendo è necessario per migliorare in termini di pace sociale. Per farlo dobbiamo accettare la nostra diversità, e migliorare nel riconoscimento dei diritti dei popoli originari. Nonostante il Cile abbia sottoscritto il “Convenio del 2008” (Convenio 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro, che riconosce l’esistenza e i diritti dei popoli originali e tribali, ndr), lo ha fatto alla maniera cilena: solo un po’, quello che è possibile. Per noi, invece, maggiore è il riconoscimento e la partecipazione, maggiore saranno i miglioramenti in termini di pace sociale.

Ci sono diversi modi per affrontare il conflitto e la marginalizzazione nei confronti dei popoli originari. Perché avete assunto la plurinazionalità e non un’altra maniera di affrontare il problema?

Penso che, in questo senso, sarebbe interessante analizzare i programmi che hanno portato avanti i candidati poi eletti come rappresentanti costituenti. La maggior parte di loro includevano il riconoscimento della plurinazionalità nel programma. In molti casi, come nel mio, questa proposta è il frutto di un lavoro di base. Abbiamo partecipato a cabildos, riunioni, momenti di riflessione sul metodo, prima di poter definire il programma elettorale. Se uno osserva i cabildos del 2019, e poi quelli alla base dell’elezione dei rappresentanti convenzionali, si rende conto che è stata una proposta popolare, espressa chiaramente. Quindi non è solo una nostra idea, come convenzionali, ma espressione di una volontà popolare.

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Nonostante questo, sembra che il dibattito mediatico sull’elezione del 4 di Settembre sia principalmente incentrato sulla proposta della Plurinazionalità, che è quella che maggiormente viene rifiutata. Come mai?

Penso che l’agenda pubblica sia portata avanti dai mezzi di comunicazione di massa. Dato che in Cile esiste un’importante concentrazione del potere mediatico, non esiste pluralismo dei mezzi di comunicazione, perché 4 o 5 famiglie tra le più ricche del Paese hanno in mano l’80% del sistema mediatico, si genera una vicinanza tra potere politico, economico e mediatico. Ma non c’è niente di nuovo sotto il sole. Lo sappiamo da tempo. Da prima dell’Estallido. Questa sensazione di rifiuto e di razzismo che oggi è ben presente, non è casuale. Non è un’opinione del popolo, in generale. Penso che sia voluta. Per esempio, ero nella Pintana (comuna di Santiago del Cile, ndr), e nessuno esprimeva questa opinione. Al contrario, in questa comuna si fanno pubblicamente delle attività mapuches. Penso che esista uno scollamento con la realtà, e che si diffonda la paura e, a livello politico, la dottrina dello shock (teorizzata da Naomi Klein, ndr). Insomma, penso che esistano molte variabili che possano spiegare tutto questo, ma non è quello che si vede nelle strade, o nel dialogo popolare. Sino ad oggi ho fatto oltre settanta dibattiti pubblici territoriali, e non ho mai visto ciò che viene rappresentato a livello mediatico. Bisognerebbe vedere, tra l’altro, come sono stati costruiti i sondaggi. Mi sembra che stia succedendo quello che è successo nell’Estallido e nel Plebiscito d’ingresso (quello che ha deciso di mettere in piedi la Convencion Costitucional e archiviare la costituzione di Pinochet, ndr), ossia che i mezzi d’informazione siano ben scollegati dalla realtà sociale e dalla gente comune.

Sebbene non sono affatto contrario alla plurinazionalità, mi sembra che l’attuale testo potrà incorrere in un problema importante. Da un lato la costituzione definisce e garantisce l’autonomia territoriale, culturale, sociale, e politica delle comunità, mentre, dall’altro, le sottomette ad alcuni principi generali, come i diritti umani, gli strumenti democratici e il principio di partecipazione egualitaria. Potrebbe accadere in futuro, per questo, che l’autonomia politica di alcune comunità non sia esattamente conforme a quei diritti, al processo e ai principi democratici. Se dovesse passare questo nuovo testo costituzionale, pensa che tutto ciò potrà comportare un problema e generare alcuni conflitti?

Non credo sarà così problematico. I popoli originali hanno delle loro specifiche e molto interessanti forme di autonomia politica. E stiamo parlando di un 12% della popolazione, quindi di un gruppo che non è maggioritario. Ciò di cui abbiamo bisogno è che possano vedere riconosciuti i loro diritti e ottenere una parità di condizioni rispetto al resto della popolazione. Non lo vedo problematico anche perché l’autonomia sarà in qualche misura limitata. In generale, tra l’altro, bisogna ricordare che i popoli originari hanno collaborato con lo Stato, meno una parte del popolo mapuche, che è da sempre il più agguerrito. Sono cileni, come noi. Amano questo Paese e ne rispettano le tradizioni. Ballano la cueca (ballo tradizionale cileno, ndr) e rispettano la bandiera nazionale. Solo per quella parte dei mapuches che portano avanti un conflitto per via di molteplici fattori, e che sono concentrati in una parte determinata del Paese, potrebbe valere il discorso. Con loro è difficile che ci sia un dialogo, e anche questo governo ha avuto difficoltà a averlo. Il resto dei popoli vivono in pace, in povertà, marginalizzati. Sono vittime del razzismo. Hanno bisogno di uscire da questa condizione, e la proposto avanza positivamente su questo terreno. Per abbandonare la povertà e l’alcolismo, prodotti della mancanza di rispetto nei confronti delle loro cosmovisioni da parte dello Stato e del resto del popolo cileno, c’è bisogno di questa proposta. Sono popoli molto rispettosi con il fatto di condividere la parola. Lo posso dire direttamente, visto che ne ho avuto esperienza diretta al momento della “consultazione indigena” (momento di consultazione dei popoli originari rispetto alla nuova costituzione, ndr). Loro si sono fidati della nostra gestione per portare a termine la consultazione, nonostante la paura ancestrale di essere usati dagli altri. Collaborarono. E l’esercizio della parola, il parlare, è super importante per loro.

Da molti mesi, tutte le inchieste mostrano che vincerà il “rechazo” il 4 di Settembre. Si può spiegare come l’effetto della manipolazione e della distorsione del sistema mediatico, come nel caso della Plurinazionalità, oppure qualcosa di reale ed aderente alla popolazione cilena viene effettivamente mostrato?

Sicuramente ci sono molte persone che vivono bene sotto la vecchia costituzione e non vogliono cambiare. La vecchia è stata sancita con un Plebiscito fraudolento. Adesso è venuto il tempo di poter raggiungere un’altra forma di accordo sociale. Sicuramente questo gruppo che vuole conservare la vecchia ha usato la paura e la menzogna per convincere il resto della popolazione, e influire nella loro scelta. È un settore importante, che confonde altri gruppi sociali, che non hanno potuto realmente leggere la nuova proposta, anche perché esiste un problema importante di analfabetismo nel Paese. Ciò fa sì che non si acceda alla proposta in modo egualitario. Inoltre, come ricordavo, esiste un gruppo apolitico della popolazione, che non si interessa, né cerca di informarsi, a cui si può arrivare solo con il porta a porta. Però, oltre a questo, è un fatto che gli incontri pubblici a favore della nuova costituzione non trovino spazio nel sistema mediatico. Se durante la dittatura si usava il boicotoggio ufficiale delle iniziative democratiche, oggi si usa l’omissione. Basti pensare anche ai programmi tv dove si ripete sempre lo stesso ritornello e non c’è vera discussione, o peggio, si costruisce un conflitto fittizio attorno alle proposte. Se noi che siamo a favore siamo stanchi di tutto questo, immaginiamoci l’intera popolazione come può reagire. Qui diciamo: “Il popolo lo aiuta il popolo”. Penso che succederà la stessa cosa che è accaduta nel Plebiscito che ha dato vita al processo costituente: vedo ovunque cittadini e cittadine impegnati che cercano di informare, che donano il loro tempo a disposizione alla campagna per l’Apruebo. Per parlare con gli altri, per fare il porta a porta, o organizzare le piazze. Ciò succede alla base della società. Sono in molti ad andare alle attività che si stanno organizzando. Molti ripetono ciò che dice la televisione, all’inizio di questi incontri, è vero. Ma va anche detto che alcuni giornalisti main stream cominciano ad avere un altro atteggiamento, e smentiscono le menzogne che sono circolate sulla nuova costituzione. Da parte nostra facciamo campagna spiegando gli articoli con il testo alla mano. Non ci inventiamo nulla. Quello che ho visto è che le persone se ne vanno più tranquille da questi incontri, con la voglia di informarsi di più e di mettersi a leggere. Perciò ho fiducia nel lavoro di base, e continuo a nutrire speranza. La stessa di sempre.

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*Emanuele Profumi è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista freelance. Insegna Scienze della Politica all’Università di Viterbo. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le “Inchieste politiche”) sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012).

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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Il tentativo di omicidio contro la donna più potente d’Argentina infiamma ancora di più gli animi in un Paese violentemente polarizzato e immerso nella peggiore crisi economica degli ultimi venti anni.


La visita di Pelosi e la nuova normalità a Taiwan


Le aziende ora sono giustamente più preoccupate per lo scoppio delle ostilità nello Stretto di Taiwan e il suo impatto sulla sicurezza fisica, sui beni/investimenti e sulla continuità aziendale. Data la risposta cinese alla visita del presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan il 2-3 agosto 2022, si ritiene che il rischio [...]

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Carlo Alberto dalla Chiesa: quarant’anni da via Carini


La sfida epocale che ci lancia il quarantennale della strage di Via Carini, in cui persero la vita anche Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale, e l’agente di scorta Domenico Russo, è allora quella di ragionare sullo stato di salute del rapporto che

Nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione del centenario della nascita del Generale (ilcaffeonline.it/2020/09/27/fe…), il professor Nando dalla Chiesa ha fornito ai lettori de «ilcaffeonline» due spunti particolarmente importanti.

In primo luogo ci ha tolto ogni illusione: gli italiani la corruzione ce l’hanno nella testa e non basteranno dieci anni per estirpargliela, ma ci vorranno secoli.

In secondo luogo, alla domanda su quali “frutti” abbia dato, contro l’intenzione dei suoi carnefici, l’assassinio di Carlo Alberto dalla Chiesa, ha risposto senza indugio che la scuola di suo padre è stata quella del “primato delle istituzioni”. Non in contrapposizione con la famiglia e il suo valore, bensì in armonia con essi, poiché tra le funzioni della prima e fondamentale delle istituzioni vi è proprio la trasmissione del senso dello Stato.

La sfida epocale che ci lancia il quarantennale della strage di Via Carini, in cui persero la vita anche Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale, e l’agente di scorta Domenico Russo, è allora quella di ragionare sullo stato di salute del rapporto che noi italiani intratteniamo con le istituzioni, cioè con la Costituzione e con la nostra storia.

Per ragioni logiche non si può che partire dalla scuola, alla quale compete la trasmissione del contenuto e dell’ethos della Carta. La domanda, formulata qualche anno fa dall’ANCI, di introdurre o, meglio, reintrodurre l’insegnamento dell’educazione civica, in quanto vera e propria disciplina dotata di un monte ore e di un voto, ha ottenuto una risposta politica con la legge 92/2019. Si tratta di una norma che presenta diverse criticità, ma che certamente ha il merito di costringere ogni collegio docenti ad affrontare sistematicamente, a livello didattico, la formazione civile delle ragazze e dei ragazzi, attraverso la produzione di curricoli efficaci e valutabili.

Ciò sta avendo una ricaduta positiva, anzitutto, su noi insegnanti, costringendoci a prendere conscienza del nostro rapporto con la Costituzione e con la politica – che è come dire con la virtù della speranza (vera e propria competenza professionale per un insegnante) – sia attraverso inevitabili discussioni sia grazie a corsi di aggiornamento (non tutto oro, ovviamente) dedicati ai molti importanti temi inerenti l’insegnamento dell’educazione civica. Come andrà con i ragazzi lo vedremo tra qualche anno (intanto loro ci danno diverse lunghezze sui temi dell’ambiente e dei diritti).

Che dire della politica o, meglio, di chi fa politica? Una tessera di partito continua a contare più delle istituzioni? Discorsi universali non se ne possono fare. Se faccio riferimento alla mia esperienza riesco a sentire una silenziosa foresta che cresce. Certo, parlare di contrasto al riciclaggio (e in generale delle mafie) continua a non portare voti e ancora troppo spesso le logiche che governano la costruzione delle liste e la suddivisione degli incarichi di governo e sottogoverno sono di tipo spartitorio, tra correnti e filiere (per non dire clientele).

Ma ho conosciuto anche tanti militanti, amministratori, deputati e senatori che davvero hanno a cuore le istituzioni. E sono disposti a difenderle con coraggio e a renderle efficaci e prossime sudando su documenti complessi o a corsi di formazione. E ovviamente consumando suole in giro per i territori che amministrano o rappresentano.

Sono processi lunghi, è ovvio. Non toccherà a noi vedere la terra promessa, ma certo abbiamo il dovere di perseverare nel cammino e nella rotta indicata da Carlo Alberto dalla Chiesa. Quel che soprattutto dobbiamo fare, però, è connettere l’impegno che viene dalla società con quello della parte migliore della classe dirigente, come minimo attraverso un’attenta selezione della medesima (il 25 settembre ne avremo l’occasione, non perdiamola!), ma anche senza temere di impegnarci direttamente. Magari prendendo una tessera di partito e facendola contare meno delle istituzioni.

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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Oggi tifiamo Cile


Se per uno scherzo del destino i sondaggi dovessero essere smentiti, potrebbe essere un piccolo grande tsunami

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