Elisabetta II, l’antropocentrica
La Regina Elisabetta e gli animali: un rapporto da chiarire. Dalla caccia ai cavalli, più che amore, abuso. Corgi e dorgi esclusi
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Elezioni 2022 e i ‘soliti’ americani … e ‘soliti’ italiani
Sarebbe ora che i nostri politici si liberassero dal vezzo, più o meno obbligato, di rendere conto delle proprie decisioni ad altri che sulle nostre scelte non hanno rilevanza alcuna
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Mikhail Gorbaciov, eroe tragico
Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, architetto della perestrojka e della glasnost e vincitore del premio Nobel per la pace, è scomparso di recente. In un momento in cui la Russia sta scivolando verso il “neototalitarismo“, l’eredità di Gorbaciov sembra svanire nell’oblio. Come l’uomo che “è riuscito a cambiare il mondo ma non il suo […]
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Cosa significano le lacrime britanniche per la Regina Elisabetta?
La BBC riferisce che “alcune delle prime persone in lutto a vedere la regina Elisabetta II distesa nello stato nella Westminster Hall sono uscite in lacrime, descrivendo la vista della bara ammantata come travolgente”. Cosa sta succedendo davvero qui? Un gran numero di persone non si addolora semplicemente a comando. La Gran Bretagna non è […]
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Regina Elisabetta II: la storia dei funerali reali e in cosa questo sarà diverso
I grandi eventi reali nel Regno Unito sono spesso un mix di vecchio e nuovo e la commemorazione e il funerale della regina Elisabetta II non faranno eccezione. Sebbene ci saranno diverse funzionalità sorprendentemente nuove, gli elementi apparentemente tradizionali non sono così vecchi come potrebbero sembrare. Mentre alcuni elementi più recenti sono revival del passato. […]
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La Regina Elisabetta II e l’impegno per la tolleranza religiosa
Migliaia di cattedrali e chiese cristiane hanno suonato le campane per un’ora a mezzogiorno il giorno dopo la morte della regina Elisabetta II in onore della monarca di 96 anni e dei suoi 70 anni di servizio come regina del Regno Unito. Il suono delle campane delle chiese in tutto il paese alla morte del […]
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Elisabetta II, una delle tante giovani regine che hanno plasmato la storia della Gran Bretagna
Immagina di avere 25 anni e 5.000 miglia da casa quando ricevi una chiamata che ti porta la peggiore notizia possibile: tuo genitore è morto. Per Elizabeth Windsor, questa chiamata ha avuto un impatto molto maggiore. Ora si stava assumendo la più grande delle responsabilità, assumendosi il peso del ruolo di sovrano. Già giovane moglie […]
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La regina Elisabetta II salì al trono in un momento di profonde divisioni religiose e si adoperò per portare tolleranza
Migliaia di cattedrali e chiese cristiane hanno suonato le campane per un’ora a mezzogiorno il giorno dopo la morte della regina Elisabetta II in onore della monarca di 96 anni e dei suoi 70 anni di servizio come regina del Regno Unito. Il suono delle campane delle chiese in tutto il paese alla morte del […]
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Musica, cultura, storie di inclusione, di accoglienza, di comunità. #TuttiAScuola, la cerimonia di...
Musica, cultura, storie di inclusione, di accoglienza, di comunità. #TuttiAScuola, la cerimonia di inaugurazione del nuovo anno scolastico, è stata questo e molto altro ancora!
Rivivete con noi i momenti più belli.
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Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale
Che abbiano preso i soldi dalla Russia o che l’abbiano fatto “gratuitamente”, senza compenso; che, insomma, se lo siano scelto per professione o l’abbiano fatto per passione, é da un pezzo che i nazionalisti e i populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, stanno con Putin. Perché? Perché vedono in Putin un potenziale alleato, in quanto hanno gli stessi obiettivi politici e le loro priorità internazionali sono le stesse: la difesa dei valori tradizionali, il nazionalismo, l’opposizione all’islam e puntano a smantellare l’integrazione economica globale, indebolire l’Europa e combattere la secolarizzazione delle società occidentali.
Anche i consiglieri di alto livello di Trump come Stephen Bannon, il chief strategist della Casa Bianca, e il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, hanno espresso (ricordate?) punti di vista molto simili. I populisti conservatori come Marine Le Pen o Matteo Salvini guardano all’avversione di Putin nei confronti delle istituzioni globali come a un modello da imitare per ritornare alla “sovranità nazionale” in opposizione alla cooperazione multilaterale e all’integrazione. E Putin da tempo (in particolare dopo il suo ritorno alla presidenza russa nel 2012) si é posizionato come un baluardo dei valori conservatori, specialmente in opposizione ai diritti degli omosessuali e come alternativa, in linea con i precetti religiosi, ai paesi occidentali che, come si affanna a ripetere, “stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale”.
Che sia proprio Putin ad impartire lezioni al mondo sui “principi morali” è piuttosto irritante, eppure è un atteggiamento che suscita l’ammirazione non solo dei populisti di destra in Europa ma anche di quegli attivisti americani che la pensano allo stesso modo, come Patrick J. Buchanan, la cui candidatura per la nomination repubblicana ha anticipato molti dei temi isolazionisti di Trump.
Fatalmente, anche la destra italiana, priva di un forte partito liberal‑democratico, non è “estranea” a questa “relazione pericolosa”. Che Silvio Berlusconi e Vladimir Putin si piacciano molto è evidente da un ventennio. Prima della conversione atlantica, anche Giorgia Meloni, ha avuto delle sbandate putiniane non inferiori a quelle di Salvini (“Putin difende i valori europei e l’identità cristiana”, ha scritto nel suo libro “Io sono Giorgia”).
Del resto, come abbiamo visto, non è bastato certo l’ingresso della Lega nel governo Draghi per traghettare Salvini da Perón a Pera, per dargli, cioè, quella credibilità e quell’affidabilità che ancora non ha. Anzi la caduta del governo di unità nazionale di Draghi ci ha restituito il Carroccio dell’invettiva anti-europea e della protesta contro l’immigrazione, cancellando ogni sforzo dell’area governista del partito, quella incarnata da Giancarlo Giorgetti e dai governatori del Nord, di archiviare il populismo salviniano e la fase antisistema.
C’era chi credeva davvero che Salvini avrebbe anteposto gli interessi degli imprenditori del Nord al mero calcolo elettorale ed erano in molti ad aspettarsi che Giancarlo Giorgetti e Massimo Fedriga avrebbero finalmente capeggiato la rivolta e spaccato il partito pur di salvare il governo. Ma da tempo la Lega ha scelto di posizionarsi nell’area dell’estrema destra, passando dal federalismo al sovranismo, e bisogna farsene una ragione.
L’abbiamo detto molte volte: se la Lega di Matteo Salvini, che ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra e che adesso deve vedersela con la Meloni, dovesse proseguire la marcia di avvicinamento al Ppe, potrebbe diventare il perno di un centrodestra moderato, pienamente legittimato come coalizione di governo. Ma la Lega resiste a questa prospettiva proprio perché il suo appeal si è diffuso più a sud, via via che Salvini, messa la sordina ai temi “nordisti” delle origini, ha puntato (emulando altri nazional‑populisti) sulle questioni “culturali”, enfatizzando cioè la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati. Per questo, come molti nazionalisti e populisti conservatori, sia negli Stati Uniti sia in Europa, la Lega considera Putin un potenziale alleato.
Ma Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. “Un viaggiatore nel tempo proveniente dagli anni Trenta non avrebbe nessuna difficoltà ad identificare il regime di Putin come fascista”, ha scritto Timothy Snyder sul New York Times. Putin sta, insomma, dall’altra parte della barricata e converrebbe tenerlo presente. Converrebbe anche alla Lega. Ma, dicevamo, bisogna farsene una ragione. E come scrive la redazione del Washington Post, “gli italiani dovrebbero pensarci due volte prima di fare un regalo del genere a Putin (https://www.washingtonpost.com/…/europe-elections-right).
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Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.
Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento a livello internazionale riscontrato dopo l’ennesima aggressione militare da parte di Baku.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in grande maggioranza militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier nel corso di una riunione del governo. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni che gli azeri hanno compiuto sul suolo della Repubblica Armena.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara a Baku, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati in gran numero dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto azero non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei combattimenti costati finora più di 200 morti.
La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, di fronte a una situazione disastrosa e dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un vero e proprio terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, ma soprattutto la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. A tarda sera, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, ritenuto colpevole di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e dubitano del fatto che il dittatore azero Ilham Aliyev rinunci ad ulteriori pretese.
Proteste contro Pashinyan a Erevan
Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenute nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente il territorio della Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.
L’aggressione diretta al proprio territorio ha stavolta consentito a Pashinyan – paradossalmente al potere dal 2018 grazie ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’intervento a proprio sostegno delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata tardiva, contraddittoria o comunque molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può e non vuole sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non può inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari, e soprattutto il suo grande sponsor, la Turchia, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, negli ultimi giorni i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.
La CSTO nicchia e scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian. Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.
Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev, aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di accordi su diversi fronti.
L’area di confine tra Tagikistan e Kirghizistan interessata dagli scontri
Duri scontri tra Tagikistan e KirghizistanI grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si sono scontrate per alcune ore lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con decine di morti e feriti.
Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e prendersi altri pezzi di territorio.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai utili a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).
Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’Unione Europea.
In particolare l’amministrazione statunitense negli ultimi giorni sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatico – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
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ANCHE LE PAROLE HANNO UN’ANIMA. Una passeggiata virtuale per l’Africa orientale
Per conoscere, da lontano, un paese, faremo una passeggiata tra le parole di una lingua lontana, lo swahili, che hanno viaggiato con le carovane mercantili nella savana e sui dhow che solcavano l’oceano indiano e non si sono mai fermate. Lo scorso luglio l’Oxford English Dictionary ha pubblicato una lista delle nuove parole africane accolte dalla grande madre dell’inglese, ormai colorato e profumato di mille spezie, tra cui molte vengono dallo swahili e parecchie dalla Tanzania.
Sono soltanto parole, ma sono quelle che nelle loro sillabe, nell’alternarsi musicale di consonanti e vocali tipiche dello swahili, raccontano storie. Magiche, perché in grado di congiurare dall’aria il profumo di un mondo che forse non vedremo mai, se non sullo schermo di un cellulare. Parole nate sulla costa dell’Africa orientale dal matrimonio tra africani ed arabi, che oggi hanno preso il volo, a bordo di una compagnia low-cost, l’inglese, in grado di portarle in giro per il mondo, a contaminarsi con altre lingue.
Proviamo allora a fare una breve conversazione. No, nessuna preoccupazione, non faremo una lezione di etnolinguismo che non è tra le mie indubbie capacità.
Dar es Salaam, pomeriggio di sabato. Deusdedit (sui fantasiosi nomi di stampo religioso che vengono dati in Tanzania andrebbe scritto un articolo a parte) si rivolge all’amico italiano Edo:
“Andiamo a sentire il bongo flava. C’è birra e nyama choma.”
“Io preferisco il singeli e ho l’auto rotta.”
“Pole. Andiamo in daladala?”
Tutte queste espressioni fanno ormai parte dell’inglese standard anche se probabilmente non sentirete usarle a Stratford-upon-Avon.
Cominciamo da Bongo, che scriviamo con la lettera maiuscola, dato che si tratta di una città, anzi di Dar es Salaam, la capitale commerciale, industriale e culturale della Tanzania. Sette milioni di abitanti in continua crescita. Scendendo verso l’aeroporto, Dar es Salaam è una sterminata distesa di casette intervallate da palme e ruscelli, piuttosto verde e tranquilla, che circonda un centro di grattacieli di origine cinese, generalmente orrendi. Bongo in swahili ha a che fare con la testa e l’intelligenza, il che vuol dire che a Dar si sta al centro delle cose. Non solo per restarci, bisogna cavarsela, essere svegli di testa e di mano.
Qualcuno ce la fa con la scorciatoia della musica. Da ogni radio, da ogni “tassì”, nelle discoteche della zona ricca e nei pub informali delle periferie si ascoltano i ritmi del Bongo Flava. Musica giovanile, che fonde un miscuglio di hip-hop americano con i ritmi locali.
Guardate su youtube i video che dipingono scene di lusso sfrenato, auto veloci, donne semi nude che si agitano su letti a otto piazze, canottiere, lingerie, occhiali da sole e piogge di dollari.
Il Bongo Flava, per quanto popolare, dicono, anche fuori della Tanzania, non racconta poi molto di nuovo. In realtà è del tutto innocuo tanto è vero che i grandi cantanti vengono regolarmente ingaggiati per le feste del partito al potere da sempre. Celebre il verso di Harmonize, uno dei maggiori interpreti di questo genere. Nel 2019 cantò all’allora presidente Magufuli, “vorrei incontrare Magufuli ed inginocchiarmi davanti a lui per ringrazialo.”
Più interessante, anche se indigesto per le nostre orecchie, è il singeli, genere musicale che forse si potrebbe definire un punk africano crudo e brutale, anche per via degli strumenti utilizzati che sarebbe un azzardo definire di fortuna: sedie, bastoni, pianole di riciclo, batterie, il tutto ad una velocità superiore ai 200 bpm e la voce di un cantante che urla frasi incomprensibili. Non è necessario conoscere lo swahili per capire che nel singeli c’è ritmo, rabbia e tanto sudore. Ad un concerto, dopo cinque minuti di velocità, le gambe iniziavano a muoversi senza controllo e solo il pudore occidentale di non rendersi ridicolo di fronte agli africani ci impedì di lanciarci in pista.
Anche se Bongo non è normalmente pericolosa come Nairobi o Lagos, è altamente sconsigliato aggirarsi fuori delle zone commerciali senza una guida locale sicura. Meglio evitare il daladala, il famigerato minibus che fa servizio privato su ogni strada della Tanzania (e del resto della regione). Sono ex autobus delle scuole elementari giapponesi riutilizzati fino allo sfinimento. Il costo del biglietto è irrisorio, la musica infernale e in genere si viaggia piegati a novanta gradi sotto un tetto a misura di bambino. Per evitare problemi, meglio non chiedere mai all’autista se e come abbia conseguito la patente.
Volendo poi avvicinarsi al cibo locale, si può optare infine per uno spiedino di carne, ovvero uno nyama choma, da nyama=carne e choma=bruciare, arrostire. Per inciso, l’OED registra altre leccornie locali, come il chipsi mayai ovvero il frittatone di patate, il mandazi, un panozzo fritto che si mangia in genere a colazione (e la cui digestione dura fino a cena), e lo mbege, bevanda fermentata alcolica che si trova solo tra i Chagga e i Meru, due gruppi tribali del Kilimanjaro e del monte Meru, nel nord della Tanzania.
Armati quindi di alcune parole per muoversi, mangiare e divertirsi, ci si può lanciare alla scoperta della Tanzania. Il consiglio resta quello di non fare i tirchi con i ringraziamenti (asante), meglio ancora se mille (asante sana). Muovetevi pole-pole, con calma, che di tempo ce n’è sempre in abbondanza, per non doversi sentire dire, ad un certo punto, pole, ovvero mi dispiace che ti sei preso la malaria/colera/dengue/che la macchina è rotta …
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Eppur si muove! Qualche alternativa al dominio dei GAFAM nel mondo della scuola.
Su Basta!, un media indipendente francese, un articolo molto interessante che fa il punto sulle alternative ai #GAFAM che stanno crescendo in alcuni paesi europei (Francia, Germania e Spagna):
https://basta.media/profs-parents-d-eleves-et-activistes-se-bougent-pour-liberer-l-ecole-des-Gafam
Insegnanti, genitori e attivisti si muovono per liberare la #scuola dalla morsa di Google e Microsoft
Particolarmente interessanti le affermazioni di Simona Levi, fondatrice di Xnet un'associazione catalana che si batte per la difesa delle libertà digitali e che ha realizzato DD (Digitalizzazione Democratica) una suite di strumenti digitali per l’istruzione: xnet-x.net/en/digital-democrat…
Per l'attivista Simona Levi, oggi è necessario fare pressione soprattutto sugli stati e sull’Unione Europea. “Se le grandi multinazionali della tecnologia sono state in grado di avere così tanto spazio nell'istruzione, è perché le istituzioni non si sono prese le proprie responsabilità."
“L'Unione Europea e i governi devono impegnarsi per una piattaforma europea libera per la digitalizzazione dell'istruzione. Per noi è immorale che la digitalizzazione dell'istruzione e dell'amministrazione in generale avvenga con mezzi che non garantiscono la sovranità dei dati dei cittadini. »
L’articolo ricorda anche Apps éducation, la piattaforma realizzata dal ministero dell’istruzione francese (l’Éducation Nationale) che mette a disposizione degli insegnanti una piattaforma di strumenti digitali liberi tra cui PeerTube, Nextcloud e BigBlueButton.
E naturalmente viene menzionato anche il ruolo che all’interno del ministero dell’istruzione ha assunto Alexis Kauffmann, fondatore di Framasoft, nella promozione del software libero.
Quando l'Éducation nationale assume il fondatore di Framasoft
@Scuola - Gruppo Fediverso
@Scuola
Profs, parents d’élèves et activistes se bougent pour libérer l’école de l’emprise de Google et Microsoft
Les Gafam, multinationales du numérique comme Google ou Microsoft, prennent toujours plus de place dans les écoles et mettent la main sur les données personnelles des élèves et de leurs parents.Basta!
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Si è conclusa la XXII edizione di #TuttiAScuola!
Le scuole sono state protagoniste di questa grande festa dedicata all’inizio dell’anno scolastico con le loro storie e il loro entusiasmo.
Intelligence e intelligenza
Un report dell’intelligence statunitense riporta che la Russia ha pagato leader e partiti
Un report dell’intelligence statunitense ci informa che la Russia ha pagato leader o formazioni politiche di 24 Paesi per una somma accertata di 300 milioni di dollari dal 2014 ad oggi. Ora 300 milioni di dollari diviso 24, dal 2014 a oggi, sono praticamente la mancia un cameriere.
Ma non è questo il punto, perché pochi o tanti che siano hanno ovviamente un significato politico: in Francia la candidata alla Presidenza della Repubblica nel 2017, la signora Le Pen, aveva una disponibilità economica garantita da banche russe. Questo è un fatto che sapevamo già, senza aver bisogno dell’intelligence statunitense.
Qualcuno ha osservato che si tratta di una rivelazione ad orologeria, che si riferisce alle scadenze elettorali italiane.
Forse, però, bisogna guardare la cosa un po’ in modo diverso: è probabile che ci sia un legame con le scadenze elettorali statunitensi. Negli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale: a novembre si vota per le elezioni di medio termine. Gli Stati Uniti sono stati una delle democrazie penetrate dall’influenza russa.
Anche il Regno Unito è stato penetrato per il referendum sulla Brexit e anche altri Paesi. Quando si pensa a noi, c’è stata una forza politica: la Lega di Salvini. È inutile che facciamo finta di non saperlo. Ha detto subito che se qualcuno dice che ha preso i soldi dalla Russia, verrà querelato. Per carità e non ho neanche ragione di supporlo.
La questione è la sostanza: voi credete veramente che la Russia finanzi una forza politica per passione? Finanzia o aiuta quanti servono ad indebolire le democrazie e la posizione degli altri. Non c’è alcun dubbio.
Io non so se sono girati finanziamenti. Non ne ho idea. Sicuramente, però, sentirsi dire che Putin è meglio del Presidente della Repubblica Italiana li ha soddisfatti e li ha resi felici. Ma li ha resi felici anche sentire dire che la Tap non si sarebbe dovuta fare, in modo da dipendere solo dal gas Russo: battaglia dei 5 Stelle e non solo.
Non hanno di certo sofferto, anzi hanno gioito quando hanno saputo che in Italia c’erano movimenti “No-Triv” in modo tale da non prendere il nostro gas, che sta nel nostro mare Adriatico e comprarlo fuori. A chiedere quel referendum contro le trivelle nell’Adriatico furono dieci Regioni di cui otto a maggioranza di centro-sinistra.
È da fessi cercare nei documenti segreti quello che ciascuno di noi ha il dovere di sapere, perché è avvenuto a cielo aperto, sulla pubblica scena. Gli interessi di un Paese possono essere serviti anche per passione.
La penetrazione di capitali russi in Europa è vecchia, vecchissima: anzi, nel secolo scorso era indirizzata verso i partiti comunisti, che non era una fratellanza ideologica, non era una comunanza di idee era l’opposizione ai governi democratici dell’Europa occidentale e oggi è uguale: non cambia niente anche se i soldi vanno a destra, sopra o sotto.
L’influenza si usa per indebolire gli altri. Noi a questo dobbiamo prestare attenzione, perché un Paese che è al tempo stesso sovrano e forte non dipende dalle informazioni dell’intelligence altrui, dipende dall’intelligenza dei propri cittadini e della trasparenza dei propri politici.
Poi c’è una distinzione tra il reato e la responsabilità politica: se qualcuno ha preso soldi, non li ha registrati e li ha fatti girare per banche strane e via così elencando reati ne risponderà davanti alla magistratura. Ma senza tutto questo e senza neanche lontanamente presupporre l’ipotesi lontanissima di soldi o di reati non significa che non si possa duramente condannare chi ha preferito servire gli interessi di un altro Paese rispetto a quelli dell’Italia.
L'articolo Intelligence e intelligenza proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Finanziamenti dalla Russia: la bolla di sapone USA
La pubblicazione da parte delle autorità statunitensi di un rapporto di intelligence secondo cui, dal 2014, la Russia avrebbe generosamente sovvenzionato alcuni partiti politici in Europa e fuori, con finanziamenti quantificati nell’ordine dei 300 milioni di dollari, ha sollevato, negli ultimi giorni, un diffuso interesse soprattutto in Italia, dove la campagna per le elezioni del prossimo […]
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Iran: in una grande alleanza, ma potrebbe scivolare sulla buccia Iraq
Sta recuperando forza, ma oltre il naso ha una buccia di banana, l'Iraq
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Separazione
La sinistra sta commettendo un grave errore, nel lasciare che la destra s’intesti la separazione delle carriere dei magistrati. Le categorie di destra e sinistra sono sempre meno significative e, difatti, qui si tratta di una questione dai profondi risvolti culturali: la separazione non dovrebbe dividere destra e sinistra, ma libertà e dispotismo, diritto individuale e statolatria. Sia la destra che la sinistra democratiche non possono che essere per la separazione. Ed è per questo che la sinistra italiana sta commettendo un grave errore.
Importa nulla che questo o quello prenda posizione strumentalmente, o magari avendo in mente un procedimento che coinvolge un camerata o un compagno, e importa nulla che ciascuno sia fino in fondo consapevole di quale sia il nocciolo della questione. Almeno s’interroghino, ove ne abbiano gli strumenti, sul perché l’Italia sia il solo Paese civile che abbia una così concepita e illogica colleganza fra chi accusa e chi giudica.
La procura è intestata alla Repubblica, il che confonde le idee, perché la Repubblica è un bene. Prima, però, chi ci lavorava era definito: procuratore del re. Negli Stati uniti (avranno pur visto qualche film!) i processi iniziano: <<lo Stato della California contro Tizio>>. Non sono formulette, son cose significative: l’accusa non è la giustizia, ma un potere esecutivo, può privare della libertà (a seconda delle diverse procedure) senza che vi sia stato alcun giudizio, quindi alcuna giustizia, è un potere enormemente più forte di quello del cittadino. Il quale ha diritto, però, al giudice terzo, che rimette in equilibrio la bilancia.
I sistemi dispotici, giustamente, non ne sentono il bisogno. Giustamente perché sono loro il bene, sicché non c’è bisogno che taluno glielo spieghi. Il fascismo istituì i tribunali speciali apposta per ribadirlo. Nel comunismo il procuratore collabora alla condanna. Le Brigate rosse, nel loro osceno “tribunale del popolo”, non avvertivano il minimo bisogno che accusa e giudizio si separassero. L’accusa parte della giustizia è dispotismo, autocrazia dittatoriale. I sistemi di diritto, ciascuno a suo modo, considerano l’accusa una parte, sullo stesso piano della difesa. Il giudice è parimenti estraneo a entrambe le parti. Non è affatto una mostruosità, ma logico che in sistemi di diritto l’accusa possa dipendere gerarchicamente dal governo (accade in Francia e in Germania), sarebbe abominevole dipendesse il giudice. Da noi sono colleghi e irresponsabili.
Tale colleganza è difesa, da chi ci crede, con il bisogno di preservare la “cultura della giurisdizione”, ovvero far sì che chi accusa si comporti già un po’ come giudice. Assurdità che, unita all’obbligatorietà dell’azione penale, da una parte deresponsabilizza e dall’altra porta la difesa alle soglie della complicità. Quella “cultura” vorrebbe segnare una superiorità morale dell’accusa, concetto che è già negazione del diritto. L’accusa è fondamentale, come la difesa, ma come quella è separata dal giudizio.
Come fa la sinistra a non capirlo? Perché rimasta prigioniera delle correnti e di un passato (recente) in cui la prevalenza nella spartitocrazia le assicurava una rendita di posizione. Se non lo capisce per convenienza, quindi, siamo nel campo del vergognoso. Se non lo capisce per cultura traslochiamo in quello dell’ignoranza.
La separazione delle carriere non è di destra o di sinistra, è solo civiltà. Non citerò i nomi dei giuristi e dei magistrati che lo hanno affermato (e taluno ha duramente pagato), perché si deve uscire dalla mitologia e abbandonare l’inutile retorica. Si deve riprendere la capacità di elaborare e confrontare idee senza l’ossessione di dire il contrario dell’altro, anche perché il contrario di una cretinata non è una cosa intelligente, ma una cretinata di segno opposto. E occhio, a sinistra: contestare alla destra derive autoritarie nel mentre si resta prigionieri di un’impostazione dispotica oscilla fra l’orrido e il ridicolo.
L'articolo Separazione proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Zeitenwende della Germania: troppo poco, troppo tardi?
In Europa la fine della Guerra Fredda ha inaugurato una nuova era segnata dall’assenza della Realpolitik. La mera idea di guerra nel continente è diventata improvvisamente inimmaginabile e il concetto di potenza militare è scivolato nell’oblio per molti Paesi europei. Gli europei si sono presto convinti che la pace sarebbe rimasta e qualsiasi sforzo contro […]
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Regina Elisabetta II: ‘S’ come solidale e sociale ed ‘A’ come advocacy
La Regina ha unito la filantropia alla politica estera ed interna sviluppando advocacy ed offrendo un valore aggiunto all’assetto istituzionale e regale che le competeva come Sovrana. Elisabetta II ha patrocinato oltre 500 organizzazioni durante la sua vita, da enti di beneficenza e associazioni militari a organismi professionali e organizzazioni di servizio pubblico. Il suo patrocinio […]
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Sua Maestà Regina Elisabetta II: ‘S’ come solidale e sociale ed ‘A’ come advocacy
La Regina ha unito la filantropia alla politica estera ed interna sviluppando advocacy ed offrendo un valore aggiunto all’assetto istituzionale e regale che le competeva come Sovrana. Elisabetta II ha patrocinato oltre 500 organizzazioni durante la sua vita, da enti di beneficenza e associazioni militari a organismi professionali e organizzazioni di servizio pubblico. Il suo patrocinio […]
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Elezioni politiche 2022: cronaca di un disastro annunciato
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Nel romanzo dalla struttura teatrale antica con personaggi e coro di Gabriel Garcia Marquez aleggiava una morte annunciata. […]
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Chi si opporrà all’alleanza Russia-Iran?
Nonostante tutti i suoi discorsi sulla guida di un “fronte di resistenza”, la Repubblica islamica dell’Iran ha storicamente avuto pochi alleati. Quando l’Ayatollah Ruhollah Khomeini guidava i suoi rivoluzionari, “Né Oriente né Occidente, ma Repubblica islamica” era uno slogan fondamentale della Rivoluzione islamica. Khomeini ha anche descritto gli Stati Uniti e la Russia come “due […]
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Borsa: canapa, Canada e USA entrambe in picchiata
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudonoentrambe in modo nettamente negativo. Troppa volatilità sulle piazze internazionali e dopo qualche segnale timido positivo nelle due settimane precedenti, questa settimana chiudono entrambe in rosso. Per avere dei raffronti nel settore parallelo della […]
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L’invasione autolesionista di Putin allontana gli ucraini del sud dalla Russia
Con tutti gli occhi concentrati sulle offensive in via di sviluppo dell’Ucraina nelle direzioni di Kharkiv e Kherson, vale la pena soffermarsi a riflettere sui cambiamenti storici nell’opinione pubblica ucraina che stanno avvenendo a seguito della guerra. Questi cambiamenti sono particolarmente visibili nell’Ucraina meridionale, dove la storica simpatia per legami più stretti con la Russia […]
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Il vertice di Samarcanda segna l’ascesa dell’Eurasia
Al contrario, le coalizioni di Washington nell''Indo-Pacifico' e altrove non riescono ad ottenere nuovi aderenti
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Guida per idioti alle elezioni politiche
Giunti ormai a pochi giorni dalle elezioni politiche, possiamo preparare una guida alle elezioni per idioti, che spieghi in poche parole le visioni concorrenti della società italiana da parte dei diversi schieramenti.
Abbiamo una coalizione di centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia), una dicentrosinistra (PD, +Europa, Verdi e Sinistra italiani), una liberale(Calenda e Renzi) ed infine i Cinquestelle da soli. Trascuriamo le altre organizzazioni folcloristiche, come “Il partito della follia creativa” del dottor Cirillo, da anni ilare presenza nelle elezioni romane.
Non parliamo di proposte specifiche, bensì di un’impostazione generale. In particolare, evitiamo qualunque riferimento ai rapporti con la UE, con la NATO, la guerra in Ucraina e il debito pubblico, perché su questi temi, semplicemente, non c’è alcuna possibilità di scelta.
I tre partiti di destra, nonostante qualche divisione non banale, condividono una chiara impostazione ideologica, una nostalgica visione di un piccolo mondo antico in cui ci si conosceva tutti, ognuno aveva un lavoro, c’erano pochi stranieri, l’Europa era lontana e la vita scorreva tra la sagra dei tortelli e la messa della domenica, un mondo alla Pane, amore e fantasia. Le donne restavano a casa a cucinare le eccellenze culinarie che il mondo ancora non ci invidiava, facevano figli e non abortivano, se non di nascosto.
Si rubava, anche, ma di nascosto; non si pagavano le tasse, ma di nascosto; c’erano anche gli omosessuali, che non andavano in giro a fare i “pride”. E a chi osava, c’era l’arma letale del pettegolezzo, punto di partenza per l’ostracismo sociale, pena peggiore del carcere. Si andava nelle case chiuse, all’aperto e senza sensi di colpa, raccontando barzellette contro le mogli. Il futuro che ci offre il centrodestra, in altre parole, è il ritorno ad una società in cui il maschio bianco etero è ai vertici e la cultura ne celebra le fanfaronate, dai bordelli alle sgommate in tangenziale.
Colonna sonora: Povia, “Luca era gay”
Nel lato sinistro non mancano proposte interessanti, come la scuola dell’infanzia obbligatoria, la reintroduzione dell’imposta di successione, il salario minimo e lo ius scholae, ma si avverte che sono estemporanee, fatte per accontentare una delle molteplici lobby che si alligna nel sottobosco della società civile, senza una riflessione complessiva sulla società futura. Secondo la sinistra, i prossimi decenni dovranno essere, per forza, multietnici, gender, ecologici, meritocratici, sostenibili ed equi, ma non ci dice come questo Sol dell’Avvenire dovrebbe essere realizzato.
In realtà la politica del PD è una forma molto italica di conservatorismo progressista, fare il minimo indispensabile perché ogni decisione rischia, in primo luogo, di spaccare il partito, poi di essere bloccata da un TAR o da un sindaco o da una protesta di piazza. La sinistra ha rinunciato completamente all’idea di governare i complessi processi in corso in Italia, se non affidandosi all’Europa, madre salvifica ma non sempre benigna.
Colonna sonora: “Bella Ciao” (a bassa voce per non dare fastidio)
Passando ai Cinquestelle, la visione di Italia che Conte sta cercando in modo piuttosto annaspante di vendere al paese è quella dell’unica vera sinistra attenta ai bisogni della gente. Su questo, le credenziali di Conte sono interessanti, vedi reddito di cittadinanza. I Cinquestelle propongono sostanzialmente una società in cui uno Stato paternalista si fa carico di ogni problema, con un ampio allargamento dei cordoni delle borse, ma che non ha alcuna idea di come riorganizzare la società e l’economia nel suo complesso, senza grandi slanci, con un rinnegamento degli ideali più interessanti di rifondazione della politica lanciati dai Cinquestelle degli inizi. In altre parole, un traccheggiamento a vista, salvo intese.
Colonna sonora: Francesco Guccini, “La locomotiva”
Venendo al quarto polo, i due ragazzi terribili, Calenda e Renzi, sembrano gli unici con il coraggio di una visione davvero rivoluzionaria del futuro: individuo, impresa, liberalismo estremo, meritocrazia, Draghi ed Europa. Non è chiaro come tutto questo possa essere realizzato in una società invecchiata (male) come quella italiana, tenuta ignorante dal terrore televisivo, mentre i giovani, quei pochi che non sono fuggiti all’estero, sperano di fare fortuna con Tik-Tok. Tuttavia, i due rinascimentali propongono forse l’unica agenda per un radicale cambiamento dell’Italia, peccato che, come i bravissimi Maneskin, piacciano solo ai cinquantenni che credono di avere ancora vent’anni.
Colonna sonora: Madonna, “Like a Virgin”
Un’ulteriore scelta è l’astensione. Il rifiuto di partecipare al più importante appuntamento elettorale della vita pubblica è un fatto grave ma non può essere negato. Chi si astiene coscientemente non intende legittimare un sistema che ha tolto ai cittadini la libertà di scegliere i propri rappresentanti e governanti.
Ciò grazie ad una legge elettorale assurda, che premia le accozzaglie e accentra ogni potere nelle mani dei segretari di partito i quali, comunque, non sono in grado da anni di prendere alcuna decisione che non siano le questioni identitarie, fuffa solo per chi non soffre le discriminazioni (vedi decreti sicurezza contro gli immigrati, le restrizioni all’aborto contro le donne, l’ideologia della famiglia tradizionale imposta ad un paese arcobaleno da cinquant’anni).
Colonna sonora: La Rappresentante di Lista, “Ciao ciao”
Ecco, queste sono le scelte a disposizione degli italiani e delle italiane. Potenzialmente, andiamo dalla restaurazione dell’ancien régime alla repubblica socialista, con mille sfumature dal nero al rosso. E tanto grigio, colore del fumo.
In realtà, c’è ben poco da scegliere. La politica economico-finanziaria, che ci piaccia o no, è decisa dai mercati finanziari internazionali, su cui la Commissione europea non comanda. Di politica estera non parliamo perché non l’abbiamo dai tempi di Andreotti. I clandestini continueranno ad arrivare con o senza blocco navale. Con la cultura non si mangia. Gli unici possibili e sostanziabili cambiamenti sono nei diritti sociali, ovvero in quelli che più fanno male quando si perdono. Questi sono essenzialmente i diritti dei lavoratori, la scuola pubblica, la sanità pubblica e la libertà di decidere del proprio corpo, che siano l’aborto o il fine vita.
Le diverse coalizioni hanno già mostrato nei fatti cosa faranno o non faranno su ciascuno di questi temi, ma lascio a ciascuno e ciascuna di voi il compito di informarsi e di scegliere, per una volta, con consapevolezza.
Non dovrebbe essere difficile.
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Con Elisabetta II finisce la certezza del benessere
Re Carlo III eredita un futuro senza garanzie di standard di vita sempre crescenti
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Stati Uniti: l’industria della cannabis subisce i colpi della crisi
Stati Uniti: mala tempora currunt per la cannabis. E per tutto l’indotto che vi gravita intorno. Mentre le aziende di tutto il mondo chiudevano a causa della diffusione della COVID-19, l’industria della marijuana era considerata “essenziale” in quasi 30 Stati e poteva trarre vantaggio dalla pandemia. Ma più di due anni dopo, tra l’aumento dell’inflazione […]
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Ursula Von Der Leyen: “Viva L’Europa!”. Il discorso sullo Stato dell’Unione
Il discorso sullo Stato dell’Unione di quest’anno è decisamente molto diverso da quello che venne pronunciato lo scorso settembre. Le parole della Presidente della Commissione sono risuonate non solo nell’aula del Parlamento ma anche nelle petites rues di Strasburgo, nelle larghe vie di Bruxelles e in tutte le altre città europee.
Ursula Von Der Leyen, vestita di giallo e di blu, ha iniziato il suo intervento con una constatazione: “Mai prima d’ora questo Parlamento si è trovato a discutere lo stato della nostra Unione mentre
sul suolo europeo infuriava la guerra”.
Davanti ad Olena, la consorte di Zelensky, ha infatti ricordato l’immenso coraggio che la popolazione ucraina continua a dimostrare contro l’aggressione di Putin. Ha puntualizzato: “Le sanzioni resteranno in vigore. È il momento della risolutezza, non delle concessioni”.
Secondo Ursula questa guerra è l’apice di uno scontro ben delineato, quello tra autocrazia e democrazia, tra valori occidentali e credi zaristi.
L’Europa ha reagito coesa a questa guerra alla sua economia, alla sua energia, al suo futuro. La Presidente porta un esempio italiano virtuoso, quello dei ceramifici al centro della nostra penisola che hanno deciso di spostare i turni al mattino presto per beneficiare delle tariffe più basse dell’energia.
Entra così nell’argomento letteralmente più scottante e impellente: quello energetico.
La proposta europea è quella di mitigare il carobollette con oltre 140 miliardi di euro. Come? Tassando gli extra-profitti. La Presidente ha infatti dichiarato “ci sono grandi compagnie petrolifere, del gas e del carbone, che stanno realizzando profitti enormi e inaspettati, che non si sarebbero mai nemmeno immaginate”.
E ancora, due riforme necessarie sono quella radicale del mercato dell’energia elettrica e, in linea con il Green Deal, l’introduzione di una Banca europea dell’idrogeno, fonte che verrà trasformata in un mercato di massa con ingenti investimenti nei prossimi decenni.
Ursula è pronta a sostenere gli avanzamenti e la rilevanza del progetto green europeo nelle due prossime occasioni internazionali, alla conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità di Montreal e alla COP27 di Sharm el-Sheikh.
Ha colto l’occasione poi per annunciare una nuova legislazione europea sulle materie prime critiche, punto cruciale per il successo della transizione sostenibile nell’economia e nel mondo digitale, in continuità con il Chips Act.
Altra tematica fondamentale toccata nel discorso sullo Stato dell’Unione è stata l’importanza di combattere la disinformazione nella rete ma anche nelle università europee; “queste menzogne
sono tossiche per le nostre democrazie”.
Citando la Regina Elisabetta e David Sassoli, Ursula ha ricordato a tutti i presenti l’essenzialità di difendere sempre il nostro modello occidentale. Migliorarlo ogni giorno significa crescita collettiva, per tutti gli individui.
L’Europa sarà in grado di guardare oltre e cercare nuovi orizzonti?
Si, se coltiverà lo spirito di Maastricht, dove stabilità e crescita vanno necessariamente di pari passo; dove si uniscono tutte le forze in nome di un comune obiettivo; dove volontà e solidarietà si mescolano; dove ogni cittadino europeo si sente a casa.
Ursula auspica che questo spirito europeo, cresciuto moltissimo dopo lo scoppio della pandemia, possa crescere ancor più forte e in armonia.
Come esempio finale della sua riflessione, ha elogiato Magdalena e Agnieszka, due giovani polacche che in pochi giorni hanno organizzato migliaia di volontari per accogliere i rifugiati ucraini. Un esempio di altruismo e umanità.
La loro storia è, secondo la Von Der Leyen, emblematica e rappresenta al meglio il sentimento dell’Unione e della nostra comunità europea.
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Oggi saremo a Grugliasco, in provincia di Torino, per #TuttiAScuola, la cerimonia di inaugurazione del nuovo anno scolastico.
L’iniziativa, giunta alla XXII edizione, sarà una grande festa che metterà al centro le esperienze delle scuole.
Rublati
La fonte, i tempi e il fatto. Questi gli elementi da tenere in considerazione per capire il significato di una nota statunitense relativa ai soldi che dalla Russia sarebbero giunti a componenti politiche di 24 Paesi.
Fin da prima che la criminale aggressione russa all’Ucraina partisse, l’intelligence statunitense ha scelto un approccio diverso da quello classico: disvelare anziché celare. Il valore maggiore delle informazioni riservate è consistito nel renderle pubbliche.
Fecero sapere che, secondo le loro informazioni, l’ammassarsi di truppe russe ai confini ucraini non era manco per niente un’esercitazione, ma la premessa di un’imminente invasione. In tanti li accusarono di propaganda e Putin fece lo spiritoso. L’informazione era esatta e le cose sono andate come erano state descritte.
Circa i finanziamenti russi a politici europei, sono noti quelli alla destra francese di Le Pen. Quindi non una novità. Perché adesso? Per noi italiani è facile supporre che la tempistica sia stata scelta in relazione alle elezioni del prossimo 25 settembre.
A parte che sembrerebbe non esserci note sull’Italia, la stessa cosa sarebbe valsa per le notizie francesi. Ma sono sensazioni superficiali, che non tengono conto di due dati fondamentali: a. la ricerca sulle influenze russe nasce negli Usa perché gli Usa furono penetrati; b. la scadenza elettorale più rilevante è in Usa. Forse quei tempi hanno rilevanza maggiore dei nostri.
Il fatto va ben delineato: se ci sono trasferimenti di denaro a partiti o soggetti politici, ovviamente non dichiarati, da noi si tratta di un reato. E dei reati si occupa la giustizia. Per me possono anche metterci il nome di Tizio, in quelle carte, ma continuerò a considerarlo innocente e a credere alle sue smentite, fino a sentenza contraria.
Il che, però, non mi distoglie di un capello dall’osservare che il citato Tizio ha posizioni filorusse, s’è speso contro le sanzioni, non voleva inviare armi all’Ucraina. Che non sono reati, ma responsabilità politiche. E in politica sono quelle che contano.
Con le influenze russe in casa nostra ci siamo cresciuti. I comunisti sovietici finanziavano i comunisti italiani. Ma quel fatto, documentato dalla stessa memorialistica comunista, non deve trarci in inganno: non era il finanziamento a una comune idea, ma soldi per sostenere la stessa idea che oggi sostiene Putin: indebolire le democrazie e minare la credibilità di chi le governa.
Per questo è ininfluente pagare a sinistra o a destra, mentre è rilevante investire sugli sfasciacarrozze. Che non necessariamente devono essere politici.
Distinguere il reato dalla responsabilità politica serve anche a guardare un po’ oltre. Di certo in Russia non si son crucciati perché degli svalvolati italiani volevano bloccare il gasdotto dall’Azerbaijan (Tap), fortunatamente senza riuscirci. Ed hanno goduto quando ci siamo evirati rinunciando a gran parte del gas che abbiamo in Adriatico. E se guardate ai protagonisti di quelle pessime battaglie ce ne trovate di destra e di sinistra. Mica notizie segrete, se ne vantavano.
E siccome 300 milioni in 24 Paesi, dal 2014 sono poco più della mancia al cameriere, porgerei maggiore attenzione al fronte del gas e alla formulazione dei contratti, con eventuali liberalità aziendali. Il che porta più a governanti tedeschi che non a neonazisti che pure i russi accudirono con amore. Idem per il lato italiano.
Possiamo usare una sola bussola, per evitare svarioni: osservare i fatti noti ed esprimere un giudizio sui putinofili nostrani (prevalentemente a destra); fare attenzione agli interessi delle battaglie contro il gas non russo (ben distribuiti fra saltimbanchi di diverso colore); ribaltare, come si sta facendo, la politica energetica, rendendosi totalmente indipendenti dal mefitico gas russo.
Questa non è una faccenda da pupazzetti in magliettina, ma da ridisegno di equilibri globali. E come tale va trattata.
L'articolo Rublati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ursula Von Der Leyen: “Viva L’Europa!”. Il discorso dello Stato dell’Unione
Il discorso sullo Stato dell’Unione di quest’anno è decisamente molto diverso da quello che venne pronunciato lo scorso settembre. Le parole della Presidente della Commissione sono risuonate non solo nell’aula del Parlamento ma anche nelle petites rues di Strasburgo, nelle larghe vie di Bruxelles e in tutte le altre città europee.
Ursula Von Der Leyen, vestita di giallo e di blu, ha iniziato il suo intervento con una constatazione: “Mai prima d’ora questo Parlamento si è trovato a discutere lo stato della nostra Unione mentre
sul suolo europeo infuriava la guerra”.
Davanti ad Olena, la consorte di Zelensky, ha infatti ricordato l’immenso coraggio che la popolazione ucraina continua a dimostrare contro l’aggressione di Putin. Ha puntualizzato: “Le sanzioni resteranno in vigore. È il momento della risolutezza, non delle concessioni”.
Secondo Ursula questa guerra è l’apice di uno scontro ben delineato, quello tra autocrazia e democrazia, tra valori occidentali e credi zaristi.
L’Europa ha reagito coesa a questa guerra alla sua economia, alla sua energia, al suo futuro. La Presidente porta un esempio italiano virtuoso, quello dei ceramifici al centro della nostra penisola che hanno deciso di spostare i turni al mattino presto per beneficiare delle tariffe più basse dell’energia.
Entra così nell’argomento letteralmente più scottante e impellente: quello energetico.
La proposta europea è quella di mitigare il carobollette con oltre 140 miliardi di euro. Come? Tassando gli extra-profitti. La Presidente ha infatti dichiarato “ci sono grandi compagnie petrolifere, del gas e del carbone, che stanno realizzando profitti enormi e inaspettati, che non si sarebbero mai nemmeno immaginate”. E ancora, due riforme necessarie sono quella radicale del mercato dell’energia elettrica e, in linea con il Green Deal, l’introduzione di una Banca europea dell’idrogeno, fonte che verrà trasformata in un mercato di massa con ingenti investimenti nei prossimi decenni.
Ursula è pronta a sostenere gli avanzamenti e la rilevanza del progetto green europeo nelle due prossime occasioni internazionali, alla conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità di Montreal e alla COP27 di Sharm el-Sheikh.
Ha colto l’occasione poi per annunciare una nuova legislazione europea sulle materie prime critiche, punto cruciale per il successo della transizione sostenibile nell’economia e nel mondo digitale, in continuità con il Chips Act.
Altra tematica fondamentale toccata nel discorso sullo Stato dell’Unione è stata l’importanza di combattere la disinformazione nella rete ma anche nelle università europee; “queste menzogne
sono tossiche per le nostre democrazie”.
Citando la Regina Elisabetta e David Sassoli, Ursula ha ricordato a tutti i presenti l’essenzialità di difendere sempre il nostro modello occidentale. Migliorarlo ogni giorno significa crescita collettiva, per tutti gli individui.
L’Europa sarà in grado di guardare oltre e cercare nuovi orizzonti?
Si, se coltiverà lo spirito di Maastricht, dove stabilità e crescita vanno necessariamente di pari passo; dove si uniscono tutte le forze in nome di un comune obiettivo; dove volontà e solidarietà si mescolano; dove ogni cittadino europeo si sente a casa.
Ursula auspica che questo spirito europeo, cresciuto moltissimo dopo lo scoppio della pandemia, possa crescere ancor più forte e in armonia.
Come esempio finale della sua riflessione, ha elogiato Magdalena e Agnieszka, due giovani polacche che in pochi giorni hanno organizzato migliaia di volontari per accogliere i rifugiati ucraini. Un esempio di altruismo e umanità.
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Hezbollah, il «guardiano» del gas del Libano
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 15 settembre 2022 – Il sogno dei libanesi è sfruttare il giacimento sottomarino di gas di Karish che lascia immaginare entrate per miliardi di dollari. La realtà è Beirut per metà al buio per la scarsa elettricità disponibile, gli aumenti del prezzo del carburante, l’inflazione fuori controllo e il crollo continuo della lira scambiata ieri a 36mila per un dollaro. E chi i dollari non li ha, gira avendo in tasca dozzine di banconote tenute strette da un elastico, necessarie anche solo per comprare qualcosa al minimarket sotto casa. Ammesso che si abbiano lire da spendere. Il 78% dei libanesi vive in condizioni di povertà. Jihad, il taxista che ci porta dal quartiere centrale di Hamra a quello periferico di Haret Hreik sente sulle sue spalle tutto il peso della crisi. «Ormai non si vive più, ogni giorno aumenta il prezzo della benzina e la lira non vale nulla. Se solo potessi partire e andare via da questo paese di politici falliti, tutti senza eccezione», ci dice dando una accelerata alla sua vecchia auto. Due giorni fa è arrivato un altro pugno allo stomaco della maggioranza dei libanesi. La Banca centrale ha revocato i sussidi per le importazioni di carburante facendo schizzare verso l’alto il prezzo di benzina e gasolio.
Tra una maledizione scagliata a questo o quel politico, Jihad ci fa notare che le lunghe code e gli ingorghi nelle strade di Beirut sono meno intensi di qualche tempo fa. «Muoversi in auto costa troppo, fare rifornimento non è più per tutti», ci spiega lasciandoci davanti all’ufficio del religioso Ali Daamoush, vicepresidente dell’esecutivo del movimento sciita Hezbollah. Esponente tra i più noti dell’ala politica del movimento sciita, Daamoush ha accettato di rispondere alle nostre domande sull’andamento della trattativa indiretta che il Libano sta portando avanti, con la mediazione statunitense, per la definizione del confine marittimo con Israele. Tel Aviv è decisa ad avviare nelle acque tra i due paesi lo sfruttamento del giacimento sottomarino di Karish entro settembre. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha reagito a questa intenzione minacciando in una intervista a Mayadeen Tv che «Se l’estrazione di petrolio e gas dal giacimento di Karish inizierà a settembre prima che il Libano ottenga i suoi diritti, allora faremo di tutto per raggiungere i nostri obiettivi…Nessuno desidera la guerra e la decisione è nelle mani di Israele, non nelle nostre». Qualche settimana fa, Hezbollah ha inviato droni – abbattuti quasi subito – verso la nave mandata da Israele per effettuare i primi rilievi a Karish. Un messaggio inequivocabile.
Daamoush smorza l’ottimismo generato dalle ultime dichiarazioni del mediatore Usa, Amos Hochstein sui progressi fatti dalla trattativa. «Si parla di segnali positivi – ci dice – ma dobbiamo vedere come andranno le cose alla fine, ci sono punti molto importanti da discutere. Noi restiamo fermi sulla nostra posizione, a ciò che ha detto il segretario Nasrallah sui diritti irrinunciabili del Libano». Quindi aggiunge di non fidarsi della mediazione statunitense: «Non vediamo negli Stati uniti una parte affidabile e credibile. Stanno sempre dalla parte di Israele. Hochstein ci offre condizioni che sono sempre favorevoli per Israele».
Il movimento sciita Hezbollah – sostenuto dall’Iran e forte di un’ala militare ben addestrata ed armata di decine di migliaia di razzi – malgrado il calo registrato dal suo schieramento politico («8 marzo») alle ultime elezioni, resta la forza più influente nella politica libanese. E non manca di far sentire il suo peso recitando, con l’approvazione di tanti libanesi e la disapprovazione di molti altri, il ruolo di unico difensore degli interessi economici del paese. Dall’esito del negoziato dipenderà la possibilità del Libano di poter sfruttare riserve di gas sottomarino al momento di entità incerta. La differenza se sarà deciso un confine marittimo piuttosto di un altro, è di miliardi di dollari, vitali per un paese che ha disperato bisogno di valuta pregiata per stabilizzare la lira e ridare fiducia ai libanesi che nel 2019 hanno manifestato in massa contro corruzione, malgoverno e l’intera classe politica.
Nell’ultimo periodo si sono intensificati raduni e manifestazioni, anche in mare, di libanesi che chiedono al governo uscente di adottare una posizione più ferma tale da garantire al paese una quota maggiore di riserve di gas. Daamoush rispondendo a una nostra domanda afferma che Hezbollah rispetterà le decisioni del governo. Poi avverte: «Pensiamo che il governo non rinuncerà ai diritti del popolo libanese. Se invece vedremo che non ci saranno benefici per la nostra gente allora faremo sentire forte la nostra voce». E ancora: «Se Israele estrarrà gas dalla zona contesa senza un accordo, allora difenderemo i nostri diritti. In quel caso sarà Israele che avrà scelto la guerra non noi». Ad agosto anche il premier israeliano Yair Lapid ha usato toni bellicosi avvertendo che il suo governo non esiterà a proteggere gli interessi del paese.
Il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie in Libano è parallelo allo stallo politico. Il premier incaricato Najib Mikati non è ancora riuscito a formare una maggioranza. Inoltre, il 31 ottobre scadrà il mandato del presidente Aoun e al momento non c’è ancora accordo sul nome del futuro capo dello Stato. Si pensa che in assenza di un nuovo gabinetto Aoun si rifiuterà di lasciare il palazzo di Baabda. I cittadini libanesi intanto già guardano con preoccupazione all’inverno che si avvicina con il carburante alle stelle e la poca elettricità disponibile. Charbel, nel suo piccolo negozio di souvenir, pensa di procurarsi quanta più legna da ardere possibile per la sua vecchia stufa. «Da anni era solo decorativa lì a casa ma ora dovrà riscaldarci per tutto l’inverno. Trovare la legna però non è facile» dice con un mezzo sospiro. Come lui proveranno a fare decine di migliaia di libanesi. Il paese famoso per i suoi cedri e gli alberi secolari ora rischia anche il disboscamento. «Non ci hanno lasciato altra scelta, comprare il gasolio ti porta via quanto spendi per sfamarti un mese», si giustifica Charbel. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto
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EGITTO. Quattro giornaliste nel mirino del regime di El Sisi
della redazione
Pagine Esteri, 8 settembre 2022 – La magistratura egiziana ha interrogato per ore quattro giornaliste dopo una denuncia per diffamazione presentata dal partito il Futuro della Nazione, legato al regime del presidente Abdel Fattah el Sisi, per un articolo scritto dalla testata indipendente Mada Masr. Le quattro sono state rilasciate su cauzione e restano indagate per i reati di pubblicazione di notizie false e diffamazione di membri di un partito politico.
In un paese dove i servizi di sicurezza hanno ridotto al silenzio quasi tutte le voci critiche, Madr Masr è uno dei pochi media egiziani che non sono sotto il diretto controllo statale o influenzati dal governo. Il 31 agosto ha pubblicato una newsletter su Futuro della Nazione, che domina il parlamento e sostiene il presidente El Sisi. L’articolo riferisce di una inchiesta in corso che vede coinvolti importanti dirigenti di questo partito e che riguarda “gravi violazioni finanziarie”. Il partito ha negato tutto accusando Madr Masr di utilizzare “tattiche dubbie e non professionali per destabilizzare la sicurezza del Paese”. Decine di denunce sono state presentate dai membri di Futuro della Nazione contro tre giornaliste – Rana Mamdouh, Sara Seif Eddin e Beesan Kassab – insieme alla loro caporedattrice, Lina Attalah.
Ieri le quattro donne sono state lungamente interrogate dai magistrati ed informate di essere accusate di calunnia e diffamazione, di utilizzo dei social media per molestare i membri di Futuro della Nazione della pubblicazione di notizie false intese a turbare l’ordine pubblico. Lina Attalah è stata anche accusata di gestire un sito web di notizie (Mada Masr) “senza licenza”. E’ dal 2018 che Madr Masr cerca di ottenere la licenza, quando è entrata in vigore una nuova legge che regola i media, ma non è ancora riuscito ad ottenerla. Da parte sua il giornale ha fatto sapere di credere “nell’integrità della nostra posizione legale e del nostro impegno per i più alti standard di pubblicazione professionale”. “Esprimiamo anche – ha scritto in un comunicato – il nostro rammarico per il fatto che il partito politico di maggioranza in Egitto, noto per essere vicino al potere, stia usando tali tattiche per intimidire un mezzo di stampa che opera per conto dell’interesse pubblico”.
Reporters sans frontières, l’organismo di tutela globale della libertà di stampa, si è detto estremamente preoccupato per la minaccia a Madr Masr e ha avvertito che “le continue molestie, intimidazioni e arresti di giornalisti da parte del governo egiziano stanno raggiungendo livelli pericolosi”. Sono migliaia i prigionieri politici in Egitto, in prevalenza attivisti e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani ma anche giornalisti e difensori dei diritti umani tra i quali il più noto è Alaa Abdel Fattah. Pagine Esteri
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Marco Bresciani
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