La fine della guerra russo-ucraina è in vista?
L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata il 24 febbraio 2022. Un anno dopo l’inizio della guerra, il mistero che circonda il suo corso è più intenso che mai. Nei primi sei mesi di guerra la Russia ha avuto l’iniziativa e le domande chiave erano quando, dove e che tipo di successo avrebbe ottenuto negli attacchi alla […]
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Ucraina: CEDU, l’invasione russa è iniziata nel 2014
Il 25 gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha stabilito che le cause intentate da Ucraina e Paesi Bassi contro la Russia erano ammissibili. Questa decisione intermedia è un’importante pietra miliare legale nella ricerca di giustizia sull’aggressione russa contro l’Ucraina, in quanto riconosce che parti dell’Ucraina orientale sequestrate dai cosiddetti separatisti nella primavera […]
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Primati e record. A Firenze si celebrano i primi 100 anni dell’Arma azzurra
Studiare il passato permette di guardare al presente e di immaginare il futuro. Così il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, generale Luca Goretti, ha aperto le celebrazioni per i cento anni dell’Arma azzurra, nel corso del Simposio storico per il Centenario presso il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze. Un iniziativa che ha ripercorso insieme a esperti del mondo militare, accademico e giornalistico i passaggi più importanti della storia del volo e, soprattutto, dell’evoluzione della Forza armata, dalla sua fase pionieristica alla nascita a seguito dell’impiego durante la Grande guerra, passando per i primati del primo dopoguerra e i sacrifici della Seconda guerra mondiale, fino alle missioni internazionali di oggi, con uno sguardo rivolto alla dimensione aerospaziale e cyber.
Cento anni di storia
La nascita dell’Aeronautica militare è stata “un articolato processo di trasformazione scaturito dall’importanza dell’impiego del mezzo aereo nella Prima guerra mondiale”, ha infatti ricordato Goretti, segnalando come l’Italia sia stata tra le prime nazioni al mondo, insieme a Regno Unito, Australia e Polonia, a organizzare una Forza armata aera autonoma da Esercito e Marina. “Un secolo di storia, dai primordi dell’aviazione fino all’esplorazione dell’aerospazio” durante il quale l’Aeronautica è sempre stata protagonista delle vicende del Paese, dai conflitti del Novecento, alle missioni di pace del dopoguerra, “fino alla difesa dei cieli dell’Alleanza fin dalla prima notte dello scoppio della guerra in Ucraina”. La storia, come ha ribadito ancora Goretti “non può essere dimenticata”, e dall’Ucraina arriva un chiaro esempio della sua importanza. “Come mi ha raccontato un collega polacco – ha descritto Goretti – gli ucraini vogliono vincere la guerra perché, a differenza degli occidentali, hanno visto il muro di Berlino anche dall’altra parte, e non vogliono tornarci”. Questo esempio, per il comandante dell’Arma azzurra, deve essere un elemento di riflessione sull’impegno che tutte le Forze armate danno per difendere le libertà delle nostre società.
I primordi del volo
Dopo un primo panel dedicato alla storia antica del volo, dagli studi di Leonardo da Vinci all’invenzione dell’aeroplano vero e proprio dei fratelli Wright, durante il quale si sono confrontati Alessandro Barbero, professore presso l’università del Piemonte orientale, Alberto Angela, naturalista, paleontologo ed uno dei più noti divulgatori scientifici del Paese, Roberta Barsanti, direttrice del Museo e della Biblioteca leonardiani di Vinci e il primo maresciallo Michele Palumbo, del Reparto sperimentale di volo di Pratica di Mare, si è entrati nel vivo delle celebrazioni del Centenario ricordando i primissimi passi dell’Arma azzurra.
Una nuova Forza armata
“Per noi il 28 marzo del 1923 (data ufficiale della nascita dell’allora Regia aeronautica) è una data di inizio, allora la vedevano probabilmente come la fine del periodo pionieristico, iniziato in Libia nel 1911 e sviluppato durante la Prima guerra mondiale”. Così lo storico e giornalista Gregory Alegi ha raccontato i primi momenti dell’Aeronautica quale Forza armata indipendente nel secondo panel della giornata moderato dal direttore delle riviste Formiche e Airpress, Flavia Giacobbe. Un momento cruciale nella vita dell’Arma azzurra, dove bisogna ancora costruire tutto. “Costruire una Forza armata vuol dire organizzare in maniera strutturata mezzi, uomini, procedure, materiali in maniera completamente nuova” ha infatti spiegato il generale Alberto Rosso, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica fino al 2021, ricordando come “i primi anni della Regia aeronautica non sono rose e fiori”. Serviranno infatti sette mesi per nominare un comandante generale (che diventerà poi il capo di Stato maggiore) e la Bandiera di guerra verrà consegnata solo a novembre.
Record e primati
Oltre alle difficoltà, è però anche l’epoca dei grandi primati e dei record. “L’Italia, e l’Aeronautica, sono protagoniste dei quotidiani, dei periodici nazionali e internazionali” ha raccontato Vincenzo Grienti, giornalista e storico, ricordando il fervore e l’ammirazione che le imprese aviatorie suscitano sull’opinione pubblica. La vittoria del capitano Mario de Bernardi nella coppa Schneider del 1926, il primato di velocità del maresciallo Francesco Agello, quello d’altezza del tenente colonnello Mario Pezzi, fino ad arrivare alle trasvolate di massa di Italo Balbo. Una stagione straordinaria, che si attutirà solo quando le necessità operative sposteranno l’attenzione sui conflitti, dall’Etiopia, alla Spagna, fino alla guerra mondiale “Budget e risorse limitate spostano l’attenzione sulle operazioni”, ha spiegato infatti Rosso. Le esperienze fatte con i primati, però forniranno la base per la formazione e l’impiego dei piloti militari anche dopo il termine di quella stagione, ha raccontato ancora Alegi, ma purtroppo la guerra interromperà uno sviluppo armonico della Forza armata presa dalle esigenze della guerra.
Il Brasile di Lula si allontanerà dall’Occidente?
Joe Biden ha promesso di avvicinare Brasile e America. “Entrambe le nostre democrazie sono state messe alla prova negli ultimi tempi”, ha detto Biden ai giornalisti la scorsa settimana incontrando per la prima volta il presidente Lula da Silva. I due leader erano sulla “stessa linea”, ha detto Biden. Ma quel sentimento non è del […]
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Sentenza Berlusconi: ‘Ruby ter’, un processo che non si doveva fare
‘Il fatto non sussiste’. Queste parole si ripetono con sempre maggiore frequenza nelle aule di tribunale. Già sarebbe poco accettabile se queste quattro parole fossero contenute in sentenze rapide, emesse dopo qualche giorno, dopo qualche settimana dal presunto ‘fattaccio’ che origina indagine e processo. No invece: tocca attendere mesi, anni, quando si è fortunati non […]
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Pubblicata #ThePETGuide, la guida dell' ONU sulle tecnologie di miglioramento della #privacy per operare statistiche ufficiali
Agli Uffici nazionali di statistica (NSO) sono affidati dati che hanno il potenziale per guidare l'innovazione e migliorare i servizi nazionali, la ricerca e i benefici sociali. Tuttavia, c'è stato un aumento delle minacce informatiche sostenute, reti complesse di intermediari motivati a procurarsi dati sensibili e progressi nei metodi per reidentificare e collegare i dati a individui e tra più fonti di dati. Le violazioni dei dati erodono la fiducia del pubblico e possono avere gravi conseguenze negative per individui, gruppi e comunità.
Le statistiche ufficiali sono una fonte attendibile di informazioni per i governi di tutto il mondo per prendere decisioni informate e basate sui dati. Pertanto, l'ampiezza delle informazioni viene raccolta da una serie di fonti di dati come indagini sulle famiglie e sulle imprese, censimenti della popolazione, economici o agricoli, una varietà di registri amministrativi o persino dati del settore privato. Tali fonti di dati sono gli input per la compilazione di statistiche e indicatori sull'economia, l'ambiente e la società. In molti modi, le statistiche ufficiali offrono un'istantanea dello sviluppo e del tasso di progresso di un paese. Naturalmente, quanto più dettagliato è il livello dei dati di input, tanto più sfumate possono essere le statistiche ufficiali. Tuttavia, la raccolta, il trattamento e la diffusione di dati spesso sensibili devono proteggere la privacy delle persone e delle imprese. Inoltre, considerando gli uffici nazionali di statistica (NSO) come parte degli ecosistemi di dati nazionali e internazionali, gli NSO potrebbero potenzialmente condividere molti più dati se in grado di proteggere la loro privacy. Questo inevitabile compromesso è il fulcro di questo documento, o più concisamente: come possiamo utilizzare la tecnologia per mitigare i rischi per la privacy e fornire garanzie dimostrabili sulla privacy durante l'intero ciclo di raccolta, elaborazione, analisi e distribuzione di informazioni potenzialmente sensibili.Questo documento esplora gli attuali approcci alla protezione dei dati (ad esempio, l'anonimizzazione dei dati, il calcolo delle parti di input, i controlli e gli accordi contrattuali) e le relative limitazioni. Al fine di facilitare la sperimentazione su progetti pilota e una collaborazione efficace su casi d'uso del "mondo reale", il Task Team delle tecniche di tutela della privacy delle Nazioni Unite ha fondato il laboratorio PET delle Nazioni Unite.
Vengono introdotte due grandi categorie di PET (ad es. privacy di input, privacy di output), tra cui calcolo multipartitico sicuro, crittografia omomorfica, privacy differenziale, dati sintetici, apprendimento distribuito, zero-knowledge proof e ambienti di esecuzione attendibili.
Vengono presentati studi di casi dettagliati che comprendono una vasta gamma di casi d'uso in tutti i settori, sfruttano combinazioni di PET e coinvolgono la collaborazione tra le parti (come più NSO che lavorano insieme, NSO che lavorano con altre agenzie governative e NSO che lavorano con organizzazioni del settore privato). Quindici casi di studio descrivono implementazioni che si trovano nella fase concettuale o pilota e tre che sono state implementate in ambienti di produzione.
Questo documento fornisce una panoramica delle attività di definizione degli standard e identifica diversi nuovi standard rilevanti per il trattamento dei set di dati, compresi gli standard in fase di sviluppo e alcuni che sono un prodotto del principio di precauzione applicato alla definizione degli standard per l'intelligenza artificiale (IA).
Data l'espansione dell'attività che si occupa di PET e il contesto in cui possono essere applicati, gli standard sono presentati in due parti. La prima identifica gli standard essenziali con sezioni sulla crittografia e sulle tecniche di sicurezza. Il secondo considera gli standard indirettamente correlati che potrebbero influenzare l'ambiente - tecnico e organizzativo - in cui i PET possono essere implementati, con argomenti secondari su cloud computing, big data, governance, intelligenza artificiale e qualità dei dati. Per coloro che sono interessati al "quadro più ampio", è disponibile una sezione aggiuntiva sugli standard correlati.
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Ruby ter e la differenza tra Stato etico e Stato di diritto
Mi incarico, a beneficio del povero lettore perduto fra Ruby, Ruby bis e Ruby ter, nemmeno fosse una delle saghe tribunalizie attorno alle molte stragi della nostra storia, di offrire una sintesi ruvida ed estrema: l’amore mercenario non è reato. E processare un uomo perché paga per il proprio soddisfacimento, è iniziativa da giustizia di ispirazione iraniana, dove il peccato si confonde col delitto. Ne è seguita una decina abbondante di anni saturi di ridicolo, fra nipoti di Mubarak, cene eleganti, sicurezza nazionale, scandalo internazionale, in cui tutti, a destra e a sinistra, hanno trasformato un affare di Stato in un cinepanettone. O un cinepanettone in un affare di Stato, vedete voi.
Ma c’è un punto sul quale tocca soffermarsi: il cavillo. Molti ieri hanno parlato e scritto di un’assoluzione per vizio di forma, dimenticando una volta di più che la forma è sostanza, e soprattutto se si parla d’amministrazione della giustizia. E cioè, Silvio Berlusconi è stato assolto poiché non si sono potuti utilizzare i verbali delle ragazze, sentite da testimoni anziché da indagate, come invece era necessario. Ora questo viene chiamato cavillo. Ma un testimone se mente rende falsa testimonianza, un indagato invece no, gli è permesso mentire (i codici non sono moralisti, a differenza di chi spesso li governa). Inoltre un testimone è considerato pubblico ufficiale, e la corruzione c’è se c’è un pubblico ufficiale. Se non è testimone ma indagato, niente pubblico ufficiale, niente corruzione. Un cavillo che non cambierà in nessuno di noi il giudizio su Berlusconi, ma stabilisce la differenza fra Stato etico e Stato di diritto.
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Presentata la proposta di ASAS per le piccole e medie imprese spaziali
«A differenza del resto del mondo, in Italia le piccole e medie imprese spaziali stanno crescendo, ma in modo pigro». Così il presidente di ASAS Silvano Casini ha aperto ieri il seminario “Proposte di indirizzo per una strategia nazionale di posizionamento e sviluppo delle PMI del settore aerospaziale”. Un attacco molto forte da parte del capo […]
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La povertà educativa in Italia è un problema, ma si potrebbe risolvere | L'Indipendente
"In un Paese con disparità territoriali profonde, un forte multiculturalismo di seconda generazione (sono circa 1,3 milioni i bambini stranieri o italiani per acquisizione) si auspica un intervento puntuale e ottimizzato, su strutture, personale e approcci. Non si tratta solo di risanare il giovane patrimonio umano in contesti periferici e creare un nuovo ecosistema di servizi per l’infanzia, adeguato alle nuove generazioni; occorre, come individuato dall’Osservatorio, considerare i giovani come risorse e non solo fasce da tutelare, attuare un cambiamento partecipativo e di ascolto, indirizzando i fondi alle reali necessità che chiede il nostro futuro."
«Il pm non cerchi più le prove a favore dell’indagato…»
LA PROVOCAZIONE DEL CELEBRE AVVOCATO: «IO NON HO MAI VISTO UN PUBBLICO MINISTERO CHE TI INTERROMPE PER DIRTI CHE HA FATTO DELLE INDAGINI E INTEGRA LA TESI DIFENSIVA»
IL SOTTOSEGRETARIO OSTELLARI, HA DATO INCARICO AGLI UFFICI PREPOSTI PER TROVARE CASI DI PM CHE HANNO AGITO PER RICERCARE PROVE A SOSTEGNO DELL’INDAGATO
L’avvocato Giuseppe Benedetto è autore del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” (ed. Rubbettino, pp. 134, euro 16).
Il presidente della “Fondazione Einaudi” pone all’attenzione dei lettori un tema di strettissima attualità, al centro dell’agenda politica, e da sempre oggetto di un’attenta analisi da parte di Carlo Nordio, che firma la prefazione, ben prima che l’ex magistrato diventasse ministro della Giustizia.
«Le idee sulla separazione delle carriere del ministro Nordio – dice al Dubbio Giuseppe Benedetto -, al di là di quanto scrive nel mio libro, sono nette e chiare da sempre. Una riforma di questo genere, però, passa più che dal governo dal Parlamento. Il timore del pantano parlamentare, comunque, è forte».
Avvocato Benedetto, il suo libro è un manifesto a sostegno della separazione delle carriere?
È una deduzione logica e cronologica. Cronologica perché facciamo una ricostruzione storica della vicenda. Partiamo dal Codice di procedura penale riformato nel 1989 e dalla susseguente riforma costituzionale di dieci anni dopo. Nel libro si sostiene che sono state due riforme che hanno introdotto cambiamenti profondi nel nostro sistema processuale e costituzionale, ma mancano dell’ultimo tassello: il giudice terzo.
Questo non è effettivamente terzo se non c’è una reale separazione della magistratura inquirente da quella giudicante. È un passaggio non di poco conto. La deduzione logica si basa sul fatto che abbiamo cercato di dimostrare alcune tesi non con argomenti da politique politicienne, ma con argomenti politici nel migliore senso del termine, perché la politica alta ci appartiene, anche come Fondazione Einaudi. Ma, soprattutto, con argomenti che evidenziano che il sistema odierno non regge e ci pone al di fuori dalle liberal-democrazie occidentali, sia quelle europee che quelle anglosassoni.
Il Parlamento si sta muovendo. Alla Camera sono state presentate delle proposte di legge per separare giudici e pm. Il Terzo Polo, la Lega e Forza Italia vanno nella stessa direzione. Al momento è assente su questo fronte Fratelli d’Italia. Il legislatore è più determinato rispetto al passato? Il traguardo della separazione è alla portata?
Non me la sento di dire che il traguardo è alla portata. Sarei troppo ottimista. Lo stesso presidente della Commissione Affari Costituzionali ha detto martedì che, se tutto va ve bene, ci vorrebbero almeno due anni e mezzo. In politica due anni e mezzo sono due vite e mezza. Il fatto, però, che ci si muova è positivo. Io ho paura del pantano parlamentare, ma ovviamente bisognerà passare dal Parlamento. Ci potrebbe però essere una alternativa.
A cosa si riferisce?
Il Parlamento potrebbe tenere conto di alcune indicazioni della Fondazione Einaudi: una rapida Assemblea Costituente per rivedere complessivamente la seconda parte della Costituzione. Potrebbe esserci in questo caso una riforma complessiva della giustizia. Siccome si è avviato l’iter parlamentare, mi hanno già chiesto in Parlamento di intervenire in audizione. Porterò le tesi della Fondazione Einaudi. Spero che anche Fratelli d’Italia e il Pd possano fare una riflessione sul tema. Dei quattro progetti presentati sulla separazione delle carriere tre sono esattamente la riproduzione di quello che la Fondazione Einaudi e l’Unione Camere penali hanno presentato sei anni fa, raccogliendo oltre 60mila firme. È un disegno di legge costituzionale, come ricorda l’avvocato Migliucci, nell’introduzione al mio libro. L’altra proposta di Forza Italia si discosta di poco da quanto suggeriamo. Spero che non si avviino varie forme di ostruzionismo da parte di potenti forze politiche e della società presenti nel nostro paese.
Pochi giorni fa lei ha sostenuto che il pm deve sostenere l’accusa nel nostro sistema processuale non ricercare le prove a favore dell’indagato.
Una proposta concreta, ben più di una provocazione, per mettere mano al nostro sistema giudiziario?
È una provocazione. Io non ho mai visto un pubblico ministero che ti interrompe per dirti che ha fatto delle indagini e integra la tesi difensiva. Se poi vogliamo passare dal momento empirico alla teoria, questo è un retaggio classico del sistema inquisitorio. Con il sistema accusatorio le cose vanno diversamente. Dunque, non giriamo attorno al problema. La mia provocazione è stata fatta alla luce del sole, alla
presenza del sottosegretario alla Giustizia Ostellari, il quale ha apprezzato la mia proposta, dando incarico agli uffici preposti per una serie di approfondimenti. A partire dai casi di pm che hanno agito per ricercare prove a sostegno dell’indagato.
Nel suo libro lei dimostra un amore profondo per la toga. Quanto è cambiata la professione forense negli ultimi vent’anni?
La professione forense è completamente cambiata già rispetto a pochi anni fa. Possiamo fare un semplice esempio, prendendo in considerazione la fase antecedente al Covid e quella successiva alla pandemia. Nel post Covid ho difficoltà a relazionarmi con i sistemi informatici che oggi reggono anche il penale. Ma questo è solo un aspetto. I giovani che si avviano alla professione sono favoriti su questo
fronte. È come quando la mia generazione ha iniziato la professione con il nuovo Codice di procedura penale. Ai colleghi che si affacciano alla professione consiglio di utilizzare il “metodo laico”, quello del dubbio. Leonardo Sciascia, lo scrivo pure nel mio libro, lo richiama chiaramente.
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In Cina e Asia – Nuove proteste dei pensionati a Wuhan
Nuove proteste dei pensionati a Wuhan
Anche il Giappone denuncia la rilevazione di oggetti volanti cinesi
I dissidenti cinesi spariscono da Twitter
Perquisite le sedi indiane della Bbc
La figlia di Kim Jong-un apparirà su una serie di nuovi francobolli
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La coscienza morta
Si applica anche a noi, adesso.
"From the accumulated evidence one can only conclude that conscience as such had apparently got lost in Germany, and this to a point where people hardly remembered it and had ceased to realize that the surprising "new set of German values" was not shared by the outside world. This, to be sure, is not the entire truth. For there were individuals in Germany who from the very beginning of the regime and without ever wavering were opposed to Hitler; no one knows how many there were of them — perhaps a hundred thousand, perhaps many more, perhaps many fewer — or their voices were never heard. They could be found everywhere, in all strata of society, among the simple people as well as among the educated, in all parties, perhaps even in the ranks of the N.S.D.A.P."
---
"E tutto sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il “nuovo sistema di valori” tedesco non era condiviso dal mondo esterno. Naturalmente, questo non vale per tutti
i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa quanti fossero (forse centomila, forse molti di piu, forse molti di meno) poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce. Potevano trovarsi dappertutto, in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito nazista."
TERREMOTO. Appelli ad aiutare la Siria isolata e sotto sanzioni
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 8 febbraio 2023 – Venti uomini della Protezione civile libanese sono giunti ieri in Siria per partecipare alle operazioni di ricerca e salvataggio nelle aree devastate dal terremoto. Nelle prossime ore passeranno il confine anche 15 genieri dell’esercito del paese dei cedri. Ed è in viaggio una squadra della Croce Rossa su richiesta dei governi di Libano e Siria e in coordinamento con la Mezzaluna Rossa siriana. Il governo Mikati inoltre ha messo a disposizione l’aeroporto di Beirut e i porti di Beirut e Tripoli per ricevere aiuti umanitari destinati alla Siria. Le conseguenze devastanti del sisma hanno avuto il sopravvento sui rapporti «complessi» tra Damasco e Beirut.
Il Libano fa parte di quei paesi – Russia, Iran, Bahrain, Emirati, Algeria, Pakistan, Mauritania, Sudan, Giordania, Egitto e Tunisia – che si sono attivati per portare soccorsi alla Siria, a differenza di Stati uniti e Unione europea che escludono di poter cooperare con il governo siriano e garantiranno aiuti diretti solo alle regioni nordoccidentali non controllate da Damasco, come quella di Idlib che è in gran parte nelle mani di formazioni jihadiste e qaediste schierate contro le autorità centrali. Il terremoto non ha colpito solo il territorio siriano al confine con la Turchia. Popolazioni allo stremo e distruzioni enormi si registrano anche in altre zone della Siria. Ieri alti funzionari dell’Oms hanno lanciato l’allarme sull’emergenza umanitaria in cui si trova il paese a causa della guerra civile – che ha ucciso mezzo milione di persone e costretto circa la metà della popolazione ad abbandonare le proprie case – e della recente epidemia di colera.
Secondo Adelheid Marschang, del dipartimento per le emergenze dell’Oms, la Turchia possiede la capacità di rispondere alla crisi mentre i principali bisogni umanitari nell’immediato e nel medio termine sono in Siria. «Questa è una crisi che va ad aggiungersi a molteplici crisi nella regione colpita» ha spiegato Marschang. «In tutta la Siria – ha aggiunto – le necessità sono cresciute dopo quasi 12 anni di crisi e i finanziamenti umanitari continuano a diminuire». L’appello dell’Oms giunge dopo quello lanciato dalla Mezzaluna Rossa Araba Siriana (Mlrs) ai paesi occidentali affinché revochino le sanzioni economiche e forniscano aiuti. «I paesi dell’Ue devono revocare le sanzioni alla Siria. È giunto il momento dopo questo terremoto» ha esortato Khaled Haboubati, capo della Mlrs, rivolgendosi direttamente anche all’Agenzia Usa per lo sviluppo (USAid).
Damasco attribuisce i suoi gravi problemi finanziari e la responsabilità della crisi umanitaria nel paese alle sanzioni occidentali imposte sulla scia del conflitto cominciato nel 2011. Sanzioni che sono state aggravate dal Caesar Act statunitense, entrato in vigore nel 2020, che paralizza buona parte dei rapporti economici e commerciali della Siria. E se è vero che il territorio siriano sotto il controllo del governo centrale già riceve aiuti attraverso le Nazioni unite, è altrettanto vero che le agenzie internazionali non hanno potuto sino ad oggi avviare la ricostruzione del paese per la netta opposizione degli Stati uniti e dell’Ue. Secondo i governi occidentali, il via libera a un’ampia ricostruzione internazionale della Siria rappresenterebbe un riconoscimento della vittoria militare del presidente Bashar Assad che lo porterebbe ad escludere una soluzione politica negoziata con l’opposizione.
Calcoli politici e sanzioni che penalizzano solo la popolazione civile. Il terremoto aggrava la condizione di milioni di siriani già in miseria. L’Onu avverte che almeno 2,9 milioni di persone in Siria sono alla fame e che altri 12 milioni rischiano la stessa sorte. Il pugno duro occidentale inoltre lega in modo più stretto la Siria all’Iran che, poche ore dopo il terremoto, ha cominciato il ponte aereo con Damasco fornendo attrezzature e assistenza umanitaria. E lo stesso vale per la Russia, pronta ad aiutare il suo principale alleato in Medio oriente. Intanto l’ambasciatore siriano all’Onu, Bassam Sabbagh, ha assicurato al segretario generale Antonio Guterres che qualsiasi aiuto raggiungerà l’intera popolazione siriana. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
https://ilmanifesto.it/appelli-ad-aiutare-la-siria-isolata-e-sotto-sanzioni
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Barcellona rompe con Tel Aviv. Israele divide la Spagna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 16 febbraio 2023 – Le diverse opinioni sul rapporto da intrattenere con Israele stanno polarizzando, negli ultimi giorni, il dibattito politico all’interno della Spagna.
Barcellona congela il gemellaggio con Tel Aviv
Era dal 2015 che i movimenti catalani per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni nei confronti di Israelechiedevano alle neoeletta sindaca di Barcellona, l’ex attivista del movimento contro gli sfratti Ada Colau, di interrompere le relazioni istituzionali con Israele.
La richiesta, più volte inevasa, è stata finalmente accolta dalla prima cittadina del capoluogo catalano lo scorso 8 febbraio, a poche settimane dalla convocazione delle prossime elezioni municipali fissate per il prossimo 28 maggio.
Ada Colau ha comunicato di aver congelato le relazioni con Israele e in particolare il gemellaggio tra la Barcellona e Tel Aviv, siglato nel lontano 1998 all’interno di un accordo che include anche Gaza in un improbabile “triangolo della cooperazione”.
«Non possiamo più tacere di fronte alla violazione flagrante e sistematica dei diritti umani» ha scritto la leader dei Comuns in una lettera indirizzata al premier israeliano Benjamin Netanyahu, sottolineando che la misura non intende rappresentare un atto di discriminazione nei confronti della popolazione o della religione ebraica ma una opportuna censura nei confronti del governo del cosiddetto “stato ebraico”.
Nella missiva la sindaca ha ricordato che organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International e l’israeliana B’Tselem «hanno denunciato che le pratiche dello stato di Israele contro la popolazione palestinese, come l’apartheid e la persecuzione, possono essere considerati dei crimini contro l’umanità». Già nel giugno dell’anno scorso, del resto, una mozione approvata dal Parlamento catalano con i voti di Erc (centrosinistra indipendentista) e della Cup (sinistra radicale indipendentista), ma anche dei socialisti e dei Comuns equiparava le conseguenze dell’occupazione israeliana all’apartheid.
«Non possiamo (…) chiudere gli occhi di fronte a una violazione ampiamente documentata da decenni dagli organismi internazionali» ha scritto la sindaca annunciando la sospensione delle relazioni istituzionali «finché le autorità israeliane (…) non si atterranno agli obblighi imposti dal diritto internazionale e dalle risoluzioni dell’Onu».
La prima cittadina dei Comuns si è apertamente allacciata alla campagna “Barcellona contro l’apartheid” lanciata dal coordinamento “Basta complicità con Israele”; la sigla riunisce 112 diverse organizzazioni popolari, sociali, politiche, sindacali ed ha raccolto quasi 4000 firme per ottenere che il consiglio comunale della città discutesse le richieste del movimento che si batte per i diritti del popolo palestinese e chiede alle istituzioni di interrompere i rapporti con lo “stato ebraico”.
Il no della politica
Colau ha però deciso di agire firmando un’ordinanza, senza far passare il provvedimento al vaglio dell’assemblea comunale. La decisione ha suscitato un vespaio – esacerbato dal clima elettorale – non solo all’interno dell’opposizione ma anche della sua maggioranza di centrosinistra.
L’opposizione di destra – Junts, Ciudadanos e PP – hanno chiesto un consiglio straordinario sull’iniziativa della sindaca. Già il Partito Socialista – alleato dei Comuns nel governo cittadino – aveva chiesto che appena possibile l’assemblea comunale discutesse l’ordinanza, giudicata un “grave errore”.
Anche in seno ad Esquerra Republicana, a parte qualche voce isolata, si sono levate forti critiche sia al carattere unilaterale sia alla sostanza del provvedimento che, nella plenaria del 24 febbraio, potrebbe essere quindi bocciato. Anche nello stesso partito della sindaca, del resto, non mancano i contrari all’iniziativa anche se il gruppo consiliare è rimasto compatto ieri mattina, nel corso di una votazione di ricognizione senza conseguenze, che ha detto ‘no’ alla sindaca. A favore di Ada Colau hanno votato solo i Comuns mentre i consiglieri di Esquerra si sono astenuti.
Il sostegno internazionale
A sostegno di Ada Colau, invece, si sono espressi una cinquantina di personalitàdel mondo della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della politica. Una dichiarazione internazionale di solidarietà alla sindaca di Barcellona è stata firmata dai premi Nobel Annie Ernaux, Mairead Maguire, George P. Smith e Jody Williams, dagli attori Mark Ruffalo, Miriam Margolyes, Viggo Mortensen, Susan Sarandon, dai registi Fernando Meirelles e Ken Loach, da musicisti come Marianne Faithful, Peter Gabriel e Brian Eno, da intellettuali come Angelas Davis, Arundathi Roy e Naomi Klein. Tra i firmatari anche l’ex vicepresidente del Parlamento Europeo Luisa Morgantini. La dichiarazione critica i governi per non aver reagito alle sistematiche violazione del diritto internazionale e alle violazioni dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. In un messaggio personale l’ex ministro del governo di Nelson Mandela, il sudafricano Ronnie Kasrils, ha affermato di essere entusiasta della decisione di Ada Colau.
Il congelamento dei rapporti con Tel Aviv è stato definito «coraggioso» dall’Associazione catalana degli ebrei e dei palestinesi ed ha ricevuto anche il sostegno dalla European Jewish for Just Justice, una rete dei 12 associazioni pacifiste europee.
La condanna della destra e di Israele
Immediata ed inappellabile, invece, è stata la condanna da parte del Ministero degli Esteri israeliano e della Federazione delle comunità ebraiche spagnole. Quest’ultima ha definito quella di Ada Colau una forma di «sofisticato antisemitismo».
Anche la destra spagnola è andata subito all’attacco, accusando la sindaca di Barcellona di antisemitismo. Il sindaco di Madrid José Luis Martínez Almeida, del Partito Popolare, ha invitato il primo cittadino di Tel Aviv a stringere un gemellaggio tra le due città.
La presidente della Comunità di Madrid (anch’essa del PP) Isabel Díaz Ayuso ha compiuto, il 12 e 13 febbaio, una visita istituzionale di due giorni in Israele, fissata prima dell’annuncio della Colau. Per sua stessa ammissione, il viaggio è servito per ampliare le relazioni economiche con le imprese e le istituzioni israeliane ed attirare nuovi investimenti. Ideologicamente, negli ultimi anni, anche la destra radicale di Vox si è distinta per il sostegno incondizionato a Israele.
L’ambiguità di Pedro Sanchez
Da parte sua il premier Pedro Sànchez ha evitato di incontrare i dirigenti israeliani, cosa che però hanno fatto più volte alcuni dei suoi ministri socialisti. Inoltre il primo ministro aveva promesso, nel 2015, che se avesse avuto accesso al governo avrebbe riconosciuto lo Stato palestinese. Lo ha ribadito nel 2017 e l’impegno è stato inserito all’interno del programma elettorale del Partito Socialista per le elezioni del 2019. Al momento, però, nonostante le pressioni di Unidas Podemos e dei partiti indipendentisti baschi e catalani che sostengono la sua maggioranza dall’esterno, la promessa non è stata ancora onorata e nulla fa pensare che Sanchez voglia dar seguito all’impegno preso nel prossimo futuro.
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Contestata a Madrid l’ambasciatrice di Israele
Intanto l’8 febbraio, all’interno dell’Università Complutense di Madrid gli organizzatori di una conferenza sugli “Accordi di Oslo” hanno invitato l’ambasciatrice in Spagna dello “stato ebraico”, Rodica Radian-Gordon.
Gli attivisti delle reti di solidarietà con la Palestina ne hanno approfittato per inscenare una contestazione, ricordando che solo nel mese di gennaio l’esercito di occupazione ha ucciso 35 palestinesi.
La reazione degli addetti alla sicurezza dell’ambasciatrice e dell’Università è stata violenta e spropositata. Un uomo, poi riconosciuto come un agente israeliano di scorta alla rappresentante diplomatica, ha addirittura minacciato i manifestanti con una pistola. Mentre l’ambasciatrice abbandonava il convegno, un plotone della Policia Nacional in assetto antisommossa ha aggredito i manifestanti. La giornata si è conclusa con due attiviste fermate e denunciate. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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TERREMOTO TURCHIA-SIRIA. Ora domande fondamentali per Idlib e Qamishli
di Nasser Qandil – Al Bina
(foto di Ahmed Akacha)
Pagine Esteri, 15 febbraio 2023 – Le forze di opposizione siriane dovranno presto affrontare domande cruciali poiché il terremoto costringerà la Turchia a porre fine al suo intervento. Il devastante terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria ha creato una nuova situazione in cui Ankara si trova a dover sfruttare le proprie risorse per anni a venire per riprendersi dalle conseguenze del disastro, sostiene il caporedattore di un quotidiano libanese. Ciò accelererà il processo che porterà alla fine del suo intervento in Siria, che a sua volta dovrà affrontare le forze anti-regime nel nord-est e nel nord-ovest siriano con pressanti domande sul loro destino all’indomani del ritiro della Turchia.
Nella scena regionale si pone ora un interrogativo importante sulla scia del disastro causato dal terremoto: quale vantaggio può ottenere la Turchia dal mantenere le sue forze in Siria. La Turchia si trova ad aver bisogno di impegnare le sue risorse per il processo di ripresa dalle conseguenze del disastro e lo deve fare migliorando i rapporti con gli altri paesi. Da qui nasce il suo attuale tentativo di normalizzare le relazioni con la Grecia, come ha rivelato lo stesso presidente Recep Tayyip Erdogan. Allo stesso modo, Erdogan ha perseguito la normalizzazione con la Siria nella fase precedente al sisma con l’intento di ridurre gli oneri causati dall’intervento (negli anni passati in Siria) che ha sperperato gran parte delle risorse turche e ha portato rovina e terrorismo in Siria. E se prima era così, immaginate com’è adesso, dopo il terremoto. E tutti sanno che una condizione necessaria per le normali relazioni turco-siriane è il ritiro di Ankara dal territorio siriano.
Non c’è osservatore del dossier turco/siriano che non sappia che, prima del terremoto, il processo iniziato con la costituzione del quadrilatero russo/turco/iraniano/siriano sarebbe sfociato in una riunione militare di sicurezza volta a discutere i meccanismi per affrontare la situazione anomala nella Siria nordoccidentale, dopo che erano state discusse condizioni simili nella Siria nordorientale. Pertanto, la preoccupazione causata dalle conseguenze del disastro non durerà a lungo prima che sorga l’urgente necessità di andare avanti. Significherà mettere sul tavolo il futuro delle enclavi siriane nord-orientali e nord-occidentali a causa della loro connessione con la decisione turca di ritirarsi dalla Siria.
Erdogan, si sa, vorrebbe condizionare il suo arretramento a un risultato in termini di sicurezza che gli permetta di dichiarare al suo popolo che la minaccia è stata sradicata. A sua volta la Siria vuole che la sua cooperazione politica e di sicurezza verso quell’obiettivo sia subordinata a un impegno turco per mettere fine l’enclave del nord-ovest (Idlib), con Mosca e Teheran che appoggiano Damasco su questo punto.
Qui sorge la domanda su cosa intendono fare i politici siriani che si definiscono i leader della cosiddetta rivoluzione (del 2011). In che modo il mantenimento della loro presa sull’enclave siriana nordoccidentale si inserisce nella loro visione futura della Siria? Hanno una tale visione? Certo è che l’idea di un’azione militare che consenta loro di espandersi e diffondersi nelle aree siriane controllate dallo Stato è fuori discussione, anche solo come fantasia. Hanno il coraggio di dichiarare la loro intenzione di stabilire uno Stato indipendente nelle aree sotto il loro controllo? Controllano veramente quelle aree? Oppure nella realtà è un conglomerato di gruppi armati di varia affiliazione che mantiene il controllo di quella regione? La maggior parte di questi gruppi vive grazie ai finanziamenti di alcuni Paesi del Golfo e di alcune organizzazioni che promuovono l’estremismo (religioso) in altri Stati del Golfo, nonché della Fratellanza musulmana. Anche loro sanno che senza la copertura turca questa enclave non ha futuro. Hanno pensato a come affronteranno il ritiro turco quando verrà il momento?
Nel nord-est della Siria, il quadro è simile. Non ci sono prospettive militari su cui i leader delle Forze democratiche siriane (SDF) possano scommettere per espandere la loro amministrazione autonoma o affermare di far parte di un movimento siriano che controlla l’intero territorio siriano. Né sono in grado di dichiarare il loro Stato in quella zona e proclamare la secessione dalla Siria. E nemmeno di utilizzare il loro controllo dell’area per negoziare termini che trascendano un singolo Stato siriano e di avanzare formule federaliste. Quindi cosa diranno quando gli sarà chiesto delle loro strategie se gli Stati siriano e turco raggiungessero un accordo con una mediazione congiunta russo/iraniana per sradicare l’enclave? La risposta è che non hanno il controllo della decisione. Pagine Esteri
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#uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – La politica del panem et circenses…
La politica del panem et circenses repugna profondamente allo spirito liberale.
da Lineamenti di una politica economica liberale, Movimento Liberale Italiano, 1943
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PD: Elly Schlein vs Stefano Bonaccini, ‘due galletti a cantar’
Mentre, con la solita assenza di stile e di senso delle proprie dimensioni (minime, diciamocelo chiaro) i nostri politicanti si azzuffano per dire ciascuno che è meglio degli altri e che, per di più ha vinto tutto il vincibile, la riflessione sul significato delle recenti votazioni, mi pare, latita. I due galletti del PD, o […]
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Fr.#20 / Di artiste e prostitute digitali
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Artiste di strada, ma digitali
In questi giorni sono venuto a conoscenza di un fenomeno peculiare che ha preso piede in Cina. Non saprei esattamente come definirlo, quindi faccio prima a farvelo vedere:
Cosa sta succedendo? Quelle sono delle ragazze che stanno cantando, scherzando e chattando coi loro fan online. In streaming, sul marciapiede.
Perché? Beh, pare che sia merito di un nuovo algoritmo.
Non farti fregare dall’algoritmo, iscriviti a Privacy Chronicles.
La piattaforma cinese di streaming che usano queste ragazze infatti è dotata di un sistema di localizzazione che permette agli utenti di cercare streamer nelle loro vicinanze. Questo significa che chi fa streaming in zone più ricche avrà evidentemente una probabilità più alta di ricevere donazioni cospicue rispetto a chi invece si limita a streamare da casa sua, magari in un quartiere povero.
Ecco allora spiegato il motivo per cui decine di ragazze decidono di lavorare in strada piuttosto che nella comodità delle loro stanze.
La peculiarità è che molte di loro, come spiegato da Naomi Wu, non sono in condizioni di povertà. Anzi, spesso hanno un lavoro normale che fanno durante il giorno. D’altronde, l’attrezzatura che alcune si portano dietro è anche abbastanza costosa.
Insomma, non bisogna fare confusione: queste ragazze sono più vicine a delle artiste di strada che a delle mendicanti. La differenza, rispetto agli artisti di strada tradizionali, è che le loro performance vengono viste e apprezzate da remoto, da persone a 500 metri da loro o dall’altra parte della Cina.
Questo caso peculiare può insegnarci una cosa: gli incentivi funzionano. Funzionano così bene che una professione nata grazie al digitale si sta trasformando in uno strano ibrido phygital che incentiva decine di ragazze a mettersi in strada con luci e strumenti per lo streaming.
Forse bisognerebbe iniziare a riflettere sul potere diretto e indiretto che questi algoritmi hanno sulla nostra vita, e soprattutto ponderare sulle attuali e future capacità dei nostri governi di influenzare il comportamento di milioni di persone semplicemente attraverso sistemi di economia comportamentale e ingegneria sociale — come quelli già sperimentati anche in Italia.
Prostitute digitali, conseguenze reali
Sempre rimanendo nel tema delle nuove professioni digitali, vale la pena riportare una notizia di questi giorni che arriva dagli Stati Uniti: pare che a una ragazza, modella su OnlyFans, sia stata negata la Visa per l’accesso agli Stati Uniti.
La Visa è in pratica un’autorizzazione che deve avere chiunque voglia viaggiare verso gli Stati Uniti e che viene allegata al passaporto. In alcuni casi, quando sussistono situazioni particolari, la Visa può essere negata. Ad esempio nel caso in cui la persona abbia ricevuto condanne o sia accusata di altre attività illecite, come il contrabbando.
Oppure, come successo per la ragazza in questione, se la persona ha realizzato attività di prostituzione durante i 10 anni precedenti alla richiesta di Visa o se il suo viaggio sia in qualche modo finalizzato a compiere atti di prostituzione.
Non voglio entrare nella diatriba infinita sul considerare o meno l’attività su OnlyFans al pari della prostituzione, ma a quanto pare le autorità degli Stati Uniti la considerano tale. Ciò che conta qui è la capacità delle autorità governative di sorvegliare e analizzare i motivi del viaggio di una persona straniera, le sue attività professionali (magari anche secondarie) e il suo passato — fino a dieci anni prima!
Non mi stupisce che gli Stati Uniti facciano tali discriminazioni: è noto che i collettivisti-statalisti confondono sempre (volontariamente) il piano della moralità con quello della legalità. E questo impatta la libertà delle persone.
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Questo caso dovrebbe esserci d’esempio per comprendere i rischi derivanti proprio da queste capacità di sorveglianza dei nostri governi. I nostri dati saranno usati contro di noi. Sempre. E questo è anche il motivo per cui bisogna rigettare con forza qualsiasi proposta di identità digitale. Se ci riescono ora, figuriamoci cosa potranno fare con un sistema di identità digitale connesso a tutto ciò che siamo e facciamo.
Insomma, se proprio vuoi fare la modella su OnlyFans sappi che potresti essere considerata una prostituta a tutti gli effetti. Nulla in contrario, ma forse sarebbe il caso di imparare il valore dello pseudoanonimato e provare a considerare piattaforme e sistemi di pagamento alternativi che lasciano poche tracce, come Bitcoin. È chiaro che intermediari fiat come OnlyFans o come le piattaforme di pagamento non hanno assolutamente a cuore la riservatezza dei loro clienti.
Meme del giorno
Citazione del giorno
"Every form of happiness is private. Our greatest moments are personal, self-motivated, not to be touched. The things which are sacred or precious to us are the things we withdraw from promiscuous sharing.”
Ayn Rand
Articolo consigliato
La moralità dell'anonimato
Anonymity is dead, long live the anonimous! L’anonimato è morto, la privacy è morta. E anche noi, nel lungo periodo, siamo tutti morti. Se siete d’accordo, oggi inizierei così per parlare di un tema che stranamente non avevo ancora trattato su queste pagine: la moralità dell’anonimato…
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6 days ago · 5 likes · 2 comments · Matte Galt
Twitter Files: dalla censura politica al ban di Trump
Nelle scorse settimane Elon Musk ha distribuito ad alcuni giornalisti migliaia di documenti e comunicazioni riservate di Twitter. L’analisi di questi documenti ha dato vita a un piccolo cataclisma.
Le prime notizie che arrivano dai “Twitter Files” raccontano di inquietanti scoperte sui meccanismi di “moderazione” della piattaforma, tra top manager e team di moderazione palesemente politicizzati e sistematiche ingerenze da parte delle agenzie di intelligence. La storia raccontata finora dai giornalisti che hanno messo mano ai Twitter Files, attraverso dei lunghi thread pubblicati proprio su Twitter, parte dal 2020 e arriva fino ai giorni nostri.
Il materiale pare sia molto, e c’è sicuramente ancora tanto da raccontare, ma oggi voglio dare la possibilità ai lettori di farsi un’idea, ripercorrendo insieme le parti più rilevanti di tutta la vicenda.
Iniziamo.
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Gli strumenti di Twitter
Come racconta Matt Taibbi nel primo thread sui Twitter Files, nel corso del tempo Twitter fu costretta a sviluppare e costruire degli strumenti di censura che durante i primi anni di vita della piattaforma erano invece assenti.
Presto molte persone si resero conto della potenza di questi strumenti, e pian piano furono messi a disposizione di autorità governative ed esponenti di partiti politici che di volta in volta chiedevano alla piattaforma di rimuovere contenuti sgraditi. Nel 2020 le richieste di questo tipo erano praticamente una prassi consolidata.
Questi strumenti di “moderazione” erano a disposizione, in teoria, di ogni parte politica. Il problema è che sembra che non ci fossero dei canali ufficiali a cui fare riferimento, ma che fosse invece un’attività che veniva fatta attraverso contatti personali con dipendenti interni di Twitter.
Perché dico che è un problema? Dovete sapere che prima dell’arrivo di Elon Musk e dei licenziamenti collettivi, più del 98% dei dipendenti di Twitter erano dichiaratamente Democratici (cioè progressisti di sinistra) — come mostrano dai dati riportati da Matt Taibbi nel suo primo thread.
Per un mero dato statistico, i Democratici avevano quindi molte più possibilità di ottenere la rimozione di contenuti rispetto ai Repubblicani.
Prima di continuare…
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La censura arbitraria dei progressisti
La giornalista Bari Weiss, nel secondo thread dedicato ai Twitter Files conferma poi ciò che molti “complottisti” dicevano da tempo, nonostante le dichiarazioni pubbliche contrarie da parte di Vijaya Gadde: sì, lo shadow ban esiste.
Il team di moderazione di Twitter aveva infatti l’abitudine di creare delle vere e proprie blacklist di utenti a cui limitare la visibilità e la reach dei contenuti.
Il gruppo interno che gestiva questo tipo di censura era chiamato “Strategic Response Team - Global Escalation Team”. Nel gruppo, dice Bari Weiss, c’erano Vijaya Gadde (Legal, Policy, and Trust) e Yoel Roth (Trust & Safety), oltre ai CEO — prima Jack Dorsey e poi Parag Agrawal.
Gli account più colpiti da queste blacklist e shadowban erano quelli di persone della destra conservatrice e in generale account con opinioni contrarie a quelle progressiste in merito a questioni riguardanti LGBT o sulle elezioni presidenziali del 2020.
Un esempio paradigmatico fu quello di Chaya Raichik, “Libs of TikTok” (che seguo con molto piacere, anche su substack), che solo all’inizio del 2022 fu bannata per ben sei volte. Nel suo caso il pregiudizio politico era evidente: non solo l’account veniva sospeso arbitrariamente, ma Twitter non fece nulla per bannare le persone che doxxarono l’indirizzo di residenza di Chaya e che regolarmente la minacciavano di morte. Se non sbaglio, qualcuno di quei post è ancora online.
Le motivazioni che sostenevano la maggior parte delle censure di post e sospensione degli account erano puramente politiche, in base alle idee dei team di moderazione e dei manager come Yoel Roth.
Proprio lui scrisse nel 2021: “The hypothesis underlying much of what we’ve implemented is that if exposure to, e.g., misinformation directly causes harm, we should use remediations that reduce exposure, and limiting the spread/virality of content is a good way to do that”.
Cosa si intende Roth per “misinformation”? Ovviamente, tutto ciò che è contrario alla narrativa Dem e alle sue personalissime idee.
Al contrario di quanto pubblicamente affermato da Twitter nel corso degli anni, molte delle scelte di rimozione di contenuti non erano fatte sulla base di elementi oggettivi, ma in base a interpretazioni personali degli executives e dei team di moderazione, per poi essere giustificate di volta in volta con le policy più adeguate.
Un chiaro esempio dell’arbitrarietà e dei pregiudizi dei team di moderazione viene da uno scambio tra Yoel Roth e un collega il 7 gennaio 2021, in cui discutono su come “moderare” il movimento “#stopthesteal”, che durante l’elezione del 2020 sosteneva ci fossero gravi irregolarità nel processo elettorale, soprattutto per quanto riguarda i voti via posta.
Il movimento, ritenuto fonte di disinformazione, venne presto censurato da Twitter. L’obiettivo in quel caso era duplice: da una parte censurare i post degli esponenti del movimento, e dall’altra lasciare libertà al “counterspeech”, cioè ai post dei progressisti di sinistra che usavano lo stesso hashtag per sostenere tesi contrarie.
Un altro esempio di arbitrarietà e faziosità politica arriva da queste comunicazioni del 7 di gennaio 2021 (24 ore prima del ban di Trump), in cui il team di moderazione si trova a discutere perfino su come punire gli utenti che ripostavano foto dei tweet di Trump senza alcun intento politico, ma per criticare le scelte di moderazione di Twitter, come in questo caso:
Il ban di Trump
La terza, quarta e quinta parte dei Twitter Files affrontano invece gli eventi che portarono l’8 gennaio 2021 al ban di Trump — il caso di deplatforming più famoso e più grave al mondo. La storia prosegue con i contributi di Matt Taibbi e Michael Shellenberger, che offrono uno spaccato sui mesi e giorni precedenti al ban di Trump.
Già dai primi mesi del 2020 Twitter era un insieme scomposto di sistemi di sorveglianza e di censura automatizzati e persone con il potere di censurare arbitrariamente chiunque (beh, non proprio chiunque) sulla base di pregiudizi puramente ideologici e politici.
Come se questo non bastasse, man mano che le elezioni si avvicinavano gli executives di alto livello come Yoel Roth iniziavano ad intrattenere sistematicamente relazioni con FBI e varie altre agenzie federali come l’Homeland Security e la National Intelligence. Era in questi incontri che spesso si decideva come e quali tweet censurare. Principalmente, ça va sans dire, di Trump e altri account Repubblicani — che in quel periodo erano molto attivi per denunciare problemi col processo elettorale.
A conferma della frequenza e normalità degli incontri ci sono alcuni scambi tra il team marketing di Twitter e il Policy Director Nick Pickles. Il team chiedeva se fosse possibile descrivere il processo di moderazione di Twitter come un misto di “machine learning, human review e partnership con esperti”, a cui Nick rispose: “non so se definirei FBI e DHS come esperti”.
La pressione politica fuori e dentro Twitter in quel periodo si poteva tagliare con il coltello.
In questo periodo Trump era già stato sospeso diverse volte. Secondo le policy di Twitter, ci sono una serie di “strike” prima che l’account possa essere bannato definitivamente. A Trump ne rimaneva uno; un’ultima violazione, di una qualsiasi policy interna, avrebbe causato il suo ban definitivo.
Trump però non era una persona qualunque. I suoi tweet avevano un valore “pubblico” non indifferente. La questione era nota anche internamente a Twitter, che infatti ha una “public interest policy” che prevede delle eccezioni in caso di violazioni per tweet e account che abbiano un certo valore nell’interesse pubblico.
Proprio per questo, il 7 gennaio 2021 l’onnipresente Yoel Roth scrive a un collega che nel caso di Trump l’idea era quella di "bypassare le tutele del “public interest e fare in modo che potesse essere bannato alla prima violazione di una qualsiasi policy interna". La decisione ai piani alti era già presa da tempo. Trump doveva essere bannato, bisognava solo trovare una qualsiasi giustificazione.
La pressione interna in quei giorni era altissima. Vi ricordo che molti dipendenti in Twitter erano progressisti democratici, che dopo gli eventi del 6 gennaio ce l’avevano a morte con Trump e con chiunque la pensasse diversamente da loro (ma questo è ricorrente). Nelle chat interne circolavano affermazioni come queste:
“Non capisco la decisione di non bannare Trump data la sua istigazione alla violenza”
“Dobbiamo fare la cosa giusta e bannare il suo account”
“Ha chiaramente tentato di sovvertire il nostro ordine democratico… se non è questo un buon motivo per bannarlo, non so cosa possa esserlo”
Come riporta di nuovo Bari Weiss nella quinta parte dei Twitter Files, l’8 gennaio 2021 — a poche ore dal ban di Trump — il Washington Post pubblicò perfino una lettera aperta firmata da 300 dipendenti di Twitter che chiedevano a Jack Dorsey di bannare per sempre Trump — a prescindere da qualsiasi valutazione di merito.
Quel giorno Trump postò due volte:
Poche ore dopo il primo tweet Vijaya Gadde scrisse in una chat interna: “potremmo interpretare ‘American Patriots […] will not disrespected or treated unfairly in any way, shape or form’ come una istigazione alla violenza”.
L’istigazione alla violenza sarebbe stato l’ultimo strike necessario per bannare Trump definitivamente. L’interpretazione però era controversa e neanche Vijaya era sicura di questa strada. Sempre nella stessa chat qualcuno disse che “American Patriot” poteva essere inteso come un chiaro riferimento ai manifestanti violenti di Capitol Hill (6 gennaio 2021) e questo avrebbe causato la violazione della “Glorification of Violence policy”.
Insomma, non c’era più alcun criterio di valuazione, se non la fantasia dei moderatori nell’interpretare il contesto del tweet di Trump. La tensione era talmente alta che nelle ore successive al tweet Trump venne definito come il leader di un’organizzazione terroristica — comparabile perfino a Hitler.
Alla fine anche la “leadership” di Twitter dovette cedere alle pressioni, sia interne che esterne, e Trump venne bannato definitivamente a causa della supposta violazione della policy contro l’istigazione alla violenza.
Social Network… o strumento di sorveglianza dell’intelligence?
Il sesto e ultimo (per ora) thread sui Twitter Files, scritto poche ore prima dell’uscita di questa newsletter, mostra come le agenzie di intelligence, in particolare FBI e DHS, avessero da tempo rapporti continuativi, amichevoli e molto stretti con diversi referenti di Twitter. Uno su tutti Yoel Roth, che tra gennaio 2020 e novembre 2022 pare che abbia scambiato più di 150 email con l’FBI.
Ma l’FBI non si limitava a interagire con Twitter. L’agenzia aveva istituito una vera e propria task force di sorveglianza e analisi di post e account sulla piattaforma. L’ingerenza arrivava a tal punto da chiedere “informalmente” a Twitter i dati di localizzazione degli account flaggati — senza alcun mandato né indagine che giustificasse questa richiesta.
Contrasto al terrorismo? Indagini su crimini federali? Niente di tutto questo: pura sorveglianza e censura politica in materia elettorale. Venivano colpiti perfino di account satirici. Ma è questo il mandato dell’FBI? E davvero siamo disposti ad accettare un abuso di potere di questo tipo?
Un commento
La storia dei Twitter Files non è ancora finita, e certamente ci sono ancora molte domande che meritano risposta. Che dire di tutta la censura sul covid? Solo da poco Twitter ha annunciato di aver disattivato i filtri automatizzati su quei contenuti. E che dire di tutti gli account che sono stati ingiustamente silenziati e shadow-bannati da gennaio 2021 a oggi? Che ruolo ha avuto l’intelligence americana nella gestione occidentale della pandemia e nel flusso delle informazioni?
Politici e intellettuali, per lo più di sinistra, da anni tentano di persuaderci del bisogno di combattere la disinformazione. Ci dicono che è pericolosa, che bisogna proteggere le persone. Ma da cosa?
In un mondo dove tutto ormai è relativo e non esiste più alcun criterio oggettivo — in cui un giudice della Corte Suprema è incapace perfino di dare una definizione di donna; in cui per mesi si è detto tutto e il contrario di tutto su COVID e vaccini… cosa significa disinformazione?
La verità è che la lotta alla "disinformazione" non esiste. Esiste però una chiara volontà di censurare opinioni e idee che non siano aderenti all’ideologia dominante. Perché l’informazione è potere. Chi controlla l’informazione controlla le idee, che come sappiamo sono più potenti dei proiettili.
Controllare l’informazione serve per plasmare una narrativa capace di rendere le persone sempre più dipendenti dal sistema; convincerle a subire qualsiasi angheria e limitazione di libertà — per il loro bene. Non c’è nulla di nuovo, è così che i governi creano una massa di zombie pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di sentirsi al sicuro.
È il modello cinese, quel modello che fin dal 1997 punisce chiunque diffonda informazioni potenzialmente sovversive dell’ordine stabilito. Il modello che i progressisti di tutto il mondo, da Washington a Bruxelles, vogliono applicare ai social network. Il Digital Services Act — non mi stancherò mai di ripeterlo — è questa cosa qua.
Allora oggi dobbiamo chiederci: perché mai qualcuno dovrebbe avere il potere di decidere fino a che punto può spingersi il pensiero prima di diventare illegale? E che impatto ha la censura (e l’annessa sorveglianza di massa) sul nostro mondo? Quanto di ciò che stiamo vivendo in questi anni è frutto dell’evoluzione naturale degli eventi e quanto invece è conseguenza del controllo e della manipolazione delle informazioni da parte di un nucleo ristretto di persone?
Leggi la seconda parte dei Twitter Files
Twitter Files: depistaggi politici e psy-ops
In queste settimane numerosi giornalisti sono alle prese con documenti e comunicazioni riservate di Twitter diffusi da Elon Musk. Li chiamano “Twitter Files”. I primi cinque Twitter Files hanno rivelato i meccanismi interni alla moderazione di Twitter, tra manager politicizzati con deliri di onnipotenza e interferenze da parte dell’intelligence. Oggi sc…
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2 months ago · 2 likes · Matte Galt
Perché è importante avere medici che lavorano all'interno dei media? Il pubblico deve essere più alfabetizzato scientificamente?
Il pubblico deve essere più istruito scientificamente?
In questo episodio bonus, i produttori di RSC Hiren Joshi e Lizzy Ratcliffe parlano in modo approfondito con il medico di famiglia preferito di ITV, il dottor Hilary Jones. Il dottor Hilary condivide 40 anni di saggezza medica, la sua esperienza di lavoro nei media e riflette sulle sfide mediche presenti nella resistenza antimicrobica.
cc @Salvo Di Grazia @Carlo Gubitosa :nonviolenza:
technologynetworks.com/tn/vide…
Do the Public Need To Be More Scientifically Literate? With Dr. Hilary Jones
Why is it important to have doctors working within the media? Do the public need to be more scientifically literate? What advances have we seen in diagnostics? And how can this help GPs in the UK?Technology Networks
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Rapporto Oxfam sulle disuguaglianze: come dobbiamo tassare ora i super ricchi per combattere la disuguaglianza
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Stiamo vivendo un momento senza precedenti di molteplici crisi. Decine di milioni di persone in più soffrono la fame. Altre centinaia di milioni affrontano aumenti impossibili del costo dei beni di prima necessità o del riscaldamento delle loro case.
Il collasso climatico sta paralizzando le economie e vedendo siccità, cicloni e inondazioni costringere le persone a lasciare le loro case.
Milioni di persone stanno ancora vacillando per il continuo impatto del COVID-19, che ha già ucciso oltre 20 milioni di
persone. La povertà è aumentata per la prima volta in 25 anni. Allo stesso tempo, queste molteplici crisi hanno tutte dei vincitori. I più ricchi sono diventati drammaticamente più ricchi e i profitti aziendali hanno raggiunto livelli record, provocando un'esplosione di disuguaglianza.
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L’Italia tra il 2% Nato e le norme Ue. Cos’ha detto Crosetto
“Lo scenario internazionale ci pone di fronte a sfide difficili e problematiche per tutti. È necessaria un’Alleanza forte e coesa e, al contempo, una maggiore cooperazione bilaterale tra Paesi alleati e partner, non solo nel campo militare e nel rapporto tra Forze Armate, ma anche nel settore industriale e tecnologico”. Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto, al termine del Consiglio Atlantico in formato ministri della Difesa che si è tenuto ieri e oggi presso il quartier generale della Nato.
IL MEETING
“Un meeting molto positivo”, ha aggiunto il ministro, commentando le due intense giornate di lavori che lo hanno visto impegnato anche in numerosi incontri bilaterali a con i suoi omologhi titolari di Ministeri della Difesa. La ministeriale è stata l’occasione per fare il punto sugli scenari futuri che la Nato dovrà affrontare e sulle necessità economiche, finanziarie e militari dei Paesi che vogliono contribuire all’Alleanza. I ministri si sono confrontati, in particolare, sull’Ucraina, nonché sull’attuale postura dell’Alleanza in previsione del Summit di Vilnius che si terrà a luglio.
FINLANDIA E SVEZIA
Alla sessione odierna, dedicata alla deterrenza e difesa, hanno anche preso parte, quali rappresentanti di Paesi invitati, i ministri della Difesa finlandese e svedese. “L’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato sarà un valore aggiunto per la nostra difesa collettiva” ha affermato Crosetto.
IL SOSTEGNO ALL’UCRAINA
Ieri il ministro ha incontrato l’omologo ucraino Oleksii Reznikov al quale ha ribadito il più convinto sostegno dell’Italia, insieme agli alleati e partner di Nato e Unione europea, all’Ucraina. Un impegno che mira a garantire la libertà, il diritto all’integrità territoriale, all’indipendenza e alla difesa del popolo ucraino.
L’OBIETTIVO 2%
Tema al centro della riunione e in vista del summit di Vilnius è l’obiettivo Nato del 2% del Pil speso in difesa. L’Italia, ha ricordato Crosetto, è sotto il 2%. “Ci siamo impegnati, tutti i governi si sono impegnati a raggiungerlo entro una data che varia a seconda del governo e a seconda della riunione della Nato” a cui si partecipa. “Mi sono permesso di inserire nelle dibattito, anche se non era sul tavolo, il tema di coniugare l’impegno per la spesa al 2% con i limiti dei parametri europei che obbligano una scelta di quel tipo a subire altri tagli. Ho posto un tema che va al di là della Nato”, e riguarda “soprattutto gli alleati che fanno parte della Nato ma che sono membri dell’Unione europea”. A chi chiedeva se vi sia stata una risposta a questa questione da parte dei paesi Ue membri della Nato, e se qualcuno abbia sostenuto l’idea di uno scorporo del 2% della spesa per la Difesa dal calcolo del deficit nel Patto di stabilità, il ministro ha replicato: “Non facciamo domande e risposte in questi meeting, ognuno fa dei ragionamenti e gli altri sentono quello che i colleghi dicono”.
Il tema “l’ho posto perché l’impegno che pretendono molti alleati della Nato è quello di raggiungere cifre del 3-4%, e alcune nazioni sono già al 4%”, ha continuato. “Io ho parlato della difficoltà in Italia di raggiungere già l’obiettivo che ci siamo dati, e tutti i governi hanno dichiarato di voler raggiungere il 2%. Bisogna essere seri, non si può venire qua e raccontare cose diverse; io ho raccontato quelle che erano le problematiche italiane di collegare quel 2% al bilancio che ogni anno deve approvare il Paese, e alle regole che l’Europa impone collegate col bilancio”.
Così la Difesa può valorizzare le proprie strutture
Efficientamento energetico, progetti di caserme verdi, autosufficienza e interazione con il pubblico civile. Questi e molti altri temi sono stati affrontati durante la conferenza “La valorizzazione e la gestione del patrimonio immobiliare della difesa”, a cui hanno partecipato i relatori Salvatore Farina, presidente del Centro Studi dell’Esercito e già capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Giancarlo Gambardella, direttore della Direzione dei Lavori e del Demanio del Segretariato generale della Difesa, Nicola Latorre, direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa, e Andrea Tanzi, presidente di Architecture and Engineering for Defence (Aedef), tenutasi presso il Centro Studi Americani e moderata da Giorgio Rutelli, direttore di Formiche.net.
Il tema della ristrutturazione e messa in efficienza delle caserme e dei distretti militari è direttamente collegato al benessere del personale impiegato, ricorda il generale Farina. Le problematiche che oggi si riscontrano principalmente nelle caserme sono l’obsolescenza delle strutture stesse e il fatto di essere scarsamente efficienti dal punto di vista energetico, oltre ad essere spesso collocate in zone urbane centrali.
Per questi motivi, i nuovi piani già in atto prevedono la costruzione o lo sfruttamento di siti già esistenti tenendo a mente i criteri di standardizzazione e modularità delle unità immobiliari. Il tutto nella cornice della tutela ambientale, del contenimento dei costi e della vicinanza alle aree addestrative. Le nuove strutture di Roma, Pordenone, Foggia e Salerno fungono in questo senso da iniziative-pilota.
Il progetto, che ha ricevuto uno stanziamento da 1,4 miliardi di euro e prevede di arrivare a 4 miliardi, prevede anche un’inedita iniziativa: l’apertura delle aree non sensibili delle strutture alla cittadinanza. La proposta aprirebbe le porte di alcune delle strutture sportive, sociali e ricreative ai familiari dei militari ma anche ai civili.
Ulteriore questione che si pone è quella della valorizzazione degli immobili non più utili per le funzioni militari. Il generale Gambardella si sofferma sul punto. Alcune strutture vengono oggi utilizzate dal mondo universitario, come testimoniato ad esempio dai nuovi poli di Università Cattolica e Università di Padova, oppure dalla futura cessione della caserma Amione di Torino ad amministrazioni pubbliche, con grande risparmio per le casse dello Stato.
Per altre, fa notare il generale, si aprono prospettive interessanti se la Difesa riesce a mettersi nell’ottica dell’imprenditore per rendere gli immobili appetibili sul mercato. Un atteggiamento che si concentra sulla valorizzazione del contesto territoriale per attirare grossi investitori del mercato real estate enfatizzando i possibili usi dell’immobile.
Questi sviluppi, in alcuni casi facilitati dal Pnrr, rischiano di avere carattere occasionale, fa notare Latorre. È quantomai opportuno, dunque, renderli degli sforzi strutturali che tendano all’autonomia del sistema della Difesa. Anche, possibilmente, con un accordo quadro tramite l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e la Conferenza Stato-Regioni, perché il problema maggiore non è la mancanza di fondi ma la capacità di gestirli.
Pubblico e privato trovano un punto comune nelle infrastrutture, ricorda Andrea Tanzi. Aedef è un consorzio in grado di governare tutti i processi di engineering multidisciplinare a servizio delle infrastrutture per la Difesa, integrando le discipline richieste ed adeguando la propria offerta tecnica. Che si riscontra, ad esempio, nello stabilimento di Cameri per gli F-35, nei servizi della scuola internazionale di volo a Decimomannu, nei servizi di supervisione per la base Eurofighter in Kuwait, o nello stabilimento elicotteristico in Algeria, per citarne alcuni.
Gli aiuti Nato alla Turchia passano dal terminal di Taranto
Ieri i ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles per partecipare al Consiglio atlantico nel quartiere generale dell’alleanza, hanno osservato prima dell’inizio dell’incontro un minuto di silenzio per esprimere il loro cordoglio verso le popolazioni di Turchia e Siria, colpite lo scorso 6 febbraio dai devastanti terremoti che hanno provocato almeno 41.000 morti.
Nelle stesse ore il comando Nato di Napoli ha annunciato via Twitter che sono iniziati i preparativi per l’invio di 1.000 container di aiuti alla Turchia per il terremoto che ha colpito il Sud del Paese. L’alleanza, tramite la sua Nato Support and Procurement Agency, ha cominciato a trasferirli al terminal container San Cataldo di Taranto gestito dal gruppo turco Yilport. Il presidente Yuksel Yildirim segue da vicino le operazioni, ha spiegato la società.
#NATO Support and Procurement Agency (#NSPA) has begun moving containers stored at its Southern Operational Centre in #Taranto, Italy to their port of embarkation for shipment to Türkiye. pic.twitter.com/V7tBHPmofQ— NATO JFC Naples (@JFC_Naples) February 14, 2023
Si tratta di un rifugio semi-permanente in grado di ospitare almeno 2.000 persone destinato alla provincia di Hatay. I container dovrebbero essere inviati in due spedizioni da 500 ciascuna. La prima spedizione dovrebbe partire la prossima settimana, ha spiegato il comando Nato di Napoli.
This semi-permanent shelter is capable of housing at least 2,000 people displaced by the earthquakes in #Türkiye, and consists of more than 1,000 shipping containers. pic.twitter.com/matLGt2XJg— NATO JFC Naples (@JFC_Naples) February 14, 2023
Domani Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, sarà in visita in Turchia. Nella sua agenda ci sono incontri con il presidente Recep Tayyip Erdoǧan e con Mevlüt Çavuşoğlu, ministro degli Esteri, oltre a un sopralluogo nelle aree colpite dai terremoti. Sarà l’occasione “per continuare a discutere con loro di come la Nato e gli alleati della Nato possano fornire sostegno ai soccorsi e contribuire ad alleviare le sofferenze e le conseguenze del terribile terremoto”, ha dichiarato Stoltenberg oggi. Ringraziando i Paesi membri per quanto già fatto, ha raccontato poi di aver concluso la riunione chiedendo un sostegno “ancora maggiore” alla Turchia. “C’è urgente bisogno di un maggior numero di voli strategici”, ha aggiunto.
(Foto: Twitter @JFC_Naples)
Recedenti
Non è stupefacente che si vada in così pochi a votare. Non si tratta solo dell’ultima tornata, ma di una deriva in atto da tempo. Non è questione che riguardi questa o quella parte politica, ma la politica tutta. Altrimenti la frattura fra il discorso politico, in generale il discorso pubblico, e la realtà diventa davvero pericolosa.
Quando si fa cenno alla distanza fra “i politici” (che è già definizione indiscriminata, sicché qualunquista) e la vita di ogni giorno ci si riferisce, per lo più, al tema dei privilegi lontani dai bisogni. Ma è un approccio moralistico, inconcludente, cui il personale politico risponde provando a usare il linguaggio della “gente”, con ciò stesso comunicando che lo ritiene un frullato fra superficiale, rozzo e volgare. Tutta commedia, tutta fuffa. La frattura c’è, ma si allarga da un’altra parte, che è poi quella in cui si trovano tanti dei non votanti.
Il nostro discorso pubblico, che sia fatto dalla politica o dalla comunicazione, ha un vocabolario limitato ai disastri e alla miseria, corredato di concetti che cavalcano i soprusi e le ingiustizie. Siccome poi le cose non cambiano, trattasi di un gigantesco piagnisteo inutile. A questo si aggiunga che avendo un’intonazione rivendicativa, va a finire che, stando sempre sulle premesse e mai nel concreto, finisce con il rivendicare cose opposte. È invece sprovvisto di tesi, idee e suggestioni che maneggino il positivo, la crescita, il progresso. Vediamo perché e il danno che provoca.
L’intera campagna elettorale nazionale, che ha portato alle elezioni del settembre scorso, è stata condotta cantando i salmi della recessione. La gara era a chi si doleva e condoleva di più, a chi andava promettendo più aiuti e sostegni. Una congrega di recedenti. Ma mentre questo andava in scena, il governo Draghi, nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, avvertiva che la crescita 2022 sarebbe stata superiore al previsto e quella del 2023 pari a un +0.6%. Crescita meno sostenuta, ma pur sempre crescita. Che sarebbe l’opposto della recessione. Vabbè, ma Draghi barava per magnificarsi, gli altri che dicevano? Tutti (dalla Commissione Ue all’Ocse) segnalavano crescita, più contenuta, salvo il Fondo monetario. E tutti si sbagliavano, perché all’inizio dell’anno era già acquisito il +0.4% e ora le previsioni volgono verso un +0.8%. Siccome non ci sono né trucchi né miracoli è segno che l’Italia produttiva funziona maglio di quanto si creda, difatti a dicembre si raggiungeva il 60.5% della popolazione attiva occupata (che non è molto, ma lo è per l’Italia) e semmai il problema era ed è quello dei lavoratori mancanti.
Se non ci si tappasse gli occhi davanti a tutto questo ci si concentrerebbe sul cosa può essere fatto per rendere migliore la vita dell’Italia produttiva, sforzandosi di portare quel modello dove le cose non funzionano. Invece si parte dalle cose che non funzionano, le si erige a simbolo d’Italia e ci si pone il problema di come portare via soldi alla parte produttiva per finanziare l’improduttiva. Volete anche il voto?
Abbiamo discusso per settimane di regionalismo differenziato. Il governo ha varato un testo (campa cavallo), dicendo che più si delega e meglio funzioneranno le cose. Poi ne succedono due: a. alle elezioni per le preziosissime regioni non vanno che pochissimi; b. al Consiglio dei ministri di domani (giovedì) dovrebbe arrivare il testo di un decreto relativo al Pnrr, che centralizza competenze e responsabilità, in modo da non perdere il treno. Non conosco il testo, ma concetto corretto. Solo che è diverso da quanto sostenuto una settimana prima del voto.
Non è mica un problema del solo governo o della sola destra: è un costume generalizzato. Che presuppone l’Italia produttiva funzioni e pedali comunque, mentre i voti si vanno a cercare allargando la spesa pubblica corrente e spendendo parole di consolazione e rivendicazione. Così la frattura s’allarga, sentendosi traditi e presi in giro gli uni e gli altri.
L'articolo Recedenti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’evento
Ora è finito. Dalla minoritaria posizione di chi non ne ha seguito una sola serata (tutte nottate, per la precisione), dall’ancor più ristretta cerchia di quanti non ne hanno detto una parola, in corso d’opera, porto il mio omaggio al significativo evento. Noi non seguaci del Festival siamo indicati come spocchiosi elitari. Non ho nulla contro le élite, ma ho l’impressione che siano gli entusiasti a sottovalutare, nel bene e nel male, almeno tre aspetti.
1. È uno dei pochi eventi del secolo scorso che porta nel presente l’antico modello comunicativo. Un trionfo del broadcasting: una cosa avviene in un punto, da quello viene trasmesso in tutti gli altri, e anche chi non lo segue è al corrente di quel che accade, perché diventa argomento di generale comunicazione e conversazione. Nel mondo digitale il pubblico si frammenta, ciascuno guarda o ascolta quello che gli pare, destrutturando le basi del discorso comune. Il Festival s’impone come evento e ribalta i rapporti di forza, mettendo il digitale al servizio dell’unicità. Quanti si ostinano a sfuggire verranno comunque raggiunti dall’eco di quel che colà accade.
Si può essere felici o costernati che ciò accada per un concorso canoro, ma è irrilevante. Quel che conta è che si tratta di un esempio, raro, di argomento comune sul quale si possono avere opinioni opposte. Le democrazie funzionavano così e hanno cominciato a funzionare meno da quando ciascuno non ha solo la propria opinione, ma anche la propria realtà. E se il vecchio modello offriva troppo potere agli ideatori del discorso comune, quello della frammentazione offre troppi spazi ai mestatori della sua demolizione.
2. Il Festival ha successo perché ci sono le canzoni, ma ci tiene a non essere un Festival delle canzoni. Non ho misuratoti particolari, ma credo che la gran parte del pubblico segua le canzoni, mentre la pressoché totalità del discorso di contorno è su altro. E il resto, anno dopo anno, da tanti e tanti anni, è sapientemente costruito per far parlare chi non sa cantare. Non c’è Festival senza polemica del Festival. E qui diventa lo specchio di quel che l’intellettualità poco pensata suppone sia la sensibilità degli italiani. Destra e sinistra va sempre bene, in un Paese fazioso, ma il sesso è una miniera inesauribile. Perché sia sfruttato appieno si deve essere rompitori di tabù, che se non ci sono più tocca inventarseli. Tabù, che ridere: <<Che bella pansé che tieni/ che bella pansé che hai/ me la dai?…>>. Nino Taranto, 1953. Poi Renato Carosone. Oggi sarebbero lapidati.
Gli scandalizzati odierni, da mostrare in scena, non sono il pastore sardo e la casalinga di Voghera, di arbasiniana memoria, ma le tatuate beghine del politicamente corretto, pronte a tremar d’indignazione libertaria se solo t’azzardi a dire che una slinguazzata organizzata e solo una gran cafonata, sicché a quel punto le beghine del conformismo che s’immagina anticonformista tuonano: omofobia. Oh beghine care, la fobia, ovvero la paura, è un problema serio, ma non è che l’ossessività sia da meno. L’idea che un complimento spinto sia violenza, se intersessuale, mentre una lingua in bocca sia passione, se omo, pareggia le beghine odierne a quelle del <<non lo fo per piacer mio, ma…>>.
In quanto alla destra e alla sinistra, disse già tutto Giorgio Gaber nel monologo su chi era comunista, del 1991: c’è chi era comunista perché lo spettacolo lo richiedeva, c’è chi era comunista perché prima era fascista. I coraggiosi portatori delle idee scontate.
3. Tuona la destra: fuori la sinistra dalla Rai. Calmatevi. L’avete lottizzata a turno. Fu già di destra, conservando la sinistra, e fu già di sinistra, conservando la destra. Ora rilottizzerete, ma non provateci nemmeno a far credere che sia una svolta. Ascoltate Amadeus, che se ne intende: gli ascolti chiudono il discorso. Verissimo, ma quale? Quello del servizio pubblico, perché quando s’usa quel metro quella che vi spartite è una televisione commerciale, posseduta dallo Stato e finanziata da contribuenti che non vorrebbero contribuire.
Andate pure avanti così, ma amerei non lo faceste a mie spese.
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Turchia: il terremoto potrebbe ribaltare il panorama politico
La mattina presto del 6 febbraio, due terremoti hanno devastato la Turchia sudorientale e la Siria settentrionale, facendo crollare edifici in un raggio sorprendente di diverse centinaia di chilometri. Più di 22.000 persone sono morte e altre decine di migliaia sono rimaste ferite. Giorni dopo, sopravvissuti e vittime rimangono tra le macerie. Con ogni probabilità, […]
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Ucraina: la Russia bombarda solo per bombardare
“Ero quasi addormentato, verso le 10 o le 11, quando ho guardato fuori dalla finestra ed era come un’alba rossa”, ha detto Alla, 64 anni, le cui finestre dell’edificio vicino sono state distrutte dall’esplosione. Il vetro era sparso per terra e la porta accanto il proiettile ha lasciato un buco aperto sei piani più in […]
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Vita di impresa: assetti organizzativi e prevenzione dei reati
Il 22 febbraio alle ore 18:00 presso l’aula Malagodi della Fondazione Einaudi si terrà la conferenza dal titolo: “Vita di impresa: assetti organizzativi e prevenzione dei reati”
Curatore dell’eventoNino Parisi
Saluti introduttiviAndrea Cangini
Tavola rotonda– Andrea Ostellari
– Antonio Matonti
– Anna Vittoria Chiusano
– Massimiliano Annetta
Sessione di Q&A con i rappresentanti del mondo produttivo
Aperitivo di network
L’evento verrà trasmesso in streaming sui social network della Fondazione
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Il Giappone e il miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore agricolo
Nel 2019, il governo giapponese ha introdotto la legge di riforma dello stile di lavoro che ha cercato di aumentare la diversità sul posto di lavoro e migliorare le condizioni di lavoro. Ma la riforma non è stata discussa a sufficienza in uno dei settori che ne ha più bisogno: l’agricoltura. L’industria agricola in Giappone […]
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Ucraina: il percorso verso la pace passa direttamente attraverso le linee rosse di Putin
Mentre l’invasione russa dell’Ucraina si avvicina al traguardo di un anno, la risposta occidentale è ancora minata da timori esagerati di escalation e preoccupazioni mal riposte sui pericoli di ‘provocare Putin’. Ma mentre i leader e i commentatori occidentali continuano ad avvertire delle terribili conseguenze se l’Ucraina osa resistere, l’esperienza degli ultimi dodici mesi racconta […]
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Non dobbiamo impegnarci in crociate isteriche contro Russia e Cina
Dall’inizio della guerra di Vladimir Putin in Ucraina, molti leader occidentali hanno inciampato in se stessi nel tentativo di far vedere che stavano facendo più dei loro pari per sostenere l’Ucraina nella sua guerra contro la Russia. Il recente apparente colpo politico del governo del Regno Unito nel convincere il leader ucraino Volodymyr Zelensky a visitare […]
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Carcere minorile di Nisida: Francesca Fagnani come Eduardo
‘Notizie’, fatti, situazioni che meriterebbero maggiore attenzione e riflessione; e che invece ‘scivolano’ tra l’indifferenza dei più e il fastidio di molti. Carcere milanese di San Vittore. La notte di Capodanno Luis, un ragazzo peruviano di 21 anni, viene incarcerato, l’accusa è furto aggravato; un mese dopo si impicca. Riescono a soccorrerlo, ma le sue […]
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La sinistra “fuori moda e fuori tema” e una riflessione sull’astensionismo
Al direttore
Chiuse le urne nelle due principali regioni italiane, al netto delle percentuali dei singoli partiti o della somma puramente algebrica degli stessi, queste elezioni hanno certificato qualcosa di più profondo, su cui vale indubbiamente la pena soffermarsi e riflettere. Fatte salve eventuali prossime smentite che dobbiamo certamente mettere in conto, al momento è importante analizzare la realtà dei dati “a caldo”.
In questa tornata elettorale, dove, come si diceva, sono andate al voto quelle che senza alcun dubbio possiamo definire le regioni nevralgiche dell’intero paese (una, il Lazio, sede del motore politico nazionale, l’altra, la Lombardia, di quello economico), hanno avuto la meglio i partiti, di maggioranza o di opposizione, meglio strutturati. Non è un problema di leadership: tutti gli attuali movimenti politici, chi più chi meno, hanno un leader facilmente riconoscibile e riconducibile al partito di appartenenza.
Ma non possiamo certamente prescindere da una considerazione oggettiva: la Lega, il Partito democratico e Fratelli d’Italia hanno qualcosa in più. Anzi, qualcosa che agli altri storicamente manca: una struttura e una classe dirigente sedimentata nel tempo e, soprattutto, strutturata. Di questi tre, due di maggioranza e uno di opposizione, che indubbiamente hanno “tenuto” a queste elezioni, c’è altresì da notare che uno (il Pd) è anche momentaneamente senza leader. Tutti e tre provengono da una storia che ha radici profonde, nonostante talvolta il cambio di sigle o di nomi.
La Lega può certamente essere considerato un partito “storico”, anzi, nel panorama parlamentare attuale è quello più longevo tuttora in campo. Se vogliamo, potremmo definirla una sorta di vendetta della politica: non è sufficiente essere un abile oratore, un politico preparato o anche uno straordinario comunicatore: occorre un Partito! Non serve avere tanti vice leader, che poi nella realtà dei fatti sono qualifiche insignificanti, serve invece una solida classe dirigente sui territori.
Una condizione del genere non si costruisce dall’oggi al domani, ci vogliono forza e coraggio (e spesso anche batoste elettorali!), ma è senza dubbio – la storia lo insegna – garanzia certa di durata nel tempo e, soprattutto, di capacità di assorbire i colpi. Non garantisce insomma il successo, le vittorie o gli insuccessi in politica si susseguono e si inseguono, ma garantisce ammortizzatori che possano governare le affermazioni elettorali e cauterizzare le sconfitte.
Possiamo essere certi che da domani i politologi si concentreranno sulla scarsa partecipazione al voto e amenità del genere, ma questi sono dati in linea con l’andamento di tutti o quasi i paesi europei nel momento storico attuale. L’elemento di novità mi pare proprio quello sopra segnalato, ma ci sarà certamente tempo e modo di ritornarci, questa volta “a freddo”.
Giuseppe Benedetto,
Presidente della Fondazione Luigi Einaudi
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La sinistra “fuori moda e fuori tema” e una riflessione sull’astensionismo
Al direttore
Chiuse le urne nelle due principali regioni italiane, al netto delle percentuali dei singoli partiti o della somma puramente algebrica degli stessi, queste elezioni hanno certificato qualcosa di più profondo, su cui vale indubbiamente la pena soffermarsi e riflettere. Fatte salve eventuali prossime smentite che dobbiamo certamente mettere in conto, al momento è importante analizzare la realtà dei dati “a caldo”.
In questa tornata elettorale, dove, come si diceva, sono andate al voto quelle che senza alcun dubbio possiamo definire le regioni nevralgiche dell’intero paese (una, il Lazio, sede del motore politico nazionale, l’altra, la Lombardia, di quello economico), hanno avuto la meglio i partiti, di maggioranza o di opposizione, meglio strutturati. Non è un problema di leadership: tutti gli attuali movimenti politici, chi più chi meno, hanno un leader facilmente riconoscibile e riconducibile al partito di appartenenza.
Ma non possiamo certamente prescindere da una considerazione oggettiva: la Lega, il Partito democratico e Fratelli d’Italia hanno qualcosa in più. Anzi, qualcosa che agli altri storicamente manca: una struttura e una classe dirigente sedimentata nel tempo e, soprattutto, strutturata. Di questi tre, due di maggioranza e uno di opposizione, che indubbiamente hanno “tenuto” a queste elezioni, c’è altresì da notare che uno (il Pd) è anche momentaneamente senza leader. Tutti e tre provengono da una storia che ha radici profonde, nonostante talvolta il cambio di sigle o di nomi.
La Lega può certamente essere considerato un partito “storico”, anzi, nel panorama parlamentare attuale è quello più longevo tuttora in campo. Se vogliamo, potremmo definirla una sorta di vendetta della politica: non è sufficiente essere un abile oratore, un politico preparato o anche uno straordinario comunicatore: occorre un Partito! Non serve avere tanti vice leader, che poi nella realtà dei fatti sono qualifiche insignificanti, serve invece una solida classe dirigente sui territori.
Una condizione del genere non si costruisce dall’oggi al domani, ci vogliono forza e coraggio (e spesso anche batoste elettorali!), ma è senza dubbio – la storia lo insegna – garanzia certa di durata nel tempo e, soprattutto, di capacità di assorbire i colpi. Non garantisce insomma il successo, le vittorie o gli insuccessi in politica si susseguono e si inseguono, ma garantisce ammortizzatori che possano governare le affermazioni elettorali e cauterizzare le sconfitte.
Possiamo essere certi che da domani i politologi si concentreranno sulla scarsa partecipazione al voto e amenità del genere, ma questi sono dati in linea con l’andamento di tutti o quasi i paesi europei nel momento storico attuale. L’elemento di novità mi pare proprio quello sopra segnalato, ma ci sarà certamente tempo e modo di ritornarci, questa volta “a freddo”.
Giuseppe Benedetto,
Presidente della Fondazione Luigi Einaudi
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Il suicidio dell’Ue sull’elettrico
Serve razionalità civile, politica ed economica per analizzare un suicidio civile, politico ed economico. L’adesione incondizionata dell’Unione europea al totem dell’elettrico coincide con la mutilazione di una specializzazione (il diesel prima di tutto), con la cessione di sovranità tecnologica (l’elettrico è core business della Cina) e con la prospettiva di una desertificazione industriale, che comprende sia i carmakers sia
la filiera. Questo indebolimento dell’Europa delle fabbriche fa il paio con il rafforzamento dell’America delle fabbriche, che beneficia di un pacchetto di 400 miliardi di dollari –l’Ira, Inflation reduction act – con sussidi diretti alle imprese e sconti fiscali alle famiglie per l’acquisto di prodotti green, come le auto elettriche.
Il contesto europeo nasce dall’innestarsi di due fenomeni psico-politici prima che tecno-produttivi: il diesel gate tedesco e l’ecologismo radicale, con i suoi tratti da pseudo-religione. Il primo ha oscurato nella opinione pubblica europea ogni significativo miglioramento nell’impatto ambientale dei carburanti tradizionali. Il secondo ha ammantato di moralismo ogni discorso pubblico sulle nuove tecnologie. L’elettrico è assurto a dogma che ha cancellato ogni comparazione approfondita sugli effetti in Africa, in Sud America e in Asia dell’estrazione e della lavorazione delle terre rare con cui si fabbricano, per esempio, le batterie. Questo dogma astratto ha trascurato gli effetti reali sui cittadini-consumatori: in teoria i primi beneficiari, nei fatti le vittime di una selezione “classista” di portafoglio, perché le vetture elettriche sono in media più care.
Un dogma ma anche un perno dei nuovi equilibri internazionali, con appunto la Cina in una posizione di leadership funzionale anche alla cessione di sovranità tecnologica da parte dell’Europa. Nell’elettrico servono meno addetti per produrre una automobile. E la componentistica è differente da quella attuale. In questo contesto esiste l’Unione europea. Ma esistono anche la Germania, la Francia e l’Italia. Con le proprie specificità. Sul piano nazionale per il nostro Paese le cose si complicano. Nella dimensione pubblica e nella dimensione privata. La Francia con il suo centralismo e la Germania con il sistema misto governo nazionale-Laender possono finanziare le politiche industriali di transizione con più agio rispetto all’Italia, perché hanno conti nazionali più in ordine. L’altro elemento sono i singoli produttori, appunto, nazionali.
In ogni tecnologia di frontiera la concentrazione delle risorse tecnologiche e finanziarie, scientifiche e manageriali avviene in nodi coesi e corposi, come appunto le grandi imprese, che producono ricadute sulle filiere sottostanti. I produttori tedeschi hanno reagito al dieselgate con imponenti piani di investimento sull’elettrico, beneficiando del connubio con il sistema cinese. Renault e Peugeot hanno nel tempo creato noccioli duri sull’elettrico che, adesso, costituiscono buone radici generative. Nella dinamica di Stellantis – nata dalla fusione formale e dall’annessione sostanziale di Fca a Peugeot – il sistema industriale nazionale italiano sconta un ritardo di trent’anni: la gracilità dei
cicli di investimenti della Fiat negli anni ’90, la debolezza patrimoniale sua e di Chrysler e la sfiducia nel modello di business dell’elettrico di Marchionne hanno favorito lo svuotamento industriale del Paese di origine, l’Italia, dei suoi marchi, dei suoi centri di ricerca e delle sue fabbriche. Questo vale in ogni segmento. Tanto più nell’elettrico.
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L’Event Horizon Telescope ha scrutato nel cuore di una quasar | Passione Astronomia
"L’Event Horizon Telescope ha osservato la lontana quasar NRAO 530 per studiare l’oggetto e il ruolo dei campi magnetici nella sua formazione."
Roberto Resoli
in reply to Roberto Resoli • • •