Elisabetta II è nell’evoluzione della Nuova Zelanda
La morte della regina rappresenta un'altra opportunità per la Nuova Zelanda di rivalutare la propria nazionalità e forse di essere creativa
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Borsa: canapa, indice Canada positivo, meno quello USA
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono con andamento opposto, la Borsa USA chiude in rosso, la Borsa Canapa Canada chiude in positivo. L’indice medio delle piazze borsistiche internazionali, però, chiude la settimana corrente con valori positivi. Tutto questo dimostra, [...]
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Internet e social: la dose giusta per gli adolescenti. Il post di Carlo Venturini sull'Almanacco della Scienza
Sabrina Molinaro dell’Istituto di fisiologia clinica e Giorgia Bassi dell’Istituto di informatica e telematica del Cnr spiegano perché è importante che gli adolescenti riducano il tempo trascorso in Rete, utilizzando Internet e i social network. E fondamentale è anche il ruolo dei genitori, che vanno coinvolti nell’educazione digitale
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Gli Ufo esistono? Le Testimonianze Storiche
Gli UFO esistono? Ci sono testimonianze storiche degli UFO? Ci sono ritrovamenti archeologici che ne confermino l’esistenza? Questo articolo serve esclusivamente a calcolare esattamente quante visite in più farebbe questa pagina se iniziasse a trattareContinue reading
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Elisabetta II e l’Australia
A Elisabetta II piacevano l'Australia e gli australiani. Negli ultimi decenni della sua vita, la sua popolarità è cresciuta
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La Russia potrebbe non sopravvivere alla disastrosa decisione di Putin di invadere l’Ucraina
La guerra della Russia in Ucraina ha dimostrato che il Cremlino non rispetta i fondamenti del diritto internazionale o la santità dei confini internazionali. Questa politica estera imperialistica potrebbe presto rimbalzare sulla Russia stessa. L’integrità territoriale della Russia sembra destinata a diventare sempre più contestata dalle numerose repubbliche e regioni interne del paese poiché la [...]
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Elisabetta II: la fine della ‘nuova era elisabettiana’
Quando la regina Elisabetta II salì al trono nel 1952, la Gran Bretagna stava cambiando e lì c'era una giovane e bella regina che sedeva al suo timone
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L’Albania interrompe le relazioni con l’Iran, Washington applaude l’alleata Tirana
della redazione
Pagine Esteri, 9 settembre 2022 – Ha confermato il pieno sostegno degli Usa alle autorità di Tirana, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, durante il colloquio telefonico che ha avuto con il primo ministro albanese, Edi Rama, dopo il presunto attacco informatico che l’Iran avrebbe compiuto il 15 luglio scorso all’Albania. Le parti hanno concordato di rafforzare la difesa informatica dell’Albania e discusso delle “sfide regionali e globali della Nato” di cui l’Albania fa parte dal 2009. Gli Stati Uniti ieri hanno promesso che “intraprenderanno ulteriori azioni per ritenere l’Iran responsabile di azioni che minacciano la sicurezza di un paese alleato e creano un precedente preoccupante per il cyberspazio”.
La Nato ha condannato l’attacco informatico ai danni dell’Albania attraverso il suo segretario generale Jens Stoltenberg. Condanna alla quale si aggiunge quella del Consiglio del Nord Atlantico (Nac) che ha espresso solidarietà a Tirana.
Il governo dell’Albania ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran sostenendo, in un comunicato, che “il 15 luglio, il nostro Paese è stato oggetto di un grave attacco informatico, che aveva come obiettivo la distruzione dell’infrastruttura digitale del governo della Repubblica d’Albania, la paralisi dei servizi pubblici, nonché il furto di dati e comunicazioni elettroniche dai sistemi governativi. L’attacco non ha raggiunto il suo obiettivo. Rispetto agli obiettivi dell’aggressore, il danno può essere considerato minore. Tutti i sistemi sono stati ripristinati e nulla è andato irrimediabilmente perso”. Teheran però nega il suo coinvolgimento nell’attacco informatico e “condanna fermamente” la decisione dell’Albania di rompere le relazioni definendo “infondate” le accuse mosse da Tirana. Il ministero degli esteri iraniano definisce la scelta dell’Albania “un’azione sconsiderata e miope” e respinge le “azioni anti-iraniane” di Tirana.
I due paesi sono ai ferri corti da lungo tempo, in particolare per la decisione di Tirana di dare ospitalità a circa 3.000 uomini del movimento iraniano d’opposizione People’s Mojahedin Organization of Iran (PMOI), una organizzazione considerata “terrorista” dall’Iran. Pagine Esteri
Sul ruolo dell’Albania nella Nato e la sua crescente importanza per gli interessi statunitensi nei Balcani, vi invitiamo a leggere un articolo scritto a luglio dal nostro analista Marco Santopadre.
L’Albania si offre alla Nato come avamposto nei
Balcani
di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 12 luglio 2022 – Nonostante il suo ingresso nella Nato risalga già al 2009, l’Albania è rimasta a lungo in una posizione defilata e periferica rispetto al processo di riorganizzazione dell’alleanza militare capitanata da Washington nel continente europeo. Negli ultimi mesi, però, il governo della piccola repubblica balcanica ha deciso di candidare il paese ad un ruolo assai più attivo e strategico nello schieramento atlantista, approfittando anche delle tensioni causate dalla crisi ucraina e dall’invasione russa. Il vertice della Nato svoltosi alla fine di giugno, in particolare, ha costituito l’occasione per una serie di incontri che hanno ulteriormente accelerato il processo di riconversione di alcune delle installazioni militari già esistenti nell’Adriatico meridionale.
Rama offre la base navale di Porto Romano
In occasione dello storico summit di Madrid dell’Alleanza Atlantica, il primo ministro di Tirana, Edi Rama, ha dichiarato che il suo paese è impegnato in una serie di colloqui con i collaboratori di Jens Stoltenberg allo scopo di realizzare una base navale nei pressi di Durazzo, per destinarla ad offrire supporto logistico e militare alle operazioni della Nato nel Mediterraneo.
L’area prescelta è quella di Porto Romano e la realizzazione dell’installazione dovrebbe essere cofinanziata dall’Albania e dal Patto Atlantico; secondo la proposta del premier socialista, la realizzazione della base militare nel porto marittimo sarebbe a carico della Nato mentre dell’area commerciale si occuperebbe Tirana. Grazie all’ampliamento di quest’ultima, il nuovo porto mercantile di Durazzo diventerebbe il più importante del paese.
«Un incontro speciale tra il team di esperti albanesi e della Nato si terrà presto per svelare il progetto dettagliato e proseguire con ulteriori colloqui e discussioni sul progetto» ha affermato Rama nel corso di una conferenza stampa. Intanto con un comunicato l’Alleanza ha informato che il 13 luglio il segretario generale della Nato riceverà a Bruxelles il premier albanese.
Lavori in corso alla base di Pashaliman
Già a maggio Rama ha offerto all’Alleanza Atlantica l’utilizzo della base navale di Pashaliman, che si trova 180 km a sud della capitale. L’installazione, che Tirana si è impegnata ad ampliare ed ammodernare, è stata costruita negli anni ’50 nel quadro della cooperazione militare con l’Unione Sovietica. Fino alla rottura tra Enver Hoxha e Mosca, nel 1960-61, Pashaliman ospitò 12 sottomarini sovietici, che in seguito si ridussero a quattro. Dopo l’implosione del regime socialista l’area venne in gran parte abbandonata e poi saccheggiata durante gli scontri del 1997, per poi essere ristrutturata dalla Turchia; da allora viene utilizzata come approdo logistico per alcune navi militari dell’Albania e di altri paesi che pattugliano lo Ionio e l’Atlantico. «In questi tempi difficili e pericolosi, credo che la Nato dovrebbe prendere in considerazione l’idea di avere una base navale in Albania» ha spiegato Rama.
La base aerea di Kuçovë
In attesa di capire se Stoltenberg accetterà l’offerta di Tirana, la Nato ha comunque già avviato dall’inizio dell’anno i lavori per potenziare la base aerea di Kuçovë, 85 km a sud di Tirana, in modo che possa essere utilizzata dai caccia dell’Alleanza, che per ora ha deciso di investire nell’operazione circa 50 milioni di euro sulla base di un accordo che risale al 2018.
La base originaria – all’epoca la località era stata ribattezzata Qyteti Stalin (“Città di Stalin”) – venne realizzata tra il 1952 e il 1955, e fu utilizzata dal governo albanese per ospitare decine di caccia prima sovietici (MiG, Yakovlev e Antonov) e poi, dopo la rottura con Mosca, di fabbricazione cinese (Shenyang J-5 e J-6), alcuni dei quali sono stati impiegati fino al 2005. Poi negli anni ’90 l’area venne di fatto abbandonata e saccheggiata, finché tra il 2002 e il 2004 il campo d’aviazione di Kuçovë fu rinnovato e adeguato agli standard minimi della Nato.
Ora la vecchia base aerea nell’Albania centro-meridionale, che verrà estesa oltre i suoi 350 ettari attraverso un certo numero di espropri, diventerà una base operativa tattica della Nato – la prima dell’Alleanza nei Balcani occidentali – in grado di ospitare una squadriglia di caccia F-16. «La posizione del quartier generale avanzato in Albania fornirà una maggiore interoperabilità con i nostri alleati albanesi, un importante accesso agli hub di trasporto nei Balcani e una maggiore flessibilità logistica» recitava a gennaio un comunicato diffuso dal Comando per le operazioni speciali degli Stati Uniti in Europa (Soceur) basato a Stoccarda, in Germania.
Il 20 gennaio scorso a Kuçovë si è svolta la cerimonia di inaugurazione dei nuovi importanti lavori, alla presenza del primo ministro Rama, del Ministro della Difesa Niko Peleshi e dell’ambasciatrice degli Stati Uniti in Albania Yuri Kim. Come ha annunciato nel dicembre del 2021 Peleshi, la struttura è stata anche già scelta come quartier generale dell’Aviazione Militare albanese, al momento ridotta al lumicino e formata di fatto soltanto da alcuni elicotteri Cougar (in attesa di alcuni Blackhawk) ma da nessun caccia.
Il primo ministro socialista considera l’operazione una grande occasione per modernizzare e rafforzare le capacità operative delle forze armate albanesi e per accrescere il ruolo dell’Albania nell’Alleanza Atlantica e supportare la procedura di ingresso di Tirana nell’Unione Europea, approfittando di una fase segnata dall’aumento della conflittualità con Russia e Cina.
Un avamposto Nato contro Russia e Cina
Di fatto Tirana si candida a costituire un avamposto della Nato in grado di contenere le influenze di Mosca e Pechino su alcuni paesi dell’area come la Serbia, supportando al tempo stesso il processo di cooptazione nell’Alleanza di nuovi paesi dell’area come la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, dopo l’ingresso della Macedonia del Nord. In alcune sue dichiarazioni il titolare della Difesa Peleshi è stato molto esplicito: «La costruzione di questa base è un chiaro messaggio inviato ad altri attori con cattive intenzioni nella regione dei Balcani occidentali. (…) La crescente presenza occidentale in tutta la nostra regione non consentirà la penetrazione e l’influenza di questi rivali, che hanno programmi e interessi diversi da quelli in cui crediamo e condividiamo».
Stando alle stesse dichiarazioni di alcuni generali della Nato, si evince che l’Albania viene considerata un avamposto strategico per l’addestramento e il dispiegamento rapido delle forze speciali di Washington, da utilizzare nel corso di un’eventuale crisi bellica in tutta l’area balcanica.
«Grazie al supporto che stiamo trovando da parte delle strutture di difesa statunitensi, stiamo prendendo coscienza che se investiamo in modo intelligente e affrontiamo il nostro percorso di rafforzamento e miglioramento della qualità delle nostre forze militari, possiamo essere un valore aggiunto per la NATO, anche per eventuali altri progetti. Del resto, stiamo assistendo alla concretizzazione di qualcosa che, inizialmente, sembrava irrealizzabile» ha spiegato Rama, per il quale i progetti da realizzare in ambito Nato dovrebbero costituire un volano per lo sviluppo di varie opportunità di carattere economico e commerciale.
Proprio nei giorni scorsi, tra l’altro, il premier Rama ha annunciato la scoperta nel paese di importanti riserve di gas e di petrolio – ancora da quantificare – ad opera della compagnia energetica anglo-olandese Shell. Pagine Esteri
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I benefici della cannabis conquistano sempre più la comunità medico-scientifica internazionale
Stati Uniti: un ulteriore studio ha indicato che i pazienti sperimentano benefici dall’uso della cannabis per una serie di condizioni in cui i trattamenti convenzionali si sono rivelati inefficaci o inaccettabili. Il 17% ha dichiarato di aver iniziato a fare uso di cannabis terapeutica dopo una raccomandazione da parte di un operatore sanitario o di [...]
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ISRAELE/PALESTINA. L’archeologia strumento per l’espropriazione delle terre
di Jeff Wright – Mondoweiss*
Pagine Esteri, 9 settembre 2022 – Il sito archeologico della Città di David, gestito dall’organizzazione israeliana dei coloni, la fondazione Elad, si affaccia sul quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.
Nel suo rapporto biennale di 18 pagine pubblicato la scorsa settimana, Emek Shaveh documenta i piani degli enti governativi israeliani e delle organizzazioni di coloni che, a suo dire, sono “progettati per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est”. Il rapporto descrive anche “uno sforzo diffuso [in Cisgiordania] per reprimere l’edilizia palestinese, l’attività agricola e lo sviluppo dei siti del patrimonio archeologico”.
I coloni e gli enti governativi sequestrano i terreni o ne assumono il controllo, secondo il rapporto, “con il pretesto della ricerca archeologica o dello sviluppo dei siti storici per il pubblico beneficio”.
Emek Shaveh è un’organizzazione non governativa israeliana che lavora “per difendere i diritti del patrimonio culturale e per proteggere i siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli”. Sul suo sito web, l’ONG sostiene che “le rovine del passato sono diventate uno strumento politico nel conflitto israelo-palestinese… [lavoriamo] per sfidare coloro che usano i siti archeologici per espropriare le comunità diseredate”.
Il suo rapporto sui recenti sviluppi a Gerusalemme si concentra sul lavoro della Fondazione Elad, uno dei gruppi di coloni più grandi e influenti di Israele. Secondo un articolo di Haaretz, Elad “opera a Gerusalemme Est con due obiettivi principali: insediare ebrei nel quartiere di Silwan, in gran parte arabo, e gestire siti turistici e di scavo”.
Il fiore all’occhiello di Elad è il Parco Archeologico City of David, che la fondazione gestisce per conto dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. Il cuore del parco si trova nel quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.
I progetti relativi al parco includono un ponte sospeso, un caffè e un luogo per eventi chiamato Una casa nella Valle, e una proposta di funivia che inizierà nella parte occidentale di Gerusalemme, passerà sopra i quartieri palestinesi mentre attraversa Gerusalemme Est, e terminerà nel centro culturale di sette piani a tema biblico proposto dalla Città di David, che sarà costruito su un terreno dove un tempo si riunivano le famiglie palestinesi.
Emek Shaveh descrive nei dettagli come molti di questi progetti – tra cui case per i coloni, negozi per chi vuol fare spese – si stiano espandendo oltre il Parco Archeologico della Città di David, nella Valle di Hinnom a sud e nella Valle di Kidron a est.
Mentre Elad suggerisce che si tratta semplicemente di sforzi per espandere le opportunità turistiche della città, Emek Shaveh descrive come essi servano a fini politici e ideologici più nefasti: controllare lo sviluppo dell’area e celebrare la storia ebraica della zona, ignorando la narrazione multistrato delle culture e dei popoli che, nel corso dei millenni, hanno occupato Gerusalemme e i suoi dintorni.
Collusioni tra i coloni e il governo
Secondo il rapporto, “la moltiplicazione delle iniziative turistiche guidata dai coloni non sarebbe stata possibile senza la piena collaborazione degli organi governativi competenti, come l’Autorità per la Natura e i Parchi (INPA), il Comune di Gerusalemme e l’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA)”.
“Insieme”, sostiene Emek Shaveh, “le loro azioni sfruttano i valori della natura e della conservazione del patrimonio per alterare l’identità multiculturale del nucleo storico di Gerusalemme”. A maggio, il governo israeliano ha annunciato la decisione di finanziare il proseguimento del lavoro con una sovvenzione di quasi 5 milioni di dollari per, come si legge nella sovvenzione, “migliorare lo status di Gerusalemme come città internazionale di fede, patrimonio, cultura e turismo”.
Emek Shaveh insiste sul fatto che, invece, si tratta di “una decisione politica per continuare a finanziare l’insediamento archeologico-turistico della Fondazione Elad, asservendo l’Autorità Israeliana per le Antichità alle sue esigenze ideologiche private… progettate per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est in generale, e del Bacino Storico in particolare”. “Utilizzando gli ordini di giardinaggio del Comune di Gerusalemme e la legge discriminatoria israeliana sulle Proprietà degli Assenti, Elad ha cospirato con l’Autorità israeliana per la Natura e i Parchi per avviare diversi nuovi progetti nella Valle di Hinnom che, per millenni, è stata la necropoli della città. La scorsa estate, l’organizzazione dei coloni ha creato un altro sito turistico, il Centro per l’Agricoltura Antica.
Qualcosa più che un’altra attrazione culturale
“La fattoria”, spiega il rapporto di Emek Shaveh, “è diventata un sito strategico per la Fondazione Elad nei suoi sforzi di raggiungere il pubblico laico israeliano tradizionale. Grazie alla sua vicinanza a Gerusalemme Ovest e alle istituzioni culturali tradizionali…”, continua il rapporto, “Elad è ben posizionata per attrarre folle relativamente non politiche che percepirebbero la fattoria come un altro luogo culturale nella zona”.
Negli ultimi mesi, riferisce Emek Shaveh, la Fondazione Elad ha ospitato gruppi di studenti delle scuole superiori, gruppi pre-militari e gruppi di volontari per lavorare sui terreni, alcuni dei quali, secondo i palestinesi, erano di proprietà privata e ora sono sotto l’egida del Custode Generale o della Municipalità di Gerusalemme.
Gli studenti a cui viene offerta l’opportunità di partecipare a un programma di “coinvolgimento sociale” ospitato dalla fattoria sono spesso “inconsapevoli delle implicazioni politiche ed etiche delle loro azioni”, secondo il rapporto. Elad non spiega ai genitori o agli insegnanti che si tratta di un progetto politico gestito dalla stessa Fondazione Elad.
Di conseguenza, i visitatori dei siti di Elad – israeliani e internazionali – saranno probabilmente informati sulla vita e sulle pratiche associate al periodo del Primo e del Secondo Tempio, senza essere esposti al ricco patrimonio culturale di altre civiltà, per non parlare dei palestinesi le cui famiglie risiedono nell’area da secoli.
In una conversazione su Zoom, la coordinatrice delle attività internazionali di Emek Shaveh, Talya Ezrahi, ha descritto una tendenza preoccupante. Ha affermato il valore della conservazione del patrimonio ebraico e poi ha detto: “Mentre l’importanza di proteggere i siti ebraici e di condividere la storia ebraica si sta radicando in questa parte del mondo, il pubblico tradizionale spesso non è consapevole del fatto che i progetti si stanno spostando oltre la Linea Verde, che questi siti sono destinati ad escludere le storie palestinesi e le testimonianze di altri popoli e fedi che hanno vissuto in questa terra.”
I resti archeologici nell’area coprono un arco di 7.000 anni: la città è stata abitata da Cananei, Giudei, Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci, Romani e Bizantini, compreso un millennio di dominio musulmano. “I coloni”, ha spiegato Ezrahi, “stanno prendendo l’affascinante e stratificata storia di Gerusalemme e la riducono a una narrazione esclusivamente ebraica”.
Il Monte degli Ulivi è di nuovo all’ordine del giorno
A febbraio, Mondoweiss ha riferito dei piani di Elad e dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi – descritta da Emek Shaveh come “I due che camminano insieme” – per prendere circa 7 ettari di terreno sul Monte degli Ulivi. All’epoca, era stato riferito che il piano era stato accantonato in risposta ad una lettera molto dura al Ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, scritta dai leader delle chiese storiche di Gerusalemme.
I piani per l’estensione dei confini del parco sono stati ripresentati al comitato di pianificazione locale e saranno ascoltati a dicembre. Una mappa della superficie proposta include vaste parti del Monte degli Ulivi e parti delle valli di Hinnon e di Kidron.
Nella loro lettera, il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Theophilos III, il Custode della Chiesa Cattolica di Terra Santa Francesco Patton e il Patriarca armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian hanno descritto il Monte degli Ulivi come “uno dei siti più sacri per la cristianità”.
La lettera continuava: “Negli ultimi anni, non possiamo fare a meno di sentire che diverse entità stanno cercando di minimizzare, per non dire eliminare, qualsiasi caratteristica non ebraica della Città Santa….”. “Sembra che [il piano]”, hanno scritto i religiosi, “sia stato proposto e sia orchestrato, avanzato e promosso da entità il cui unico scopo sembra che sia quello di confiscare e nazionalizzare uno dei luoghi più sacri per la cristianità e di alterarne la natura.”
Anche se raramente commentato in pubblico, gli osservatori esterni delle leggi, delle politiche e delle pratiche di apartheid di Israele hanno riconosciuto che i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme non nominano gli organismi governativi israeliani e le organizzazioni di coloni – e si astengono dall’usare i termini apartheid e pulizia etnica – per paura di rappresaglie da parte delle autorità israeliane, tra cui molestie e/o divieti nei confronti dei loro fedeli che cercano di praticare il culto nei luoghi santi di Gerusalemme, confisca delle proprietà della chiesa, imposizione di tasse attualmente esentate attraverso quelli che vengono descritti come accordi di status quo, e aumento degli attacchi fisici al loro clero da parte di estremisti.
Annessione di fatto
Il rapporto biennale di Emek Shaveh si chiude con una valutazione critica di ciò che descrive come “una campagna crescente da parte delle ONG dei coloni per estendere il controllo israeliano sui siti in Cisgiordania, mentre puntano il dito verso la distruzione e il furto di antichità su larga scala da parte dei palestinesi”.
Emek Shaveh ha contato circa 6000 siti di antichità in Cisgiordania, scrivendo che “in quasi tutti i villaggi e le città ci sono resti archeologici di dimensioni variabili, da una pozza per l’acqua a un tumulo a più strati”.
“Ne consegue”, riconosce il rapporto, “che c’è sempre una tensione tra la necessità di sviluppo e la salvaguardia del patrimonio”. Tuttavia, diversi siti sono descritti in dettaglio, illustrando la preoccupazione di Emek Shaveh che quando l’Autorità Israeliana per le Antichità sponsorizza dei progetti “significa che sono stati fatti dei passi verso un’annessione de facto nel regno dell’archeologia“. Pagine Esteri
*traduzione a cura di Assopace Palestina
L'articolo ISRAELE/PALESTINA. L’archeologia strumento per l’espropriazione delle terre proviene da Pagine Esteri.
ISRAELE/PALESTINA. L’archeologia strumento per l’espropriazione delle terre
di Jeff Wright – Mondoweiss*
Pagine Esteri, 9 settembre 2022 – Il sito archeologico della Città di David, gestito dall’organizzazione israeliana dei coloni, la fondazione Elad, si affaccia sul quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.
Nel suo rapporto biennale di 18 pagine pubblicato la scorsa settimana, Emek Shaveh documenta i piani degli enti governativi israeliani e delle organizzazioni di coloni che, a suo dire, sono “progettati per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est”. Il rapporto descrive anche “uno sforzo diffuso [in Cisgiordania] per reprimere l’edilizia palestinese, l’attività agricola e lo sviluppo dei siti del patrimonio archeologico”.
I coloni e gli enti governativi sequestrano i terreni o ne assumono il controllo, secondo il rapporto, “con il pretesto della ricerca archeologica o dello sviluppo dei siti storici per il pubblico beneficio”.
Emek Shaveh è un’organizzazione non governativa israeliana che lavora “per difendere i diritti del patrimonio culturale e per proteggere i siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli”. Sul suo sito web, l’ONG sostiene che “le rovine del passato sono diventate uno strumento politico nel conflitto israelo-palestinese… [lavoriamo] per sfidare coloro che usano i siti archeologici per espropriare le comunità diseredate”.
Il suo rapporto sui recenti sviluppi a Gerusalemme si concentra sul lavoro della Fondazione Elad, uno dei gruppi di coloni più grandi e influenti di Israele. Secondo un articolo di Haaretz, Elad “opera a Gerusalemme Est con due obiettivi principali: insediare ebrei nel quartiere di Silwan, in gran parte arabo, e gestire siti turistici e di scavo”.
Il fiore all’occhiello di Elad è il Parco Archeologico City of David, che la fondazione gestisce per conto dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. Il cuore del parco si trova nel quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.
I progetti relativi al parco includono un ponte sospeso, un caffè e un luogo per eventi chiamato Una casa nella Valle, e una proposta di funivia che inizierà nella parte occidentale di Gerusalemme, passerà sopra i quartieri palestinesi mentre attraversa Gerusalemme Est, e terminerà nel centro culturale di sette piani a tema biblico proposto dalla Città di David, che sarà costruito su un terreno dove un tempo si riunivano le famiglie palestinesi.
Emek Shaveh descrive nei dettagli come molti di questi progetti – tra cui case per i coloni, negozi per chi vuol fare spese – si stiano espandendo oltre il Parco Archeologico della Città di David, nella Valle di Hinnom a sud e nella Valle di Kidron a est.
Mentre Elad suggerisce che si tratta semplicemente di sforzi per espandere le opportunità turistiche della città, Emek Shaveh descrive come essi servano a fini politici e ideologici più nefasti: controllare lo sviluppo dell’area e celebrare la storia ebraica della zona, ignorando la narrazione multistrato delle culture e dei popoli che, nel corso dei millenni, hanno occupato Gerusalemme e i suoi dintorni.
Collusioni tra i coloni e il governo
Secondo il rapporto, “la moltiplicazione delle iniziative turistiche guidata dai coloni non sarebbe stata possibile senza la piena collaborazione degli organi governativi competenti, come l’Autorità per la Natura e i Parchi (INPA), il Comune di Gerusalemme e l’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA)”.
“Insieme”, sostiene Emek Shaveh, “le loro azioni sfruttano i valori della natura e della conservazione del patrimonio per alterare l’identità multiculturale del nucleo storico di Gerusalemme”. A maggio, il governo israeliano ha annunciato la decisione di finanziare il proseguimento del lavoro con una sovvenzione di quasi 5 milioni di dollari per, come si legge nella sovvenzione, “migliorare lo status di Gerusalemme come città internazionale di fede, patrimonio, cultura e turismo”.
Emek Shaveh insiste sul fatto che, invece, si tratta di “una decisione politica per continuare a finanziare l’insediamento archeologico-turistico della Fondazione Elad, asservendo l’Autorità Israeliana per le Antichità alle sue esigenze ideologiche private… progettate per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est in generale, e del Bacino Storico in particolare”. “Utilizzando gli ordini di giardinaggio del Comune di Gerusalemme e la legge discriminatoria israeliana sulle Proprietà degli Assenti, Elad ha cospirato con l’Autorità israeliana per la Natura e i Parchi per avviare diversi nuovi progetti nella Valle di Hinnom che, per millenni, è stata la necropoli della città. La scorsa estate, l’organizzazione dei coloni ha creato un altro sito turistico, il Centro per l’Agricoltura Antica.
Qualcosa più che un’altra attrazione culturale
“La fattoria”, spiega il rapporto di Emek Shaveh, “è diventata un sito strategico per la Fondazione Elad nei suoi sforzi di raggiungere il pubblico laico israeliano tradizionale. Grazie alla sua vicinanza a Gerusalemme Ovest e alle istituzioni culturali tradizionali…”, continua il rapporto, “Elad è ben posizionata per attrarre folle relativamente non politiche che percepirebbero la fattoria come un altro luogo culturale nella zona”.
Negli ultimi mesi, riferisce Emek Shaveh, la Fondazione Elad ha ospitato gruppi di studenti delle scuole superiori, gruppi pre-militari e gruppi di volontari per lavorare sui terreni, alcuni dei quali, secondo i palestinesi, erano di proprietà privata e ora sono sotto l’egida del Custode Generale o della Municipalità di Gerusalemme.
Gli studenti a cui viene offerta l’opportunità di partecipare a un programma di “coinvolgimento sociale” ospitato dalla fattoria sono spesso “inconsapevoli delle implicazioni politiche ed etiche delle loro azioni”, secondo il rapporto. Elad non spiega ai genitori o agli insegnanti che si tratta di un progetto politico gestito dalla stessa Fondazione Elad.
Di conseguenza, i visitatori dei siti di Elad – israeliani e internazionali – saranno probabilmente informati sulla vita e sulle pratiche associate al periodo del Primo e del Secondo Tempio, senza essere esposti al ricco patrimonio culturale di altre civiltà, per non parlare dei palestinesi le cui famiglie risiedono nell’area da secoli.
In una conversazione su Zoom, la coordinatrice delle attività internazionali di Emek Shaveh, Talya Ezrahi, ha descritto una tendenza preoccupante. Ha affermato il valore della conservazione del patrimonio ebraico e poi ha detto: “Mentre l’importanza di proteggere i siti ebraici e di condividere la storia ebraica si sta radicando in questa parte del mondo, il pubblico tradizionale spesso non è consapevole del fatto che i progetti si stanno spostando oltre la Linea Verde, che questi siti sono destinati ad escludere le storie palestinesi e le testimonianze di altri popoli e fedi che hanno vissuto in questa terra.”
I resti archeologici nell’area coprono un arco di 7.000 anni: la città è stata abitata da Cananei, Giudei, Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci, Romani e Bizantini, compreso un millennio di dominio musulmano. “I coloni”, ha spiegato Ezrahi, “stanno prendendo l’affascinante e stratificata storia di Gerusalemme e la riducono a una narrazione esclusivamente ebraica”.
Il Monte degli Ulivi è di nuovo all’ordine del giorno
A febbraio, Mondoweiss ha riferito dei piani di Elad e dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi – descritta da Emek Shaveh come “I due che camminano insieme” – per prendere circa 7 ettari di terreno sul Monte degli Ulivi. All’epoca, era stato riferito che il piano era stato accantonato in risposta ad una lettera molto dura al Ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, scritta dai leader delle chiese storiche di Gerusalemme.
I piani per l’estensione dei confini del parco sono stati ripresentati al comitato di pianificazione locale e saranno ascoltati a dicembre. Una mappa della superficie proposta include vaste parti del Monte degli Ulivi e parti delle valli di Hinnon e di Kidron.
Nella loro lettera, il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Theophilos III, il Custode della Chiesa Cattolica di Terra Santa Francesco Patton e il Patriarca armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian hanno descritto il Monte degli Ulivi come “uno dei siti più sacri per la cristianità”.
La lettera continuava: “Negli ultimi anni, non possiamo fare a meno di sentire che diverse entità stanno cercando di minimizzare, per non dire eliminare, qualsiasi caratteristica non ebraica della Città Santa….”. “Sembra che [il piano]”, hanno scritto i religiosi, “sia stato proposto e sia orchestrato, avanzato e promosso da entità il cui unico scopo sembra che sia quello di confiscare e nazionalizzare uno dei luoghi più sacri per la cristianità e di alterarne la natura.”
Anche se raramente commentato in pubblico, gli osservatori esterni delle leggi, delle politiche e delle pratiche di apartheid di Israele hanno riconosciuto che i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme non nominano gli organismi governativi israeliani e le organizzazioni di coloni – e si astengono dall’usare i termini apartheid e pulizia etnica – per paura di rappresaglie da parte delle autorità israeliane, tra cui molestie e/o divieti nei confronti dei loro fedeli che cercano di praticare il culto nei luoghi santi di Gerusalemme, confisca delle proprietà della chiesa, imposizione di tasse attualmente esentate attraverso quelli che vengono descritti come accordi di status quo, e aumento degli attacchi fisici al loro clero da parte di estremisti.
Annessione di fatto
Il rapporto biennale di Emek Shaveh si chiude con una valutazione critica di ciò che descrive come “una campagna crescente da parte delle ONG dei coloni per estendere il controllo israeliano sui siti in Cisgiordania, mentre puntano il dito verso la distruzione e il furto di antichità su larga scala da parte dei palestinesi”.
Emek Shaveh ha contato circa 6000 siti di antichità in Cisgiordania, scrivendo che “in quasi tutti i villaggi e le città ci sono resti archeologici di dimensioni variabili, da una pozza per l’acqua a un tumulo a più strati”.
“Ne consegue”, riconosce il rapporto, “che c’è sempre una tensione tra la necessità di sviluppo e la salvaguardia del patrimonio”. Tuttavia, diversi siti sono descritti in dettaglio, illustrando la preoccupazione di Emek Shaveh che quando l’Autorità Israeliana per le Antichità sponsorizza dei progetti “significa che sono stati fatti dei passi verso un’annessione de facto nel regno dell’archeologia“. Pagine Esteri
*traduzione a cura di Assopace Palestina
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Elezioni 2022: questa è politica, il resto è vita … vera
Calenda, Renzi, Meloni, Letta: idee zero, progetti anche di meno. Cose da fare, nessuna. Chiacchiere tante, tantissime. In attesa della ribellione del 40% … di astenuti
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Guerra in Ucraina: la vita nella Mariupol occupata
La città di Mariupol è stata in prima linea nell’invasione russa dell’Ucraina come premio strategicamente importante sia per Kiev che per Mosca. La lotta per la città, che ha visto intensi combattimenti casa per casa, somigliava alla battaglia di Fallujah del 2004 e ha lasciato Mariupol effettivamente distrutta grazie ai bombardamenti indiscriminati e agli attacchi [...]
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La fine di un’era: muore la regina Elisabetta II
C’è stata un’ondata di dolore in tutto il Regno Unito – e nel mondo – dopo che la regina Elisabetta II è morta giovedì nella sua tenuta nelle Highlands scozzesi all’età di 96 anni. I presentatori dei notiziari della BBC hanno indossato abiti neri anche prima dell’annuncio della sua morte, mentre dignitari e politici si [...]
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Accordo nucleare iraniano, ma dietro ben altro: la nuova geopolitica dell’energia
L'ipotesi che dietro gli Stop and Go delle trattative sull'accordo sul nucleare iraniano, in corso a Vienna, ci possa essere un accordo strategico Mosca-Teheran-Pechino
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L’America deve navigare nello stretto di Taiwan
Non appena l’aereo del presidente della Camera Nancy Pelosi è decollato da Taipei il 3 agosto, l’esercito cinese ha avviato una risposta militare lunga giorni per punire Taiwan per aver attraversato una percepita “linea rossa”. Il comando del teatro orientale dell’Esercito popolare di liberazione ha svolto esercitazioni che includevano il lancio di missili su Taipei [...]
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In Turchia, più che ‘zero problemi con i vicini’, problemi multipli
Invece di allentare la tensione, Erdogan e i suoi collaboratori hanno alimentato gli incendi. Bombe ad orologeria un po' ovunque innescate
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Interesse
Ove lo scopo della vita non sia piangere miseria, come sembra essere quello della campagna elettorale, parliamo di come sorridere alla ricchezza.
Parliamo degli interessi, anche per spiegare che non solo è falso affermare che le sanzioni alla Russia nuocciono più a noi che a loro, ma anche per documentare di come ci arricchisca proprio l’essere parte del mondo che ha messo e che intende mantenere le sanzioni. Fin quando non recederà la criminale aggressione all’Ucraina.
Nel 2021 le nostre esportazioni avevano già superato, di un largo 7.5%, i livelli antecedenti alla pandemia. Una ripresa molto veloce, che ci aveva portato a esportare per 581 miliardi di euro, pari al 32% della ricchezza complessivamente prodotta. Molto bene. All’incirca un terzo della ricchezza è prodotta dalle esportazioni ed è importante non perdere colpi.
Nei primi sei mesi dell’anno in corso abbiamo significativamente migliorato quel risultato, con una ulteriore crescita pari al 22%. Si può sempre fare meglio, ma si è fatto molto bene. Anche se, per ragioni che risultano incomprensibili a chiunque abbia un briciolo di ragionevolezza, queste cose non sono mai il pezzo forte dell’informazione e sembrano note a margine per praticoni d’economia. Sono la ricchezza che ci regge.
Il settore che ha fatto registrare il maggiore incremento è quello dei metalli (+44.5%), seguono i chimici (+38.2%) e poi arrivano alimentari e bevande (+31.2%). Se solo ve ne fosse maggiore consapevolezza collettiva correggeremmo anche la percezione che noi stessi abbiamo della nostra Italia. Con il che sopporteremmo ancora meno le propagande che adorano la miseria e si vergognano della ricchezza.
Ma c’è un altro aspetto di cui si ha scarsa consapevolezza: quali mercati assorbono i nostri prodotti, arricchendo le nostre esportazioni? Un po’ tutti, che non c’è pizzo del Mondo in cui non si trovi un’iniziativa e un prodotto italiani. Ma se guardiamo alle quantità, non ci sono dubbi ed ecco i primi dieci, con tra parentesi l’incremento di cui si è appena detto:
- Germania, con 39.5 miliardi (+18.6%);
- Francia, con 31.6 (+20);
- Usa, 30.1 (+31.3);
- Spagna, 16 (+29.1);
- Svizzera, 14.9 (+11.5);
- Uk, 13.6 (+20.8);
- Belgio, 11.2 (+32.7);
- Polonia, 9.7 (+18.7);
- Paesi Bassi, 9.2 (+23);
- Cina, 7.7 (-2%).
I più grandi importatori di Made in Italy stanno a Ovest, in Occidente. I più si trovano in Unione europea. Non molti italiani ne sono coscienti.
Ora provate ad ascoltare le parole di qualche arruffapopolo, oggettivamente al servizio di una potenza imperialista e nemica dei nostri ideali e dei nostri interessi: vi sembrerà che avendo messo le sanzioni c’impoveriremo fino alla fame. Se ci fossimo calati le braghe, invece, magari non sarebbe stato bello, ma saremmo ingrassati.
E invece è vero l’opposto, proviamo pure, per seguire mestatori, menestrelli e servitù più o meno consapevole, proviamo a distaccarci dal mondo che ha messo le sanzioni e a fare il verso all’Ungheria: perderemmo ricchezza a rotta di collo. Sarebbe asfissiata l’Italia che produce ed esporta, per la passeggera gioia di demagoghi mai contaminati dall’arte del produrre ricchezza.
Due giorni addietro i russi comunicavano che se non saranno tolte le sanzioni non venderanno più gas. Ieri è intervenuto il capo dei ventriloqui, Putin, per dire che non lo venderanno se sarà imposto un tetto al prezzo. Trattano e ritrattano per i fatti loro. Le sanzioni non saranno tolte, il tetto sarà imposto.
Putin sa bene quel che i putiniani negano: il suo Paese si sgretola, il processo è inarrestabile, ma inizialmente lento, sicché punta tutte le sue carte nel mettere paura alla vigilia di un inverno che per noi e il nostro sistema produttivo sarà difficoltoso. Non l’abbiamo cercata noi, l’ha voluta lui e il suo apparato dispotico.
Noi non ci muoviamo per rimuoverlo, ma per fermarlo. Rimuoverlo è un interesse dei russi, e per quelli fra loro che sono persone libere, in fuga o in galera, oltre che un interesse sarebbe un piacere.
L'articolo Interesse proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Liz Truss, un’altra lady di ferro (vecchio). Retrotopia in salsa inglese
Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) Ho scritto qualche tempo fa sul fenomeno della retrotopia che sta prendendo il sopravvento nelle umane scelte sociali dell’utopia affermando che “si palesa una retrotopia, una nostalgia di un passato che si vuole inverabile sempre. Se [...]
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Addio Antonov: una conseguenza indiretta della guerra in Ucraina
Una delle immagini più sorprendenti della prima fase dell’invasione russa dell’Ucraina è stata quella del famoso Antonov AN 225, distrutto, bruciato e spaccato in due nel suo hangar all’aeroporto di Hostomel. ‘Mriya’, come è noto (sogno in ucraino), aveva ottenuto un seguito pseudo-culto nell’industria aeronautica globale grazie al suo status di aereo più grande del [...]
L'articolo Addio Antonov: una conseguenza indiretta della guerra in Ucraina proviene da L'Indro.
Il rischio globale dei semiconduttori come arma
Il 9 agosto, il Presidente Biden ha firmato il CHIPS Act. È un preludio nel tentativo di disarmare le catene di approvvigionamento IT globali. Nei media internazionali, il CHIPS and Science Act del 2022 è descritto come un pacchetto da 52 miliardi di dollari con l’obiettivo di aumentare la produzione di semiconduttori negli Stati Uniti. [...]
L'articolo Il rischio globale dei semiconduttori come arma proviene da L'Indro.
La matematica non serve a niente. Tranne che per...
Ho incontrato su TW il poster che trovate qui sotto, creato dal laboratorio di matematica Raphael Salem dell’università di Rouen, per scaricarlo in formato .pdf: https://sorciersdesalem.math.cnrs.fr/Posters/PosterLesMathsCaSertARien.pdf
Fa parte di una bella raccolta di poster di argomento matematico che trovate qui:
https://sorciersdesalem.math.cnrs.fr/Posters/posters.html
È pubblicato su una pagina che si intitola “Les Sorciers de Salem” con un gioco di parole che allude alle streghe (sorcières) di Salem.
Nel sito c’è anche una pagina con una versione interattiva del poster che rimanda all’approfondimento di alcuni degli usi della matematica (in francese):
sorciersdesalem.math.cnrs.fr/S…
Qui sotto la traduzione del testo contenuto nel poster.
La matematica non serve a niente.
Tranne che per..
Comprendere il corso delle stelle
Fare previsioni del tempo
Misurare il mondo
Suddividere in modo equo
Proteggere i nostri segreti
Trovare il percorso più breve
Ascoltare la musica
Costruire ponti
Decifrare i big data
Evitare gli ingorghi
Diagnosticare e curare in modo più efficace
Organizzare una rete di comunicazioni
Navigare in Internet
Sviluppare l'intelligenza artificiale (e la nostra)
Fotografare le farfalle
Decodificare il DNA
Anticipare gli effetti del caso
Rilevare e correggere gli errori
Modellizzare lo scioglimento dei ghiacciai
Immaginare altri universi
Meravigliarsi per la bellezza dei frattali
Migliorare le prestazioni sportive
Far volare gli aerei
Valutare le nostre possibilità di vincere alla lotteria
Adattare una ricetta al numero di ospiti
Ottimizzare... Analizzare... Decidere... Stimare... Creare... Giocare... Esplorare… Simulare... Calcolare… Vedere... Disegnare... Argomentare...Difendere... Programmare... Esprimere....
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Russia: la sospetta resilienza dell’economia
La Russia subirà una recessione, ma non sarà una calamità. E niente, rispetto al previsto calo compreso tra il 35% e il 45% dell'economia ucraina
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EGITTO. Quattro giornaliste nel mirino dei regime di El Sisi
della redazione
Pagine Esteri, 8 settembre 2022 – La magistratura egiziana ha interrogato per ore quattro giornaliste dopo una denuncia per diffamazione presentata dal partito il Futuro della Nazione, legato al regime del presidente Abdel Fattah el Sisi, per un articolo scritto dalla testata indipendente Mada Masr. Le quattro sono state rilasciate su cauzione e restano indagate per i reati di pubblicazione di notizie false e diffamazione di membri di un partito politico.
In un paese dove i servizi di sicurezza hanno ridotto al silenzio quasi tutte le voci critiche, Madr Masr è uno dei pochi media egiziani che non sono sotto il diretto controllo statale o influenzati dal governo. Il 31 agosto ha pubblicato una newsletter sul Futuro della Nazione, che domina il parlamento e sostiene il presidente El Sisi. L’articolo riferisce di una inchiesta in corso che vede coinvolti importanti dirigenti di questo partito e che riguarda “gravi violazioni finanziarie”. Il partito ha negato tutto accusando Madr Masr di utilizzare “tattiche dubbie e non professionali per destabilizzare la sicurezza del Paese”. Decine di denunce sono state presentate dai membri di Futuro della Nazione contro tre giornaliste – Rana Mamdouh, Sara Seif Eddin e Beesan Kassab – insieme alla loro caporedattrice, Lina Attalah.
Ieri le quattro donne sono state lungamente interrogate dai magistrati ed informate di essere accusate di calunnia e diffamazione, di utilizzo dei social media per molestare i membri di Futuro della Nazione della pubblicazione di notizie false intese a turbare l’ordine pubblico. Lina Attalah è stata anche accusata di gestire un sito web di notizie (Mada Masr) “senza licenza”. E’ dal 2018 che Madr Masr cerca di ottenere la licenza, quando è entrata in vigore una nuova legge che regola i media, ma non è ancora riuscito ad ottenerla. Da parte sua il giornale ha fatto sapere di credere “nell’integrità della nostra posizione legale e del nostro impegno per i più alti standard di pubblicazione professionale”. “Esprimiamo anche – ha scritto in un comunicato – il nostro rammarico per il fatto che il partito politico di maggioranza in Egitto, noto per essere vicino al potere, stia usando tali tattiche per intimidire un mezzo di stampa che opera per conto dell’interesse pubblico”.
Reporters sans frontières, l’organismo di tutela globale della libertà di stampa, si è detto estremamente preoccupato per la minaccia a Madr Masr e ha avvertito che “le continue molestie, intimidazioni e arresti di giornalisti da parte del governo egiziano stanno raggiungendo livelli pericolosi”. Sono migliaia i prigionieri politici in Egitto, in prevalenza attivisti e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani ma anche giornalisti e difensori dei diritti umani tra i quali il più noto è Alaa Abdel Fattah. Pagine Esteri
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GAZA. Il mare è una ricchezza ma spaventa chi vive sulla costa
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 8 settembre 2022 – Nella Striscia di Gaza nessuno dimentica i lutti sofferti da 49 famiglie durante l’ultima escalation, un mese fa, tra Israele e il Jihad islami e sotto i bombardamenti dell’aviazione israeliana. Ma la vita va avanti e a migliaia vanno in spiaggia e al mare, l’unica vacanza possibile per i 2 milioni e duecentomila palestinesi che vivono come prigionieri. Questo piccolo lembo di terra palestinese, sotto blocco israeliano da 15 anni, offre ai suoi abitanti circa 40 chilometri di costa. «Abbiamo solo il mare» ci dice Bilal, 29 anni, con la famiglia nella spiaggia del capoluogo Gaza city, «facciamo il bagno con le nostre bambine e ci proteggiamo dal gran caldo di questi giorni. Arriviamo al mattino e andiamo via al tramonto, come gran parte delle famiglie che vedi in spiaggia». Mentre Bilal risponde alle nostre domande, sette-otto ragazzi davanti a noi si tuffano in acqua lanciando urla di gioia. Una donna va in riva con la sua bimba che piange impaurita. Alle nostre spalle un nugolo di ragazzini circonda il carretto dei ghiaccioli da pochi centesimi. Scene da mare, come in qualsiasi parte del mondo. E fare il bagno a Gaza quest’anno è ancora più bello. Con il completamento di tre impianti di trattamento delle acque reflue – grazie a donazioni per 250 milioni di dollari – quest’estate i bagnanti possono tuffarsi senza temere malattie.
A qualcuno però il mare di Gaza fa paura. Dozzine di famiglie del campo profughi di Shate, alla periferia nord di Gaza city, lo vedono troppo vicino alle loro povere case fatiscenti. La crisi climatica, l’aumento delle temperature e il conseguente innalzamento dei mari sta avendo un impatto anche su Gaza dove la sostenibilità ambientale è già fragile da lungo tempo. «Il nostro campo è vicino al mare, un tempo avevamo la spiaggia, oggi è quasi sparita», ci racconta Mohammad Abu Hamada, 72 anni, figlio di profughi palestinesi della Nakba. «Fino a una decina di anni fa il mare era nostro amico» prosegue «la sua bellezza ci aiutava a sopportare la povertà. Ora non più, l’acqua è troppo vicina. Quando viene l’inverno e il mare è grosso abbiamo paura che le onde possano inghiottirci, assieme alle nostre case. Nessuno interviene e presto saremo costretti ad andare via, sta diventando pericoloso». Timori ampiamente giustificati.
La gente di Gaza, già costretta a sopportare le conseguenze di guerre e bombardamenti e la carenza di acqua potabile ed elettricità, ora deve lottare per costruire una resilienza climatica. «Non è facile porre rimedio alla devastazione ambientale mentre si è sotto blocco (israeliano) da anni, con una crisi umanitaria da affrontare ogni giorno» ci spiega il professore Ahmed Hilles, direttore del Nied, l’Istituto per l’ambiente e lo sviluppo a Rimal (Gaza city). «Gli interventi da fare sono urgenti» aggiunge «le precipitazioni complessive, già scarse, sono diminuite ulteriormente. E quando arrivano sono molto violente, in poche ore cadono gli stessi millimetri di pioggia che anni fa misuravamo in un arco di tempo molto più ampio e provocano inondazioni in aree urbane popolate. Non solo, queste piogge tanto violente devastano le coltivazioni accrescendo l’insicurezza alimentare e contribuiscono a far infiltrare nel terreno le sostanze tossiche di cui Gaza è impregnata».
In Medio Oriente le temperature sono aumentate di 1,5 gradi, ben al di sopra delle tendenze globali di 1,1 gradi. Le temperature dovrebbero salire di oltre 4 gradi entro la fine del secolo, accompagnate da una diminuzione delle precipitazioni annuali con stime che vanno dal 30 al 60%. Gaza è diventata un hotspot del cambiamento climatico all’interno di un hotspot in cui domina una emergenza umanitaria di base che vede al centro dei problemi la poca acqua potabile. Quella disponibile al 90% non è bevibile secondo gli standard internazionali. Il blocco israeliano è un fattore centrale perché accresce la difficoltà se non l’impossibilità di intervenire con progetti e programmi specifici per affrontate il cambiamento climatico e la poca acqua. Gli impianti di desalinizzazione costruiti a Gaza sono costosi, richiedono una manutenzione continua e non bastano a soddisfare il fabbisogno. «In media – ricorda il professor Hilles – una persona a Gaza riceve circa un quinto della quantità di acqua potabile raccomandata dall’Oms (solo 21 litri al giorno, contro i 100 litri raccomandati, ndr). Questo è meno del 10 percento dei 280 litri medi che i cittadini israeliani ricevono ogni giorno». A Gaza solo la falda acquifera costiera è sicura per bere ed è l’unica fonte d’acqua naturale della Striscia. Tuttavia, avverte Hilles, «questa riserva d’acqua, a causa dell’aumento del livello e della forza del mare, è infiltrata sempre di più dall’acqua salata. Un problema al quale contribuiscono anche l’estrazione eccessiva e le acque reflue non trattate». Intervenire non è facile. «Lo scontro in atto (dal 2007) tra il governo dell’Anp a Ramallah e quello di Hamas a Gaza complica qualsiasi tentativo di mettere in campo interventi seri per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Le due parti invece di farsi la guerra dovrebbero cooperare» ci dice un giornalista di Khan Yunis che vuole restare anonimo.
Ma l’ostacolo principale alla capacità di rispondere alla crisi umanitaria e a mitigare i cambiamenti climatici resta il blocco israeliano. Da anni Israele limita severamente l’ingresso di materiali a Gaza che definisce di «doppio uso», ossia utilizzabili sia per scopi civili che militari da parte di Hamas. L’accesso dei palestinesi ai materiali di base per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture è sotto il controllo dell’esercito israeliano che può decidere in qualsiasi momento di bloccare del tutto l’ingresso di certi materiali. Ciò rallenta i progetti per la riabilitazione delle reti idriche, per l’energia elettrica e la sicurezza alimentare. «Intanto – conclude il professor Hilles – aumentano i bisogni di una popolazione in forte crescita demografica in un territorio minuscolo. Ogni anno il saldo tra morti e nuovi nati fa segnare +70-80mila. Di pari passo aumentano i bisogni primari e si aggrava l’inquinamento». Pagine Esteri
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CISGIORDANIA. In vigore le nuove regole per gli stranieri, se sposeranno palestinesi avranno un visto ridotto
della redazione
Pagine Esteri, 5 settembre 2022 – Stando agli ultimi sviluppi riferiti dalla stampa locale, gli stranieri in Cisgiordania per motivi di lavoro, in visita o per attività di volontariato non dovranno più informare il ministero della difesa israeliano se hanno avviato una relazione sentimentale con un/una palestinese. Tuttavia se il rapporto instaurato porterà al matrimonio dovranno andarsene dopo 27 mesi per un periodo di almeno sei mesi. Pressioni Usa e dell’Ue, sostiene il Times of Israel, avrebbero spinto il Cogat, il dipartimento delle Forze armate responsabile per gli affari civili nei Territori palestinesi occupati, a rivedere in parte le nuove regole per gli stranieri in Cisgiordania che entrano in vigore oggi.
Erano già pronte lo scorso febbraio ma ricorsi e petizioni le hanno tenute congelate sino ad oggi. Le 97 pagine della «Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria», il nome biblico che Israele usa per la Cisgiordania palestinese, vanno ben oltre le relazioni sentimentali tra stranieri e palestinesi. Le nuove restrizioni colpiscono aziende, uomini d’affari, i programmi di aggiornamento professionale nella sanità, le organizzazioni umanitarie e tanti altri settori perché le limitazioni alla durata dei visti e alle loro estensioni consentono agli stranieri di restare in Cisgiordania solo per brevi periodi. Impongono alle università palestinesi una quota di 150 visti per gli studenti e 100 per i docenti stranieri, limiti inesistenti in quelle israeliane. Questa misura, sempre secondo la stampa israeliana, sarebbe stata eliminata. La Commissione europea si è detta «preoccupata» per le discriminazioni che le nuove procedure causeranno allo svolgimento del programma universitario Erasmus+.
Le nuove regole in ogni caso non si applicano a coloro che visitano Israele e gli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania. Ciò rende evidente la doppia legislazione che Israele applica da decenni nel territorio palestinese sotto il suo controllo. Ad esempio, un italiano che volesse lavorare in un villaggio palestinese della Cisgiordania sarà soggetto alle procedure restrittive stabilite dal Cogat, cioè le forze armate, mentre se vorrà farlo in una colonia ebraica a un paio di chilometri di distanza da quel villaggio, dovrà rispettare le disposizioni, decisamente più leggere, previste per gli stranieri che entrano o intendono risiedere in Israele.
Le regole stabiliscono inoltre che i possessori di passaporto straniero, a cominciare dai palestinesi che vivono all’estero, intenzionati a visitare la Cisgiordania (ad eccezione degli insediamenti coloniali), non potranno più ottenere il visto all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e invece dovrà farne richiesta con almeno 45 giorni di anticipo. E dovranno entrare dal valico di Allenby/King Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania, quindi dovranno atterrare ad Amman.
Per i palestinesi queste procedure si inseriscono «in un disegno ampio volto a colpire gli stranieri che fanno volontariato e cooperazione nei Territori occupati». Secondo Jessica Montell, direttrice dell’ong israeliana HaMoked, che ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana contro le restrizioni, «siamo davanti all’ingegneria demografica della società palestinese e del suo isolamento dal mondo esterno. Le nuove regole renderanno la vita difficile alle persone che intendono lavorare nelle istituzioni palestinesi, investire, insegnare e studiare».
Le restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi in Cisgiordania dove migliaia di persone continuano a vivere con uno status legale incerto o sono costrette a lasciare le loro famiglie. La campagna «Right to Enter» denuncia che le procedure del Cogat «imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all’estero pur di conservare la famiglia unita».
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📚 Oggi si celebra la Giornata Internazionale dell’Alfabetizzazione, istituita nel 1967 dall’UNESCO.
🌍 Un’occasione importante per riflettere sul diritto all’istruzione e sul suo ruolo nel promuovere lo sviluppo delle persone e delle comunità.
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4 Chiese Romantiche per celebrare il Matrimonio a Firenze
Il giorno del matrimonio è considerato come uno dei più belli e importanti della vita. Si tratta del giorno in cui si ufficializza un legame d’amore per la vita tra parenti e amici più cari. Celebrare il matrimonio in chiesa è un desiderio di tante persone, anche e soprattutto perché offre la possibilità di rendere [...]
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L’8 settembre, 79 anni dopo
L’ombra di quell’evento spartiacque incombe ogni volta che, nel presente, si avverte l’impotenza e l’involuzione della comunità nazionale. Da oggi all’8 settembre 2023 -l’ottantesimo dell’evento- se ne tornerà a discutere
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GAZA. Il mare è una ricchezza ma spaventa chi vive sulla costa
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 8 settembre 2022 – Nella Striscia di Gaza nessuno dimentica i lutti sofferti da 49 famiglie durante l’ultima escalation, un mese fa, tra Israele e il Jihad islami e sotto i bombardamenti dell’aviazione israeliana. Ma la vita va avanti e a migliaia vanno in spiaggia e al mare, l’unica vacanza possibile per i 2 milioni e duecentomila palestinesi che vivono come prigionieri. Questo piccolo lembo di terra palestinese, sotto blocco israeliano da 15 anni, offre ai suoi abitanti circa 40 chilometri di costa. «Abbiamo solo il mare» ci dice Bilal, 29 anni, con la famiglia nella spiaggia del capoluogo Gaza city, «facciamo il bagno con le nostre bambine e ci proteggiamo dal gran caldo di questi giorni. Arriviamo al mattino e andiamo via al tramonto, come gran parte delle famiglie che vedi in spiaggia». Mentre Bilal risponde alle nostre domande, sette-otto ragazzi davanti a noi si tuffano in acqua lanciando urla di gioia. Una donna va in riva con la sua bimba che piange impaurita. Alle nostre spalle un nugolo di ragazzini circonda il carretto dei ghiaccioli da pochi centesimi. Scene da mare, come in qualsiasi parte del mondo. E fare il bagno a Gaza quest’anno è ancora più bello. Con il completamento di tre impianti di trattamento delle acque reflue – grazie a donazioni per 250 milioni di dollari – quest’estate i bagnanti possono tuffarsi senza temere malattie.
A qualcuno però il mare di Gaza fa paura. Dozzine di famiglie del campo profughi di Shate, alla periferia nord di Gaza city, lo vedono troppo vicino alle loro povere case fatiscenti. La crisi climatica, l’aumento delle temperature e il conseguente innalzamento dei mari sta avendo un impatto anche su Gaza dove la sostenibilità ambientale è già fragile da lungo tempo. «Il nostro campo è vicino al mare, un tempo avevamo la spiaggia, oggi è quasi sparita», ci racconta Mohammad Abu Hamada, 72 anni, figlio di profughi palestinesi della Nakba. «Fino a una decina di anni fa il mare era nostro amico» prosegue «la sua bellezza ci aiutava a sopportare la povertà. Ora non più, l’acqua è troppo vicina. Quando viene l’inverno e il mare è grosso abbiamo paura che le onde possano inghiottirci, assieme alle nostre case. Nessuno interviene e presto saremo costretti ad andare via, sta diventando pericoloso». Timori ampiamente giustificati.
La gente di Gaza, già costretta a sopportare le conseguenze di guerre e bombardamenti e la carenza di acqua potabile ed elettricità, ora deve lottare per costruire una resilienza climatica. «Non è facile porre rimedio alla devastazione ambientale mentre si è sotto blocco (israeliano) da anni, con una crisi umanitaria da affrontare ogni giorno» ci spiega il professore Ahmed Hilles, direttore del Nied, l’Istituto per l’ambiente e lo sviluppo a Rimal (Gaza city). «Gli interventi da fare sono urgenti» aggiunge «le precipitazioni complessive, già scarse, sono diminuite ulteriormente. E quando arrivano sono molto violente, in poche ore cadono gli stessi millimetri di pioggia che anni fa misuravamo in un arco di tempo molto più ampio e provocano inondazioni in aree urbane popolate. Non solo, queste piogge tanto violente devastano le coltivazioni accrescendo l’insicurezza alimentare e contribuiscono a far infiltrare nel terreno le sostanze tossiche di cui Gaza è impregnata».
In Medio Oriente le temperature sono aumentate di 1,5 gradi, ben al di sopra delle tendenze globali di 1,1 gradi. Le temperature dovrebbero salire di oltre 4 gradi entro la fine del secolo, accompagnate da una diminuzione delle precipitazioni annuali con stime che vanno dal 30 al 60%. Gaza è diventata un hotspot del cambiamento climatico all’interno di un hotspot in cui domina una emergenza umanitaria di base che vede al centro dei problemi la poca acqua potabile. Quella disponibile al 90% non è bevibile secondo gli standard internazionali. Il blocco israeliano è un fattore centrale perché accresce la difficoltà se non l’impossibilità di intervenire con progetti e programmi specifici per affrontate il cambiamento climatico e la poca acqua. Gli impianti di desalinizzazione costruiti a Gaza sono costosi, richiedono una manutenzione continua e non bastano a soddisfare il fabbisogno. «In media – ricorda il professor Hilles – una persona a Gaza riceve circa un quinto della quantità di acqua potabile raccomandata dall’Oms (solo 21 litri al giorno, contro i 100 litri raccomandati, ndr). Questo è meno del 10 percento dei 280 litri medi che i cittadini israeliani ricevono ogni giorno». A Gaza solo la falda acquifera costiera è sicura per bere ed è l’unica fonte d’acqua naturale della Striscia. Tuttavia, avverte Hilles, «questa riserva d’acqua, a causa dell’aumento del livello e della forza del mare, è infiltrata sempre di più dall’acqua salata. Un problema al quale contribuiscono anche l’estrazione eccessiva e le acque reflue non trattate». Intervenire non è facile. «Lo scontro in atto (dal 2007) tra il governo dell’Anp a Ramallah e quello di Hamas a Gaza complica qualsiasi tentativo di mettere in campo interventi seri per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Le due parti invece di farsi la guerra dovrebbero cooperare» ci dice un giornalista di Khan Yunis che vuole restare anonimo.
Ma l’ostacolo principale alla capacità di rispondere alla crisi umanitaria e a mitigare i cambiamenti climatici resta il blocco israeliano. Da anni Israele limita severamente l’ingresso di materiali a Gaza che definisce di «doppio uso», ossia utilizzabili sia per scopi civili che militari da parte di Hamas. L’accesso dei palestinesi ai materiali di base per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture è sotto il controllo dell’esercito israeliano che può decidere in qualsiasi momento di bloccare del tutto l’ingresso di certi materiali. Ciò rallenta i progetti per la riabilitazione delle reti idriche, per l’energia elettrica e la sicurezza alimentare. «Intanto – conclude il professor Hilles – aumentano i bisogni di una popolazione in forte crescita demografica in un territorio minuscolo. Ogni anno il saldo tra morti e nuovi nati fa segnare +70-80mila. Di pari passo aumentano i bisogni primari e si aggrava l’inquinamento». Pagine Esteri
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