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Le opere di Gramsci su LiberLiber


Liber Liber è una biblioteca digitale accessibile gratuitamente, creata da una organizzazione di volontariato che ha come obiettivo la promozione di ogni espressione artistica e intellettuale.
Nella biblioteca si possono trovare alcune opere di Antonio Gramsci.

liberliber.it/online/autori/au…



Che tempo che fa


Vent'anni fa il programma di Fabio Fazio era un'isola nella corrente. Oggi è la corrente.


Scoperti due buchi neri supermassicci in collisione | Passione Astronomia

"In mezzo a una collisione galattica, ci sono i due buchi neri supermassicci in rotta di collisione tra i più vicini mai osservati.
[...]
Una tale fusione può apportare sufficiente materiale nei buchi neri da innescare violente esplosioni che modellano la formazione stellare e altri processi astrofisici che hanno luogo nelle galassie che ospitano i buchi neri stessi."

passioneastronomia.it/scoperti…



Vuoi vedere le tendenze in tutto il Fediverso?

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Come possiamo sostenere la privacy dei dati e la libertà personale mentre facciamo passi da gigante verso un mondo di trasparenza del cervello? L'intervento di @nxthompson e @NitaFarahany


COME POSSIAMO SOSTENERE LA PRIVACY DEI DATI E LA LIBERTÀ PERSONALE MENTRE FACCIAMO PASSI DA GIGANTE VERSO UN MONDO DI TRASPARENZA DEL CERVELLO? LA CONFERENZA DI NICHOLAS THOMPSON E NITA A. FARAHANY

Siamo pronti alla trasparenza del cervello?
Segnaliamo a tutta la comunità @Etica Digitale una discussione con Nicholas Thompson e Nita A. Farahany che si è tenuta giovedì a Davos durante il World Economic Forum (WEF) che immaginiamo possa interessare gli account di coloro che si interessano di tecnologia, lavoro e risvolti etici (per esempio i follower di @informapirata :privacypride: @Etica Digitale @Tech Workers Coalition Italia ).

In particolare, Nita Farahany, avvocato interessato ai temi etici del Transumanesimo e autrice di "The Battle for Your Brain", durante il suo intervento "Ready for Brain Transparency?" ha affrontato diverse questioni nodali e ha previsto che nel "futuro a breve termine" i dispositivi di interfaccia mentale diventeranno "il modo principale con cui interagiamo con tutto il resto della nostra tecnologia"; ha anche sottolineato che le principali aziende tecnologiche come Meta stanno "studiando modi per rendere questi dispositivi universalmente applicabili" al resto della nostra tecnologia.

La promessa della neurotecnologia di migliorare la vita e di ottenere informazioni sul cervello umano sta crescendo: quella sulla trasparenza del cervello sarà quindi una battaglia fondamentale per evitare che un sogno transumanista divenga un incubo del controllo

Il video dell'intervento è disponibile a questo link



Il Massacro di Istakhr (651)


Il massacro di Istakhr del 651 è un evento brutale che si è verificato durante la conquista araba della Persia. Il massacro è stato il risultato della sconfitta della nobiltà persiana di Ishakr da parteContinue reading

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Isabella Rauti racconta il mondo della Difesa. In punta di anfibi


Dal sostegno alla difesa transatlantica all’attenzione per il Mediterraneo, passando per le necessità e le fide delle nostre Forze armate, fino al ruolo fondamentale ricoperto dalle donne in uniforme. Questi alcuni dei temi toccati dall’ebook “In punta di

Dal sostegno alla difesa transatlantica all’attenzione per il Mediterraneo, passando per le necessità e le fide delle nostre Forze armate, fino al ruolo fondamentale ricoperto dalle donne in uniforme. Questi alcuni dei temi toccati dall’ebook “In punta di anfibi” del sottosegretario alla Difesa, Isabella Rauti, presentato ieri presso lo Studio Curtis, Mallet-Prevost, Colt & Mosle LLP alla presenza di vertici politici, militari e industriali del Paese. Un volume che ha raccolto alcune delle rubriche tenute dal sottosegretario sulla rivista Airpress tra il 2017 e la sua nomina al governo. Un racconto esaustivo, che attraversa periodi diversi delle recenti vicende delle Forze armate nazionali, ponendo l’accento sull’importanza che lo sviluppo di una “cultura della Difesa” ha per il Paese e l’opinione pubblica.

Per una cultura strategica

“La guerra in Ucraina ha fatto da effetto disvelante per l’opinione pubblica, che la guerra è un fenomeno presente, possibile, e pende sulle nostre teste”, ha spiegato Gabriele Natalizia, coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info che ha curato l’introduzione al volume del sottosegretario. Secondo il ricercatore, la guerra in ucraina ha “scioccato l’opinione pubblica”, un fenomeno ritenuto ormai passato, o relegato ad aree geografiche percepite come periferiche, è tornato in Europa, a pochi chilometri dall’Italia. “Già da un decennio gli esperti parlavano di questa possibilità”, ha sottolineato, ricordando come di questi temi le riviste Airpress e Formiche ne parlavano già dal 2017 “dedicando una rubrica speciale alla politica militare, di cui il sottosegretario Rauti era l’autrice, in una fase dove a livello di opinione pubblica, non se ne parlava”. Un lavoro che ha contribuito ad alimentare il dibattito e che è capace di definire in maniera specifica l’interesse nazionale grazie alla definizione di una “cultura strategica”.

Donne e forze armate

Sicuramente, un aspetto molto presente nel volume del sottosegretario è il ruolo delle donne in uniforme. “La data fondamentale è il 1999, quando con la legge 380 si apre all’ingresso delle donne nelle Forze armate”, avvenuto effettivamente nel 2000. “Cadeva un muro che nessuno voleva mantenere in piedi”, ha raccontato ancora Rauti, “ma i tempi sono andati un po’ lunghi. Una data non solo simbolica, ma concretamente importante”. Sulla domanda se il Paese sia indietro da questo punto di vista, il sottosegretario risponde: “La crescita è costante, e siamo gli unici, tra gli Alleati, ad avere una sezione dedicata presso lo Stato maggiore della Difesa a politiche di genere”. Tema importante è stato anche quello della maternità. “Le scelte di maternità non sono assorbite in qualsiasi ambito lavorativo, risultando penalizzanti ovunque”. Tuttavia, nelle Forze armate, dove “le gerarchie le fanno i gradi”, il pregiudizio e la discriminazione verso le donne che caratterizzano ancora diversi settori produttivi trovano minore radicamento. “Il grado fa gerarchia, fa disciplina e fa sistema” indipendentemente dal genere.

Gli impegni della Difesa

Per quanto riguarda gli impegni attuali delle Forze armate, dal Baltico all’oceano Indiano, il sottosegretario ha commentato come ci siano scenari di instabilità “aperti a tutte le latitudini”. Massima attenzione va naturalmente al Mediterraneo allegato, ai Balcani, al Medio oriente, ai fronti sud ed est dell’Alleanza. “Tutto è diventato strategico, e la postura aggressiva russa ha creato ulteriori instabilità”. Oggi più che mai, dunque, diventa importante l’impegno Nato, Onu e Ue. Nonostante questo impegno, che vede l’Italia protagonista, rimangono alcune lacune nella cultura della Difesa nazionale. “Non penso che ci sia una avversione culturale – specifica però Rauti – gli italiani amano le Forze armate. Il problema è la percezione, legata a scarsa conoscenza” di quello che concretamente fanno i militari italiani. “Dobbiamo comunicare di più e meglio quello che facciamo nel mondo come costruttori di pace”.

Realismo politico e militare

Di fronte alle instabilità globali, c’è bisogno di un’assunzione di “realismo politico e militare”, ha detto ancora Rauti, chiamando in causa gli aspetti addestrativi delle forze militari italiane. “Dobbiamo guardare la realtà del conflitto, che undici mesi fa nessuno aveva immaginato; siamo ripiombati in un clima di guerra vicino casa”. In questo contesto, allora, “l’addestramento è fondamentale, non può essere eluso. Dobbiamo prepararci a fronteggiare sfide diverse, multi-dominio, una complessità che richiede una formazione sempre più sofisticata”.

Obiettivo 2%

Per quanto riguarda l’obiettivo del 2% da destinare alla Difesa, il sottosegretario è stata chiara: “Abbiamo preso degli impegni, e siamo abituati a rispettarli”. Naturalmente permangono le criticità, non tutti i Paesi hanno raggiunto la quota stabilita in Galles, tra cui l’Italia. Tuttavia, il nostro Paese “ha dedicato l’1,17% nel 2019 e l’1,54 nel 2021. Non siamo lontanissimi dall’obiettivo”. Per Rauti “quello che conta è che abbiamo approvato un emendamento per il raggiungimento della quota entro il 2028, che può significare anche prima”. Ma per questo “l’assenso parlamentare è fondamentale”.

Industria della Difesa e programmi

Sulle dotazioni e gli equipaggiamenti per le Forze armate italiane di domani “l’obiettivo del governo è quello di avere uno strumento militare bilanciato, equilibrato in tutte le sue componenti terrestri, navali, aeree”. Questo obiettivo si intreccia naturalmente con gli sviluppi dell’industria della Difesa “e con la sempre più necessaria sovranità tecnologica che dobbiamo garantire, tutelare e monitorare”. C’è quindi la necessitò di uno sviluppo capacitivo da intrecciare con la competenza, l’innovazione e la competitività internazionale dell’industria. Naturalmente, “l’Italia non può farlo da sola, ma deve sapersi porre con in partner a testa alta”, assumendo la leadership laddove in grado di farlo e stabilendo accordi di collaborazione negli altri settori.


formiche.net/2023/01/in-punta-…



Ma chi costruirebbe le strade?


Un commento alla chiacchierata sull'Arancione Podcast, in cui ho parlato dei nostri temi preferiti: prassiologia e scuola austriaca, Bitcoin, socialismo stradale, moralità e legalità e tanto altro.

Ieri ho avuto il piacere di parlare di anarco-capitalismo, scuola austriaca e molto altro insieme a TheOrangeWay (@Nespa_Bis) in un’intervista del suo Arancione Podcast. Durante l’intervista abbiamo ripercorso e discusso insieme di un interessante episodio del podcast di Saifedean “Who will build the roads w/ Walter Block”, in cui ha intervistato Walter Block.

Walter Block è un economista austriaco e anarco-capitalista che insegna alla School Business di New Orleans. Come moltissime persone, anche lui da giovane era il tipico statalista “liberal” (cioè di sinistra). Fu lui stesso ad affermare: "In the fifties and sixties, I was just another commie living in Brooklyn”. Il suo percorso di redenzione iniziò però nel migliore dei modi, assistendo a una lezione di Ayn Rand. Fu sufficiente una chiacchierata con lei e la lettura di Atlas Shrugged per rinnegare le sue radici socialiste. Fu poi grazie a Rothbard che si convertì definitivamente all’anarco-capitalismo.

Block è famoso per aver scritto il libro Defending the Undefendable in cui affronta e demolisce diversi dogmi statalisti da un punto di vista libertario. La sua intervista offre molti spunti interessanti su cui discutere, che volevo riproporvi anche in forma scritta.

Non tratterò tutti i temi affrontati durante la puntata, quindi per chi volesse qui è disponibile il podcast in cui ne parlo con TheOrangeWay:

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La prassiologia e l’azione umana


Il primo argomento toccato da Saifedean e Block è quello della scuola austriaca e della praxeology. Per praxeology o prassiologia s’intende quella teoria della scuola austriaca che sostiene che:

  • Esistono assiomi fondamentali (leggi economiche) che sono assolutamente veri
  • I teoremi dedotti sulla base di questi assiomi sono quindi assolutamente veri
  • Di conseguenza, non c’è alcun bisogno di testare né premesse né conclusioni
  • In ogni caso, questi teoremi non sarebbero testabili

L’assioma fondamentale della prassiologia è l’esistenza dell’azione umana, di cui Mises scrisse sapientemente. Gli esseri umani esistono ed agiscono. Da questo assioma fondamentale e assolutamente vero nasce e si sviluppa poi tutta la teoria economica austriaca. Alcune delle implicazioni più dirette che arrivano da questo assioma fondamentale sono: la relazione tra scopo e mezzo, le preferenze temporali (alte o basse), la legge del beneficio marginale decrescente, e così via. È l’assioma dell’azione umana che distingue la teoria economica austriaca da tutte le altre.

Rothbard definisce questo assioma come una “legge della realtà”, derivante proprio dall’osservazione della realtà che ci circonda.

Attenzione però: né Mises né libertari o austriaci dicono nulla sulle ragioni dell’azione umana. Non c’è alcun assioma in merito alla razionalità o correttezza dell’azione umana. L’unico postulato è che gli esseri umani agiscono: hanno uno scopo e usano ogni mezzo possibile per raggiungerlo.

Secondo Ayn Rand sono i “valori” ciò che spingono l’uomo ad agire. I valori sono ciò che un individuo agisce per ottenere e perseguire così la sua felicità. Potrebbe essere denaro, ma anche un altro tipo di beneficio psicologico. Un esempio calzante arriva proprio dal protagonista di The Fountainhead, l’architettoHoward Roark. In un passaggio del libro decide di rifiutare un’importante commessa che gli avrebbe fatto guadagnare una piccola fortuna, perché il progetto non era ciò che lui avrebbe voluto fare. Ad Howard Roark piacciono i soldi e gli sono utili, ma non è il denaro il “valore” che lo spinge ad agire. Bensì, la voglia di creare qualcosa di suo, senza ingerenze.

È anche per questo motivo che Rothbard disse che nella “scienza dell’azione umana” è impossibile testare le conclusioni che arrivano dalle leggi economiche fondamentali: i fatti che riguardano la vita e la storia umana sono talmente complessi e con cause diverse tra loro che è impossibile isolarli e testarli in laboratorio.

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Il socialismo stradale


Block prosegue poi su quello che lui chiama socialismo stradale: il monopolio di Stato sulle strade. Lo fa partendo da una semplice osservazione: più di 35.000 persone muoiono ogni anno sulle strade in america.

Gli osservatori dicono che le cause sono molte e diverse: velocità elevata, errori del guidatore, guida in stato di ebrezza, eccetera. Nessuno osa però constatare una verità banale: quando un bene o servizio ha dei problemi, solitamente è colpa del management.

Facciamo l’esempio di un ristorante che fallisce. I motivi, superficialmente, possono essere molti: il cibo faceva schifo, il posto era sporco, la posizione non era ideale, e così via. Ma queste sono solo cause indirette. La causa primaria del fallimento è il proprietario, che non ha assunto uno chef migliore, non ha assicurato un’adeguata pulizia del locale, e non ha scelto con accortezza la posizione in cui aprire il ristorante. La causa ultima ricade sempre sul management.

Chi è il manager del servizio di mercato chiamato strada? Lo Stato. Ciò che è vero per il restante 99.9% dei beni e servizi di mercato deve necessariamente essere vero anche per le strade. Non è quindi assurdo dire che lo Stato è la principale causa delle morti sulle strade.

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Il problema principale, derivante proprio dal monopolio assoluto dello stato, è che non possiamo sperimentare soluzioni diverse. Ad esempio, non possiamo differenziare le velocità in base al contesto specifico o sperimentare tipologie diverse di corsie. Non possiamo neanche sperimentare con diversi materiali e soluzioni di manutenzione.

Se ci fossero strade private con diversi proprietari potremmo verificare empiricamente le differenze sul numero di morti in base alle soluzioni proposte. Magari scopriremmo che la velocità non è sempre un fattore rilevante. O magari scopriremmo che in alcune strade, per il contesto specifico, è opportuno aumentare alcuni tipi di controlli o prevedere specifiche misure di sicurezza. Quello che invece abbiamo oggi è un monopolista che applica le stesse regole e le stesse tecnologie a condizioni estremamente diverse.

Lo abbiamo studiato tutti e non c’è nessuno che oserebbe negarlo: i monopoli sono sempre a danno dei clienti. La competizione libera crea sempre prodotti migliori proprio grazie alla trial & error e ai meccanismi premiali di mercato. Ciò che funziona viene usato e acquistato, ciò che non funziona muore. Lo vediamo con qualsiasi altra attività: servizi postali, sanità, scuola, sicurezza. In tutti questi casi la soluzione privata è più efficiente e meno costosa dell’alternativa statale.

A questo punto lo statalista dirà: ma se le strade fossero tutte private qualcuno potrebbe decidere di non farti più uscire di casa!

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Certo, amico statalista. Ma considera questo: un’attività imprenditoriale nasce per servire i clienti. È l’unico modo in cui l’imprenditore — che ha investito tempo e risorse per costruire e mantenere la strada — può guadagnare e rimanere sul mercato. Inoltre, è chiaro che in un mondo dove le strade sono tutte private l’acquisto di una casa si porterebbe dietro anche un contratto per l’utilizzo delle strade adiacenti. Se l’imprenditore decidesse di violare unilateralmente quel contratto, i clienti avrebbero mezzi per rivalersi. E in ogni caso, non passerebbe molto tempo prima che tutti i clienti a cui è stato vietato l’ingresso si trasferiscano altrove, andando a premiare il competitor. Il mercato tenderebbe naturalmente ad eliminare gli attori malevoli, perché nessuno li pagherebbe.

Le strade sono beni essenziali, sì. Come il cibo. Eppure mi sembra che il (semi)libero mercato alimentare funzioni bene. In 35 anni di vita devo ancora trovare qualcuno che si rifiuti di vendermi cibo per qualche motivo. E se anche fosse, il mondo è pieno di altri che non vedono l’ora di farlo. Perché per le strade dovrebbe essere diverso?

La confusione tra moralità e legalità


Passiamo ora ad un altro argomento amato dagli statalisti: vietare le attività che non gradiscono. L’errore gravissimo e imperdonabile di tutti gli statalisti, socialisti e comunisti in generale è di sovrapporre moralità e legalità fino a non distinguerli più.

Per lo statalista è assolutamente corretto vietare, quindi rendere illegale, ciò che reputa immorale. Nella storia, e ancora oggi, abbiamo innumerevoli esempi: divieto di vendita degli alcolici, di droga, di armi, o di organi umani; divieto di fumo; divieto di prostituzione o rapporti omosessuali; divieto di aborto; divieto dello sport e delle attività ludiche la domenica.

Tutte queste attività a un certo punto della nostra storia sono state vietate in quanto considerate immorali. Non è un caso che lo stato sociale, massima espressione dello statalismo, sia nato proprio da radici religiose (protestanti): da uomini che volevano usare lo Stato come strumento per epurare la società da vizi e azioni che ritenevano immorali. Per chi non l’avesse ancora fatto, consiglio di leggere questo articolo sul tema.

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Eppure, moralità e legalità sono questioni ben distinte tra loro. La moralità — o etica — è ciò che guida l’azione dell’uomo e ci permette di distinguere tra giusto e sbagliato. Ma ciò che è giusto e sbagliato non può mai acquisire una dimensione collettivista e statalista. Sia Mises che Ayn Rand ci ricordano che ognuno di noi agisce con tutti i mezzi possibili per conseguire la propria felicità. I valori che ci permettono di conseguire la nostra felicità potrebbero però essere immorali per gli altri.

L'anarco-capitalista, al contrario degli statalisti, distingue invece tra moralità e legalità. La filosofia libertaria non è una teoria morale, ma una teoria legale. Questo è particolarmente vero se guardiamo alla filosofia di Rothbard e Hoppe. Tutto ciò che non viola la proprietà privata e la vita di una persona dovrebbe essere legale, pur se immorale.

Esempi palesi sono la prostituzione, l’omossessualità o le droghe. Molti pensano che sia immorale prostituirsi, avere rapporti omosessuali o vendere droga. Per questo, secondo loro, dovrebbero anche essere attività illegali. Ma da un punto di vista libertario non ha senso. Queste attività non violano in alcun modo il principio di non aggressione e dovrebbero pertanto essere libere.

In linea teorica, in un mondo libertario perfino i supermercati potrebbero scegliere di vendere eroina. L’eroina è una brutta storia, ma non per questo dovrebbe esserne vietata la vendita. E non sarebbe neanche un problema, poiché il mercato riuscirebbe ad equilibrarsi senza alcun bisogno di divieti. Nessun supermercato si sognerebbe di vendere eroina in una comunità che lo reputa generalmente immorale, per non rischiare di perdere clienti e fallire.

Purtroppo, quando agli statalisti non piace qualcosa e hanno un sufficiente numero di persone che la pensano come loro, allora credono sia giusto assumere qualcuno (le forze dell’ordine) per aggredire coloro che invece la pensano diversamente. Se vogliamo, è proprio questa scelta di aggredire con la forza qualcuno che agisce in modo pacifico per il raggiungimento della propria felicità ad essere immorale.

Attenzione al momento in cui qualcuno reputerà immorale inquinare, mangiare carne o proteggere le proprie comunicazioni e transazioni economiche attraverso protocolli di crittografia. Se ci pensate, è già un processo in atto.

Perché è accettabile proporre l’uso di sistemi di monitoraggio e analisi dell’impatto CO2 delle transazioni personali o di limitazione all’uso delle automobili? Perché inquinare è immorale.

Perché è accettabile proporre leggi di sorveglianza di massa delle transazioni economiche e per il divieto di strumenti di crittografia per la protezione della privacy delle comunicazioni e delle transazioni? Perché nascondersi dallo stato è immorale.

E così via.

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Non tutto è un diritto


Infine, vorrei accennare a un’osservazione molto acuta di Block: bisogna distinguere tra la capacità di ferire le persone a livello emotivo o psicologico e violare i loro diritti (proprietà, vita, libertà).

Ad esempio, se chiedo a una bella ragazza di uscire e lei mi ride in faccia mandandomi via, potrei essere ferito emotivamente. Ma lei è libera di farlo. Ho il diritto di chiedere che sia vietato di rifiutare malamente le persone? Non credo.

O ancora, se nessuno chiede alla ragazza brutta della classe di andare al ballo della scuola, lei potrebbe rimanerci molto male e magari anche arrivare a deprimersi e suicidarsi. Qualcuno dovrebbe essere obbligato legalmente a chiederle di ballare? Non credo.

E questo è molto importante, perché oggi si fa una gran confusione tra azioni che possono avere un impatto negativo sulla persona, senza però violare il principio di non aggressione, e azioni che invece lo violano. Un pugno in faccia non è allo stesso livello di un brutto insulto.

Oggi invece vediamo sempre più spesso la nascita di leggi che vorrebbero tutelare la salute emotiva delle persone contro il cosiddetto "hate speech". Il Digital Services Act in UE è un esempio: c'è un paragrafo specifico in cui si afferma che i social network dovrebbero censurare ogni contenuto che possa ferire o mettere a repentaglio la salute mentale di qualcuno.

Questa è la follia dello statalista woke, che giustifica la violazione di libertà altrui per evitare che qualcuno lo ferisca dicendogli che solo le donne possono partorire o che le tasse sono un furto.


Ascolta l’intervista su Arancione Podcast per approfondire tutti gli altri temi di cui abbiamo parlato e facci sapere cosa ne pensi:

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Dovendo acquistare un lampadario e una plafoniera dopo tanti anni, mi sto scontrando con la nuova realtà dei "led integrati". Ovunque vada, c'è una grande offerta di lampadari, applique, plafoniere ecc. di tutti i costi e tutte le dimensioni che devi semplicemente buttare via e rimpiazzare quando si fulminano.
Quelli con portalampada sono una selezione ridotta, scarsamente disponibile anche perché giustamente preferita quando si trova in negozio.
Come può essere una scelta sensata un lampadario da buttare via quando muore il led?


Il cambio di passo di Ramstein. Tocci (Iai) legge il vertice per l’Ucraina


Si è aperta una fase nuova del supporto occidentale all’Ucraina aggredita e potenzialmente un cambio di passo per l’andamento dello stesso conflitto. È accaduto ieri al vertice di Ramstein, in Germania, del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, l

Si è aperta una fase nuova del supporto occidentale all’Ucraina aggredita e potenzialmente un cambio di passo per l’andamento dello stesso conflitto. È accaduto ieri al vertice di Ramstein, in Germania, del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, l’iniziativa lanciata dal segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin per coordinare gli sforzi degli oltre 40 Stati che inviano materiali miliari a Kiev. Al netto delle titubanze che ancora permangono a Berlino sulla concessione o meno dei carri armati Leopard, è innegabile che gli alleati abbiano aumentato il livello del materiale che intendono inviare.

Le nuove dotazioni

In prima linea ancora gli Stati Uniti, con un pacchetto da 2,5 miliardi di dollari: veicoli corazzati da combattimento (Bradley e Stryker) e antimine, veicoli da trasporto M998 Humvee. Il Regno Unito ha promesso 600 missili Brimstone, che si aggiungono ai carri armati pesanti Challenger 2. La Danimarca una ventina di cannoni Caesar. La Svezia i semoventi Archer. La Polonia si è detta pronta a consegnare 14 carri Leopard. Anche l’Italia, per voce del ministro della Difesa Guido Crosetto, continuerà a fare la sua parte “bisogna passare dalle parole ai fatti nel più breve tempo possibile”. Tutti i mezzi decisi al vertice segnano un cambio di passo. Sono mezzi più pesanti, con gittate maggiori e potenze di fuoco più elevate. Sono i segni che qualcosa sta cambiando.

Una fase di svolta nel conflitto

“Al netto del dettaglio tecnico ‘Leopardi sì, Leopard no’, il punto di fondo è che Ramstein si colloca in quella che andrei a definire una fase di svolta, una inflection politica della guerra”, spiega ad Airpress Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto affari internazionali (Iai). Una fase la cui specificità può essere determinata da due fattori principali. Il primo: “c’è una crescente consapevolezza diffusa che il presidente russo Vladimir Putin non vuole negoziare e che l’assetto del Cremlino è quello di continuare a pianificare una escalation da parte russa”. L’aspetto da comunicare, spiega ancora Tocci, è che “Ramstein, o le decisioni occidentali sugli armamenti, non segnano o causano una escalation con Mosca, ma sono una risposta a un piano russo di escalation, di trasformazione dell’operazione speciale in una nuova guerra patriottica, anche in vista di una eventuale seconda mobilitazione”.

Per Kiev non ci sarà una seconda opportunità

Il secondo, più implicito, “è il fatto che Putin è intenzionato a continuare senza limitazioni, al contrario dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, non vogliono che la guerra continui”. Per il direttore dello Iai si sta dunque aprendo una fase nuova, che porterà alla controffensiva ucraina “verosimilmente nella tarda primavera”. Questa controffensiva “sarà frutto delle decisioni sugli armamenti che i Paesi occidentali stando dando a Kiev”. Infatti, in questa fase del conflitto Kiev “dovrà liberare più territorio possibile, perché probabilmente non ci sarà una seconda occasione: quello che c’è da mettere in campo va messo adesso”. Con Ramstein, questa consapevolezza sembra essersi consolidata in Occidente. Si è superato, conclude Tocci, “il pensiero di non volere l’escalation. A escalation russa verificata, il passaggio successivo dell’Occidente deve essere ‘come reagiamo?’”.


formiche.net/2023/01/ramstein-…



Arginare Nordio? Dubito. Contro di lui assedio giustizialista – Il Dubbio


Parla Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi: «Lo attaccano perché può scardinare il sistema» Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi, del cui consiglio di amministrazione Carlo Nordio è stato compone

Parla Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi: «Lo attaccano perché può scardinare il sistema»

Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi, del cui consiglio di amministrazione Carlo Nordio è stato componente dal 5 dicembre 2018 fino alla sua nomina a ministro della Giustizia: che impressione ha di questi primi mesi del Guardasigilli a via Arenula?

Senz’altro positiva. Sottoscriviamo tutto quello che il ministro ha annunciato e ci auguriamo che presto si possa passare alla concreta realizzazione di una riforma della giustizia che attendiamo da anni. Qualche timida ma positiva indicazione è venuta dalla Cartabia, ora è necessario che da Nordio venga quella spinta per procedere oltre.

Ci sono spinte diverse all’interno del governo in tema di giustizia, tant’è che sarebbe in atto un tentativo di contenere il ministro, così come riportano le cronache giornalistiche. Nordio rischia di essere messo ai margini?

A me piace parlare per fatti concludenti e non per interpretazioni giornalistiche. Ogni giorno leggo di rappresentanti dei vari partiti della maggioranza che prendono le distanze da Nordio. Non possiamo metterci seriamente a seguire voci, impressioni o illazioni. Valutiamolo con i provvedimenti. Certamente se da qui a sei mesi nessuno dei propositi annunciati da Nordio sarà sulla via della realizzazione ne trarremo delle conclusioni, che probabilmente non saranno lusinghiere per questo governo. Ma siamo ancora alle prime battute e limitandoci alle dichiarazioni dico che sono positive.

C’è un aspetto che in molti evidenziano: il suo essere stato per tutta la vita fuori dai palazzi e, in particolare, fuori da quelli romani. Questo suo “spaesamento” è un limite o un vantaggio?

La distanza dai palazzi e dalle sue logiche può essere un vantaggio. Lo svantaggio è che la macchina complessa di un ministero – e in particolare uno come quello di via Arenula – per essere governata ha bisogno o di un’esperienza pregressa o di un accelerato corso di “formazione”. Nordio stesso ha sempre detto che non si è mai occupato, in questo senso, di pubblica amministrazione e dunque il tempo glielo dobbiamo concedere. Ma ripassando le storie personali e politiche di tutti i precedenti ministri della Giustizia non so quanti avessero l’esperienza necessaria.

La giustizia è sempre il terreno di scontro privilegiato tra i partiti ma forse anche quello sul quale, alla fine, si interviene di meno. La fondazione Einaudi, anche insieme allo stesso Nordio, ha più volte proposto delle ricette ed indicato urgenze ed emergenze. Che suggerimenti dà al ministro?

Come ripeto quotidianamente, la riforma delle riforme necessaria per il Paese è quella della separazione delle carriere. Ci ho scritto anche un libro, la cui prefazione è di Carlo Nordio, dal titolo “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”. Oggi con i magistrati alcuni temi non sono più un tabù, però su questo non si può avere un confronto civile, approfondito e chiarificatore. La risposta è sempre: “Non è quello il problema”. Ma se per la Fondazione Einaudi, per l’Unione delle Camere penali – assieme alla quale abbiamo depositato parecchi anni fa una proposta di legge costituzionale – e i Radicali questo tema è fondamentale, perché i magistrati non vogliono affrontarlo? Dalla separazione delle carriere si dipanano mille cunicoli spesso invisibili e sotterranei. Ne dico solo uno: le valutazioni dei magistrati. Come ben sa si valutano tra di loro e la valutazione è sempre l’eccellenza. Il fascicolo delle performance, tra le riforme più semplici della Cartabia, ha addirittura provocato uno sciopero. Com’è possibile? Perché in Italia la casta è questa. I magistrati sono gli unici che ritengono di non poter essere valutati da nessuno. E dunque, la separazione delle carriere e il doppio Csm – perché noi non vogliamo un pm sottoposto al governo o a qualcun altro – servirebbero, ad esempio, per evitare questo genere di intrecci. Perché anche se si tratta di persone perbene può venire il dubbio che oggi il giudizio lusinghiero dell’uno possa servire per ottenere un domani un giudizio altrettanto lusinghiero dell’altro.

E come si realizza questa separazione?

La Fondazione Einaudi ha proposto una snella assemblea costituente per la riforma complessiva della seconda parte della Costituzione. Siamo molto scettici sulla possibilità che una bicamerale, viste le sorti infauste di tutte le bicamerali, possa essere la soluzione. Bisogna dare la parola agli elettori per eleggere 100 costituenti che possano mettere mano complessivamente, senza sbrindellarla a pezzetti, alla nostra Costituzione.

Ha avuto modo di confrontarsi col ministro in questi mesi?

Nelle settimane scorse Nordio, assieme al professore Sabino Cassese, ha partecipato alla presentazione del mio libro a Roma e ha ribadito che il suo essere ministro non gli fa cambiare idee. Certo, il suo ruolo comporta anche momenti di comprensibile equilibrio, perché fa parte di una maggioranza e ha delle responsabilità, ma ha ribadito che se gli fanno fare le cose in cui crede bene, altrimenti si dimette. Beh, è strano che un ministro dica questo subito dopo essere stato nominato: questo è il segno della determinazione di Nordio.

Quindi per tornare alla domanda sui presunti tentativi di arginamento mi sembra che la risposta sia: è difficile che lo consenta.

Non ho motivo di ritenere che Nordio pensi una cosa e ne dica un’altra. Ma lo constateremo empiricamente.

Il tema più divisivo, in questo momento, è quello delle intercettazioni e il ministro è sotto attacco per le sue idee. Lei condivide la sua posizione?

Le intercettazioni, per come sono in Italia, sono una vera indecenza e negare che siano state usate anche per fini poco nobili sarebbe offendere l’intelligenza degli italiani. Nordio è stato netto sul fatto di non voler toccare le intercettazioni, anche le più invasive, purché rispettose della persona umana, contro i reati di mafia. Ma solo chi non è mai entrato in un’aula di giustizia o non abbia mai avuto parte ad un processo può difendere questo sistema. Stiamo attenti, delle intercettazioni si può fare strame, inoltre non sono una prova, ma un mezzo di ricerca della prova. Ma a quanti processi assistiamo, ogni giorno, in cui gli unici elementi di prova portati a giudizio dall’accusa sono solo le intercettazioni? Le indagini non si fanno più e negare questo è violentare barbaramente la verità. Contro Nordio si sta creando un fronte compatto di manettari, tagliagole, giustizialisti di ogni specie perché vedono in lui l’uomo che può scardinare il sistema. Ma a me piacerebbe vivere in un Paese in cui Nordio è la normalità, non l’eccezione.

Simona Musco, Il Dubbio, pagina 1 e 2 del 21 gennaio 2023

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Wang Feng: "Calo demografico non vuol dire per forza declino”


Wang Feng:
Intervista a Wang Feng. Il sociologo ed esperto di demografia della University of California, Irvine, analizza radici e conseguenze del calo demografico cinese

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Giunto ormai al suo nono anno, il sondaggio ISPI realizzato da IPSOS rivolge agli italiani alcune domande chiave sulla politica internazionale degli ultimi dodici mesi.


USA: tetto del debito, default inevitabile?


Negli scorsi giorni, il dipartimento del Tesoro ha annunciato il raggiungimento del tetto del debito (‘debtceiling’, attualmente fissato al 31,4 trilioni di dollari) da parte del governo degli Stati Uniti. Nella stessa occasione, il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha annunciato l’adozione di “misure straordinarie” (essenzialmente aggiustanti nelle poste di spesa) per fare fronte agli impegni […]

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in reply to informapirata ⁂

@informapirata :privacypride: Chiaro, ma recentemente Standard & Poor’s ha declassato il rating statunitense, portandolo da AAA (outstanding) ad AA+ (eccellente). Questa è la prima volta che sia mai successo e questo impatta su un fondamento dello stato americano (en.wikipedia.org/wiki/United_S… )

Ora se tutti fanno finta di credere alla solidità degli USA tutto funziona ma se qualcuno smette di crederci (chi ha detto Cina?) il castello di carte può crollare

informapirata ⁂ reshared this.

in reply to Andrea Russo

la Cina ha quasi dimezzato la quantità di crediti verso gli USA (ad oggi il paese che vanta più crediti è il Giappone, seguito dalla Cina e dal Brasile) ma di certo non ha nessun interesse a vedersi volatilizzare i millemilamiliardi (siì, sono proprio 1000.000 mld!) che vanta dagli USA. I quali USA, ti ricordo, possono sempre pagare in missili, bombardamenti e blocchi marittimi... 😂


USA: tetto del debito, Casa Bianca e Congresso allo scontro anche a rischio default?


Negli scorsi giorni, il dipartimento del Tesoro ha annunciato il raggiungimento del tetto del debito (‘debtceiling’, attualmente fissato al 31,4 trilioni di dollari) da parte del governo degli Stati Uniti. Nella stessa occasione, il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha annunciato l’adozione di “misure straordinarie” (essenzialmente aggiustanti nelle poste di spesa) per fare fronte agli impegni […]

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SFRD: la finanza folgorata sulla ‘via di Damasco’?


Fra qualche giorno (il 25 Gennaio pv), i fondi di investimento europei ESG (Environmental, Social, Governance) dovranno dichiarare all’autorità centrale europea se sono coerenti con art.8 o art. 9 del Regolamento dell’SFDR (Sustainability Related Disclosures in the Financial Services–regolamento 2019/2088). Alcuni di essi potrebbero non essere riconosciuti Fondi ESG perché non ottemperano alle regole di […]

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Can Kicker - Can Kicker


Per un certo periodo, a sangue ormai caldo e con un po’ di buon tempo libero, mi sono molto concentrato sul termine “Grunge” e ho riflettuto su cosa mai volesse significare in musica. @Musica Agorà @Poliverso notizie dal fediverso

iyezine.com/can-kicker-can-kic…



Gli Stati Uniti raggiungono il tetto del debito. Il Congresso si prepara allo scontro, ma la battaglia è tutta politica.


Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 4 febbraio 2023, Voghera


4 febbraio 2023, ore 11 – Sala Zonca, Piazza Meardi (Angolo Via Emilia) – Voghera intervengono PAOLO AFFRONTI ALIDA BATTISTELLA DAVIDE GIACALONE FABRIZIO PALENZONA modera NICOLA AFFRONTI L'articolo Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separaz

4 febbraio 2023, ore 11 – Sala Zonca, Piazza Meardi (Angolo Via Emilia) – Voghera

intervengono
PAOLO AFFRONTI
ALIDA BATTISTELLA
DAVIDE GIACALONE
FABRIZIO PALENZONA

modera
NICOLA AFFRONTI

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Francesco Rocchetti, Segretario Generale ISPI, e la giornalista Silvia Boccardi parlano con Filippo Fasulo, esperto di Cina e Co-Head dell’Osservatorio Geoeconomia dell’ISPI, di cosa la soppressione della maggior parte delle restrizioni della politic…


Chi pensa che il 2% alla Difesa sia un target insufficiente


Il prossimo mese i ministri della Difesa dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per discutere degli aumenti di budget nel settore. Il tema è oggetto di dibattito già dal 2014, quando gli alleati promisero di aumentare la spesa per la Difesa al 2% dei Pi

Il prossimo mese i ministri della Difesa dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per discutere degli aumenti di budget nel settore. Il tema è oggetto di dibattito già dal 2014, quando gli alleati promisero di aumentare la spesa per la Difesa al 2% dei Pil nazionali.

Come sostiene Patrick Turner, già Assistant Secretary General per la politica di Difesa presso l’Alleanza atlantica in una analisi pubblicata su Cepa, l’aggressione russa all’Ucraina segna il cambiamento più radicale dell’architettura di sicurezza del continente europeo dal crollo sovietico. Inoltre, ricorda Turner, si aggiunge l’ormai evidente minaccia cinese. Per quanto gli Stati Uniti siano ancora la superpotenza globale, potrebbero avere difficoltà nel combattere due conflitti contemporaneamente.

Da qui la necessità che i Paesi europei della Nato si facciano carico della sicurezza del proprio quadrante. A questo riguardo, la promessa del 2014 di aumentare il budget militare al 2% del Pil ha avuto qualche effetto. In totale, gli alleati non statunitensi hanno speso circa 300 miliardi di dollari in più in termini reali dall’assunzione dell’impegno. Ma questo aumento è molto disomogeneo a seconda dei Paesi.

Alcuni Membri, poi, hanno promesso di raggiungere quella soglia in tempi molto lunghi: ad esempio, la Danimarca si è impegnata per il 2033, il Belgio per il 2035. Alcuni alleati chiave sono ancora lontani dal target del 2%. Ad esempio, la Germania si aggira intorno all’1.4%, nonostante la promessa di investire cento miliardi di euro addizionali. L’Italia è all’1.5%, la Spagna all’1%. Alcuni, come il Canada, non hanno nemmeno confermato questo impegno.

Il fatto è che quel tipo di target era stato fissato in un mondo ancora piuttosto diverso da quello di oggi. Diversi analisti sostengono che la soglia del 2% sia attualmente insufficiente a generare capacità credibili, che risultino quindi in una deterrenza efficace.

Lo hanno compreso gli inglesi, con il precedente primo ministro Boris Johnson che l’anno scorso ha promesso di raggiungere il 2.5% entro la fine del decennio. Liz Truss ha rincarato la dose puntando al 3%, un target poi ridimensionato da Rishi Sunak sulla cifra di Johnson. I membri che più hanno preso sul serio l’impegno ad aumentare il budget di Difesa sono, naturalmente, i Paesi dell’Europa centrale e orientale, la Polonia su tutti.

L’invasione russa, oltre a risvegliare le coscienze dei Paesi più ottimisti, ha evidenziato due tipi di problemi. Il primo è la scarsa capacità di schierare forze immediatamente pronte in caso di crisi sul fianco orientale; il secondo è la scarsa quantità di armamenti presenti negli stockpiles attuali. Entrambe le problematiche sono frutto di anni di scarsi investimenti.

Secondo Turner, l’obiettivo di budget al 2.5% sarebbe la soglia minima per limitare questi danni collaterali. E ricorda che quello era il livello di spesa degli Stati europei alla fine della Guerra Fredda, quando la minaccia russa era sensibilmente inferiore e la Cina non era neanche lontanamente simile ad oggi.


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Come cambia la guerra in Ucraina. Il punto di Marrone (Iai)


La guerra russo-ucraina evolve a livello operativo, e così la fornitura di armi occidentali all’Ucraina fino all’attuale richiesta dei carri armati Leopard di produzione tedesca. Nei primi mesi del conflitto era più incerta la capacità ucraina di difender

La guerra russo-ucraina evolve a livello operativo, e così la fornitura di armi occidentali all’Ucraina fino all’attuale richiesta dei carri armati Leopard di produzione tedesca. Nei primi mesi del conflitto era più incerta la capacità ucraina di difendere Kiev, e le forniture militari alleate si sono concentrate soprattutto su equipaggiamenti per la fanteria, compresi ad esempio mortai, mitragliatrici o sistemi di difesa anti-aerea e anti-carro portabili a spalla, che possono essere consegnati rapidamente, hanno bisogno di poco addestramento, e danno quindi un contributo immediato alle forze ucraine.

Aumentato il sostegno militare

Queste forniture continuano, insieme a equipaggiamenti di vario tipo, ma nel corso del 2022 vi sono stati tre sviluppi che hanno gradualmente elevato il livello del sostegno militare occidentale. In primo luogo, la Russia ha fallito nell’intento iniziale di prendere anche Kiev, Kharkiv e gran parte del Paese, e si è ritirata dal nord. In secondo luogo, le Forze armate ucraine hanno dimostrato di saper manovrare e combattere a livello di teatro e non solo tattico, con campagne articolate che hanno portato alla riconquista di Lyman e alla liberazione di Kherson, riprendendosi oltre un terzo del territorio occupato dalla Russia dopo il 24 febbraio. È diventata quindi più efficace la fornitura di mezzi blindati e sistemi di artiglieria di varia natura e gittata, come gli Himars americani. È stata messa in piedi una catena logistica, comprendente anche munizioni e pezzi di ricambio, e si è avviato un addestramento più corposo e sistematico al di fuori del territorio ucraino.

In terzo luogo, dallo scorso settembre la Russia ha puntato a distruggere le infrastrutture energetiche per piegare la volontà ucraina di combattere, anche ricorrendo massicciamente a droni iraniani, ed è quindi diventato prioritario per Kiev ottenere sistemi di difesa aerea e anti-missile in quantità e qualità tali da coprire non solo la linea del fronte, ma tutto il Paese – che è il più esteso in Europa a ovest della Russia. Da qui l’enfasi sui Patriot americani, donati anche dall’Olanda, ma anche l’interesse ucraino per il Samp-T italo-francese.

Le richieste di Kiev soddisfatte parzialmente

Le cose ovviamente non si sono svolte in modo semplice e lineare, in mezzo a un conflitto in Europa senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale che ha colto di sorpresa molte capitali europee. L’Ucraina ha infatti chiesto ripetutamente sistemi d’arma in tempi più rapidi e in maggiori quantità, più potenti, più a lunga gittata, e ha necessità sia di mezzi meno recenti, più facili da usare e manutenere, sia di mezzi tecnologicamente avanzati. Ma il gruppo di Paesi donatori, comprendente in primo luogo gli Stati Uniti e i principali Paesi europei, hanno soddisfatto solo parzialmente le richieste di Kiev per tre ordini di motivi. In primo luogo andava parallelamente testata la reazione russa, con l’obiettivo primario di mantenere il conflitto circoscritto ai confini ucraini internazionalmente riconosciuti (compresa quindi la Crimea), anche evitando il più possibile attacchi in territorio russo che potessero portare a un’escalation con la Nato. Lo smacco russo della ritirata da Kherson, dopo l’annessione farsa di quella e di altre tre province ucraine, ha dimostrato che il sostegno militare dell’Occidente all’Ucraina può crescere in termini qualitativi e quantitativi, senza appunto una escalation russa.

Dagli scarsi arsenali nazionali alle dinamiche politiche

Il secondo motivo per la lentezza e riluttanza specialmente in Europa a donare sistemi d’arma all’Ucraina sta nella loro scarsa disponibilità negli arsenali nazionali. Le forze armate europee fino al 2022 erano equipaggiate per una realtà ormai consolidata di deterrenza ad alta intensità ed alta tecnologia in Europa e di operazioni asimmetriche di stabilizzazione e gestione delle crisi fuori area: non per alimentare, senza farne parte, una guerra convenzionale al tempo stesso ad alta intensità, prolungata e sostanzialmente tra pari, in cui la massa e l’attrito la fanno da padrone. In altre parole, il consumo di armi, munizioni e mezzi militari in Ucraina in questi undici mesi di conflitto è stato enorme, ben superiore alle stime iniziali di tutte le parti in causa, ed i Paesi europei non possono scendere sotto una certa soglia di capacità militari per la propria difesa nazionale mentre l’industria europea fatica ad aumentare la produzione di quanto necessario. Il terzo motivo che ha ridotto ritmo e qualità del supporto militare occidentale all’Ucraina sta nelle legittime dinamiche politiche interne a Paesi democratici, dove correnti politiche e culturali per vari motivi si oppongono a tale sostegno e influenzano l’opinione pubblica ed il processo decisionale.

Una nuova evoluzione del conflitto

In questo contesto, nelle ultime settimane si sta probabilmente verificando una nuova evoluzione della guerra e quindi degli aiuti occidentali a Kiev. L’offensiva russa a Soledar ha portato a un risultato tattico decisamente modesto rispetto alla mobilitazione di forze regolari e mercenarie, Wagner in primis, e alle perdite subite da Mosca. Al tempo stesso, la controffensiva ucraina si è sostanzialmente fermata dopo Kherson, per scelta e/o per necessità rispetto all’attrito in corso. La guerra è in stallo da dicembre. Il che non vuol dire che non si combatta duramente, anzi, ma che il fronte non si muove in maniera significativa, probabilmente anche per le condizioni sul terreno dettate dal periodo invernale. In questo stallo, è verosimile che entrambe le parti in lotta si preparino per delle campagne offensive nei prossimi mesi, dalla portata e direttrici incerte ma che richiederebbero mezzi pesanti come i main battle tank.

Serve una manovra terrestre efficace

Infatti, le caratteristiche dei carri armati nella guerra moderna, come evidenziato in uno studio Iai, li rendono preziosi quanto a concentrazione di potenza di fuoco, protezione e mobilità. È tuttavia sbagliato considerarli (e utilizzarli) in maniera isolata, in quanto vanno inseriti in una manovra terrestre che combini efficacemente diversi assetti, dai veicoli blindati ai droni, dagli elicotteri alla fanteria. Non a caso è stato annunciato che l’Ucraina riceverà elicotteri da Lituania e Lettonia, veicoli blindati da Francia e Germania, ecc. Da notare come nel 2022 l’Italia abbia aiutato militarmente Kiev in termini qualitativi e quantitativi sostanzialmente comparabili a grandi Paesi europei come la Francia, come filtra da fonti ucraine e italiane nonché dalle immagini facilmente reperibili sui social media, ma non ha avuto il credito internazionale che meriterebbe a causa della scelta governativa di porre il segreto di Stato sull’invio degli equipaggiamenti italiani.

Esigenze operative

L’insistenza di Kiev per ricevere carri armati dai Paesi alleati, insieme a molti altri equipaggiamenti, nasce dunque dalle esigenze operative del conflitto. L’Ucraina ha bisogno non solo di tank di epoca sovietica già donati a decine da Polonia e Slovacchia, ma anche e soprattutto dei Leopard di fabbricazione tedesca, più moderni ed efficaci. Leopard che Varsavia, Helsinki e molte altre capitali europee hanno a disposizione ma che necessitano un’autorizzazione da Berlino per essere ri-esportati. La Gran Bretagna, confermandosi insieme a Germania e Polonia nel gruppo di testa dei Paesi donatori, ha annunciato pochi giorni fa l’invio di circa 14 carri armati Challenger 2. Sono pochi rispetto alle richieste ucraine di almeno 300 tank, ma potrebbero fare da apripista alla decina di Paesi europei che nel complesso posseggono oggi circa duemila Leopard. Gli Stati Uniti hanno aggiunto al loro già corposo pacchetto di aiuti, che comprendeva Himars, Patriot e diversi altri sistemi avanzati, i veicoli blindati Bradley funzionali proprio a una manovra offensiva dell’esercito ucraino, ma non i carri armati Abrahms che per certi versi sono troppo complessi e difficili da manutenere per Kiev. La palla è quindi nel campo europeo, e in particolar modo in quello tedesco.


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20 gennaio 2023. Messaggio di Alfredo Cospito al proprio difensore



Il sottoscritto Alfredo Cospito comunica al proprio avvocato Flavio Rossi Albertini che in pieno possesso delle mie capacità mentali mi opporrò con tutte le forze all'alimentazione forzata.
Saranno costretti a legarmi nel letto.
Dico questo perché ultimamente mi è stata adombrata la possibilità di un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio). Alla loro spietatezza ed accanimento opporrò la mia forza, tenacia e la volontà di un anarchico e rivoluzionario cosciente.
Andrò avanti fino alla fine. Contro il 41 bis e l'ergastolo ostativo.
La vita non ha senso in questa tomba per vivi.
Cospito Alfredo.

#41bis
#Ergastoloostativo



‘Qatargate’: quando il denaro compra valori o interessi


“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Pecunia non olet. Se si assume nel proprio orizzonte di assunzione di valore l’assunto che il denaro non […]

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Borsa: canapa, la terza settimana del 2023 chiude in rosso


Entrambe le principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, cioè Canada e USA, chiudono entrambe la seconda settimana del 2023 con un accenno di valori positivi. Un segnale positivo, sebbene piccolo, a fronte delle ultime settimane del 2022 e della prima settimana del 2023 che si erano chiuse con bilanci chiaramente negativi […]

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Brasile: il ruolo dell’esercito nel tentativo di colpo di Stato


La folla di estrema destra che ha invasol’edificio federale, il Congresso e la Corte Suprema e ha vandalizzato gli edifici governativi a Three Powers Plaza a Brasilia l’8 gennaio, ha chiesto un ” intervento militare ” in Brasile. Avevano allestito campi che si erano radunati davanti alle caserme dell’esercito in tutto il paese da novembre […]

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Kazakistan occidentale: gli occhi della Russia


In quella parte dell’ultima rassegna stampa settimanale di Radio Azattyk, che riguarda il mio recente articolo, la domanda è formulata come segue: La Russia ha messo gli occhi sul Kazakistan occidentale? Una tale formulazione della questione non sembra rappresentare del tutto la realtà attuale. Dal momento che la Russia ha già messo gli occhi sul Kazakistan occidentale, […]

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Il dilemma tra libertà e sicurezza


Temo che la disputa attorno alle intercettazioni sia molto male impostata. Perché se mi vogliono convincere dell’utilità delle intercettazioni nel combattere la criminalità, è uno sforzo vano: sono già convinto. Se mi vogliono convincere che intercettare

Temo che la disputa attorno alle intercettazioni sia molto male impostata. Perché se mi vogliono convincere dell’utilità delle intercettazioni nel combattere la criminalità, è uno sforzo vano: sono già convinto. Se mi vogliono convincere che intercettare sempre di più permetterebbe di combattere sempre meglio la criminalità, né più né meno, non obietto un solo istante.

Se mi vogliono convincere delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia per mettere in scacco i criminali, per esempio il famoso trojan, il malware attraverso il quale si intercetta anche se l’intercettato non parla al telefono e anche se il suo telefono è spento, credetemi: fatica sprecata. Tutto vero, tutto incontrovertibile.

Se, per esempio, si trovasse il modo di intercettare ognuno di noi, fino all’ultimo, per ventiquattro ore su ventiquattro, magari con il supporto dell’intelligenza artificiale, la questione sarebbe chiusa: diventeremmo una società perfettamente onesta, e i pochi imprudenti andrebbero a far compagnia a Messina Denaro in un quarto d’ora.

Avremmo perduto la libertà, ma avremmo guadagnato la sicurezza. Ed è questa la vera grande domanda: abbiamo costruito le società liberali e democratiche per garantire il massimo della libertà a ogni individuo o le abbiamo costruite per garantirgli il massimo della sicurezza?

Le abbiamo costruite per la libertà sapendo che la libertà è un rischio o le abbiamo costruite per non correre rischi? Perché se pensiamo di averle costruite per blindarci dentro un fortino inespugnabile, vuol dire che abbiamo dimenticato le ragioni dei nostri valori fondanti, ma almeno dobbiamo dircelo.

La Stampa

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Il ricatto nucleare di Putin non deve impedire la liberazione della Crimea


I notevoli successi militari dell’Ucraina nella seconda metà del 2022 hanno sollevato la prospettiva che l’invasione russa del Paese possa concludersi con una decisiva vittoria di Kiev. Mentre questo risultato sarebbe ampiamente accolto con favore, ci sono molti che rimangono allarmati per le potenziali conseguenze di una sconfitta così storica da parte della Russia. Queste […]

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USA: la cannabis è seconda causa di incidenti dopo l’alcool


Mentre l’alcol rimane la droga più frequentemente rilevata negli incidenti di guida con alterazione alla guida negli Stati Uniti, la cannabis si colloca al secondo posto ed è la sostanza più spesso rilevata in combinazione con l’alcol o altre droghe. Questa constatazione ha indotto il National Transportation Safety Board a raccomandare che i prodotti a […]

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Movimenti e politica


I Verdi, in Germania, sono al governo. Le elezioni sono andate bene e si trovano in coalizione con i liberali, nel governo guidato dal socialdemocratico Scholz. Nella stessa Germania i movimenti ecologisti protestano vivacemente e per la resistenza passiv

I Verdi, in Germania, sono al governo. Le elezioni sono andate bene e si trovano in coalizione con i liberali, nel governo guidato dal socialdemocratico Scholz. Nella stessa Germania i movimenti ecologisti protestano vivacemente e per la resistenza passiva, davanti a una miniera di carbone, la polizia ha fermato diversi attivisti, compresa Greta Thunberg, che era arrivata ad aiutarli, forte della visibilità che molti media e molti governanti le hanno tributato. La scena presenta, insomma, una protesta contro le decisioni del governo, che si traduce in: ecologisti contro Verdi. La cosa è meno strana e più interessante di quanto possa apparire.

Un movimento ecologista ha tutto il diritto non solo di manifestare, ma anche di occuparsi di un solo tema. Il che vale per qualsiasi altro movimento o protesta che si concentrino su un solo punto. Chi si batte per l’ambiente non è tenuto ad avere una tesi sull’umanità dei regimi carcerari e viceversa. Danno voce a una sola esigenza e non ha alcun senso chiedere loro coerenti visioni del mondo. Nella dialettica democratica si può ben essere interni al quadro istituzionale e avversi ai governanti, mentre questo esercizio è impossibile senza democrazia e Stato di diritto. Evviva la democrazia.

I Verdi tedeschi, del resto, come l’intero governo e l’intero mondo politico, hanno dato il via libera all’estrazione e uso del carbone non certo perché avessero cambiato idea o per promuovere un revival, ma perché non avevano altra scelta. Difatti è stato detto in maniera esplicita: lo facciamo oggi, ma smetteremo di farlo al più presto, confermando gli impegni per la decarbonizzazione. Impegni presi anche con quei movimenti ecologisti, il che riguarda anche l’Italia e l’intera Unione europea. La decisione di riutilizzare il carbone sarebbe incomprensibile, incoerente e pazzesca se non fosse che a febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina, per cui l’Ue, con le altre democrazie occidentali, ha importo pesanti sanzioni alla Russia.

In Germania il secondo gasdotto è stato abbandonato e ci si appresta a non comprare più il gas russo. Ma la società e la produzione tedesca (come la nostra e tutte) hanno comunque bisogno di energia, sicché si corre verso altre fonti e si tappa un buco temporaneo anche con il carbone. La scelta compiuta è dolorosa, ma saggia. La protesta ecologista è legittima. Il problema sta tutto in un punto dove si trova la responsabilità di garantire la compatibilità. Un movimento può sottrarsi a quel dovere, sebbene correndo il rischio di restare meramente declamatorio, ma la politica non può e non deve.

Il che vale per chi governa, ma dovrebbe valere anche per chi si oppone. Ed è qui che cascano molti asini politici. La politica seria elabora delle idee e cerca di aggregare il consenso su quelle. La politica non seria insegue il consenso adottando le idee che lo favoriscono. A forza di
praticare questo scostumato costume la politica ha preso la forma delle trasmissioni televisive: ora ci si occupa della violenza, sicché si reclamano controlli e repressione; poi c’è la pubblicità; quindi si volta pagina e ci si occupa della legittima difesa, sicché si chiede che chiunque possa avere un’arma e usarla; e se qualcuno obietta che le due cose non stanno assieme il conduttore lo mette a tacere: andiamo avanti, questo era l’argomento di prima.

A tale perversione se ne aggiunge un’altra: chi governa, volente o nolente, deve fare i conti con i fatti, ma chi sta all’opposizione si prende il lusso di ignorarli, sparandole grosse, purché siano “contro”. Risultato: quando vanno al governo gli tocca rimangiarsi tutto, magari negandolo nel mentre deglutiscono. I movimenti possono avere un solo tema e ignorare la compatibilità. La politica mai, altrimenti smette d’essere politica e diventa competizione fra vuoti vanesi sproloquianti. I Verdi tedeschi ci picchiano la testa, ma dovrebbe farlo chiunque abbia un briciolo di senso di responsabilità.

La Ragione

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REPORTAGE-PALESTINA. Nel cuore di Nablus c’è un campo di battaglia


La città vecchia più bella rivive gli anni della Seconda Intifada: sono ormai continui gli scontri notturni tra l’esercito israeliano e i combattenti palestinesi della Fossa dei Leoni. Tel Aviv prova a decapitare il gruppo, ma sempre più giovani si «arruo

di Michele Giorgio

(le foto sono di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Il traffico è quello caotico di tutti i giorni. Fabbriche, laboratori di artigiani e negozi sono aperti. Come fanno ogni mattina gli studenti dell’università al Najah a passo veloce raggiungono il campus e di pomeriggio affollano i caffè intorno all’ateneo riempiendo l’aria di suoni, parole, risate. Nablus sembra vivere una tranquilla quotidianità. È solo apparenza. La seconda città palestinese della Cisgiordania dalla scorsa estate vive in un clima di guerra, una guerra che si combatte soprattutto di notte e che non risparmia nessuno. Il campo di battaglia principale è la casbah, la città vecchia. Gli uomini delle unità speciali dell’esercito israeliano, i mistaravim in abiti civili che si fingono palestinesi, di notte con azioni fulminee aprono la strada ai blitz dei reparti dell’esercito a caccia di militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo che riunisce combattenti di ogni orientamento politico diventato l’icona della lotta armata palestinese. Incursioni che sono accompagnate da intensi scontri a fuoco e che terminano con uccisioni di palestinesi, compiute quasi sempre da cecchini.

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«Viviamo come se fossimo in guerra, con gli occupanti (israeliani) che entrano quasi ogni notte nella città per uccidere o catturare qualcuno e spesso a pagarne le conseguenze sono i civili» ci dice Majdi H., un educatore che ha accettato di accompagnarci. «La casbah è l’obiettivo principale di Israele – aggiunge – perché rappresenta il rifugio della resistenza. Però i raid avvengono ovunque e si trasformano in battaglia alla Tomba di Giuseppe». Majdi si riferisce alle «visite» notturne periodiche dei coloni israeliani al sito religioso all’interno dell’area A, sotto il pieno controllo palestinese. Il loro arrivo, con una scorta di dozzine di soldati e automezzi militari, innesca scontri a fuoco violenti con la Fossa dei Leoni. «Vogliano vivere la nostra vita, senza più vedere coloni e soldati ma non ci viene permesso» prosegue Majdi che da alcuni anni svolge, assieme ad altri colleghi, attività di sostegno psicologico ai minori. «Sono i più colpiti da questo clima – ci spiega -, bambini e ragazzi sono i più esposti ai danni che procura questa guerra, a bassa intensità ma pur sempre violenta». La situazione attuale, ricorda a molti l’operazione Muraglia di Difesa lanciata da Israele nel 2002, quando l’esercito, nel pieno della seconda Intifada, rioccupò le città autonome palestinesi. Calcolarono in circa 300 i morti palestinesi a Nablus attraversata e devastata per mesi da carri armati e mezzi blindati. Oggi come allora, i comandi militari e il governo israeliano giustificano il pugno di ferro con la «lotta al terrorismo» e alle organizzazione armate palestinesi responsabili di attacchi che in qualche caso hanno ucciso o ferito soldati e coloni.

La bellezza della casbah di Nablus è paragonabile solo a quella della città vecchia di Gerusalemme. I lavori di recupero avviati negli anni passati dalle autorità locali, grazie anche a progetti internazionali, hanno ridato nuovo splendore a edifici antichi e ad angoli nascosti. Gli hammam (bagni) che contribuiscono a rendere nota la città, sono stati ristrutturati così come le fabbriche di piastrelle e del sapone all’olio d’oliva e i laboratori a conduzione familiare che producono le gelatine ricoperte di zucchero a velo. «Ma la regina dei dolci di Nablus era e resta la kunafa» puntualizza Majdi riferendosi a una delle delizie della cucina palestinese. L’atmosfera è piacevole. Dopo la moschea al Khader si incontrano ristorantini con vasi fioriti e luci colorate che si riflettono sulla pietra bianca delle abitazioni. I commercianti espongono merci di ogni tipo e gli ambulanti a voce alta descrivono la bontà di frutta e verdura che hanno portato in città.

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Entrati nel rione Al Yasmin, Majdi si fa più serio e teso. «Siamo nella zona rossa, questa è la roccaforte della Fossa dei Leoni e di altri gruppi armati. Qui ci sono scontri a fuoco quasi ogni notte tra i nostri giovani e i soldati israeliani. Non puoi scattare foto e se incontriamo i combattenti, mi raccomando, non seguirli troppo a lungo con lo sguardo. Il timore di spie e collaborazionisti è forte» ci intima a voce bassa. Sopra le nostre teste, nei vicoli, sono stati stesi lunghi teli neri per nascondere ai droni israeliani i movimenti degli armati. I muri sono tappezzati di poster con i volti di martiri vecchi e nuovi, quelli uccisi durante la prima Intifada trent’anni fa e quelli colpiti a morte nelle ultime settimane. Una sorta di mausoleo ricavato in una piazzetta ne ricorda i più famosi, tra cui Ibrahim Nabulsi, che lo scorso agosto, circondato da truppe israeliane, preferì morire e non arrendersi. Nabulsi prima di essere colpito a morte inviò un audio alla madre virale per mesi. Per i palestinesi è un eroe. Per Israele invece il primo leader della Fossa dei Leoni era un «pericoloso terrorista» e tra i responsabili di gravi attacchi armati a soldati e coloni. I mistaravim israeliani hanno già decapitato un paio di volte i vertici della Fossa dei Leoni ma il gruppo vede crescere i suoi ranghi ogni giorno di più. Ne farebbero parte tra 100 e 150 abitanti di Nablus e dei villaggi vicini. Un paio di loro ci passano accanto, non possiamo fotografarli o fermarli per fare qualche domanda, ci ribadisce secco Majdi al quale nel frattempo si è unito Amer, un suo amico che vive nella casbah per garantirci un ulteriore «lasciapassare». L’uniforme degli armati è nera, il volto è coperto dal passamontagna, una fascia colorata con il logo del gruppo avvolge la parte superiore della testa. L’arma è quasi sempre un mitra M-16.

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Una «divisa» simile la indossano i membri del Battaglione Balata nel campo profughi più grande della città, noto anche per essere un bastione della resistenza alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese che tanti a Nablus, anche del partito Fatah del presidente Abu Mazen, ormai considerano «al servizio» di Israele. Le operazioni di sicurezza (repressive) a Nablus delle forze speciali dell’Anp sono la causa di proteste violente e le strade del centro cittadino si trasformano in terreno di scontro tra giovani e poliziotti. «Chiediamo, invano, da decenni la fine dell’occupazione israeliana, il problema principale di Nablus, di ogni città, di ogni palestinese» dice Osama Mustafa, direttore del centro culturale Yafa nel campo di Balata. «Ci abbiamo provato con gli accordi di Oslo, con i negoziati ma non è servito a nulla, restiamo sotto occupazione, le colonie israeliane ci circondano» aggiunge Mustafa. «Israele afferma che la sua pressione su Nablus è dovuta alla presenza in città di uomini armati e attua misure punitive che colpiscono tutta la popolazione». La frustrazione è palpabile, l’esasperazione per il disinteresse dei paesi occidentali deteriora il rapporto con l’Europa. «Al centro Yafa svolgiamo attività culturali e a favore dell’infanzia» spiega Mustafa «sono progetti civili, quasi sempre per i bambini. Eppure, per assegnarci i finanziamenti l’Ue chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo». Pagine Esteri

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Ucraina: 6 domande che i generali occidentali non sembrano mai porsi, ma dovrebbero farlo oggi


Quando i massimi funzionari della difesa statunitensi ed europei si incontreranno oggi alla base aerea di Ramstein in Germania per discutere della guerra in Ucraina, la questione più importante all’ordine del giorno sarà come la coalizione può continuare a fornire all’Ucraina sistemi d’arma più sofisticati. Nello specifico, il gruppo di contatto ucraino, un’assemblea formale di […]

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Il presidente della Fondazione Einaudi ospite di Prato Riparte – notiziediprato.it


L’appuntamento è per lunedì prossimo all’ex chiesino di San Giovanni. L’avvocato Giuseppe Benedetto presenterà il suo libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” I vertici della Fondazione Luigi Einaudi a Prato, ospiti del laboratorio po

L’appuntamento è per lunedì prossimo all’ex chiesino di San Giovanni. L’avvocato Giuseppe Benedetto presenterà il suo libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”

I vertici della Fondazione Luigi Einaudi a Prato, ospiti del laboratorio politico Prato Riparte. Nuovo evento organizzato nell’ex chiesino San Giovanni per lunedì 23 gennaio alle ore 19, ed è un nuovo evento che alza il tiro del laboratorio che porta in città il presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto che presenterà il suo libro “Non diamoci del tu – La separazione delle carriere” con prefazione dell’attuale Ministro della Giustizia Carlo Nordio. E con lui ci saranno Andrea Cangini, Benedetta Frucci e Marco Mariani, rispettivamente Segretario generale, membro del Comitato scientifico e Direttore affari Europei della stessa Fondazione Einaudi. E’ opportuno ricordare che la Fondazione Luigi Einaudi è il centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale. E’ stata costituita nel 1962 da Giovanni Malagodi. Come vision si impegna perché ogni cittadino sia in condizione di vivere, di crescere, di rapportarsi con gli altri e di prosperare in pace, attraverso il riconoscimento delle diversità, la difesa delle libertà individuali e della dignità umana, la promozione del confronto libero e costruttivo sui fatti e le idee. Come mission ha quella di promuove il liberalismo per elaborare risposte originali alla complessità dei problemi contemporanei legati alla globalizzazione e alla rapida evoluzione tecnologica, al fine di favorire le Libertà individuali e la prosperità economica.

Proprio la settimana scorsa l’avvocato Giuseppe Benedetto, insieme ad Alessandro De Nicola, Oscar Giannino e Sandro Gozi, è stato tra gli organizzatori dell’iniziativa Costituente Libdem, tenutasi a Milano nell’auditorium San Fedele, con l’incontro dal titolo “Le sfide della liberaldemocrazia in Europa. Come rafforzare Renew Europe e Partito democratico europeo”. Un evento al quale hanno partecipato i leader dei principali partiti italiani che rientrano nel campo liberale riformista, a cominciare da Carlo Calenda e Matteo Renzi, rispettivamente segretari di Azione e Italia Viva ma che ha visto anche le presenze di Benedetto Della Vedova (Più Europa), Giulia Pastorella, Maria Stella Gelmini, Marco Cappato e molti altri esponenti del mondo della politica, delle istituzioni, dell’università e della cultura. Un evento che, riportato su un piano nazionale, altro non è stato che una riproposizione in grande di quello che Prato Riparte sta portando avanti da quasi due anni in città.

notiziediprato.it

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Separazione delle carriere, ecco il dibattito – lanazione.it


Lunedì i vertici della Fondazione Einaudi all’ex chiesino di San Giovanni. Iniziativa di Prato riparte Si parlerà della separazione delle carriere nel sistema giudiziario lunedì prossimo, 23 gennaio, all’ex chiesino di San Giovanni. L’occasione è data d

Lunedì i vertici della Fondazione Einaudi all’ex chiesino di San Giovanni. Iniziativa di Prato riparte

Si parlerà della separazione delle carriere nel sistema giudiziario lunedì prossimo, 23 gennaio, all’ex chiesino di San Giovanni.
L’occasione è data dall’iniziativa promossa dal laboratorio politico Prato Riparte, che ha invitato in città i vertici della Fondazione Luigi Einaudi. Stiamo parlando del centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale. L’appuntamento sul
retro del Castello dell’Imperatore è per le 19. Presente il presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto che presenterà il suo libro «Non diamoci del tu – La separazione delle carriere» con prefazione dell’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Ad affiancare Benedetto ci saranno Andrea Cangini, Benedetta Frucci e Marco Mariani, rispettivamente segretario generale, membro del
comitato scientifico e direttore affari europei della stessa Fondazione. A moderare il dibattito saranno i giornalisti Nadia Tarantino
di Notizie di Prato e Pasquale Petrella de Il Tirreno.

La Fondazione Einaudi è stata costituita nel 1962 da Giovanni Malagodi e da decenni si impegna affinché ogni cittadino sia in condizione di vivere, di crescere, di rapportarsi con gli altri e di prosperare in pace, attraverso il riconoscimento delle diversità, la difesa delle libertà individuali e della dignità umana, la promozione del confronto libero e costruttivo sui fatti e le idee. Prato Riparte nell’annunciare la serata sottolinea come il laboratorio politico abbia «alzato il tiro» nel livello delle iniziative organizzate. E ricorda come proprio la settimana scorsa l’avvocato Giuseppe Benedetto sia stato tra gli organizzatori dell’iniziativa «Costituente Libdem». Un incontro al quale hanno partecipato
alcuni leader politici del campo liberale riformista.

lanazione.it

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Come allentare le regole europee sugli aiuti di Stato senza frammentare il mercato unico. È il dilemma che serpeggia tra le capitali europee divise sul da farsi.


CINA. Il Covid colpisce duro il paese ma l’economia riparte


Intervista a Michelangelo Cocco, giornalista a Shanghai e analista del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. Con lui Pagine Esteri ha fatto il punto su quanto accade nel grande paese asiatico con la fine delle restrizioni anti-Covid e l'aumento vertigino

di Michele Giorgio

(la foto è di Tim Dennell)

Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Sono milioni i contagi in Cina che conta nell’ultimo mese decina di migliaia di morti per il Covid, cifre mai toccate durante la pandemia e risultato oltre che del fallimento della campagna vaccinale cinese anche della fine delle rigide restrizioni ai movimenti e contatti sociali imposte dalle autorità nei passati tre anni. Ma le riaperture allo stesso tempo rilanciando quella che è considerata l’economia motore del mondo. Dopo il netto arretramento registrato nel 2022, quest’anno gli indici economici cinesi segneranno livelli di crescita significativi. Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco*, giornalista a Shanghai e analista del Centri Studi sulla Cina Contemporanea.

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4921449*Giornalista professionista, China analyst, scrivo per il quotidiano Domani. Ho pubblicato “Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci, 2022), e “Una Cina perfetta – La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020). Habitué della Repubblica popolare dal 2007, ho vissuto a Pechino nel 2011-2012, corrispondente per il quotidiano il manifesto nello scoppiettante e nebbioso crepuscolo della tecnocrazia di Hu Jintao & Co. Sono rientrato in Cina nel gennaio 2018, anno I della Nuova era di Xi Jinping, quella in cui il Partito-Stato regalerà a tutti “una vita migliore” e costruirà “un grande paese socialista moderno”. Racconto storie, raccolgo dati e cito fatti evitando di proiettare le mie ansie e le mie (in)certezze su un popolo straordinario che se ne farebbe un baffo.

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Etiopia: dopo 600 mila morti una pace molto fragile


Due anni di guerra potrebbero aver provocato in Tigray circa 600 mila morti. Dopo il cessate il fuoco la situazione migliora ma la pace è molto fragile. Pesa l'incognita Eritrea. Nel frattempo si riaccendono i combattimenti in Oromia L'articolo Etiopia:

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 19 gennaio 2023 – Probabilmente, un bilancio esatto delle vittime del conflitto che ha insanguinato il nord dell’Etiopia negli ultimi due anni non sarà mai disponibile. Ma quelli forniti finora da diverse fonti parlano tutti di alcune centinaia di migliaia di morti.
In un’intervista al “Financial Times”, ad esempio, il mediatore dell’Unione Africana sul conflitto in Tigray, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, afferma che in due anni di guerra potrebbero essere morte fino a 600 mila persone.
Obasanjo ha ricordato che lo scorso 2 novembre, quando a Pretoria i funzionari etiopi hanno firmato un accordo di pace con i rappresentanti della guerriglia tigrina, i partecipanti alle trattative hanno parlato di una media di mille morti al giorno nei due anni di scontri tra l’esercito federale di Addis Abeba – e le milizie regionali alleate – e le forze del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino (Tplf).
«Sulla base dei rapporti dal campo, il numero di morti potrebbe essere compreso tra 300 mila e 400 mila solo tra le vittime civili causate dalle atrocità, dalla fame e dalla mancanza di assistenza sanitaria» ha detto sempre al “Financial Times” Tim Vanden Bempt, membro del gruppo di ricercatori attivo all’Università belga di Gand che indaga sulle conseguenze del conflitto.

Due anni di guerra e centinaia di migliaia di vittime
I combattimenti hanno avuto inizio il 4 novembre 2020, quando il primo ministro federale Abiy Ahmed ordinò l’intervento delle truppe etiopi contro le milizie del governo regionale del Tigray che poche ore prima avevano assaltato alcune caserme. A fianco di Ahmed – riconfermato nonostante la scadenza del suo mandato dopo la sospensione delle elezioni legislative a causa della pandemia – si schierarono anche le truppe dell’Eritrea e le milizie di alcuni stati regionali etiopi, come l’Amhara. Al fianco del TPLF – che aveva a lungo gestito il potere a livello federale prima di essere estromesso dalla corrente panetiopista capeggiata da Ahmed – si è schierato invece l’Esercito di Liberazione Oromo, che pur rappresentando l’etnia alla quale appartiene il primo ministro si batte per l’autodeterminazione del proprio territorio.

Per alcuni mesi sembrò che le truppe federali e gli eritrei – nemici storici di Addis Abeba prima che nel 2018 Ahmed siglasse la pace con il regime di Asmara aggiudicandosi un Nobel per la Pace – fossero in grado di sbaragliare le forze ribelli. Ma poi un’offensiva congiunta di tigrini e Oromo ha inflitto cocenti sconfitte alle truppe federali tanto che ad un certo punto i ribelli sembravano in grado di conquistare addirittura la capitale federale dopo aver conquistato ampie porzioni dell’Amhara e dell’Afar, nel centro-nord del paese.

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L’Etiopia cerca nuovi alleati
Mentre Usa e Ue, ex sostenitori di Addis Abeba, imponevano sanzioni all’Etiopia, in soccorso di Abiy Ahmed si sono schierati Cina, Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, fornendo armi, supporto diplomatico e ingenti prestiti. Nel luglio 2021 l’Etiopia ha firmato con Mosca un accordo che impegna la Russia a fornire addestramento e tecnologie d’avanguardia per riorganizzare l’esercito di Addis Abeba. In cambio Mosca ha ottenuto un trattamento di favore nell’acquisizione di licenze per estrazioni minerarie ed energetiche.
Negli ultimi anni Ahmed ha rafforzato molto il legame con Pechino, che ha nel frattempo finanziato e realizzato decine di opere pubbliche e infrastrutture nel paese, compreso il treno che collega la capitale etiope con Gibuti, preso più volte di mira dal Tplf, e la Grande Diga della Rinascita.
Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, nell’ambito di un lungo tour africano, ha firmato con l’omologo etiope Demeke Mekonnen diversi accordi bilaterali, tra i quali la cancellazione di una porzione consistente del debito etiope con Pechino (negli ultimi 10 anni la Cina ha prestato ad Addis Abeba 14 miliardi). Pechino ha confermato l’impegno per la realizzazione del Centro Africano per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc, l’agenzia sanitaria dell’Unione Africana), la cui sede – interamente finanziata dalla Cina con 80 milioni – sorgerà ad Addis Abeba.

Sono stati soprattutto i droni da bombardamento ricevuti dagli alleati – i cinesi Wing Loong 2, i turchi Bayraktar Tb2 e gli iraniani Mujaher-6 – a permettere alle truppe federali di infliggere dure sconfitte al Tplf costringendolo ad arroccarsi nel Tigray e a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale. Le forze federali hanno ampiamente fatto ricorso ai bombardamenti indiscriminati sulle città tigrine, colpendo duramente la popolazione già stremata.

Una pace molto fragile
Una lunga e difficile trattativa, mediata dall’Unione Africana, ha finalmente portato alla firma del cessate il fuoco e alla stesura di un’agenda condivisa per un ritorno alla normalità.
Nelle ultime settimane sono stati indubbiamente fatti dei passi avanti. Ieri, ad esempio, le truppe federali sono entrate ad Adigrat, a lungo controllata dal Tplf. Nei giorni scorsi, invece, sono state le milizie amhara a ritirarsi da Scirè, nel Tigray occidentale, ottemperando agli impegni assunti in sede negoziale. Già a fine dicembre la polizia federale etiope era tornata a schierarsi a Mekelle, la capitale del Tigray, dopo due anni di assenza.
Il 10 gennaio, poi, le forze tigrine hanno iniziato a consegnare le armi pesanti sotto il monitoraggio di un apposito team dell’Unione Africana istituito grazie all’accordo raggiunto dalle parti a Nairobi lo scorso 22 dicembre. Il team, in coordinamento con i rappresentanti dei due schieramenti e l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (Igad, che riunisce 8 paesi del Corno d’Africa) è incaricato di monitorare l’applicazione dell’accordo di cessazione delle ostilità e di segnalare ritardi e violazioni.
Nel frattempo, la ministra della Salute Lia Tadesse ha annunciato la riattivazione delle strutture sanitarie distrutte o paralizzate dal conflitto, la distribuzione dei medicinali salvavita e l’avvio delle vaccinazioni contro il morbillo. Anche gli aeroporti di Mekelle e Scirè sono stati riaperti ed alcuni voli hanno riportato nella regione alcuni degli abitanti che erano dovuti fuggire a causa dei combattimenti o delle persecuzioni.

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Guerriglieri del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino

Disastro umanitario
Nella regione stanno arrivando anche, seppure a rilento, gli aiuti internazionali destinati alla popolazione, in precedenza bloccati quasi completamente dal governo federale.
Nel Tigray «si stima che 9 persone su 10 abbiano bisogno di assistenza umanitaria e 400mila circa siano vittime di una pesante carestia aggravata dal fatto che l’arrivo di aiuti umanitari è ancora limitato» scrive in un rapporto il Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani.
La siccità, oltre alla paralisi dell’economia locale, alla distruzione di molte infrastrutture e all’abbandono dei campi da parte degli sfollati, hanno causato in Tigray un vero e proprio disastro umanitario. Anche in altre regioni aride del paese, nel sud, le cose non vanno meglio: secondo Save the Children, attualmente 12 milioni di persone (su 115 milioni di abitanti totali) patirebbe la fame e 4 milioni di bambini sarebbero malnutriti.

L’incognita eritrea
Quella raggiunta il 2 novembre a Pretoria rischia di essere una pace incerta e provvisoria.
L’incognita maggiore è rappresentata dalla presenza in Tigray delle truppe eritree, negata per mesi sia da Abiy Ahmed sia dal dittatore di Asmara Isaias Afewerki, prima che la presenza di almeno metà dell’esercito del piccolo paese – resosi indipendente da Addis Abeba nel 1993 dopo una sanguinosa guerra durata due decadi – diventasse troppo ingombrante per continuare a nasconderla.
L’Eritrea rappresenta il “convitato di pietra” dell’accordo di cessate il fuoco permanente – alla quale non ha preso parte – e l’atteggiamento di Afewerki potrebbe rappresentare un ostacolo non secondario alla normalizzazione della situazione. Finché tutte le truppe eritree non avranno abbandonato il territorio tigrino, infatti, le milizie del Fronte di Liberazione difficilmente potranno disarmare. Al momento, il Tplf manterrebbe 20 mila miliziani armati schierati nelle zone di confine del Sudan.
Secondo Obasanjo e vari testimoni sul campo, gli eritrei avrebbero cominciato a rientrare lentamente in patria abbandonando ad esempio Axum e Scirè.
Ma ancora a gennaio il Centro di Coordinamento regionale per le emergenze – un gruppo di organizzazioni attive nel Tigray – ha denunciato le ennesime atrocità commesse dalle forze di Asmara contro i civili tigrini e contro gli oppositori di Afewerki che si erano rifugiati nella regione al confine con l’Eritrea.
Nei giorni scorsi molti dei 16 mila tigrini ospitati nel campo di Um Rakuba, nel Sudan orientale, hanno denunciato di non poter tornare a casa perché il loro territorio, nel Tigray occidentale, è occupato dalle milizie e da coloni Amhara o da soldati eritrei.
Secondo fonti tigrine citate dall’Avvenire, alla fine di novembre le truppe eritree avrebbero ucciso «3000 persone in una località a pochi km da Adua, 78 ad Adiabo e 85 nella provincia di Irob».
Nella regione, accusano sempre fonti tigrine, circa 120 mila donne sarebbero state violentate dai soldati etiopi ed eritrei e dai miliziani Amhara. Anche i guerriglieri del Tplf, però sono stati spesso accusati di atrocità nei confronti delle popolazioni delle regioni occupate durante l’offensiva contro Addis Abeba.

Difficilmente Afewerki – che arma milizie tigrine opposte al Tplf – rinuncerà a indebolire ulteriormente il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che guidava l’Etiopia durante la guerra per l’indipendenza dell’Eritrea.
Anche se finora ha rappresentato un utile alleato del leader etiope, il regime di Asmara potrebbe tentare di rimanere nel Tigray anche senza il consenso di Abiy Ahmed. Numerosi analisti si interrogano sull’effettiva capacità del governo etiope di costringere i combattenti eritrei ad andarsene. Ne potrebbero nascere nuovi scontri, questa volta tra i due paesi prima rivali e poi alleati.

Oppure, il premier etiope potrebbe tacitamente tollerare o addirittura sollecitare la permanenza delle truppe eritree in Tigray per garantirsi il controllo del territorio e al tempo stesso permettere all’esercito federale di concentrare le proprie forze contro la ribellione Oromo, che nelle ultime settimane sembra incendiarsi.

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La ribellione Oromo
Mentre a nord si raffreddava il sanguinoso conflitto con i tigrini, Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva su vasta scala per distruggere le milizie dell’Esercito di Liberazione Oromo, che si batte per l’autodeterminazione della regione più vasta e popolosa dello stato (gli Oromo sono circa il 40% della popolazione totale) e la cui insurrezione si è recentemente estesa grazie all’indebolimento delle forze federali impegnate in Tigray. Anche in questo caso l’esercito federale sta facendo ampio uso dei droni sia contro le milizie dell’OLA che contro la popolazione civile. La stessa “Commissione per i diritti umani” di Addis Abeba ha documentato numerose esecuzioni sommarie compiute dalle truppe governative. D’altra parte l’OLA ha preso di mira gli Amhara che vivono nella regione mentre migliaia di Oromo sono stati cacciati o uccisi nelle regioni circostanti.
La situazione si sta «rapidamente deteriorando», ha avvisato l’agenzia di coordinamento degli aiuti dell’ONU. Centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case e i servizi essenziali sono sospesi.
I rappresentanti Oromo che sostengono il governo federale chiedono ora al governo di implementare un accordo di pace simile a quello adottato per il Tigray, invocando la mediazione dell’Unione Africana, e accusano Abiy Ahmed di aver esacerbato le contraddizioni etniche nel paese. – Pagine Esteri

4921179* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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L’Italia alla guerra in Ucraina. Crosetto: “Schiereremo scudo missilistico in Slovacchia”


Si tratta di un sistema missilistico progettato e realizzato dal consorzio europeo Eurosam formato da MBDA Italia, MBDA Francia e Thales. L'articolo L’Italia alla guerra in Ucraina. Crosetto: “Schiereremo scudo missilistico in Slovacchia” proviene da Pag

AGGIORNAMENTO DI ANTONIO MAZZEO

Pagine Esteri, 14 gennaio 2023 – L’Esercito italiano schiererà in Slovacchia una batteria del sistema missilistico terra-aria SAMP-T di produzione italo-francese. Lo ha dichiarato in un’intervista all’agenzia ADNKronos il ministro della difesa Guido Crosetto. “Ho letto ricostruzioni giornalistiche, sul tema Samp-t, totalmente inventate; il Governo non ha ricevuto alcuna pressione da nessuno, in relazione agli aiuti all’Ucraina, tantomeno dagli Stati Uniti”, ha esordito Crosetto. “Nella telefonata odierna con il Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin si è parlato del sistema che l’Italia fornirà per sostituire la batteria americana in Slovacchia”.

Nello specifico si tratterà di una batteria antiaerea/antimissile SAMP-T che rimpiazzerà la batteria di missili Patriot di US Army che verrà trasferita in Germania per essere sottoposta a manutenzione.
Il SAMP/T è stato sviluppato a partire dai primi anni 2000 nell’ambito del programma di cooperazione militare-industriale italo-francese FSAF (Famiglia di Sistemi Superficie Aria).
“Il SAMP/T nasce dall’esigenza di disporre di un sistema missilistico a media portata idoneo a operare in nuovi scenari operativi, prioritariamente caratterizzati da ridotti tempi di reazione contro la minaccia aerea ed elevata mobilità”, spiega lo Stato maggiore dell’Esercito. “L’attuale versione del SAMP/T ha capacità di avanguardia nel contrasto delle minacce aeree e dei missili balistici tattici a corto raggio”.
Il sistema missilistico è stato progettato e realizzato dal consorzio europeo Eurosam formato da MBDA Italia, MBDA Francia e Thales. Fa uso del missile Aster 30, dotato di un raggio d’azione di 100 km per l’intercettazione di aerei e 25 km per quella dei missili. Le batterie sono costituite da lanciatori con un numero variabile da 8 a 48 missili.
L’Esercito italiano ha in dotazione 5 batterie SAMP/T, operative dal 2013. Esse sono state impiegate fra il 2015 ed il 2016 a Roma per la sorveglianza dei cieli della Capitale in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia; contemporaneamente una seconda batteria ha operato in Turchia nell’ambito dell’operazione NATO “Active Fence” dal giugno 2016 al dicembre 2019, nei pressi della città di Kahramanmaras, sul confine sud-est dell’Alleanza Atlantica, “contro missili balistici tattici provenienti dal territorio siriano”.
Una batteria di missili terra-aria è attualmente schierata in Kuwait nell’ambito dell’Operazione “Inherent Resolve” a guida statunitense, contro le milizie dell’ISIS in territorio iracheno e siriano.
Con il trasferimento del SAMP/T in Slovacchia, le forze armate italiane portano a cinque le missioni in Europa orientale in ambito NATO dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Oggi i reparti di pronto intervento dell’Esercito sono presenti in Lettonia, Bulgaria e Ungheria, mentre 4 cacciabombardieri dell’Aeronautica Militare operano dalla base di Costanza, Romania. Pagine Esteri

LEGGI GLI APPROFONDIMENTI DI ANTONIO MAZZEO SULL’IMPEGNO ITALIANO NELL’EUROPA DELL’EST

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pagineesteri.it/2023/01/11/in-…

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