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Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan


Dopo l'aggressione azera, l'Armenia chiede inutilmente aiuto a Mosca mentre anche Kirghizistan e Tagikistan si scontrano. Il Trattato per la sicurezza collettiva scricchiola L'articolo Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan prov

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea, alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.

Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento internazionale riscontrato dopo l’aggressione militare da parte azera.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in gran parte militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud-est del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni compiute dagli azeri.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto di Baku non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco mediato da Mosca. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei violenti combattimenti.

La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, oltre che la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. Nella notte, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, accusato di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente anche a Stepanakert, la capitale del territorio a maggioranza armena assegnato nel 1923 all’Azerbaigian dalla dirigenza sovietica.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e non siano comunque sufficienti a evitare nuove pretese da parte del dittatore azero Ilham Aliyev.

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Proteste contro Pashinyan a Erevan

Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenuti nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente la Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua, le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.

L’aggressione diretta ha stavolta consentito a Pashinyan – salito paradossalmente al potere nel 2018 in seguito ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’assistenza militare delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, infatti, prevede che se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata contraddittoria e molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non vuole inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari; soprattutto, non vuole rompere con la Turchia, grande sponsor di Baku, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, questa settimana i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.

La CSTO nicchia e scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian (dove stazionano comunque alcune centinaia di militari russi dei 2000 schierati nel 2020). Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.

Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni commerciali contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di nuovi accordi su diversi fronti.

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L’area di confine tra Tagikistan e Kirghizistan interessata dagli scontri

Duri scontri tra Tagikistan e KirghizistanI grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia – non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si stanno combattendo lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni. Già lo scorso anno, ad aprile, i due paesi si erano affrontati militarmente con un bilancio di 31 morti.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con parecchie decine di morti e feriti e decine di migliaia di abitanti sfollati a scopo precauzionale. Anche in questo caso, un primo cessate il fuoco raggiunto dopo alcune ore dall’inizio degli scontri è stato ben presto violato e i combattimenti sono ripresi con maggiore foga fino a ieri sera.

Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e incassare nuove conquiste territoriali.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai necessarie a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).

Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’UE.

In particolare l’amministrazione statunitense sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatica – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri

2662086* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

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L’Albania interrompe le relazioni con l’Iran, Washington applaude l’alleata Tirana


I due paesi sono ai ferri corti da lungo tempo per la decisione di Tirana di dare ospitalità a circa 3.000 uomini del movimento iraniano d'opposizione People's Mojahedin Organization of Iran (PMOI), una organizzazione considerata "terrorista" da Teheran.

della redazione

Pagine Esteri, 9 settembre 2022 – Ha confermato il pieno sostegno degli Usa alle autorità di Tirana, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, durante il colloquio telefonico che ha avuto con il primo ministro albanese, Edi Rama, dopo il presunto attacco informatico che l’Iran avrebbe compiuto il 15 luglio scorso all’Albania. Le parti hanno concordato di rafforzare la difesa informatica dell’Albania e discusso delle “sfide regionali e globali della Nato” di cui l’Albania fa parte dal 2009. Gli Stati Uniti ieri hanno promesso che “intraprenderanno ulteriori azioni per ritenere l’Iran responsabile di azioni che minacciano la sicurezza di un paese alleato e creano un precedente preoccupante per il cyberspazio”.

La Nato ha condannato l’attacco informatico ai danni dell’Albania attraverso il suo segretario generale Jens Stoltenberg. Condanna alla quale si aggiunge quella del Consiglio del Nord Atlantico (Nac) che ha espresso solidarietà a Tirana.

Il governo dell’Albania ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran sostenendo, in un comunicato, che “il 15 luglio, il nostro Paese è stato oggetto di un grave attacco informatico, che aveva come obiettivo la distruzione dell’infrastruttura digitale del governo della Repubblica d’Albania, la paralisi dei servizi pubblici, nonché il furto di dati e comunicazioni elettroniche dai sistemi governativi. L’attacco non ha raggiunto il suo obiettivo. Rispetto agli obiettivi dell’aggressore, il danno può essere considerato minore. Tutti i sistemi sono stati ripristinati e nulla è andato irrimediabilmente perso”. Teheran però nega il suo coinvolgimento nell’attacco informatico e “condanna fermamente” la decisione dell’Albania di rompere le relazioni definendo “infondate” le accuse mosse da Tirana. Il ministero degli esteri iraniano definisce la scelta dell’Albania “un’azione sconsiderata e miope” e respinge le “azioni anti-iraniane” di Tirana.

I due paesi sono ai ferri corti da lungo tempo, in particolare per la decisione di Tirana di dare ospitalità a circa 3.000 uomini del movimento iraniano d’opposizione People’s Mojahedin Organization of Iran (PMOI), una organizzazione considerata “terrorista” dall’Iran. Pagine Esteri

Sul ruolo dell’Albania nella Nato e la sua crescente importanza per gli interessi statunitensi nei Balcani, vi invitiamo a leggere un articolo scritto a luglio dal nostro analista Marco Santopadre.

L’Albania si offre alla Nato come avamposto neiBalcani


di Marco Santopadre

Pagine Esteri, 12 luglio 2022 – Nonostante il suo ingresso nella Nato risalga già al 2009, l’Albania è rimasta a lungo in una posizione defilata e periferica rispetto al processo di riorganizzazione dell’alleanza militare capitanata da Washington nel continente europeo. Negli ultimi mesi, però, il governo della piccola repubblica balcanica ha deciso di candidare il paese ad un ruolo assai più attivo e strategico nello schieramento atlantista, approfittando anche delle tensioni causate dalla crisi ucraina e dall’invasione russa. Il vertice della Nato svoltosi alla fine di giugno, in particolare, ha costituito l’occasione per una serie di incontri che hanno ulteriormente accelerato il processo di riconversione di alcune delle installazioni militari già esistenti nell’Adriatico meridionale.

Rama offre la base navale di Porto Romano

In occasione dello storico summit di Madrid dell’Alleanza Atlantica, il primo ministro di Tirana, Edi Rama, ha dichiarato che il suo paese è impegnato in una serie di colloqui con i collaboratori di Jens Stoltenberg allo scopo di realizzare una base navale nei pressi di Durazzo, per destinarla ad offrire supporto logistico e militare alle operazioni della Nato nel Mediterraneo.

L’area prescelta è quella di Porto Romano e la realizzazione dell’installazione dovrebbe essere cofinanziata dall’Albania e dal Patto Atlantico; secondo la proposta del premier socialista, la realizzazione della base militare nel porto marittimo sarebbe a carico della Nato mentre dell’area commerciale si occuperebbe Tirana. Grazie all’ampliamento di quest’ultima, il nuovo porto mercantile di Durazzo diventerebbe il più importante del paese.

«Un incontro speciale tra il team di esperti albanesi e della Nato si terrà presto per svelare il progetto dettagliato e proseguire con ulteriori colloqui e discussioni sul progetto» ha affermato Rama nel corso di una conferenza stampa. Intanto con un comunicato l’Alleanza ha informato che il 13 luglio il segretario generale della Nato riceverà a Bruxelles il premier albanese.

Lavori in corso alla base di Pashaliman

Già a maggio Rama ha offerto all’Alleanza Atlantica l’utilizzo della base navale di Pashaliman, che si trova 180 km a sud della capitale. L’installazione, che Tirana si è impegnata ad ampliare ed ammodernare, è stata costruita negli anni ’50 nel quadro della cooperazione militare con l’Unione Sovietica. Fino alla rottura tra Enver Hoxha e Mosca, nel 1960-61, Pashaliman ospitò 12 sottomarini sovietici, che in seguito si ridussero a quattro. Dopo l’implosione del regime socialista l’area venne in gran parte abbandonata e poi saccheggiata durante gli scontri del 1997, per poi essere ristrutturata dalla Turchia; da allora viene utilizzata come approdo logistico per alcune navi militari dell’Albania e di altri paesi che pattugliano lo Ionio e l’Atlantico. «In questi tempi difficili e pericolosi, credo che la Nato dovrebbe prendere in considerazione l’idea di avere una base navale in Albania» ha spiegato Rama.

La base aerea di Kuçovë

In attesa di capire se Stoltenberg accetterà l’offerta di Tirana, la Nato ha comunque già avviato dall’inizio dell’anno i lavori per potenziare la base aerea di Kuçovë, 85 km a sud di Tirana, in modo che possa essere utilizzata dai caccia dell’Alleanza, che per ora ha deciso di investire nell’operazione circa 50 milioni di euro sulla base di un accordo che risale al 2018.

La base originaria – all’epoca la località era stata ribattezzata Qyteti Stalin (“Città di Stalin”) – venne realizzata tra il 1952 e il 1955, e fu utilizzata dal governo albanese per ospitare decine di caccia prima sovietici (MiG, Yakovlev e Antonov) e poi, dopo la rottura con Mosca, di fabbricazione cinese (Shenyang J-5 e J-6), alcuni dei quali sono stati impiegati fino al 2005. Poi negli anni ’90 l’area venne di fatto abbandonata e saccheggiata, finché tra il 2002 e il 2004 il campo d’aviazione di Kuçovë fu rinnovato e adeguato agli standard minimi della Nato.

Ora la vecchia base aerea nell’Albania centro-meridionale, che verrà estesa oltre i suoi 350 ettari attraverso un certo numero di espropri, diventerà una base operativa tattica della Nato – la prima dell’Alleanza nei Balcani occidentali – in grado di ospitare una squadriglia di caccia F-16. «La posizione del quartier generale avanzato in Albania fornirà una maggiore interoperabilità con i nostri alleati albanesi, un importante accesso agli hub di trasporto nei Balcani e una maggiore flessibilità logistica» recitava a gennaio un comunicato diffuso dal Comando per le operazioni speciali degli Stati Uniti in Europa (Soceur) basato a Stoccarda, in Germania.

Il 20 gennaio scorso a Kuçovë si è svolta la cerimonia di inaugurazione dei nuovi importanti lavori, alla presenza del primo ministro Rama, del Ministro della Difesa Niko Peleshi e dell’ambasciatrice degli Stati Uniti in Albania Yuri Kim. Come ha annunciato nel dicembre del 2021 Peleshi, la struttura è stata anche già scelta come quartier generale dell’Aviazione Militare albanese, al momento ridotta al lumicino e formata di fatto soltanto da alcuni elicotteri Cougar (in attesa di alcuni Blackhawk) ma da nessun caccia.

Il primo ministro socialista considera l’operazione una grande occasione per modernizzare e rafforzare le capacità operative delle forze armate albanesi e per accrescere il ruolo dell’Albania nell’Alleanza Atlantica e supportare la procedura di ingresso di Tirana nell’Unione Europea, approfittando di una fase segnata dall’aumento della conflittualità con Russia e Cina.

Un avamposto Nato contro Russia e Cina

Di fatto Tirana si candida a costituire un avamposto della Nato in grado di contenere le influenze di Mosca e Pechino su alcuni paesi dell’area come la Serbia, supportando al tempo stesso il processo di cooptazione nell’Alleanza di nuovi paesi dell’area come la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, dopo l’ingresso della Macedonia del Nord. In alcune sue dichiarazioni il titolare della Difesa Peleshi è stato molto esplicito: «La costruzione di questa base è un chiaro messaggio inviato ad altri attori con cattive intenzioni nella regione dei Balcani occidentali. (…) La crescente presenza occidentale in tutta la nostra regione non consentirà la penetrazione e l’influenza di questi rivali, che hanno programmi e interessi diversi da quelli in cui crediamo e condividiamo».

Stando alle stesse dichiarazioni di alcuni generali della Nato, si evince che l’Albania viene considerata un avamposto strategico per l’addestramento e il dispiegamento rapido delle forze speciali di Washington, da utilizzare nel corso di un’eventuale crisi bellica in tutta l’area balcanica.

«Grazie al supporto che stiamo trovando da parte delle strutture di difesa statunitensi, stiamo prendendo coscienza che se investiamo in modo intelligente e affrontiamo il nostro percorso di rafforzamento e miglioramento della qualità delle nostre forze militari, possiamo essere un valore aggiunto per la NATO, anche per eventuali altri progetti. Del resto, stiamo assistendo alla concretizzazione di qualcosa che, inizialmente, sembrava irrealizzabile» ha spiegato Rama, per il quale i progetti da realizzare in ambito Nato dovrebbero costituire un volano per lo sviluppo di varie opportunità di carattere economico e commerciale.

Proprio nei giorni scorsi, tra l’altro, il premier Rama ha annunciato la scoperta nel paese di importanti riserve di gas e di petrolio – ancora da quantificare – ad opera della compagnia energetica anglo-olandese Shell. Pagine Esteri

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ISRAELE/PALESTINA. L’archeologia strumento per l’espropriazione delle terre


Un rapporto della ong Emek Shaveh mostra come i coloni e il governo di Israele utilizzano i progetti archeologici per promuovere l’annessione della terra palestinese. L'articolo ISRAELE/PALESTINA. L’archeologia strumento per l’espropriazione delle terre

di Jeff Wright – Mondoweiss*

Pagine Esteri, 9 settembre 2022 – Il sito archeologico della Città di David, gestito dall’organizzazione israeliana dei coloni, la fondazione Elad, si affaccia sul quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.

Nel suo rapporto biennale di 18 pagine pubblicato la scorsa settimana, Emek Shaveh documenta i piani degli enti governativi israeliani e delle organizzazioni di coloni che, a suo dire, sono “progettati per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est”. Il rapporto descrive anche “uno sforzo diffuso [in Cisgiordania] per reprimere l’edilizia palestinese, l’attività agricola e lo sviluppo dei siti del patrimonio archeologico”.

I coloni e gli enti governativi sequestrano i terreni o ne assumono il controllo, secondo il rapporto, “con il pretesto della ricerca archeologica o dello sviluppo dei siti storici per il pubblico beneficio”.

Emek Shaveh è un’organizzazione non governativa israeliana che lavora “per difendere i diritti del patrimonio culturale e per proteggere i siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli”. Sul suo sito web, l’ONG sostiene che “le rovine del passato sono diventate uno strumento politico nel conflitto israelo-palestinese… [lavoriamo] per sfidare coloro che usano i siti archeologici per espropriare le comunità diseredate”.

Il suo rapporto sui recenti sviluppi a Gerusalemme si concentra sul lavoro della Fondazione Elad, uno dei gruppi di coloni più grandi e influenti di Israele. Secondo un articolo di Haaretz, Elad “opera a Gerusalemme Est con due obiettivi principali: insediare ebrei nel quartiere di Silwan, in gran parte arabo, e gestire siti turistici e di scavo”.

Il fiore all’occhiello di Elad è il Parco Archeologico City of David, che la fondazione gestisce per conto dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. Il cuore del parco si trova nel quartiere palestinese di Silwan, a Gerusalemme Est.

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I progetti relativi al parco includono un ponte sospeso, un caffè e un luogo per eventi chiamato Una casa nella Valle, e una proposta di funivia che inizierà nella parte occidentale di Gerusalemme, passerà sopra i quartieri palestinesi mentre attraversa Gerusalemme Est, e terminerà nel centro culturale di sette piani a tema biblico proposto dalla Città di David, che sarà costruito su un terreno dove un tempo si riunivano le famiglie palestinesi.

Emek Shaveh descrive nei dettagli come molti di questi progetti – tra cui case per i coloni, negozi per chi vuol fare spese – si stiano espandendo oltre il Parco Archeologico della Città di David, nella Valle di Hinnom a sud e nella Valle di Kidron a est.

Mentre Elad suggerisce che si tratta semplicemente di sforzi per espandere le opportunità turistiche della città, Emek Shaveh descrive come essi servano a fini politici e ideologici più nefasti: controllare lo sviluppo dell’area e celebrare la storia ebraica della zona, ignorando la narrazione multistrato delle culture e dei popoli che, nel corso dei millenni, hanno occupato Gerusalemme e i suoi dintorni.

Collusioni tra i coloni e il governo

Secondo il rapporto, “la moltiplicazione delle iniziative turistiche guidata dai coloni non sarebbe stata possibile senza la piena collaborazione degli organi governativi competenti, come l’Autorità per la Natura e i Parchi (INPA), il Comune di Gerusalemme e l’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA)”.

“Insieme”, sostiene Emek Shaveh, “le loro azioni sfruttano i valori della natura e della conservazione del patrimonio per alterare l’identità multiculturale del nucleo storico di Gerusalemme”. A maggio, il governo israeliano ha annunciato la decisione di finanziare il proseguimento del lavoro con una sovvenzione di quasi 5 milioni di dollari per, come si legge nella sovvenzione, “migliorare lo status di Gerusalemme come città internazionale di fede, patrimonio, cultura e turismo”.

Emek Shaveh insiste sul fatto che, invece, si tratta di “una decisione politica per continuare a finanziare l’insediamento archeologico-turistico della Fondazione Elad, asservendo l’Autorità Israeliana per le Antichità alle sue esigenze ideologiche private… progettate per cambiare il carattere demografico e storico di Gerusalemme Est in generale, e del Bacino Storico in particolare”. “Utilizzando gli ordini di giardinaggio del Comune di Gerusalemme e la legge discriminatoria israeliana sulle Proprietà degli Assenti, Elad ha cospirato con l’Autorità israeliana per la Natura e i Parchi per avviare diversi nuovi progetti nella Valle di Hinnom che, per millenni, è stata la necropoli della città. La scorsa estate, l’organizzazione dei coloni ha creato un altro sito turistico, il Centro per l’Agricoltura Antica.

Qualcosa più che un’altra attrazione culturale

“La fattoria”, spiega il rapporto di Emek Shaveh, “è diventata un sito strategico per la Fondazione Elad nei suoi sforzi di raggiungere il pubblico laico israeliano tradizionale. Grazie alla sua vicinanza a Gerusalemme Ovest e alle istituzioni culturali tradizionali…”, continua il rapporto, “Elad è ben posizionata per attrarre folle relativamente non politiche che percepirebbero la fattoria come un altro luogo culturale nella zona”.

Negli ultimi mesi, riferisce Emek Shaveh, la Fondazione Elad ha ospitato gruppi di studenti delle scuole superiori, gruppi pre-militari e gruppi di volontari per lavorare sui terreni, alcuni dei quali, secondo i palestinesi, erano di proprietà privata e ora sono sotto l’egida del Custode Generale o della Municipalità di Gerusalemme.

Gli studenti a cui viene offerta l’opportunità di partecipare a un programma di “coinvolgimento sociale” ospitato dalla fattoria sono spesso “inconsapevoli delle implicazioni politiche ed etiche delle loro azioni”, secondo il rapporto. Elad non spiega ai genitori o agli insegnanti che si tratta di un progetto politico gestito dalla stessa Fondazione Elad.

Di conseguenza, i visitatori dei siti di Elad – israeliani e internazionali – saranno probabilmente informati sulla vita e sulle pratiche associate al periodo del Primo e del Secondo Tempio, senza essere esposti al ricco patrimonio culturale di altre civiltà, per non parlare dei palestinesi le cui famiglie risiedono nell’area da secoli.

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In una conversazione su Zoom, la coordinatrice delle attività internazionali di Emek Shaveh, Talya Ezrahi, ha descritto una tendenza preoccupante. Ha affermato il valore della conservazione del patrimonio ebraico e poi ha detto: “Mentre l’importanza di proteggere i siti ebraici e di condividere la storia ebraica si sta radicando in questa parte del mondo, il pubblico tradizionale spesso non è consapevole del fatto che i progetti si stanno spostando oltre la Linea Verde, che questi siti sono destinati ad escludere le storie palestinesi e le testimonianze di altri popoli e fedi che hanno vissuto in questa terra.”

I resti archeologici nell’area coprono un arco di 7.000 anni: la città è stata abitata da Cananei, Giudei, Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci, Romani e Bizantini, compreso un millennio di dominio musulmano. “I coloni”, ha spiegato Ezrahi, “stanno prendendo l’affascinante e stratificata storia di Gerusalemme e la riducono a una narrazione esclusivamente ebraica”.

Il Monte degli Ulivi è di nuovo all’ordine del giorno

A febbraio, Mondoweiss ha riferito dei piani di Elad e dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi – descritta da Emek Shaveh come “I due che camminano insieme” – per prendere circa 7 ettari di terreno sul Monte degli Ulivi. All’epoca, era stato riferito che il piano era stato accantonato in risposta ad una lettera molto dura al Ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, scritta dai leader delle chiese storiche di Gerusalemme.

I piani per l’estensione dei confini del parco sono stati ripresentati al comitato di pianificazione locale e saranno ascoltati a dicembre. Una mappa della superficie proposta include vaste parti del Monte degli Ulivi e parti delle valli di Hinnon e di Kidron.

Nella loro lettera, il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Theophilos III, il Custode della Chiesa Cattolica di Terra Santa Francesco Patton e il Patriarca armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian hanno descritto il Monte degli Ulivi come “uno dei siti più sacri per la cristianità”.

La lettera continuava: “Negli ultimi anni, non possiamo fare a meno di sentire che diverse entità stanno cercando di minimizzare, per non dire eliminare, qualsiasi caratteristica non ebraica della Città Santa….”. “Sembra che [il piano]”, hanno scritto i religiosi, “sia stato proposto e sia orchestrato, avanzato e promosso da entità il cui unico scopo sembra che sia quello di confiscare e nazionalizzare uno dei luoghi più sacri per la cristianità e di alterarne la natura.”

Anche se raramente commentato in pubblico, gli osservatori esterni delle leggi, delle politiche e delle pratiche di apartheid di Israele hanno riconosciuto che i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme non nominano gli organismi governativi israeliani e le organizzazioni di coloni – e si astengono dall’usare i termini apartheid e pulizia etnica – per paura di rappresaglie da parte delle autorità israeliane, tra cui molestie e/o divieti nei confronti dei loro fedeli che cercano di praticare il culto nei luoghi santi di Gerusalemme, confisca delle proprietà della chiesa, imposizione di tasse attualmente esentate attraverso quelli che vengono descritti come accordi di status quo, e aumento degli attacchi fisici al loro clero da parte di estremisti.

Annessione di fatto

Il rapporto biennale di Emek Shaveh si chiude con una valutazione critica di ciò che descrive come “una campagna crescente da parte delle ONG dei coloni per estendere il controllo israeliano sui siti in Cisgiordania, mentre puntano il dito verso la distruzione e il furto di antichità su larga scala da parte dei palestinesi”.

Emek Shaveh ha contato circa 6000 siti di antichità in Cisgiordania, scrivendo che “in quasi tutti i villaggi e le città ci sono resti archeologici di dimensioni variabili, da una pozza per l’acqua a un tumulo a più strati”.

“Ne consegue”, riconosce il rapporto, “che c’è sempre una tensione tra la necessità di sviluppo e la salvaguardia del patrimonio”. Tuttavia, diversi siti sono descritti in dettaglio, illustrando la preoccupazione di Emek Shaveh che quando l’Autorità Israeliana per le Antichità sponsorizza dei progetti “significa che sono stati fatti dei passi verso un’annessione de facto nel regno dell’archeologia“. Pagine Esteri

*traduzione a cura di Assopace Palestina

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Elisabetta II, l’antropocentrica


La Regina Elisabetta e gli animali: un rapporto da chiarire. Dalla caccia ai cavalli, più che amore, abuso. Corgi e dorgi esclusi

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Elezioni 2022 e i ‘soliti’ americani … e ‘soliti’ italiani


Sarebbe ora che i nostri politici si liberassero dal vezzo, più o meno obbligato, di rendere conto delle proprie decisioni ad altri che sulle nostre scelte non hanno rilevanza alcuna

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Mikhail Gorbaciov, eroe tragico


Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, architetto della perestrojka e della glasnost e vincitore del premio Nobel per la pace, è scomparso di recente. In un momento in cui la Russia sta scivolando verso il “neototalitarismo“, l’eredità di Gorbaciov sembra svanire nell’oblio. Come l’uomo che “è riuscito a cambiare il mondo ma non il suo […]

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Cosa significano le lacrime britanniche per la Regina Elisabetta?


La BBC riferisce che “alcune delle prime persone in lutto a vedere la regina Elisabetta II distesa nello stato nella Westminster Hall sono uscite in lacrime, descrivendo la vista della bara ammantata come travolgente”. Cosa sta succedendo davvero qui? Un gran numero di persone non si addolora semplicemente a comando. La Gran Bretagna non è […]

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Regina Elisabetta II: la storia dei funerali reali e in cosa questo sarà diverso


I grandi eventi reali nel Regno Unito sono spesso un mix di vecchio e nuovo e la commemorazione e il funerale della regina Elisabetta II non faranno eccezione. Sebbene ci saranno diverse funzionalità sorprendentemente nuove, gli elementi apparentemente tradizionali non sono così vecchi come potrebbero sembrare. Mentre alcuni elementi più recenti sono revival del passato. […]

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in reply to Andrea Russo

Articolo interessante. Certo, se magari rileggessero dopo aver fatto una traduzione automatica...


La Regina Elisabetta II e l’impegno per la tolleranza religiosa


Migliaia di cattedrali e chiese cristiane hanno suonato le campane per un’ora a mezzogiorno il giorno dopo la morte della regina Elisabetta II in onore della monarca di 96 anni e dei suoi 70 anni di servizio come regina del Regno Unito. Il suono delle campane delle chiese in tutto il paese alla morte del […]

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Elisabetta II, una delle tante giovani regine che hanno plasmato la storia della Gran Bretagna


Immagina di avere 25 anni e 5.000 miglia da casa quando ricevi una chiamata che ti porta la peggiore notizia possibile: tuo genitore è morto. Per Elizabeth Windsor, questa chiamata ha avuto un impatto molto maggiore. Ora si stava assumendo la più grande delle responsabilità, assumendosi il peso del ruolo di sovrano. Già giovane moglie […]

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La regina Elisabetta II salì al trono in un momento di profonde divisioni religiose e si adoperò per portare tolleranza


Migliaia di cattedrali e chiese cristiane hanno suonato le campane per un’ora a mezzogiorno il giorno dopo la morte della regina Elisabetta II in onore della monarca di 96 anni e dei suoi 70 anni di servizio come regina del Regno Unito. Il suono delle campane delle chiese in tutto il paese alla morte del […]

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Musica, cultura, storie di inclusione, di accoglienza, di comunità. #TuttiAScuola, la cerimonia di...

Musica, cultura, storie di inclusione, di accoglienza, di comunità. #TuttiAScuola, la cerimonia di inaugurazione del nuovo anno scolastico, è stata questo e molto altro ancora!

Rivivete con noi i momenti più belli.



Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale


Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Putin sta, insomma, dall’altra parte della barricata e converrebbe tenerlo presente. Converrebbe anche alla Lega. Ma, dicevamo, bisogna farsen

Che abbiano preso i soldi dalla Russia o che l’abbiano fatto “gratuitamente”, senza compenso; che, insomma, se lo siano scelto per professione o l’abbiano fatto per passione, é da un pezzo che i nazionalisti e i populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, stanno con Putin. Perché? Perché vedono in Putin un potenziale alleato, in quanto hanno gli stessi obiettivi politici e le loro priorità internazionali sono le stesse: la difesa dei valori tradizionali, il nazionalismo, l’opposizione all’islam e puntano a smantellare l’integrazione economica globale, indebolire l’Europa e combattere la secolarizzazione delle società occidentali.

Anche i consiglieri di alto livello di Trump come Stephen Bannon, il chief strategist della Casa Bianca, e il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, hanno espresso (ricordate?) punti di vista molto simili. I populisti conservatori come Marine Le Pen o Matteo Salvini guardano all’avversione di Putin nei confronti delle istituzioni globali come a un modello da imitare per ritornare alla “sovranità nazionale” in opposizione alla cooperazione multilaterale e all’integrazione. E Putin da tempo (in particolare dopo il suo ritorno alla presidenza russa nel 2012) si é posizionato come un baluardo dei valori conservatori, specialmente in opposizione ai diritti degli omosessuali e come alternativa, in linea con i precetti religiosi, ai paesi occidentali che, come si affanna a ripetere, “stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale”.

Che sia proprio Putin ad impartire lezioni al mondo sui “principi morali” è piuttosto irritante, eppure è un atteggiamento che suscita l’ammirazione non solo dei populisti di destra in Europa ma anche di quegli attivisti americani che la pensano allo stesso modo, come Patrick J. Buchanan, la cui candidatura per la nomination repubblicana ha anticipato molti dei temi isolazionisti di Trump.

Fatalmente, anche la destra italiana, priva di un forte partito liberal‑democratico, non è “estranea” a questa “relazione pericolosa”. Che Silvio Berlusconi e Vladimir Putin si piacciano molto è evidente da un ventennio. Prima della conversione atlantica, anche Giorgia Meloni, ha avuto delle sbandate putiniane non inferiori a quelle di Salvini (“Putin difende i valori europei e l’identità cristiana”, ha scritto nel suo libro “Io sono Giorgia”).

Del resto, come abbiamo visto, non è bastato certo l’ingresso della Lega nel governo Draghi per traghettare Salvini da Perón a Pera, per dargli, cioè, quella credibilità e quell’affidabilità che ancora non ha. Anzi la caduta del governo di unità nazionale di Draghi ci ha restituito il Carroccio dell’invettiva anti-europea e della protesta contro l’immigrazione, cancellando ogni sforzo dell’area governista del partito, quella incarnata da Giancarlo Giorgetti e dai governatori del Nord, di archiviare il populismo salviniano e la fase antisistema.

C’era chi credeva davvero che Salvini avrebbe anteposto gli interessi degli imprenditori del Nord al mero calcolo elettorale ed erano in molti ad aspettarsi che Giancarlo Giorgetti e Massimo Fedriga avrebbero finalmente capeggiato la rivolta e spaccato il partito pur di salvare il governo. Ma da tempo la Lega ha scelto di posizionarsi nell’area dell’estrema destra, passando dal federalismo al sovranismo, e bisogna farsene una ragione.

L’abbiamo detto molte volte: se la Lega di Matteo Salvini, che ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra e che adesso deve vedersela con la Meloni, dovesse proseguire la marcia di avvicinamento al Ppe, potrebbe diventare il perno di un centrodestra moderato, pienamente legittimato come coalizione di governo. Ma la Lega resiste a questa prospettiva proprio perché il suo appeal si è diffuso più a sud, via via che Salvini, messa la sordina ai temi “nordisti” delle origini, ha puntato (emulando altri nazional‑populisti) sulle questioni “culturali”, enfatizzando cioè la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati. Per questo, come molti nazionalisti e populisti conservatori, sia negli Stati Uniti sia in Europa, la Lega considera Putin un potenziale alleato.

Ma Putin punta a indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. “Un viaggiatore nel tempo proveniente dagli anni Trenta non avrebbe nessuna difficoltà ad identificare il regime di Putin come fascista”, ha scritto Timothy Snyder sul New York Times. Putin sta, insomma, dall’altra parte della barricata e converrebbe tenerlo presente. Converrebbe anche alla Lega. Ma, dicevamo, bisogna farsene una ragione. E come scrive la redazione del Washington Post, “gli italiani dovrebbero pensarci due volte prima di fare un regalo del genere a Putin (https://www.washingtonpost.com/…/europe-elections-right).

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Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan


Dopo l'aggressione azera, l'Armenia chiede inutilmente aiuto a Mosca mentre anche Kirghizistan e Tagikistan si scontrano. Il Trattato per la sicurezza collettiva scricchiola L'articolo Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan prov

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.

Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento a livello internazionale riscontrato dopo l’ennesima aggressione militare da parte di Baku.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in grande maggioranza militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier nel corso di una riunione del governo. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni che gli azeri hanno compiuto sul suolo della Repubblica Armena.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara a Baku, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati in gran numero dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto azero non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei combattimenti costati finora più di 200 morti.

La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, di fronte a una situazione disastrosa e dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un vero e proprio terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, ma soprattutto la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. A tarda sera, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, ritenuto colpevole di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e dubitano del fatto che il dittatore azero Ilham Aliyev rinunci ad ulteriori pretese.

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Proteste contro Pashinyan a Erevan

Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenute nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente il territorio della Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.

L’aggressione diretta al proprio territorio ha stavolta consentito a Pashinyan – paradossalmente al potere dal 2018 grazie ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’intervento a proprio sostegno delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata tardiva, contraddittoria o comunque molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può e non vuole sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non può inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari, e soprattutto il suo grande sponsor, la Turchia, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, negli ultimi giorni i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.

La CSTO nicchia e scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian. Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.

Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev, aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di accordi su diversi fronti.

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L’area di confine tra Tagikistan e Kirghizistan interessata dagli scontri

Duri scontri tra Tagikistan e KirghizistanI grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si sono scontrate per alcune ore lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con decine di morti e feriti.

Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e prendersi altri pezzi di territorio.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai utili a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).

Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’Unione Europea.

In particolare l’amministrazione statunitense negli ultimi giorni sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatico – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri

2642119* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

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ANCHE LE PAROLE HANNO UN’ANIMA. Una passeggiata virtuale per l’Africa orientale


Per conoscere, da lontano, un paese, faremo una passeggiata tra le parole di una lingua lontana, lo swahili, che hanno viaggiato con le carovane mercantili nella savana e sui dhow che solcavano l’oceano indiano e non si sono mai fermate. Lo scorso luglio

Per conoscere, da lontano, un paese, faremo una passeggiata tra le parole di una lingua lontana, lo swahili, che hanno viaggiato con le carovane mercantili nella savana e sui dhow che solcavano l’oceano indiano e non si sono mai fermate. Lo scorso luglio l’Oxford English Dictionary ha pubblicato una lista delle nuove parole africane accolte dalla grande madre dell’inglese, ormai colorato e profumato di mille spezie, tra cui molte vengono dallo swahili e parecchie dalla Tanzania.

Sono soltanto parole, ma sono quelle che nelle loro sillabe, nell’alternarsi musicale di consonanti e vocali tipiche dello swahili, raccontano storie. Magiche, perché in grado di congiurare dall’aria il profumo di un mondo che forse non vedremo mai, se non sullo schermo di un cellulare. Parole nate sulla costa dell’Africa orientale dal matrimonio tra africani ed arabi, che oggi hanno preso il volo, a bordo di una compagnia low-cost, l’inglese, in grado di portarle in giro per il mondo, a contaminarsi con altre lingue.

Proviamo allora a fare una breve conversazione. No, nessuna preoccupazione, non faremo una lezione di etnolinguismo che non è tra le mie indubbie capacità.

Dar es Salaam, pomeriggio di sabato. Deusdedit (sui fantasiosi nomi di stampo religioso che vengono dati in Tanzania andrebbe scritto un articolo a parte) si rivolge all’amico italiano Edo:

“Andiamo a sentire il bongo flava. C’è birra e nyama choma.”

“Io preferisco il singeli e ho l’auto rotta.”

Pole. Andiamo in daladala?”

Tutte queste espressioni fanno ormai parte dell’inglese standard anche se probabilmente non sentirete usarle a Stratford-upon-Avon.

Cominciamo da Bongo, che scriviamo con la lettera maiuscola, dato che si tratta di una città, anzi di Dar es Salaam, la capitale commerciale, industriale e culturale della Tanzania. Sette milioni di abitanti in continua crescita. Scendendo verso l’aeroporto, Dar es Salaam è una sterminata distesa di casette intervallate da palme e ruscelli, piuttosto verde e tranquilla, che circonda un centro di grattacieli di origine cinese, generalmente orrendi. Bongo in swahili ha a che fare con la testa e l’intelligenza, il che vuol dire che a Dar si sta al centro delle cose. Non solo per restarci, bisogna cavarsela, essere svegli di testa e di mano.

Qualcuno ce la fa con la scorciatoia della musica. Da ogni radio, da ogni “tassì”, nelle discoteche della zona ricca e nei pub informali delle periferie si ascoltano i ritmi del Bongo Flava. Musica giovanile, che fonde un miscuglio di hip-hop americano con i ritmi locali.

Guardate su youtube i video che dipingono scene di lusso sfrenato, auto veloci, donne semi nude che si agitano su letti a otto piazze, canottiere, lingerie, occhiali da sole e piogge di dollari.

Il Bongo Flava, per quanto popolare, dicono, anche fuori della Tanzania, non racconta poi molto di nuovo. In realtà è del tutto innocuo tanto è vero che i grandi cantanti vengono regolarmente ingaggiati per le feste del partito al potere da sempre. Celebre il verso di Harmonize, uno dei maggiori interpreti di questo genere. Nel 2019 cantò all’allora presidente Magufuli, “vorrei incontrare Magufuli ed inginocchiarmi davanti a lui per ringrazialo.”

Più interessante, anche se indigesto per le nostre orecchie, è il singeli, genere musicale che forse si potrebbe definire un punk africano crudo e brutale, anche per via degli strumenti utilizzati che sarebbe un azzardo definire di fortuna: sedie, bastoni, pianole di riciclo, batterie, il tutto ad una velocità superiore ai 200 bpm e la voce di un cantante che urla frasi incomprensibili. Non è necessario conoscere lo swahili per capire che nel singeli c’è ritmo, rabbia e tanto sudore. Ad un concerto, dopo cinque minuti di velocità, le gambe iniziavano a muoversi senza controllo e solo il pudore occidentale di non rendersi ridicolo di fronte agli africani ci impedì di lanciarci in pista.

Anche se Bongo non è normalmente pericolosa come Nairobi o Lagos, è altamente sconsigliato aggirarsi fuori delle zone commerciali senza una guida locale sicura. Meglio evitare il daladala, il famigerato minibus che fa servizio privato su ogni strada della Tanzania (e del resto della regione). Sono ex autobus delle scuole elementari giapponesi riutilizzati fino allo sfinimento. Il costo del biglietto è irrisorio, la musica infernale e in genere si viaggia piegati a novanta gradi sotto un tetto a misura di bambino. Per evitare problemi, meglio non chiedere mai all’autista se e come abbia conseguito la patente.

Volendo poi avvicinarsi al cibo locale, si può optare infine per uno spiedino di carne, ovvero uno nyama choma, da nyama=carne e choma=bruciare, arrostire. Per inciso, l’OED registra altre leccornie locali, come il chipsi mayai ovvero il frittatone di patate, il mandazi, un panozzo fritto che si mangia in genere a colazione (e la cui digestione dura fino a cena), e lo mbege, bevanda fermentata alcolica che si trova solo tra i Chagga e i Meru, due gruppi tribali del Kilimanjaro e del monte Meru, nel nord della Tanzania.

Armati quindi di alcune parole per muoversi, mangiare e divertirsi, ci si può lanciare alla scoperta della Tanzania. Il consiglio resta quello di non fare i tirchi con i ringraziamenti (asante), meglio ancora se mille (asante sana). Muovetevi pole-pole, con calma, che di tempo ce n’è sempre in abbondanza, per non doversi sentire dire, ad un certo punto, pole, ovvero mi dispiace che ti sei preso la malaria/colera/dengue/che la macchina è rotta …

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Eppur si muove! Qualche alternativa al dominio dei GAFAM nel mondo della scuola.

Su Basta!, un media indipendente francese, un articolo molto interessante che fa il punto sulle alternative ai #GAFAM che stanno crescendo in alcuni paesi europei (Francia, Germania e Spagna):
https://basta.media/profs-parents-d-eleves-et-activistes-se-bougent-pour-liberer-l-ecole-des-Gafam

Insegnanti, genitori e attivisti si muovono per liberare la #scuola dalla morsa di Google e Microsoft

Particolarmente interessanti le affermazioni di Simona Levi, fondatrice di Xnet un'associazione catalana che si batte per la difesa delle libertà digitali e che ha realizzato DD (Digitalizzazione Democratica) una suite di strumenti digitali per l’istruzione: xnet-x.net/en/digital-democrat…

Per l'attivista Simona Levi, oggi è necessario fare pressione soprattutto sugli stati e sull’Unione Europea. “Se le grandi multinazionali della tecnologia sono state in grado di avere così tanto spazio nell'istruzione, è perché le istituzioni non si sono prese le proprie responsabilità."

“L'Unione Europea e i governi devono impegnarsi per una piattaforma europea libera per la digitalizzazione dell'istruzione. Per noi è immorale che la digitalizzazione dell'istruzione e dell'amministrazione in generale avvenga con mezzi che non garantiscono la sovranità dei dati dei cittadini. »

L’articolo ricorda anche Apps éducation, la piattaforma realizzata dal ministero dell’istruzione francese (l’Éducation Nationale) che mette a disposizione degli insegnanti una piattaforma di strumenti digitali liberi tra cui PeerTube, Nextcloud e BigBlueButton.
E naturalmente viene menzionato anche il ruolo che all’interno del ministero dell’istruzione ha assunto Alexis Kauffmann, fondatore di Framasoft, nella promozione del software libero.


Quando l'Éducation nationale assume il fondatore di Framasoft

@Scuola - Gruppo Fediverso
@Scuola



Si è conclusa la XXII edizione di #TuttiAScuola!

Le scuole sono state protagoniste di questa grande festa dedicata all’inizio dell’anno scolastico con le loro storie e il loro entusiasmo.



Intelligence e intelligenza


Un report dell’intelligence statunitense riporta che la Russia ha pagato leader e partiti Un report dell’intelligence statunitense ci informa che la Russia ha pagato leader o formazioni politiche di 24 Paesi per una somma accertata di 300 milioni di dolla

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Un report dell’intelligence statunitense riporta che la Russia ha pagato leader e partiti


Un report dell’intelligence statunitense ci informa che la Russia ha pagato leader o formazioni politiche di 24 Paesi per una somma accertata di 300 milioni di dollari dal 2014 ad oggi. Ora 300 milioni di dollari diviso 24, dal 2014 a oggi, sono praticamente la mancia un cameriere.

Ma non è questo il punto, perché pochi o tanti che siano hanno ovviamente un significato politico: in Francia la candidata alla Presidenza della Repubblica nel 2017, la signora Le Pen, aveva una disponibilità economica garantita da banche russe. Questo è un fatto che sapevamo già, senza aver bisogno dell’intelligence statunitense.

Qualcuno ha osservato che si tratta di una rivelazione ad orologeria, che si riferisce alle scadenze elettorali italiane.

Forse, però, bisogna guardare la cosa un po’ in modo diverso: è probabile che ci sia un legame con le scadenze elettorali statunitensi. Negli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale: a novembre si vota per le elezioni di medio termine. Gli Stati Uniti sono stati una delle democrazie penetrate dall’influenza russa.

Anche il Regno Unito è stato penetrato per il referendum sulla Brexit e anche altri Paesi. Quando si pensa a noi, c’è stata una forza politica: la Lega di Salvini. È inutile che facciamo finta di non saperlo. Ha detto subito che se qualcuno dice che ha preso i soldi dalla Russia, verrà querelato. Per carità e non ho neanche ragione di supporlo.

La questione è la sostanza: voi credete veramente che la Russia finanzi una forza politica per passione? Finanzia o aiuta quanti servono ad indebolire le democrazie e la posizione degli altri. Non c’è alcun dubbio.

Io non so se sono girati finanziamenti. Non ne ho idea. Sicuramente, però, sentirsi dire che Putin è meglio del Presidente della Repubblica Italiana li ha soddisfatti e li ha resi felici. Ma li ha resi felici anche sentire dire che la Tap non si sarebbe dovuta fare, in modo da dipendere solo dal gas Russo: battaglia dei 5 Stelle e non solo.

Non hanno di certo sofferto, anzi hanno gioito quando hanno saputo che in Italia c’erano movimenti “No-Triv” in modo tale da non prendere il nostro gas, che sta nel nostro mare Adriatico e comprarlo fuori. A chiedere quel referendum contro le trivelle nell’Adriatico furono dieci Regioni di cui otto a maggioranza di centro-sinistra.

È da fessi cercare nei documenti segreti quello che ciascuno di noi ha il dovere di sapere, perché è avvenuto a cielo aperto, sulla pubblica scena. Gli interessi di un Paese possono essere serviti anche per passione.

La penetrazione di capitali russi in Europa è vecchia, vecchissima: anzi, nel secolo scorso era indirizzata verso i partiti comunisti, che non era una fratellanza ideologica, non era una comunanza di idee era l’opposizione ai governi democratici dell’Europa occidentale e oggi è uguale: non cambia niente anche se i soldi vanno a destra, sopra o sotto.

L’influenza si usa per indebolire gli altri. Noi a questo dobbiamo prestare attenzione, perché un Paese che è al tempo stesso sovrano e forte non dipende dalle informazioni dell’intelligence altrui, dipende dall’intelligenza dei propri cittadini e della trasparenza dei propri politici.

Poi c’è una distinzione tra il reato e la responsabilità politica: se qualcuno ha preso soldi, non li ha registrati e li ha fatti girare per banche strane e via così elencando reati ne risponderà davanti alla magistratura. Ma senza tutto questo e senza neanche lontanamente presupporre l’ipotesi lontanissima di soldi o di reati non significa che non si possa duramente condannare chi ha preferito servire gli interessi di un altro Paese rispetto a quelli dell’Italia.

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Finanziamenti dalla Russia: la bolla di sapone USA


La pubblicazione da parte delle autorità statunitensi di un rapporto di intelligence secondo cui, dal 2014, la Russia avrebbe generosamente sovvenzionato alcuni partiti politici in Europa e fuori, con finanziamenti quantificati nell’ordine dei 300 milioni di dollari, ha sollevato, negli ultimi giorni, un diffuso interesse soprattutto in Italia, dove la campagna per le elezioni del prossimo […]

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friendica (DFRN) - Collegamento all'originale
Andrea Russo
@Jens :fedora: :eos: :manjaro: diciamo che il motivo per cui l'Italia è soggetta ai tentativi di condizionamento e corruzione da parte dei Russi (e dei Cinesi) è anche dovuto al fatto che l'Italia si è mostrata recettiva a questo tipo di condizionamenti quando fatti dagli USA.
@Jens


“Voprosy e ozabochennosti” Per ammissione dello stesso Putin, sono “dubbi e preoccupazioni” quelli espressi ieri da Xi Jinping nel primo faccia a faccia con il presidente russo dall’invasione dell’Ucraina.



Separazione


La sinistra sta commettendo un grave errore, nel lasciare che la destra s’intesti la separazione delle carriere dei magistrati. Le categorie di destra e sinistra sono sempre meno significative e, difatti, qui si tratta di una questione dai profondi risvol

La sinistra sta commettendo un grave errore, nel lasciare che la destra s’intesti la separazione delle carriere dei magistrati. Le categorie di destra e sinistra sono sempre meno significative e, difatti, qui si tratta di una questione dai profondi risvolti culturali: la separazione non dovrebbe dividere destra e sinistra, ma libertà e dispotismo, diritto individuale e statolatria. Sia la destra che la sinistra democratiche non possono che essere per la separazione. Ed è per questo che la sinistra italiana sta commettendo un grave errore.

Importa nulla che questo o quello prenda posizione strumentalmente, o magari avendo in mente un procedimento che coinvolge un camerata o un compagno, e importa nulla che ciascuno sia fino in fondo consapevole di quale sia il nocciolo della questione. Almeno s’interroghino, ove ne abbiano gli strumenti, sul perché l’Italia sia il solo Paese civile che abbia una così concepita e illogica colleganza fra chi accusa e chi giudica.

La procura è intestata alla Repubblica, il che confonde le idee, perché la Repubblica è un bene. Prima, però, chi ci lavorava era definito: procuratore del re. Negli Stati uniti (avranno pur visto qualche film!) i processi iniziano: <<lo Stato della California contro Tizio>>. Non sono formulette, son cose significative: l’accusa non è la giustizia, ma un potere esecutivo, può privare della libertà (a seconda delle diverse procedure) senza che vi sia stato alcun giudizio, quindi alcuna giustizia, è un potere enormemente più forte di quello del cittadino. Il quale ha diritto, però, al giudice terzo, che rimette in equilibrio la bilancia.

I sistemi dispotici, giustamente, non ne sentono il bisogno. Giustamente perché sono loro il bene, sicché non c’è bisogno che taluno glielo spieghi. Il fascismo istituì i tribunali speciali apposta per ribadirlo. Nel comunismo il procuratore collabora alla condanna. Le Brigate rosse, nel loro osceno “tribunale del popolo”, non avvertivano il minimo bisogno che accusa e giudizio si separassero. L’accusa parte della giustizia è dispotismo, autocrazia dittatoriale. I sistemi di diritto, ciascuno a suo modo, considerano l’accusa una parte, sullo stesso piano della difesa. Il giudice è parimenti estraneo a entrambe le parti. Non è affatto una mostruosità, ma logico che in sistemi di diritto l’accusa possa dipendere gerarchicamente dal governo (accade in Francia e in Germania), sarebbe abominevole dipendesse il giudice. Da noi sono colleghi e irresponsabili.

Tale colleganza è difesa, da chi ci crede, con il bisogno di preservare la “cultura della giurisdizione”, ovvero far sì che chi accusa si comporti già un po’ come giudice. Assurdità che, unita all’obbligatorietà dell’azione penale, da una parte deresponsabilizza e dall’altra porta la difesa alle soglie della complicità. Quella “cultura” vorrebbe segnare una superiorità morale dell’accusa, concetto che è già negazione del diritto. L’accusa è fondamentale, come la difesa, ma come quella è separata dal giudizio.

Come fa la sinistra a non capirlo? Perché rimasta prigioniera delle correnti e di un passato (recente) in cui la prevalenza nella spartitocrazia le assicurava una rendita di posizione. Se non lo capisce per convenienza, quindi, siamo nel campo del vergognoso. Se non lo capisce per cultura traslochiamo in quello dell’ignoranza.

La separazione delle carriere non è di destra o di sinistra, è solo civiltà. Non citerò i nomi dei giuristi e dei magistrati che lo hanno affermato (e taluno ha duramente pagato), perché si deve uscire dalla mitologia e abbandonare l’inutile retorica. Si deve riprendere la capacità di elaborare e confrontare idee senza l’ossessione di dire il contrario dell’altro, anche perché il contrario di una cretinata non è una cosa intelligente, ma una cretinata di segno opposto. E occhio, a sinistra: contestare alla destra derive autoritarie nel mentre si resta prigionieri di un’impostazione dispotica oscilla fra l’orrido e il ridicolo.

La Ragione

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Zeitenwende della Germania: troppo poco, troppo tardi?


In Europa la fine della Guerra Fredda ha inaugurato una nuova era segnata dall’assenza della Realpolitik. La mera idea di guerra nel continente è diventata improvvisamente inimmaginabile e il concetto di potenza militare è scivolato nell’oblio per molti Paesi europei. Gli europei si sono presto convinti che la pace sarebbe rimasta e qualsiasi sforzo contro […]

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Regina Elisabetta II: ‘S’ come solidale e sociale ed ‘A’ come advocacy


La Regina ha unito la filantropia alla politica estera ed interna sviluppando advocacy ed offrendo un valore aggiunto all’assetto istituzionale e regale che le competeva come Sovrana. Elisabetta II ha patrocinato oltre 500 organizzazioni durante la sua vita, da enti di beneficenza e associazioni militari a organismi professionali e organizzazioni di servizio pubblico. Il suo patrocinio […]

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Sua Maestà Regina Elisabetta II: ‘S’ come solidale e sociale ed ‘A’ come advocacy


La Regina ha unito la filantropia alla politica estera ed interna sviluppando advocacy ed offrendo un valore aggiunto all’assetto istituzionale e regale che le competeva come Sovrana. Elisabetta II ha patrocinato oltre 500 organizzazioni durante la sua vita, da enti di beneficenza e associazioni militari a organismi professionali e organizzazioni di servizio pubblico. Il suo patrocinio […]

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I risultati delle elezioni in Svezia confermano le previsioni e l’exploit dell’ultradestra, frutto di un’accorta operazione di immagine e politiche fallimentari.


Elezioni politiche 2022: cronaca di un disastro annunciato


“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Nel romanzo dalla struttura teatrale antica con personaggi e coro di Gabriel Garcia Marquez aleggiava una morte annunciata. […]

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#PNRRIstruzione, via libera in Consiglio dei Ministri alla riforma degli Istituti tecnici e professionali. Innovazione, rete con i territori, potenziamento dell’attività laboratoriale: sono le principali novità della riforma approvata.


Chi si opporrà all’alleanza Russia-Iran?


Nonostante tutti i suoi discorsi sulla guida di un “fronte di resistenza”, la Repubblica islamica dell’Iran ha storicamente avuto pochi alleati. Quando l’Ayatollah Ruhollah Khomeini guidava i suoi rivoluzionari, “Né Oriente né Occidente, ma Repubblica islamica” era uno slogan fondamentale della Rivoluzione islamica. Khomeini ha anche descritto gli Stati Uniti e la Russia come “due […]

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Borsa: canapa, Canada e USA entrambe in picchiata


Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudonoentrambe in modo nettamente negativo. Troppa volatilità sulle piazze internazionali e dopo qualche segnale timido positivo nelle due settimane precedenti, questa settimana chiudono entrambe in rosso. Per avere dei raffronti nel settore parallelo della […]

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L’invasione autolesionista di Putin allontana gli ucraini del sud dalla Russia


Con tutti gli occhi concentrati sulle offensive in via di sviluppo dell’Ucraina nelle direzioni di Kharkiv e Kherson, vale la pena soffermarsi a riflettere sui cambiamenti storici nell’opinione pubblica ucraina che stanno avvenendo a seguito della guerra. Questi cambiamenti sono particolarmente visibili nell’Ucraina meridionale, dove la storica simpatia per legami più stretti con la Russia […]

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Il vertice di Samarcanda segna l’ascesa dell’Eurasia


Al contrario, le coalizioni di Washington nell''Indo-Pacifico' e altrove non riescono ad ottenere nuovi aderenti

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Guida per idioti alle elezioni politiche


Giunti ormai a pochi giorni dalle elezioni politiche, possiamo preparare una guida alle elezioni per idioti, che spieghi in poche parole le visioni concorrenti della società italiana da parte dei diversi schieramenti. Abbiamo una coalizione di centrodestr

Giunti ormai a pochi giorni dalle elezioni politiche, possiamo preparare una guida alle elezioni per idioti, che spieghi in poche parole le visioni concorrenti della società italiana da parte dei diversi schieramenti.

Abbiamo una coalizione di centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia), una dicentrosinistra (PD, +Europa, Verdi e Sinistra italiani), una liberale(Calenda e Renzi) ed infine i Cinquestelle da soli. Trascuriamo le altre organizzazioni folcloristiche, come “Il partito della follia creativa” del dottor Cirillo, da anni ilare presenza nelle elezioni romane.

Non parliamo di proposte specifiche, bensì di un’impostazione generale. In particolare, evitiamo qualunque riferimento ai rapporti con la UE, con la NATO, la guerra in Ucraina e il debito pubblico, perché su questi temi, semplicemente, non c’è alcuna possibilità di scelta.

I tre partiti di destra, nonostante qualche divisione non banale, condividono una chiara impostazione ideologica, una nostalgica visione di un piccolo mondo antico in cui ci si conosceva tutti, ognuno aveva un lavoro, c’erano pochi stranieri, l’Europa era lontana e la vita scorreva tra la sagra dei tortelli e la messa della domenica, un mondo alla Pane, amore e fantasia. Le donne restavano a casa a cucinare le eccellenze culinarie che il mondo ancora non ci invidiava, facevano figli e non abortivano, se non di nascosto.

Si rubava, anche, ma di nascosto; non si pagavano le tasse, ma di nascosto; c’erano anche gli omosessuali, che non andavano in giro a fare i “pride”. E a chi osava, c’era l’arma letale del pettegolezzo, punto di partenza per l’ostracismo sociale, pena peggiore del carcere. Si andava nelle case chiuse, all’aperto e senza sensi di colpa, raccontando barzellette contro le mogli. Il futuro che ci offre il centrodestra, in altre parole, è il ritorno ad una società in cui il maschio bianco etero è ai vertici e la cultura ne celebra le fanfaronate, dai bordelli alle sgommate in tangenziale.

Colonna sonora: Povia, “Luca era gay”

Nel lato sinistro non mancano proposte interessanti, come la scuola dell’infanzia obbligatoria, la reintroduzione dell’imposta di successione, il salario minimo e lo ius scholae, ma si avverte che sono estemporanee, fatte per accontentare una delle molteplici lobby che si alligna nel sottobosco della società civile, senza una riflessione complessiva sulla società futura. Secondo la sinistra, i prossimi decenni dovranno essere, per forza, multietnici, gender, ecologici, meritocratici, sostenibili ed equi, ma non ci dice come questo Sol dell’Avvenire dovrebbe essere realizzato.

In realtà la politica del PD è una forma molto italica di conservatorismo progressista, fare il minimo indispensabile perché ogni decisione rischia, in primo luogo, di spaccare il partito, poi di essere bloccata da un TAR o da un sindaco o da una protesta di piazza. La sinistra ha rinunciato completamente all’idea di governare i complessi processi in corso in Italia, se non affidandosi all’Europa, madre salvifica ma non sempre benigna.

Colonna sonora: “Bella Ciao” (a bassa voce per non dare fastidio)

Passando ai Cinquestelle, la visione di Italia che Conte sta cercando in modo piuttosto annaspante di vendere al paese è quella dell’unica vera sinistra attenta ai bisogni della gente. Su questo, le credenziali di Conte sono interessanti, vedi reddito di cittadinanza. I Cinquestelle propongono sostanzialmente una società in cui uno Stato paternalista si fa carico di ogni problema, con un ampio allargamento dei cordoni delle borse, ma che non ha alcuna idea di come riorganizzare la società e l’economia nel suo complesso, senza grandi slanci, con un rinnegamento degli ideali più interessanti di rifondazione della politica lanciati dai Cinquestelle degli inizi. In altre parole, un traccheggiamento a vista, salvo intese.

Colonna sonora: Francesco Guccini, “La locomotiva”

Venendo al quarto polo, i due ragazzi terribili, Calenda e Renzi, sembrano gli unici con il coraggio di una visione davvero rivoluzionaria del futuro: individuo, impresa, liberalismo estremo, meritocrazia, Draghi ed Europa. Non è chiaro come tutto questo possa essere realizzato in una società invecchiata (male) come quella italiana, tenuta ignorante dal terrore televisivo, mentre i giovani, quei pochi che non sono fuggiti all’estero, sperano di fare fortuna con Tik-Tok. Tuttavia, i due rinascimentali propongono forse l’unica agenda per un radicale cambiamento dell’Italia, peccato che, come i bravissimi Maneskin, piacciano solo ai cinquantenni che credono di avere ancora vent’anni.

Colonna sonora: Madonna, “Like a Virgin”

Un’ulteriore scelta è l’astensione. Il rifiuto di partecipare al più importante appuntamento elettorale della vita pubblica è un fatto grave ma non può essere negato. Chi si astiene coscientemente non intende legittimare un sistema che ha tolto ai cittadini la libertà di scegliere i propri rappresentanti e governanti.

Ciò grazie ad una legge elettorale assurda, che premia le accozzaglie e accentra ogni potere nelle mani dei segretari di partito i quali, comunque, non sono in grado da anni di prendere alcuna decisione che non siano le questioni identitarie, fuffa solo per chi non soffre le discriminazioni (vedi decreti sicurezza contro gli immigrati, le restrizioni all’aborto contro le donne, l’ideologia della famiglia tradizionale imposta ad un paese arcobaleno da cinquant’anni).

Colonna sonora: La Rappresentante di Lista, “Ciao ciao”

Ecco, queste sono le scelte a disposizione degli italiani e delle italiane. Potenzialmente, andiamo dalla restaurazione dell’ancien régime alla repubblica socialista, con mille sfumature dal nero al rosso. E tanto grigio, colore del fumo.

In realtà, c’è ben poco da scegliere. La politica economico-finanziaria, che ci piaccia o no, è decisa dai mercati finanziari internazionali, su cui la Commissione europea non comanda. Di politica estera non parliamo perché non l’abbiamo dai tempi di Andreotti. I clandestini continueranno ad arrivare con o senza blocco navale. Con la cultura non si mangia. Gli unici possibili e sostanziabili cambiamenti sono nei diritti sociali, ovvero in quelli che più fanno male quando si perdono. Questi sono essenzialmente i diritti dei lavoratori, la scuola pubblica, la sanità pubblica e la libertà di decidere del proprio corpo, che siano l’aborto o il fine vita.

Le diverse coalizioni hanno già mostrato nei fatti cosa faranno o non faranno su ciascuno di questi temi, ma lascio a ciascuno e ciascuna di voi il compito di informarsi e di scegliere, per una volta, con consapevolezza.

Non dovrebbe essere difficile.

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Francesco Rocchetti, Segretario Generale ISPI, e la giornalista Silvia Boccardi raccontano dell'incontro tra Putin e Xi Jinping a Samarcanda e con Eleonora Tafuro Ambrosetti, analista dell’Osservatorio Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’ISPI si int…


Stati Uniti: l’industria della cannabis subisce i colpi della crisi


Stati Uniti: mala tempora currunt per la cannabis. E per tutto l’indotto che vi gravita intorno. Mentre le aziende di tutto il mondo chiudevano a causa della diffusione della COVID-19, l’industria della marijuana era considerata “essenziale” in quasi 30 Stati e poteva trarre vantaggio dalla pandemia. Ma più di due anni dopo, tra l’aumento dell’inflazione […]

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Ursula Von Der Leyen: “Viva L’Europa!”. Il discorso sullo Stato dell’Unione


Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, pronuncia parole forti e decise nel suo discorso sullo Stato dell'Unione. L'articolo Ursula Von Der Leyen: “Viva L’Europa!”. Il discorso sullo Stato dell’Unione proviene da ilcaffeonline. https

Il discorso sullo Stato dell’Unione di quest’anno è decisamente molto diverso da quello che venne pronunciato lo scorso settembre. Le parole della Presidente della Commissione sono risuonate non solo nell’aula del Parlamento ma anche nelle petites rues di Strasburgo, nelle larghe vie di Bruxelles e in tutte le altre città europee.

Ursula Von Der Leyen, vestita di giallo e di blu, ha iniziato il suo intervento con una constatazione: “Mai prima d’ora questo Parlamento si è trovato a discutere lo stato della nostra Unione mentre
sul suolo europeo infuriava la guerra”
.

Davanti ad Olena, la consorte di Zelensky, ha infatti ricordato l’immenso coraggio che la popolazione ucraina continua a dimostrare contro l’aggressione di Putin. Ha puntualizzato: “Le sanzioni resteranno in vigore. È il momento della risolutezza, non delle concessioni”.

Secondo Ursula questa guerra è l’apice di uno scontro ben delineato, quello tra autocrazia e democrazia, tra valori occidentali e credi zaristi.

L’Europa ha reagito coesa a questa guerra alla sua economia, alla sua energia, al suo futuro. La Presidente porta un esempio italiano virtuoso, quello dei ceramifici al centro della nostra penisola che hanno deciso di spostare i turni al mattino presto per beneficiare delle tariffe più basse dell’energia.

Entra così nell’argomento letteralmente più scottante e impellente: quello energetico.

La proposta europea è quella di mitigare il carobollette con oltre 140 miliardi di euro. Come? Tassando gli extra-profitti. La Presidente ha infatti dichiarato “ci sono grandi compagnie petrolifere, del gas e del carbone, che stanno realizzando profitti enormi e inaspettati, che non si sarebbero mai nemmeno immaginate”.

E ancora, due riforme necessarie sono quella radicale del mercato dell’energia elettrica e, in linea con il Green Deal, l’introduzione di una Banca europea dell’idrogeno, fonte che verrà trasformata in un mercato di massa con ingenti investimenti nei prossimi decenni.

Ursula è pronta a sostenere gli avanzamenti e la rilevanza del progetto green europeo nelle due prossime occasioni internazionali, alla conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità di Montreal e alla COP27 di Sharm el-Sheikh.

Ha colto l’occasione poi per annunciare una nuova legislazione europea sulle materie prime critiche, punto cruciale per il successo della transizione sostenibile nell’economia e nel mondo digitale, in continuità con il Chips Act.

Altra tematica fondamentale toccata nel discorso sullo Stato dell’Unione è stata l’importanza di combattere la disinformazione nella rete ma anche nelle università europee; “queste menzogne
sono tossiche per le nostre democrazie
”.

Citando la Regina Elisabetta e David Sassoli, Ursula ha ricordato a tutti i presenti l’essenzialità di difendere sempre il nostro modello occidentale. Migliorarlo ogni giorno significa crescita collettiva, per tutti gli individui.

L’Europa sarà in grado di guardare oltre e cercare nuovi orizzonti?

Si, se coltiverà lo spirito di Maastricht, dove stabilità e crescita vanno necessariamente di pari passo; dove si uniscono tutte le forze in nome di un comune obiettivo; dove volontà e solidarietà si mescolano; dove ogni cittadino europeo si sente a casa.

Ursula auspica che questo spirito europeo, cresciuto moltissimo dopo lo scoppio della pandemia, possa crescere ancor più forte e in armonia.

Come esempio finale della sua riflessione, ha elogiato Magdalena e Agnieszka, due giovani polacche che in pochi giorni hanno organizzato migliaia di volontari per accogliere i rifugiati ucraini. Un esempio di altruismo e umanità.

La loro storia è, secondo la Von Der Leyen, emblematica e rappresenta al meglio il sentimento dell’Unione e della nostra comunità europea.

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Durante la settimana appena trascorsa è stata ancora l’inflazione a tenere banco quale prima preoccupazione delle economie occidentali.


Oggi saremo a Grugliasco, in provincia di Torino, per #TuttiAScuola, la cerimonia di inaugurazione del nuovo anno scolastico.

L’iniziativa, giunta alla XXII edizione, sarà una grande festa che metterà al centro le esperienze delle scuole.



Rublati


La fonte, i tempi e il fatto. Questi gli elementi da tenere in considerazione per capire il significato di una nota statunitense relativa ai soldi che dalla Russia sarebbero giunti a componenti politiche di 24 Paesi. Fin da prima che la criminale aggressi

La fonte, i tempi e il fatto. Questi gli elementi da tenere in considerazione per capire il significato di una nota statunitense relativa ai soldi che dalla Russia sarebbero giunti a componenti politiche di 24 Paesi.

Fin da prima che la criminale aggressione russa all’Ucraina partisse, l’intelligence statunitense ha scelto un approccio diverso da quello classico: disvelare anziché celare. Il valore maggiore delle informazioni riservate è consistito nel renderle pubbliche.

Fecero sapere che, secondo le loro informazioni, l’ammassarsi di truppe russe ai confini ucraini non era manco per niente un’esercitazione, ma la premessa di un’imminente invasione. In tanti li accusarono di propaganda e Putin fece lo spiritoso. L’informazione era esatta e le cose sono andate come erano state descritte.

Circa i finanziamenti russi a politici europei, sono noti quelli alla destra francese di Le Pen. Quindi non una novità. Perché adesso? Per noi italiani è facile supporre che la tempistica sia stata scelta in relazione alle elezioni del prossimo 25 settembre.

A parte che sembrerebbe non esserci note sull’Italia, la stessa cosa sarebbe valsa per le notizie francesi. Ma sono sensazioni superficiali, che non tengono conto di due dati fondamentali: a. la ricerca sulle influenze russe nasce negli Usa perché gli Usa furono penetrati; b. la scadenza elettorale più rilevante è in Usa. Forse quei tempi hanno rilevanza maggiore dei nostri.

Il fatto va ben delineato: se ci sono trasferimenti di denaro a partiti o soggetti politici, ovviamente non dichiarati, da noi si tratta di un reato. E dei reati si occupa la giustizia. Per me possono anche metterci il nome di Tizio, in quelle carte, ma continuerò a considerarlo innocente e a credere alle sue smentite, fino a sentenza contraria.

Il che, però, non mi distoglie di un capello dall’osservare che il citato Tizio ha posizioni filorusse, s’è speso contro le sanzioni, non voleva inviare armi all’Ucraina. Che non sono reati, ma responsabilità politiche. E in politica sono quelle che contano.

Con le influenze russe in casa nostra ci siamo cresciuti. I comunisti sovietici finanziavano i comunisti italiani. Ma quel fatto, documentato dalla stessa memorialistica comunista, non deve trarci in inganno: non era il finanziamento a una comune idea, ma soldi per sostenere la stessa idea che oggi sostiene Putin: indebolire le democrazie e minare la credibilità di chi le governa.

Per questo è ininfluente pagare a sinistra o a destra, mentre è rilevante investire sugli sfasciacarrozze. Che non necessariamente devono essere politici.

Distinguere il reato dalla responsabilità politica serve anche a guardare un po’ oltre. Di certo in Russia non si son crucciati perché degli svalvolati italiani volevano bloccare il gasdotto dall’Azerbaijan (Tap), fortunatamente senza riuscirci. Ed hanno goduto quando ci siamo evirati rinunciando a gran parte del gas che abbiamo in Adriatico. E se guardate ai protagonisti di quelle pessime battaglie ce ne trovate di destra e di sinistra. Mica notizie segrete, se ne vantavano.

E siccome 300 milioni in 24 Paesi, dal 2014 sono poco più della mancia al cameriere, porgerei maggiore attenzione al fronte del gas e alla formulazione dei contratti, con eventuali liberalità aziendali. Il che porta più a governanti tedeschi che non a neonazisti che pure i russi accudirono con amore. Idem per il lato italiano.

Possiamo usare una sola bussola, per evitare svarioni: osservare i fatti noti ed esprimere un giudizio sui putinofili nostrani (prevalentemente a destra); fare attenzione agli interessi delle battaglie contro il gas non russo (ben distribuiti fra saltimbanchi di diverso colore); ribaltare, come si sta facendo, la politica energetica, rendendosi totalmente indipendenti dal mefitico gas russo.

Questa non è una faccenda da pupazzetti in magliettina, ma da ridisegno di equilibri globali. E come tale va trattata.

La Ragione

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