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In Cina e Asia – Toni duri tra Wang Yi e Blinken
Toni duri tra Wang Yi e Blinken
La Cina ha ripreso di mira il settore finanziario?
Cina: ChatGPT e "fake news" nel mirino della polizia
La commissione consultiva cinese lancia comitato ambientale
Il Bangladesh diventerà il primo esportatore di vestiti nell'Ue?
Corea del Nord: nuovo test missilistico e scambi con la Cina
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Scuola di Liberalismo 2023 – Luigi Marattin, “Tassazione versus vessazione”
AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 20 febbraio 2023 – Si fanno ancora attendere le linee guida promesse dal governo de facto dei Talebani per regolamentare il ruolo delle donne nelle Organizzazioni Non Governative e riabilitarle al loro lavoro. Sono trascorse, infatti, tre settimane dalla missione ONU a Kabul dalla quale Martin Griffiths e gli altri delegati erano tornati con “risposte incoraggianti”, così avevano detto, da parte dei ministri talebani. Al centro dell’incontro c’era stata la discussione in merito al divieto per le donne afghane di lavorare nelle ONG, ratificato dal regime il 24 dicembre scorso. La causa della legge era, a detta del regime, il mancato rispetto da parte delle operatrici delle ONG delle norme di abbigliamento imposte dalla sharia.
Dopo il bando emesso dal governo talebano, alcune ONG avevano momentaneamente sospeso le loro attività nel Paese, e per tutte erano seguite ore di gelo di fronte all’incertezza di poter continuare ad adoperare personale femminile per le proprie missioni, ovvero di poter continuare a impiegare, in condizioni di sicurezza, almeno la metà dei propri dipendenti. Al decreto, che aveva gettato nello sconforto la comunità internazionale, aveva poi fatto seguito una correzione del tiro da parte dei Talebani, che avevano escluso dalle destinatarie del bando le donne che operavano negli ospedali e nel settore sanitario. L’International Rescue Committee (IRC), Save the Children e CARE avevano quindi riavviato in parte le proprie attività nel Paese.
Il 24 gennaio scorso, i Talebani avevano ricevuto una delegazione dell’ONU guidata da Martin Griffiths, Sottosegretario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e Presidente dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC), un forum che riunisce i leader di 18 organizzazioni umanitarie. In tale occasione, il governo afghano avrebbe, appunto, dichiarato di essere al lavoro nella redazione di “linee guida”, sic, per regolamentare il lavoro delle donne nelle ONG senza infrangere la legge islamica.
“Un certo numero di leader talebani mi ha detto che l’amministrazione talebana sta lavorando a linee guida che forniranno più chiarezza sul ruolo, la possibilità e auspicabilmente la libertà delle donne di lavorare nel settore umanitario”, aveva dichiarato Griffiths. Una promessa interpretata come un tenue segnale di speranza nonostante la sua vaghezza e malgrado la consapevolezza che un incontro con i leader talebani di Kandahar, roccaforte dei capi spirituali in grado di dire effettivamente l’ultima parola in tema di politica, sarebbe prezioso per sigillare l’accordo sul lavoro delle donne.
Pochi giorni prima, un’altra delegazione ONU aveva raggiunto a Kabul e Kandahar i leader talebani, sempre a proposito del divieto di lavorare nelle ONG per le operatrici afghane. Questa volta a guidarla era stata una donna, Amina Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, accompagnata da Sima Bahous, Direttore Esecutivo dell’Agenzia ONU per le Donne, e da Khaled Khiari, Segretario Generale aggiunto del Dipartimento di Costruzione politica e Operazioni di Pace. Mohammed si era detta “incoraggiata” dalle eccezioni fatte per le operatrici sanitarie, ma al tempo stesso aveva dichiarato che le conversazioni con la controparte erano state particolarmente “difficili”.
A tre settimane dall’ultimo incontro con i rappresentanti dell’ONU, il decalogo che dovrebbe permettere alle donne afghane di tornare a operare nelle ONG senza infrangere le norme di vestiario e di comportamento non è stato apparentemente ancora pubblicato. Le conseguenze dell’allontanamento delle dipendenti dal lavoro di soccorso alla popolazione afghana sono disastrose.
Il bando delle donne dalle attività assistenziali, infatti, colpisce non solo le lavoratrici e le loro famiglie, ma tutte le donne e i bambini destinatari dell’assistenza umanitaria. Le donne afghane, infatti, possono accettare aiuti – denaro, cibo, medicinali, vestiti – solo da altre donne, e comunicare solo con personale femminile.
Secondo i Gruppi di Lavoro sul “Genere nell’Azione Umanitaria” (Giha) e sull’”Accesso Umanitario”, entrambi operanti all’interno delle Nazioni Unite, il decreto di fine dicembre continua a danneggiare il lavoro umanitario e di conseguenza la popolazione afghana. Dalle risposte di un’intervista rivolta a 129 operatori di organizzazioni nazionali e internazionali e agenzie ONU, emerge, infatti, come a tre settimane di distanza dal bando il 93% delle ONG abbia assistito a un deterioramento delle proprie capacità di portare assistenza alle donne afghane.
Secondo l’inchiesta, inoltre, nell’81% delle ONG lo staff femminile non può più recarsi sul posto di lavoro. Al tempo stesso, le attività di protezione specifica per le donne, così come di monitoraggio dei loro bisogni assistenziali, sono state interrotte forzatamente dal bando.
Non è difficile immaginare quale danno stia rappresentando quindi il decreto nelle attività di aiuto in un Paese che attraversa una drammatica crisi dei diritti delle donne e una altrettanto tragica emergenza umanitaria. I numeri della sofferenza del popolo afghano rimangono raccapriccianti, nonostante il progressivo disinteresse di gran parte dei media per le sorti del Paese. Oltre 28 milioni di abitanti, più della metà della popolazione, secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, dipendono dagli aiuti umanitari. Tra questi, 6 milioni di persone, in gran parte bambini, patiscono letteralmente la fame.
Come dichiarato da Save the Children, che ha riavviato solo una parte delle sue attività nel Paese, “il bando alle lavoratrici delle ONG non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore”. “La severità dell’emergenza umanitaria in Afghanistan è qualcosa che non ho mai visto prima”, ha dichiarato il Direttore delle operazioni sul campo della ONG. “Quasi 20 milioni di bambini e adulti stanno affrontando la fame. Molte famiglie vanno avanti a pane e acqua per settimane”. A tutto ciò si aggiunge il freddo, che ancora non dà tregua. “I bambini stanno lottando per sopravvivere a un gelido, terribile inverno. E riscaldare le abitazioni è fuori questione”. Non poteva esserci periodo peggiore per recidere le braccia delle donne dagli aiuti a un Paese distrutto – sempre ammesso che un periodo “migliore” per farlo si possa mai immaginare. Pagine Esteri
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#uncaffèconLuigiEinaudi – Non vi è limite…
Non vi è limite alla quantità di opere pubbliche destinate a rendere più feconda l’opera dei produttori e più bella la vita dei cittadini
Lineamenti di una politica economica liberale, Movimento Liberale Italiano, 1943
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Guerra in Ucraina: la soluzione sta nel diritto internazionale
In un bellissimo articolo, pubblicato in traduzione italiana su Repubblica, quello che a tutti gli effetti è uno dei maggiori pensatori europei, Jürgen Habermas, analizza con una freddezza di ragionamento tagliente, ma con una partecipazione umana ed etica di singolare intensità, la questione della guerra in Ucraina. Dimostrando, detto incidentalmente, che razionalità, politica e diritto non […]
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Giorgia Meloni, ‘hai voluto Palazzo Chigi? E ora governa!’
Hai voluto Palazzo Chigi? E ora governa. Si può mutuare il famoso proverbio della bicicletta e dell’imperativo, una volta avutala, di pedalare, e chiederne conto a Giorgia Meloni: dalle comode e redditizie sponde dell’opposizione è approdata, trionfante e acclamata, alla famosa stanza dei bottoni. Ha chiesto la legittimità popolare, perché, obiettava, una quantità di governi […]
L'articolo Giorgia Meloni, ‘hai voluto Palazzo Chigi? E ora governa!’ proviene da L'Indro.
“Ali per la libertà”. Il generale Davis spiega il suo sì ai caccia a Kyiv
Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero fornire all’Ucraina aerei da combattimento occidentali ad ala fissa?
Sì, in particolare jet da combattimento multiruolo, di fabbricazione occidentale o russa. L’Ucraina merita tutto ciò che l’Occidente può fornirle per la sua lotta. L’Occidente non dovrebbe farsi scoraggiare dalle minacce bellicose e dalla campagna di disinformazione della Russia e dovrebbe ascoltare l’emozionante richiesta del Presidente Zelenskyy al Parlamento britannico, l’8 febbraio, di fornire “ali per la libertà”.
Questi caccia possono essere utilizzati per rafforzare la difesa dell’Ucraina, basata principalmente su “armi combinate” di terra, contro l’offensiva russa e per riconquistare il territorio occupato illegalmente dalle forze russe.
I piloti e i tecnici ucraini possono imparare a pilotare e a revisionare i caccia che ricevono. Inoltre, si può ritenere che i vertici militari ucraini impiegheranno con successo qualsiasi velivolo venga loro fornito, nel rispetto dei limiti imposti dai leader occidentali.
I piloti ucraini sono stati straordinariamente bravi a continuare a volare in missioni di combattimento, proteggendo e mantenendo una piccolissima forza di MiG ed elicotteri contro una vasta gamma di moderne difese aeree e terrestri russe. Le forze e i leader ucraini hanno dimostrato creatività, ingegno e intraprendenza nell’impiego dei sistemi d’arma terrestri ricevuti dalle nazioni occidentali. Dobbiamo aspettarci che continuino a farlo con qualsiasi velivolo venga loro fornito.
Imparare a pilotare e manutenere i caccia di fabbricazione occidentale richiederà tempo e dovrà essere accompagnato da forniture e strumenti per mantenerli pronti all’uso. Potrebbero essere necessarie ulteriori macchine spazzatrici di piste e strade per rimuovere i detriti. Dovranno essere dispersi, protetti, armati e dispiegati da luoghi con piste sufficientemente lunghe per il decollo e l’atterraggio. Questi sono tutti fattori di pianificazione, ma non motivi per negare i caccia all’Ucraina.
Quali sarebbero i migliori?
L’Ucraina ha bisogno di caccia multiruolo in grado di condurre una serie di attacchi al suolo, interdizione aerea e missioni di difesa aerea e superiorità aerea. I Paesi occidentali dispongono di diversi caccia che potrebbero fare al caso loro, dagli F-16 agli Eurofighter e ai MiG-29. Anche i Gripen e i MiG-21 potrebbero essere disponibili.
Ecco un rapido riassunto di ciò che si può o si potrebbe offrire. L’anno scorso la Polonia si è offerta di fornire 28 MiG-29 recentemente dismessi, un tipo di aereo che l’Ucraina già utilizza. La Slovacchia si è offerta di fornire la sua piccola flotta di MiG-29 (secondo quanto riferito, 11 dei 12 sono stati ritirati nel 2022). Il Regno Unito si è offerto di addestrare i piloti ucraini sui suoi Eurofighter Typhoon, senza specificare il numero o la data in cui potrebbe fornirli. Il Regno Unito ha già pianificato il ritiro di 24 Typhoon entro il 2025. Anche l’Italia, la Spagna e la Germania possiedono questi aerei, anche se nessuno di questi Paesi ha accennato a fornire caccia all’Ucraina.
Gli Stati Uniti, la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Romania non hanno escluso i caccia e hanno aerei disponibili per il trasferimento. Insieme, gli Stati Uniti e la Danimarca dispongono di oltre 1.300 F-16. Il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato l’USAF a ritirare 48 F-16 lo scorso anno. La Romania sta passando dai MiG-21 agli F-16.
In conclusione, sono disponibili numerosi velivoli, ma al momento sono più i contrari che i sostenitori a promuovere il trasferimento di jet occidentali all’Ucraina.
Che differenza farebbero nella guerra?
Se forniti in numero e con velocità sufficienti, i jet da combattimento consentirebbero all’Ucraina di difendere e riconquistare il territorio occupato. Gli aerei da combattimento che operano con funzione di interdizione aerea o di supporto a terra fornirebbero la necessaria capacità di attacco standoff a sostegno delle operazioni difensive e controffensive. Sarebbero in grado di colpire una serie di obiettivi chiave per l’Ucraina, come il comando e le comunicazioni (C2) russo, i rifornimenti e i nodi logistici, la difesa aerea, le capacità di guerra elettronica (EW) e, naturalmente, le unità di manovra (corazzate/meccanizzate/motorizzate) e le unità di fuoco indiretto.
I jet da combattimento in un ruolo di difesa aerea o aria-aria possono sconfiggere i MiG russi e, con il radar e le munizioni giuste, i droni e i missili da crociera. I caccia occidentali hanno generalmente un’avionica migliore, radar migliori, sistemi di guida migliori, contromisure EW migliori e missili migliori rispetto alle loro controparti russe. I jet russi possono essere più manovrabili, ma è improbabile che i piloti russi siano ben addestrati come le loro controparti occidentali o ucraine. L’arrivo di veicoli da combattimento occidentali, di sistemi di fuoco a lungo raggio e di difesa aerea, insieme ai jet da combattimento, consentirebbe una controffensiva di successo per riconquistare il territorio ucraino e sconfiggere l’obiettivo di Putin di annettere e mantenere porzioni dell’Ucraina orientale e meridionale.
Ma ci sono grandi domande a cui rispondere: ci sarà il via libera, quando e in che numero?
In termini di tempistica, supponendo che la decisione venga presa nei prossimi giorni, ci vorranno diverse settimane per addestrare i piloti a pilotare gli aerei di fabbricazione occidentale e alcuni mesi per impiegarli effettivamente. Gli aerei di fabbricazione occidentale non sarebbero disponibili prima dell’autunno, nella migliore delle ipotesi. Ma i MiG-29 e i MiG-21, meno performanti, potrebbero essere integrati molto più rapidamente, forse già quest’estate.
L’anno scorso i dirigenti dell’USAF hanno stimato che ci vorrebbero dalle quattro alle sei settimane per addestrare gli attuali piloti di MiG a pilotare un F-16, e altri tre-sei mesi per utilizzare efficacemente i suoi sensori e sistemi d’arma. I programmi di addestramento dei partner dell’USAF esistono già per l’F-16 e per altri jet di produzione statunitense. L’addestramento degli equipaggi di manutenzione e la spedizione di munizioni, ricambi, strumenti e attrezzature di supporto potrebbero avvenire in contemporanea. La Polonia e la Slovacchia dovrebbero essere incentivate e sostenute nel fornire i loro MiG-29 il prima possibile.
In termini numerici, in Polonia e Slovacchia ci sono abbastanza MiG-29 per formare due squadroni di quattro voli ciascuno (32 aerei in totale), che probabilmente raddoppierebbero la flotta operativa dell’Ucraina. Ci sono abbastanza F-16 disponibili per formare molti altri squadroni, ma i fattori limitanti sarebbero gli allievi piloti e i manutentori ucraini disponibili per l’addestramento, i rifornimenti necessari per armare e sostenere i jet e le infrastrutture per supportarli. E non è troppo presto per iniziare a pensare a lungo termine alla forza aerea di cui l’Ucraina avrà bisogno dopo il conflitto. Una combinazione di F-16 occidentali e MiG-29 di produzione russa potrebbe essere un mix sostenibile.
Se l’Occidente fornisse i jet, ci sarebbe ancora una ragione per negare all’Ucraina le munizioni per l’artiglieria a più lungo raggio?
Le preoccupazioni occidentali sui sistemi a lungo raggio si sono concentrate sul rischio di escalation e di potenziale allargamento della guerra alle nazioni alleate. Le minacce, le spacconate, la disinformazione e la propaganda russe hanno seguito ogni decisione occidentale di fornire all’Ucraina importanti sistemi d’arma.
È tempo che i leader occidentali si impegnino a sostenere l’Ucraina nel suo sforzo di ripristinare la piena integrità territoriale e di opporsi all’aggressione e ai giochi di potere di Putin.
Ciò include la fornitura di munizioni d’artiglieria a più lungo raggio, come la “bomba a piccolo diametro lanciata da terra” (ora in arrivo) e i sistemi missilistici tattici dell’esercito (non ancora approvati). L’Ucraina dovrebbe avere fiducia nell’impiego dei sistemi e delle munizioni occidentali che riceve per ripristinare il territorio occupato e astenersi dal colpire le infrastrutture civili o i civili in Russia.
I leader politici occidentali si sono lentamente mossi con un’assistenza militare sempre maggiore, spinti dalle chiare prove della barbarie della Russia. Ma soprattutto, c’è una necessità esistenziale per l’Occidente di stare al fianco di una nazione europea democratica sotto attacco per prevenire futuri conflitti in Europa; ulteriori esitazioni inviterebbero proprio a questo.
Questo articolo è apparso per la prima volta sul sito del Center for European Policy Analysis con il titolo “Send Western Wings for Ukraine’s Freedom”(traduzione di Formiche.net).
HO PERSO IL GUSTO, NON HA SAPORE
A scoppio ritardato scrivo anche io qualcosa di non-necessario su Sanremo.
Quest’anno non c’è stata una canzone che mi ha colpito particolarmente. È vero che a più riprese mi sono addormentato davanti alla TV, ma le esibizioni che perdevo, le recuperavo il giorno dopo su RaiPlay.
Ho visto qualche gag simpatica (gli interventi del solito immarcescibile Fiorello) e qualche piacevole sorpresa (Paola Egonu è stata la co-conduttrice più spontanea, paradossalmente anche quando leggeva). In generale però lo spettacolo mi è sembrato un po’ troppo costruito e in alcuni momenti anche un po’ stucchevole. Sarà che con il passare degli anni trovo sempre più noiose le confessioni e le prediche televisive fatte da chi ha il cXXo al caldo.
Per attirare l’attenzione su di sé, qualche artista ha azzardato – o “ha simulato” – uno scandaloso passionale colpo di testa: prendere a calci le rose, allungare il brodo all'infinito obbligando il pubblico a cantare un ritornello che non conosce, strusciarsi e baciarsi con l’influencer di turno, ecc... Ma dopo decenni di TV spazzatura oramai siamo tutti vaccinati (compreso i bambini) e la provocazione è diventata “Mission: impossible”.
Con questo non voglio dire che il Sanremo che ho visto sia tutto da buttare. Ci mancherebbe. Si sono esibiti anche dei bravi artisti. Qualcuno si è impegnato e ha fatto anche bene, tuttavia a distanza di una settimana dalla chiusura di Sanremo Venti23 (chiamarlo duemilaventitré non è più di moda) ricordo soprattutto due cose: la sanguigna “American Woman” di Elodie e Big Mama (per la cronaca: alla fine della canzone si sono baciate anche loro, ma nessuno ha montato polemiche) e la superba “Quello che non c’è” di Manuel Agnelli e gIANMARIA.
Lo so che sono di parte, perché adoro quella canzone e quel disco. E’ vero che gIANMARIA sembrava un pulcino bagnato, ma la performance di Manuel Agnelli e di Fabio Rondanini, batterista dei Calibro 35, è stata strepitosa.
Ma questo è camminare alto sull’acqua e su quello che non c’è.
Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: Cerimonia conclusiva della XII Edizione della Scuola di Liberalismo FLE di Messina
Ultimo atto dell’edizione 2022/23 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e con la Fondazione Bonino-Pulejo, con il patrocinio della Regione Siciliana e di cinque Ordini professionali (Architetti, Avvocati, Ingegneri, Medici Chirurghi ed Odontoiatri, Notai) di Messina.
Sabato 18 febbraio, a partire dalle ore 9.30, presso l’Auditorium della Gazzetta del Sud (in via Uberto Bonino n. 15/C, Messina), si svolgerà la cerimonia conclusiva della dodicesima edizione messinese del ciclo di lezioni dedicato alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale ed articolatosi in 14 lezioni (di cui 3 tenute in presenza ed 11 erogate in modalità telematica).
A partire dalle 9.30 si terrà la tavola rotonda “Gaetano Martino: Scienziato, Rettore, Statista, Europeista”, nella quale verrà ricordata ed omaggiata la figura dell’on. prof. Gaetano Martino (1900- 1967), docente di Fisiologia umana dapprima presso l’Università di Messina (di cui fu Rettore dal 1943 al 1957) e poi presso l’Università “La Sapienza” di Roma (di cui fu Rettore dal 1966 al 1967), Deputato della Repubblica Italiana dalla I alla IV legislatura, membro dell’Assemblea Costituente, Ministro degli Affari Esteri dal 1954 al 1957 (in tale veste fu promotore della Conferenza di Messina del 1955 a cui parteciparono i Ministri degli Esteri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio – CECA, nonché tra i firmatari dei Trattati di Roma del 1957 istitutivi della Comunità economica europea), Presidente del Parlamento europeo dal 1962 al 1964 e, soprattutto, insigne esponente del Partito Liberale Italiano (del quale fu anche Presidente dal 1961 al 1967). L’incontro sarà presieduto ed introdotto dal prof. Pippo Rao (Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi), con i saluti istituzionali del dott. Federico Basile (Sindaco di Messina) e gli interventi del prof. Rosario Battaglia (già Ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Messina, del prof. Salvatore Cuzzocrea (Magnifico Rettore dell’Università di Messina), del prof. Giuseppe Gembillo (Direttore Scientifico della Scuola di Liberalismo di Messina), del dott. Lino Morgante (Presidente della Fondazione Bonino-Pulejo), del prof. Giovanni Moschella (Prorettore Vicario dell’Università di Messina), dell’on. avv. Enzo Palumbo (componente della Commissione Giustizia della Fondazione Luigi Einaudi), del prof. Marcello Saija (Ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche presso l’Università di Palermo) e della prof.ssa Angela Villani (Ordinaria di Storia delle Relazioni internazionali presso l’Università di Messina). Le conclusioni saranno affidate all’avv. Giuseppe Benedetto (Presidente della Fondazione Luigi Einaudi).
A seguire, dalle ore 12.30 in poi, si svolgerà la premiazione dei vincitori delle cinque borse di studio, messe in palio a favore dei corsisti (di età inferiore ai 32 anni e frequentanti almeno i 2/3 delle lezioni della Scuola) che hanno svolto delle tesine sui temi oggetto del corso. Le borse di studio, tutte del valore di 500 € ciascuna e tutte intitolate alla memoria dell’on. prof. Gaetano Martino, sono state stanziate dall’Università degli Studi di Messina (in numero di due), dalla Fondazione Bonino-Pulejo, dalla Fondazione Luigi Einaudi e dal Coordinamento messinese della Fondazione Luigi Einaudi.
Della cerimonia di chiusura è prevista la realizzazione di una diretta streaming sulla pagina Facebook della Scuola di Liberalismo di Messina (facebook.com/scuoladiliberalis…).
La partecipazione all’evento è valida ai fini del riconoscimento di crediti formativi per gli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina, nonché per gli studenti dell’Università di Messina.
Pippo Rao Direttore Generale Scuola di Liberalismo di Messina
Visita la pagina della Scuola di Liberalismo 2022 – Messina
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Siamo tutti supereroi
Tra il 2006 e il 2007 uscì uno degli archi narrativi più belli, secondo me, dell’universo Marvel: Civil War. Qualcuno magari avrà visto l’omonimo film, che però non c’entra niente.
Oggi voglio raccontarvi questa storia perché ha molto a che fare con la realtà che ci circonda e con l’attualissima diatriba tra chi vorrebbe incatenarci tra mille algoritmi e sistemi di sorveglianza di massa e chi invece preferirebbe semplicemente essere libero. C’è molto da imparare anche dai fumetti.
Civil War è una storia che parla di libertà, di privacy e dell’ingerenza arbitraria del governo. Potremmo dire che Civil War descrive ciò di cui parliamo ogni settimana su Privacy Chronicles.
I veri supereroi sono iscritti a Privacy Chronicles
Civil War, la storia
Tutto iniziò con una squadra di giovani supereroi, i New Warriors. I sei si trovavano a Stamford, in Connecticut, per girare un reality-show chiamato “Superhuman High”. Durante le riprese vennero a sapere che nella città si trovava anche un gruppo di super-criminali, la Skeletal League, che proprio in quei giorni stavano progettando di rapinare una banca. L’occasione sembrò ghiotta per aumentare il rating televisivo del reality-show, così i New Warriors decisero di attaccare e cercare di catturare la Skeletal League in diretta TV.
Purtroppo le cose non andarono come previsto. Durante i combattimenti uno dei supercriminali — Nitro — provocò un’esplosione proprio nel mezzo della città, che distrusse diversi quartieri e anche una scuola, uccidendo più di 600 persone — tra cui molti bambini.
Il drammatico episodio fu presto strumentalizzato dalla politica per attaccare tutti i supereroi che fino a quel momento agivano in modo indisturbato e spesso anonimo nel territorio degli Stati Uniti. Nel giro di pochissimo tempo il governo presentò un nuovo disegno di legge, chiamato Superhuman Registration Act.
L’atto, se approvato, avrebbe obbligato ogni “superumano” a registrarsi presso il governo e rendere nota la sua identità. Questo avrebbe consentito alle autorità di regolamentare le attività dei “supereroi”, supervisionarli, e — se necessario — sanzionarli. Il dibattito fu subito infuocato.
Da una parte c’era chi, come Tony Stark (Iron Man), prese subito le parti del governo. Secondo lui il Registration Act era semplicemente un atto dovuto. Un gesto di civiltà. La legge e la supervisione del governo avrebbero responsabilizzato tutti i supereroi, che quindi avrebbero smesso di agire in modo indipendente e al di fuori della legge.
Stark voleva evitare a tutti i costi il ripetersi di incidenti come quelli di Stamford ed era convinto che questo sarebbe stato possibile grazie a una forte legislazione per delimitare e regolamentare il campo d’azione dei supereroi.
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Dall’altra c’erano invece persone convinte che il Registration Act non fosse altro che un modo per violare le libertà fondamentali dei superumani, costringendoli a rivelare le loro identità segrete e rinunciare a ogni indipendenza.
Il principale sostenitore di questa tesi era Steve Rogers (Captain America). Secondo lui i supereroi avevano il dovere di agire moralmente e responsabilmente, ma come individui e non come macchine controllate dallo Stato. Steve credeva che il Registration Act avrebbe tolto ogni libertà di autodeterminazione ai supereroi, consegnando invece al governo il potere di manipolarli per finalità politiche.
I mass media, il pubblico e diversi gruppi di supereroi si divisero presto in due fazioni: da una parte quella pro-governo, capitanata pubblicamente da Tony Stark; dall’altra quella “ribelle”, condotta da Steve Rogers.
Le due forze in campo divennero sempre più violente, fino a sfociare in una violenta guerra civile tra alcuni gruppi di supereroi fedeli a Tony Stark o Steve Rogers. La battaglia finale, che vide diversi feriti e morti, portò alla sconfitta di Captain America, che venne catturato e arrestato in quanto leader della fazione ribelle e anti-governativa.
L’arco narrativo si chiude con l’emblematica morte di Captain America, ucciso da un cecchino mentre veniva accompagnato in manette sulla scalinata del tribunale dove avrebbe dovuto essere giudicato per i suoi crimini durante la guerra civile.
Insieme a lui, morivano anche le speranze di libertà dei superumani, ormai condannati alla schedatura governativa.
Qualche anno dopo gli eventi di Civil War si scoprì che il governo degli Stati Uniti da molto tempo era infiltrato fino alle sue posizioni apicali da agenti HYDRA (i nazisti dell’universo Marvel), e che il Superhuman Registration Act fu in verità un piano dei nazisti per sorvegliare e controllare i supereroi — unico vero ostacolo ai loro piani.
Tony Stark o Steve Rogers?
Il mondo è in piena guerra civile. Proprio come raccontavano i fumetti Marvel 17 anni fa, anche oggi siamo circondati da due fazioni capitanate da vari Tony Stark e Steve Rogers. E come in Civil War, anche oggi la fazione vincente è quella dei Tony Stark.
Noi non abbiamo un Superhuman Registration Act, ma sistemi e leggi che Steve Rogers non avrebbe mai immaginato nel 2007. Schemi globali di identità digitale; sorveglianza totale delle comunicazioni; progetti per lo sviluppo di monete digitali di Stato e sorveglianza finanziaria; sistemi decisionali automatizzati e social scoring ; scatole nere obbligatorie sulle nostre auto…
L’effetto è lo stesso, anzi peggiore: sorveglianza totale delle nostre identità e delle nostre azioni. Per il “bene comune”.
I Tony Stark del mondo ci dicono che l’anonimato e la privacy devono essere combattuti, perché deresponsabilizzano le persone. Essere anonimi è pericoloso; la libertà è pericolosa. Tenere alla propria privacy significa avere qualcosa da nascondere, o essere dei criminali.
Questi sono convinti di essere circondati da imbecilli senza alcuna moralità né principi. Il prossimo è un potenziale criminale o qualcuno talmente inaffidabile da non poter neanche gestire la sua stessa vita. E come Tony Stark, credono di essere tra i pochi illuminati a poter guidare il gregge con quel bastone chiamato governo. La legge è uno strumento di dominio per la creazione di una “società migliore”, a loro immagine e somiglianza.
E poi ci sono gli Steve Rogers. Loro sono convinti che l’essere umano abbia in sé tutti gli strumenti per agire moralmente, in modo autonomo e libero — senza per questo essere perseguito. Queste persone sanno che per agire moralmente, bisogna prima essere liberi. Che ogni individuo ha il diritto di creare la sua strada e agire secondo i suoi principi; che non può esserci alcuna libertà senza privacy, e che il governo non è altro che uno strumento di controllo delle persone per fini politici (di specifici gruppi di potere). Sì, la libertà è sporca. È caotica. A volte, pericolosa. Ma non importa.
Paradimatico di questo pensiero è il celebre discorso di Steve Rogers a Peter Parker proprio durante la Civil War. Probabilmente uno dei migliori di tutto l’universo Marvel:
Non importa ciò che dice la stampa. Non importa ciò che dicono i politici o le masse.
Non importa se l'intero Paese decide che qualcosa di sbagliato è qualcosa di giusto.
Questa nazione è stata fondata su un principio sopra ogni altro: la necessità di difendere ciò in cui crediamo, senza tener conto delle probabilità o delle conseguenze. Quando le masse, la stampa e il mondo intero ti dicono di muoverti, il tuo compito è di piantarti come un albero accanto al fiume della verità e dire a tutto il mondo -
'No, muovetevi voi.’
Tu, da che parte stai?
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Modernizzazione, 2% ed export. La Difesa fa il punto in Parlamento
Istituzioni, Forze armate e industria hanno presentato al Parlamento le vulnerabilità e le esigenze del settore della Difesa. Il ministro Guido Crosetto, il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Pietro Serino, e il presidente di Aiad, Giuseppe Cossiga, nel corso di tre diverse audizioni davanti alle commissioni delle Camere, hanno descritto ai legislatori italiani le necessità di cui lo Stato ha bisogno per dotarsi di uno strumento militare adeguato alle necessità dell’attuale scenario globale di insicurezza.
Modernizzare le Forze armate
Gli eventi bellici in Ucraina “hanno evidenziato l’esigenza di mantenere apparati militari efficaci e prontamente impiegabili” ha ricordato il generale Serino, registrando come le specificità operative, con l’ingresso di nuove tecnologie, obblighi l’Esercito a “rinnovare i propri equipaggiamenti e sistemi d’arma”, ripristinando capacità convenzionali e potenziando quelle dei nuovi ambiti operativi, dalla guerra elettronica, ai droni, fino alla difesa contraerea. Per il capo di Stato maggiore, questi processi “richiedono adeguate risorse, certezza, profondità e stabilità degli stanziamenti” e le nuove richieste, se non gestite correttamente, rischiano di pesare negativamente sulla produzione e sulle imprese. Per evitare questo sovraccarico, ha affermato ancora il generale, bisognerebbe giungere a un fondo d’investimento che abbia una profondità temporale di almeno tre anni.
La Difesa fuori dai vincoli di stabilità
Il tema dei fondi per la Difesa, e in particolare il raggiungimento del 2% del Pil da dedicare al settore, è stato affrontato anche dal ministro Crosetto, di ritorno dal vertice Nato di Bruxelles. Come ribadito dal titolare di palazzo Baracchini, l’impegno del 2% assunto nel 2014 è ormai considerato dall’Alleanza Atlantica un punto di partenza, con numerosi Paesi che già spingono per superarlo. Di fronte alle difficoltà economiche del Paese, tuttavia, il ministro è tornato a proporre come misura lo scorporo delle spese della Difesa dai vincoli di bilancio, “l’unico modo per non togliere risorse a interventi sociali”. “Il tema del 2% verrà posto al prossimo vertice di Vilnius – ha ricordato il ministro – e noi rischiamo di essere gli unici a non raggiungerlo o a non essere chiari nei tempi con cui lo raggiungeremo, quando gli altri Paesi già parlano del 3%”.
L’importanza dell’export
Supportare la Difesa, poi, vuol dire anche velocizzare le pratiche interne dello Stato sulle attività relative alle esportazioni del comparto industriale, un settore che da solo vale circa un punto percentuale del Pil nazionale, con un valore, incluso l’indotto, di circa quaranta miliardi di euro. Del fatturato, due terzi proviene dall’export, che rappresenta nel complesso il 13% del saldo commerciale italiano. Di fronte a questa consapevolezza, ha registrato il presidente di Aiad Cossiga, la legge che regola le esportazioni militari “dà poca chiarezza ed è scarsamente immediata” concludendo come ci sarebbe bisogno di “migliorare la rapidità di esecuzione dell’export”.
USA: Nikki Haley, la promessa del ‘trumpismo senza Trump’
L’ufficializzazione della candidatura di Nikki Haley per la nomination repubblicana del 2024 apre, di fatto, anche per il Grand Old Party, la stagione che lo porterà, fra un anno e mezzo circa, al voto presidenziale. Haley è la prima figura ‘di peso’ ad avere raccolto la sfida lanciata negli scorsi mesi da Donald Trump, che […]
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#LaFLEalMassimo – Episodio 83 – La lezione di Quaero
Mentre si avvicina l’anniversario dei tragici eventi che hanno riportato la guerra in Europa questa rubrica conferma il proprio sostegno alla popolazione ucraina e la condanna dell’invasione russa.
In questi giorni si discute della possibilità che la dimensione significativa dei sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act promosso dal presidente Biden possa incentivare diverse imprese europee a delocalizzare verso gli Stati Uniti e sull’opportunità che l’Europa rincorra alcune componenti protezionistiche e politiche di supporto alle imprese locali implementate negli Stati Uniti. La storia recente ci insegna che cercare di tenere il passo con l’innovazione americana a colpi di aiuti di stato non è una buona idea. Come ricordato dal settimanale The Economist agli inizi degli anni duemila, mentre si consolidava il successo di Google tra i motori di ricerca la Francia, con il benestare dell’Unione Europea cercò di sostenere con un sostegno di oltre 100 milioni di euro un’impresa francese, Quero, che si proponeva come campione nazionale e antagonista americano.
Oggi sappiamo come è andata a finire, Google è diventato il motore di ricerca per antonomasia, è entrato nel lessico comune con un verbo sinonimo di ricercare e rientra tra le aziende con la maggiore capitalizzazione di borsa al mondo. Personalmente non conoscevo l’esistenza di Quero prima di averlo letto sul giornale britannico. Dopo gli allentamenti alla normativa sugli aiuti di stato introdotti durante la pandemia,
permane una forte tentazione per i politici delle nazioni europee di riversare ingenti contributi sulle aziende nazionali, nella speranza di tenere il passo con quanto avviene oltreoceano.
Si tratta di un errore di prospettiva con il rischio elevato di ripetere l’esperienza negativa del motore di ricerca francese. In Europa la normativa contro gli aiuti di stato ha funzionato in modo adeguato per evitare dannose politiche protezioniste e anche riguardo alla transizione ecologica sarebbe opportuno resistere alla tentazione di rincorrere gli Stati Uniti con l’unico probabile esito di distruggere denaro dei contribuenti. Invece di imitare in modo maldestro i più forti le nazioni europee dovrebbero concentrarsi sui punti deboli della propria unione: completare gli aspetti ancora carenti del mercato unico, specie per quanto riguarda le attività finanziarie, promuovere maggiori investimenti nella ricerca e sviluppo e incentivare formazione ed educazione. La via europea alla green economy può essere tanto efficace quanto differenziata rispetto a quella degli Stati Uniti.
Slava Ukraini
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Cina: spesa dei consumatori fondamentale per la ripresa economica
Il 2022 è stato un anno cupo per l’economia cinese. Le severe misure anti-COVID e le repressioni normative sul settore immobiliare e sulle piattaforme digitali hanno rallentato in modo significativo la crescita economica. La crescita annua del PIL reale del 3 per cento è stata significativamente inferiore all’obiettivo ufficiale del 5,5 per cento. Il presidente […]
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Competizione Studentesca
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Sostenibilità: tutela ambientale, sociale, economica ed etica delle imprese ‘qui e ora’
La sostenibilità del sistema socio economico si basa su quattro tutele: ambientale, sociale, economica ed etica. Le imprese devono essere agenti di sostenibilità e perseguire l’impegno operativo nel gestire un modello di business che non solo permetta il sostentamento dell’impresa a breve-medio-lungo termine, ma che sia anche attento all’ambiente, al benessere sociale ed a una governance equa e partecipata. […]
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La battaglia UE contro le auto a combustione: retroscena e polemiche al Parlamento europeo
Una battaglia dura quella dell’auto elettrica che si è risolta con l’approvazione del Parlamento europeo della messa al bando della vendita di auto a combustione a partire dal 14 febbraio 2035. Un “San Valentino” che resterà negli annali della storia d’Europa. Hanno votato in 340 a favore dell’abolizione delle auto a carburante, i contrari sono […]
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Borsa: canapa, USA e Canada entrambe in lieve positivo
Le due principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, chiudono entrambe con un andamento positivo, bisogna però, anche annotare che si tratta di chiusure positive alquanto timide, mostrano ancora una persistente volatilità e difficoltà nel decifrare il medio e lungo termine, così come si è pressati attualmente nel breve termine, nel valutare […]
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USA: Twitter permetterà annunci per prodotti a base di cannabis e THC
Con un importante cambiamento di politica, Twitter permette alle aziende di cannabis “approvate” e legali e ad altri inserzionisti di pubblicare annunci negli Stati Uniti per prodotti, accessori e servizi regolamentati a base di THC e CBD, ha reso noto la piattaforma di social media. Il nuovo cambiamento di politica di Twitter che permette la […]
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Ucraina, il confronto con la Russia e la Grande Strategia degli Stati Uniti
Nell’ultimo anno si sono verificati due cambiamenti discreti ma drammatici nella strategia degli Stati Uniti: gli Stati Uniti non cercano più di dare priorità alla cooperazione con la Russia e non si aspettano più di prevenire una maggiore cooperazione Russia-Cina. Il sostegno all’Ucraina diventa fondamentale come parte di una strategia complessiva progettata per degradare le […]
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InGiustizia
Istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla malagiustizia è la cosa più inutile immaginabile. S’incassa un presunto successo immediato, salvo perdere poi tempo, accertare quello che sappiamo benissimo e non rimediare a un bel niente. Se il ministro Nordio non si sbriga a presentare i testi, che portino nel legislativo la realizzazione di quel che ha programmaticamente esposto, si ritroverà macinato da mille urgenze quotidiane, tutte richiedenti pezze e senza possibili soluzioni. La maggioranza di governo pesterà l’acqua nel mortaio, le opposizioni pesteranno i piedi guardandosi bene dall’esporre proposte fattibili, tutti si cimenteranno nel solito sport del moralismo senza etica e saremo sempre fermi non in mezzo al guado, ma in mezzo al guano.
Due parole sull’ultimo (di una lunghissima serie) processo che ha riguardato Silvio Berlusconi: è semplicemente insensato che il contribuente finanzi da anni procedimenti privi di ragionevolezza. Il meretricio non è reato, se volete sapere tutto di questa materia e dei suoi risvolti pratici non dovete prendere libri di diritto, ma un capolavoro di Dino Buzzati: “Un amore” (1963). Ad Antonio piace pensarsi il padrone, ma Adelaide (detta Laide) lo intorta che è una bellezza. Se questa cavolata giudiziaria fosse durata una dozzina d’anni solo per Berlusconi, andrei ad abbracciarlo quale vittima e coglierei l’occasione per manifestargli il disgusto per quanto ha detto sull’Ucraina. Ma riguarda tutti e non possiamo abbracciarci collettivamente. Quindi serve cambiare, non lamentare.
Come? Anche qui, usate la letteratura: “Diario di un giudice” (1955), scritto da Dante Troisi. Non c’è nulla di nuovo, salvo la degenerazione metastatica del male. Fino a quando esisterà un potere irresponsabile di quel che fa, ogni degenerazione sarà possibile e ogni corretto funzionamento impossibile. Oramai anche Beppe Grillo va dicendo che i procedimenti penali riguardanti suoi familiari sono attacchi politici (citofoni a Bonafede, si feliciti per quel che lui stesso ha combinato e si congratuli per l’inciviltà grazie alla quale i suoi familiari sarebbero rimasti sotto processo per il resto della loro vita).
Il giudice deve sempre essere indipendente, ma non irresponsabile. Le sentenze che scriverà devono restare frutto del suo libero convincimento. Se continua a sbagliarle e vengono puntualmente riformate si tratta di un incapace e lo si invita a cambiare mestiere. I procuratori non sono giudici, ma magistrati (quando il giornalismo sarà meno analfabeta ci guadagnerà molto il livello della nostra vita collettiva). Gestendo l’accusa hanno in mano la parte immediata e più spettacolare della giustizia. Un mestiere difficile e che va rispettato, ma se continui a portare sul banco degli imputati cittadini che saranno assolti anche tu vai a fare un’altra cosa, perché crei danno e costi inutili alla giustizia. Contano i risultati. Quindi via il falso dell’obbligatorietà dell’azione penale. Una società funziona se la giustizia funziona, non se i magistrati si travestono da moralizzatori. Tanto più che quel mondo s’è dimostrato infestato e la dipendenza dalle correnti, a scopi carrieristici, è pestilenziale.
Una opposizione che volesse far politica avrebbe la strada spianata, pungolando Nordio a passare dalle parole ai fatti. In questo modo verificherebbe se la maggioranza è pronta a seguirlo o lo hanno mandato avanti perché non aveva e non ha alcuna forza politica. Se le riforme si faranno, se si introdurrà la separazione delle carriere e la responsabilità sarà un gran bene per il Paese e chi se ne importa di chi se ne prenderà il merito. Se non ci si riuscirà l’opposizione avrà un’occasione per far politica e non star lì a fracassarci l’anima su chi debba essere il prossimo egolatra sconfitto.
La politica non è l’opera dei Pupi. Darsi del Marrano facendo cozzare le corazze e ripetendolo tre volte al giorno è scena che ha fatto scappare gli elettori. Di tutti. Entrino nel merito. O cessino il disturbo.
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Guerra in Ucraina: se la veda l’Europa
Invece di una rapida vittoria russa, la seconda invasione russa dell’Ucraina sembra trasformarsi in un lungo slugfest. Dopo che i soldati ucraini hanno sorprendentemente sventato l’offensiva della Russia su Kiev, la capitale dell’Ucraina, gli allegri Stati Uniti hanno radunato le nazioni della NATO per fornire agli ucraini decine di miliardi di tecnologia bellica. Dopo alcuni […]
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Fulminati
Stupisce lo stupore. E se non stupisce comunque disturba la superficialità, la grossolanità e la demagogia un tanto al chilo. Lasciamo perdere la politica, che si è tristemente abituati a quanti sperano d’essere creduti quando dicono una cosa e il suo opposto, ma qui è una gara populista cui partecipa anche il mondo dell’informazione. Sono gradite le opinioni diverse, ma non le informazioni false, monche o ammiccanti.
L’Europa, dunque, ci toglie le nostre vetture nel 2035. Che non è l’Europa, ma un voto del Parlamento europeo, dove ci si divide per opinioni politiche e non per nazionalità, così come in quello italiano non ci si divide per regioni. Il voto del Parlamento europeo arriva dopo la proposta della Commissione europea, che è già passata al Consiglio europeo. Sede nella quale è stata condivisa dal governo italiano, nell’ottobre del 2022, dopo un consueto negoziato fra i diversi interessi ed esigenze (al Ministero delle attività produttive sedeva l’attuale ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, che, se la memoria non m’inganna, milita nella Lega). La parte relativa alle autovetture è solo un tassello del più generale piano per la decarbonizzazione, con scadenza 2050 e diverse tappe intermedie. Piano che, alla sua adozione, non destò l’opposizione italiana e semmai in diversi lo ritennero in parte rinunciatario. Quindi non è una novità, è già stato approvato dal governo italiano e quella continua a chiamarsi “Unione europea”, non “Europa”, di cui noi continuiamo ad essere parte, sicché non ci impone un bel niente. In ogni caso le vetture a benzina ci saranno anche nel 2055, sempre che trovino un distributore di carburante, perché dal 2035 cesseranno le immatricolazioni, non la circolazione.
Fa specie trovare questo linguaggio approssimativo e stoltamente oppositivo su testate che talora s’impancano a dar lezioni ci coerenza europeista. Semmai sarebbe stato il caso di sottolineare le novità che il voto parlamentare ha introdotto, come gli stadi intermedi di accertamento e controllo che tutto fili liscio, come la necessità di piani finanziari che assecondino la transizione.
E veniamo agli interessi, di cui già parlammo quando la direttiva fu inviata al Parlamento e gli altri, evidentemente, non se ne accorsero. L’attuale mercato delle vetture non lo si conserva neanche volendo, tanto è vero che tutte le case produttrici già affiancano l’ibrido e l’elettrico. Se si allungano i tempi non si fa che ritardare la competitività dei nostri produttori, facendo un regalo a quelli allocati in altre aree del mondo. La favola che la direttiva sarebbe un regalo alla Cina presuppone l’ignoranza di quel mondo. Intanto perché il leader tecnologico si trova, semmai, negli Stati Uniti. Poi perché non stiamo parlando delle batterie che alimentano bici e monopattini (eravamo noi contro quei bonus, anche perché si davano soldi del contribuente a produzioni orientali), ma di accumulatori dove abbiamo noi un vantaggio tecnologico. Che si tratta di tradurre in produttivo, da qui le tappe intermedie.
Le case produttrici non dicono che è sbagliata la direttiva, ma ne approfittano per chiedere sovvenzioni. Cosa ben diversa. Mentre se ne lamenta una parte dell’indotto, perché chi produce pezzi di motore sarà spiazzato, se non riconverte. Ma l’Italia ha un indotto automobilistico vasto, che perderemmo veramente se i produttori europei restassero indietro.
Tutto bene? No. Perché c’è un enorme lavoro da fare nella produzione di energia e nella rete delle colonnine per le ricariche. E perché non c’è ragione al mondo per escludere in sede politica altre soluzioni tecnologiche, come l’idrogeno e i combustibili bio. Il tutto a tacere della questione ambientale, che i medesimi organi d’informazioni trattano con toni accorati, ma in altre pagine. Non comunicanti.
Se la comunità politica talora non brilla per lucidità e coerenza è perché parte di una classe dirigente abitata anche da questo giornalismo. Se si vota e legge di meno, forse una ragione c’è.
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L’invasione di Putin infrange il mito della fratellanza russo-ucraina
Mentre l’invasione russa dell’Ucraina raggiunge il traguardo di un anno, la guerra scatenata da Vladimir Putin nel febbraio 2022 è ancora lungi dall’essere finita. Tuttavia, è già abbondantemente chiaro che le relazioni dell’Ucraina con la Russia sono cambiate radicalmente per sempre. Dopo Mariupol, Bucha e innumerevoli altri crimini di guerra russi, non si può più […]
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Scuola di Liberalismo 2023 – Lorenzo Infantino, “I limiti della conoscenza e la libertà individuale di scelta”
Il liberalismo ha come suo prioritario obiettivo la limitazione del potere pubblico, perché il potere illimitato presuppone l’esistenza di un essere o di essere onniscienti”Prof. Lorenzo Infantino
Il 16 febbraio 2023 si è tenuta nell’aula Malagodi la prima lezione della Scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi. Davanti a un folto pubblico in presenza e in collegamento, il professor Lorenzo Infantino ci ha parlato dei limiti della conoscenza e della libertà individuale di scelta.
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Barcellona rompe con Tel Aviv. Israele divide la Spagna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 16 febbraio 2023 – Le diverse opinioni sul rapporto da intrattenere con Israele stanno polarizzando, negli ultimi giorni, il dibattito politico all’interno della Spagna.
Barcellona congela il gemellaggio con Tel Aviv
Era dal 2015 che i movimenti catalani per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni nei confronti di Israelechiedevano alle neoeletta sindaca di Barcellona, l’ex attivista del movimento contro gli sfratti Ada Colau, di interrompere le relazioni istituzionali con Israele.
La richiesta, più volte inevasa, è stata finalmente accolta dalla prima cittadina del capoluogo catalano lo scorso 8 febbraio, a poche settimane dalla convocazione delle prossime elezioni municipali fissate per il prossimo 28 maggio.
Ada Colau ha comunicato di aver congelato le relazioni con Israele e in particolare il gemellaggio tra la Barcellona e Tel Aviv, siglato nel lontano 1998 all’interno di un accordo che include anche Gaza in un improbabile “triangolo della cooperazione”.
«Non possiamo più tacere di fronte alla violazione flagrante e sistematica dei diritti umani» ha scritto la leader dei Comuns in una lettera indirizzata al premier israeliano Benjamin Netanyahu, sottolineando che la misura non intende rappresentare un atto di discriminazione nei confronti della popolazione o della religione ebraica ma una opportuna censura nei confronti del governo del cosiddetto “stato ebraico”.
Nella missiva la sindaca ha ricordato che organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International e l’israeliana B’Tselem «hanno denunciato che le pratiche dello stato di Israele contro la popolazione palestinese, come l’apartheid e la persecuzione, possono essere considerati dei crimini contro l’umanità». Già nel giugno dell’anno scorso, del resto, una mozione approvata dal Parlamento catalano con i voti di Erc (centrosinistra indipendentista) e della Cup (sinistra radicale indipendentista), ma anche dei socialisti e dei Comuns equiparava le conseguenze dell’occupazione israeliana all’apartheid.
«Non possiamo (…) chiudere gli occhi di fronte a una violazione ampiamente documentata da decenni dagli organismi internazionali» ha scritto la sindaca annunciando la sospensione delle relazioni istituzionali «finché le autorità israeliane (…) non si atterranno agli obblighi imposti dal diritto internazionale e dalle risoluzioni dell’Onu».
La prima cittadina dei Comuns si è apertamente allacciata alla campagna “Barcellona contro l’apartheid” lanciata dal coordinamento “Basta complicità con Israele”; la sigla riunisce 112 diverse organizzazioni popolari, sociali, politiche, sindacali ed ha raccolto quasi 4000 firme per ottenere che il consiglio comunale della città discutesse le richieste del movimento che si batte per i diritti del popolo palestinese e chiede alle istituzioni di interrompere i rapporti con lo “stato ebraico”.
Il no della politica
Colau ha però deciso di agire firmando un’ordinanza, senza far passare il provvedimento al vaglio dell’assemblea comunale. La decisione ha suscitato un vespaio – esacerbato dal clima elettorale – non solo all’interno dell’opposizione ma anche della sua maggioranza di centrosinistra.
L’opposizione di destra – Junts, Ciudadanos e PP – hanno chiesto un consiglio straordinario sull’iniziativa della sindaca. Già il Partito Socialista – alleato dei Comuns nel governo cittadino – aveva chiesto che appena possibile l’assemblea comunale discutesse l’ordinanza, giudicata un “grave errore”.
Anche in seno ad Esquerra Republicana, a parte qualche voce isolata, si sono levate forti critiche sia al carattere unilaterale sia alla sostanza del provvedimento che, nella plenaria del 24 febbraio, potrebbe essere quindi bocciato. Anche nello stesso partito della sindaca, del resto, non mancano i contrari all’iniziativa anche se il gruppo consiliare è rimasto compatto ieri mattina, nel corso di una votazione di ricognizione senza conseguenze, che ha detto ‘no’ alla sindaca. A favore di Ada Colau hanno votato solo i Comuns mentre i consiglieri di Esquerra si sono astenuti.
Il sostegno internazionale
A sostegno di Ada Colau, invece, si sono espressi una cinquantina di personalitàdel mondo della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della politica. Una dichiarazione internazionale di solidarietà alla sindaca di Barcellona è stata firmata dai premi Nobel Annie Ernaux, Mairead Maguire, George P. Smith e Jody Williams, dagli attori Mark Ruffalo, Miriam Margolyes, Viggo Mortensen, Susan Sarandon, dai registi Fernando Meirelles e Ken Loach, da musicisti come Marianne Faithful, Peter Gabriel e Brian Eno, da intellettuali come Angelas Davis, Arundathi Roy e Naomi Klein. Tra i firmatari anche l’ex vicepresidente del Parlamento Europeo Luisa Morgantini. La dichiarazione critica i governi per non aver reagito alle sistematiche violazione del diritto internazionale e alle violazioni dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. In un messaggio personale l’ex ministro del governo di Nelson Mandela, il sudafricano Ronnie Kasrils, ha affermato di essere entusiasta della decisione di Ada Colau.
Il congelamento dei rapporti con Tel Aviv è stato definito «coraggioso» dall’Associazione catalana degli ebrei e dei palestinesi ed ha ricevuto anche il sostegno dalla European Jewish for Just Justice, una rete dei 12 associazioni pacifiste europee.
La condanna della destra e di Israele
Immediata ed inappellabile, invece, è stata la condanna da parte del Ministero degli Esteri israeliano e della Federazione delle comunità ebraiche spagnole. Quest’ultima ha definito quella di Ada Colau una forma di «sofisticato antisemitismo».
Anche la destra spagnola è andata subito all’attacco, accusando la sindaca di Barcellona di antisemitismo. Il sindaco di Madrid José Luis Martínez Almeida, del Partito Popolare, ha invitato il primo cittadino di Tel Aviv a stringere un gemellaggio tra le due città.
La presidente della Comunità di Madrid (anch’essa del PP) Isabel Díaz Ayuso ha compiuto, il 12 e 13 febbaio, una visita istituzionale di due giorni in Israele, fissata prima dell’annuncio della Colau. Per sua stessa ammissione, il viaggio è servito per ampliare le relazioni economiche con le imprese e le istituzioni israeliane ed attirare nuovi investimenti. Ideologicamente, negli ultimi anni, anche la destra radicale di Vox si è distinta per il sostegno incondizionato a Israele.
L’ambiguità di Pedro Sanchez
Da parte sua il premier Pedro Sànchez ha evitato di incontrare i dirigenti israeliani, cosa che però hanno fatto più volte alcuni dei suoi ministri socialisti. Inoltre il primo ministro aveva promesso, nel 2015, che se avesse avuto accesso al governo avrebbe riconosciuto lo Stato palestinese. Lo ha ribadito nel 2017 e l’impegno è stato inserito all’interno del programma elettorale del Partito Socialista per le elezioni del 2019. Al momento, però, nonostante le pressioni di Unidas Podemos e dei partiti indipendentisti baschi e catalani che sostengono la sua maggioranza dall’esterno, la promessa non è stata ancora onorata e nulla fa pensare che Sanchez voglia dar seguito all’impegno preso nel prossimo futuro.
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Contestata a Madrid l’ambasciatrice di Israele
Intanto l’8 febbraio, all’interno dell’Università Complutense di Madrid gli organizzatori di una conferenza sugli “Accordi di Oslo” hanno invitato l’ambasciatrice in Spagna dello “stato ebraico”, Rodica Radian-Gordon.
Gli attivisti delle reti di solidarietà con la Palestina ne hanno approfittato per inscenare una contestazione, ricordando che solo nel mese di gennaio l’esercito di occupazione ha ucciso 35 palestinesi.
La reazione degli addetti alla sicurezza dell’ambasciatrice e dell’Università è stata violenta e spropositata. Un uomo, poi riconosciuto come un agente israeliano di scorta alla rappresentante diplomatica, ha addirittura minacciato i manifestanti con una pistola. Mentre l’ambasciatrice abbandonava il convegno, un plotone della Policia Nacional in assetto antisommossa ha aggredito i manifestanti. La giornata si è conclusa con due attiviste fermate e denunciate. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Israele e la strategia di Leonardo per l’innovazione. Parla Savio
A inizio febbraio Leonardo ha rinsaldato i rapporti con Israele sul tema dell’innovazione, un settore dove Tel Aviv può vantare un ecosistema unico al mondo fatto di 7mila start up, centinaia di acceleratori e decine di incubatori attivi. Il gruppo di Piazza Monte Grappa ha infatti sottoscritto due accordi con Israeli Innovation Authority, un’agenzia pubblica a supporto tecnico e finanziario di progetti innovativi, e con Ramot, una technology transfer company per la valorizzazione della proprietà intellettuale dell’università di Tel Aviv. Gli accordi si inseriscono nella più ampia strategia di rafforzamento di Leonardo nel mondo, come descritto ad Airpress da Enrico Savio, chief strategy and market Intelligence officer di Leonardo.
Di cosa si occuperanno e quali sono gli obiettivi delle due intese?
Gli accordi in oggetto si inseriscono nel quadro della strategia di rafforzamento di Leonardo nel mondo come global player, anche attraverso la leva dell’innovazione e quindi la creazione di rapporti strutturali con gli ecosistemi di innovazione più avanzati. Israeli Innovation Authority (Iia) è l’autorità delegata dal governo israeliano alla promozione dell’innovazione e con l’accordo firmato il 1° febbraio abbiamo voluto rafforzare e ampliare il campo di collaborazione, previsto dall’accordo del 2014, anche ad altri campi dell’innovazione incluso lo scouting di start up. Inoltre, per rendere immediatamente operativo l’accordo, stiamo già lavorando con Iia allo scouting di start up per il programma di accelerazione di Leonardo che si chiama Business innovation factory che quest’anno si focalizza sui verticali di Simulation & gamification, Cybersecurity & networking, ambiti di eccellenza delle start up israeliane.
L’accordo con Ramot che è il technology transfer office dell’università di Tel Aviv, si focalizza su progetti di ricerca su temi di interesse per Leonardo come il cyber, il quantum, i materiali avanzati, i sistemi di guida autonoma, e qualora la collaborazione sia fruttuosa potremmo valutare l’apertura di un Leonardo Lab in Israele. Ramot per Leonardo è un altro gateway sull’innovazione israeliana potendo contare su 30mila studenti di cui 16mila ricercatori, 1,600 brevetti, e con un tessuto di founder di start up di livello mondiale; infatti, si classifica sesto nel mondo per numero di studenti che fondano una start up e settimo per studenti che fondano una start up con valutazioni superiori ai cinquanta milioni di dollari.
Le partnership sembrano inserirsi nel solco dell’operazione Leonardo Drs-Rada. Qual è, in questo senso, il ruolo di Israele nella strategia di crescita del Gruppo a livello internazionale, vista anche l’importanza dell’ecosistema di start up innovative di Tel Aviv?
Per lo sviluppo ed il rafforzamento di Leonardo nel mondo siamo passati da un approccio opportunistico guidato dalla sola opportunità commerciale a un approccio strategico che mira a una presenza strutturale di lungo periodo utilizzando tutte le leve a disposizione del gruppo, incluso l’innovazione, le mergers and acquisitions (M&A), le partnership strategiche, oltre al peso delle relazioni diplomatiche, istituzionali e governative tra l’Italia ed il Paese prescelto. È chiaro che l’approccio strategico richiede investimento di tempo e di risorse importanti e per sua natura deve essere selettivo. Infatti, a valle di un’analisi rigorosa, oltre ai Paesi domestici per il gruppo, quali Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Polonia, abbiamo definito una lista ristretta di Paesi strategici sui quali investire, tra i quali Israele.
L’acquisizione di Rada si inserisce in questo quadro strategico di localizzazione di Leonardo che oggi può contare su circa trecento risorse locali, sul contributo di prodotti e tecnologie all’avanguardia, oltre all’opportunità di aver potuto utilizzare il veicolo di Rada già quotato al Nasdaq ed alla borsa di Tel Aviv per quotare DRS, operazione che avevamo sospeso perché non sussistevano le condizioni. A questo si aggiunge la leva dell’innovazione e quindi la volontà di Leonardo di costruire rapporti strutturali con ecosistemi di Innovazione nei paesi capaci di contribuire al piano strategico Be Tomorrow 2030 che mira a rafforzare il posizionamento competitivo del Gruppo utilizzando anche l’innovazione aperta.
Non abbiamo avuto dubbi ad ingaggiare l’ecosistema di innovazione di Israele che è diventato un modello virtuoso e motore della crescita del Paese, contribuendo al 15% del Pil, al 50,4% dell’export, occupa circa il 10,4% della forza lavoro su una popolazione di nove milioni e mezzo. Inoltre, come startup Nation, consta di oltre settemila start up, 428 fondi di venture capital, più di cento acceleratori, 37 incubatori, quasi cinquecento centri di ricerca e sviluppo di multinazionali, 17 programmi di Transfer of technology, nove università pubbliche.
Le collaborazioni si concentrano soprattutto nei settori strategici della difesa, della cyber-sicurezza e dell’aerospazio. Quali ricadute ci si aspetta sul piano delle tecnologie?
Le collaborazioni con Israele terranno in considerazione da una parte, le necessità di Leonardo di attingere all’open innovation come contributo all’innovazione. Ricordo che Leonardo investe ogni anno in di ricerca e sviluppo il 12, 13% (12,8% nel 2021) del fatturato per un valore pari a 1,8 miliardi di euro nel 2021, e dall’altro le specificità e le eccellenze di Israele inserite in un disegno complessivo che include sia i Paesi domestici sia gli altri Paesi strategici. I temi citati di Simulation & gamification, Cybersecurity & networking sono i verticali della Call for startup che abbiamo lanciato a gennaio 2023 per selezionare dieci team che entreranno nel programma di accelerazione della Business innovation factory Bif23. Quest’anno per promuovere la call faremo un road show in cinque tappe cominciamo da Napoli, proseguiamo con Milano, Monaco, Tel Aviv e finiamo con Londra tutte città in Paesi domestici o strategici. L’adesione è libera e coloro interessati a partecipare ai road show o ad applicare alla Bif23 possono andare sul sito di Leonardo Accelerator.
Una partnership resa possibile anche dal supporto della diplomazia dei due Paesi. Un esempio di sinergia pubblico-privata da mettere a sistema anche per il futuro?
Il supporto delle istituzioni, del governo, dei ministeri e della diplomazia sono tasselli fondamentali per lo sviluppo strategico del gruppo nel mondo. Ci muoviamo in contesti geopolitici complessi dove la competizione è feroce non solo tra aziende ma tra sistemi-Paesi. Basti pensare a come Francia, Regno Unito e Stati Uniti si muovono sullo scacchiere internazionale. Dobbiamo essere tutti co-interessati a favorire la crescita delle grandi aziende nazionali come Leonardo perché ciò vuol dire contribuire alla crescita economica, occupazionali e di competenze dell’Italia migliorando la competitività e la sostenibilità del sistema paese nel suo complesso.
Quali saranno i prossimi passi avviati dalla stipula degli accordi?
Con l’Israeli Innovation Authority come detto siamo già al lavoro per trovare start up di interesse per il programma di accelerazione Bif23 che partirà a maggio, durerà sei mesi e prevede anche la realizzazione di un Proof of concept. Ci auguriamo che ai nastri di partenza a maggio potremo avere almeno una start up Israeliana. Inoltre, come anticipato il 28 febbraio avremo il roadshow della Bif23 a Tel Aviv dove vogliamo far conoscere il gruppo Leonardo agli operatori dell’innovazione in Israele, presentare il programma di accelerazione e attrarre le start up di interesse.
Servizi di onoranze funebri: che cos’è e come scrivere un epitaffio
Quante volte è capitato di andare in un cimitero e leggere sulle tombe delle persone frasi celebrative? Molte delle quali anche incomprensibili per coloro che non conoscevano il defunto. Si tratta dell’epitaffio, ovvero di una frase che ha l’obiettivo di commemorare il defunto durante la sepoltura e viene incisa sulla lapide per testimoniarne la memoria. […]
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Se il processo mediatico prevale sul processo reale
Finirà che a difendere i giudici, alla fine, resterà solo il Cav.
I numerosi commenti indignati ospitati dai giornali cosiddetti progressisti sul caso dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter confermano una tendenza preoccupante presente all’interno di una particolare categoria giornalistica che per assenza di fantasia potremmo definire con una formula spericolata ma forse efficace: i postini delle procure (Pdp), i giornalisti abituati cioè a presentarsi di fronte all’opinione pubblica travestiti da buche delle lettere dei magistrati.
Nel caso in questione, la tesi esposta dagli indignati di turno è quella di considerare tutto sommato irrilevante la sentenza di assoluzione di
Berlusconi: i fatti, si dice, sono alla luce del sole e non basta una semplice assoluzione, o una semplice svista di qualche magistrato superficiale, come se garantire un giusto processo sia solo un formalismo e non l’essenza dello stato di diritto, per cancellare tutto ciò che è emerso dal processo. E dunque, si dice, nessun dubbio, nessun arretramento: ciò che conta non è la stupida sentenza, ciò che conta è ciò che l’inchiesta ha magnificamente scoperchiato. E lo schema logico del partito del Pdp in fondo è fin troppo semplice: fare della magistratura inquirente l’unica depositaria della verità, dare al processo mediatico un’importanza superiore rispetto al processo reale e considerare tutto ciò che si discosta della verità veicolata dal processo mediatico come un rumore di fondo tipico delle fake news.
Nella cosiddetta giustizia sbrigativa, conta il processo celebrato sui media, non quello celebrato nelle aule dei tribunali, e sulla base di questo schema consolidato, e avallato da alcuni importanti giornali italiani, come Repubblica, come la Stampa, come il Fatto (non sussiste) quotidiano, è possibile continuare ad alimentare in scioltezza una verità alternativa rispetto a quella reale. Conta ciò che si apprende dalle indagini, non l’esito delle indagini. Conta quello che i media raccontano di un processo, non come finisce il processo. Conta la sentenza del tribunale del popolo, non quella del tribunale vero. Ed è anche per questa ragione che l’Italia della buca delle lettere delle procure si ostina da anni a perdere tempo a seguire inchieste che vivono solo nei teoremi del circo mediatico-giudiziario.
Processo sulla Trattativa uno: Carabinieri del Ros accusati di favoreggiamento per la ritardata perquisizione del covo di Riina (l’arresto di Riina è del 1993, l’assoluzione è del 2006).
Processo sulla Trattativa due: Carabinieri del Ros accusati di aver mancato più volte la cattura di Bernardo Provenzano (il presunto non arresto di Provenzano è del 1995, l’assoluzione dei Carabinieri del Ros è del 2017).
Processo sulla Trattativa tre: l’ex ministro Mannino accusato di aver intavolato una trattativa tra lo stato e la mafia (le prime indagini scattano nel 1991, l’assoluzione è del 2020).
Processo sulla Trattativa quattro: i Carabinieri del Ros accusati di “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti” (l’accusa di aver tramato con Cosa nostra, per Mori, Subranni e De Donno, risale al 1994, l’assoluzione è del 2022).
Processo Rubyuno (Berlusconi viene indagato nel 2010 per concussione e viene assolto nel 2015).
Processo Ruby ter (Berlusconi viene assolto in primo grado nel 2023 dall’accusa di corruzione in atti giudiziari dopo undici anni di indagini). Processo “Mafia Capitale” (nel 2020, dopo cinque anni di indagini e di processi, la Cassazione ha escluso il carattere mafioso degli atti criminali commessi a Roma).
Processo Eni-Nigeria (nel 2022 i vertici di Eni, dopo undici anni di indagini, sono stati assolti perché il fatto non sussiste dall’accusa di aver corrotto società petrolifere e politici nigeriani).
Processo Saipem-Algeria (nel 2020 la Cassazione conferma l’assoluzione per i vertici di Saipem per una presunta tangente relativa al 2007). Processo corruzione Finmeccanica (nel 2019 viene confermato dalla Cassazione il proscioglimento per gli ex vertici di Finmeccanica accusati dal 2013 di corruzione internazionale, e che per quell’accusa hanno passato alcuni mesi in carcere).
Processo Boschi-Etruria (il papà dell’ex ministro Maria Elena Boschi finì nel tritacarne giudiziario nel 2015, accusato di bancarotta fraudolenta, ed è stato assolto nel 2022 con formula piena).
Processo Ubi Banca: nel 2021 il tribunale di Bergamo assolve trenta imputati su trentuno al termine del processo sulle presunte irregolarità nella gestione dell’istituto di credito, nel frattempo incorporata in Intesa Sanpaolo (tra gli assolti il banchiere Giovanni Bazoli).
Nell’Italia della giustizia sbrigativa, le sentenze sono solo un’inutile perdita di tempo che rischia di spingere l’opinione pubblica a occuparsi dell’unica fonte di verità possibile: i processi celebrati sui media e non quelli celebrati nelle aule di tribunale. Finirà che a difendere i giudici, alla fine, resterà solo il Cav.
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I due Hotel Francfort di David Leavitt
Dopo sei anni di silenzio, nel 2013 Leavitt torna con “I due Hotel Francfort”, un romanzo ambientato nel giugno del 1940, sui modi in cui le persone possono cambiare in circostanze eccezionali e non essere più le stesse.
È la fotografia di un’Europa alla viglia del disastro, che fa fatica a tenere in vita gli ultimi equilibri mentre dai confini di molte nazioni risuonano colpi di mortaio; una storia immersa nell’atmosfera tanto precaria quanto seducente del neutrale porto di Lisbona, città affollata di espatriati preoccupati di quello che stanno per perdere, in attesa di essere portati in salvo a New York dalla nave SS Manhattan. @L’angolo del lettore
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Demolizioni controllate: tutto quello che c’è da sapere
Le demolizioni controllate sono delle pratiche attuate per poter eliminare, in maniera totale oppure parziale, strutture danneggiate (ad esempio in seguito ai terremoti o altre calamità naturali), abusi edilizi ed edifici obsoleti. Si definiscono “controllate” perché tali demolizioni vengono effettuate in modo da limitare i danni agli elementi presenti nella stessa area di intervento, evitando così […]
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In Cina e Asia – Pallone-spia: Biden pronto a parlare con Xi
Cina: i prezzi delle case tornano a crescere
Residenti urbani in Cina: crescita più lenta degli ultimi 42 anni
La leadership cinese celebra la vittoria contro il Covid
Cina: i prezzi delle case tornano a crescere
Capo dell’OMS: “moralmente corretto” proseguire le indagine sull’origine del Covid
Quanto carbone sta usando la Cina?
Corea del Sud: due cittadini russi ottengono lo status di rifugiato
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TEAM JORGE. Disinformazione a pagamento per manipolare le elezioni
di Michele Giorgio
(Un fermo immagine ritrae Tal Hanan nell’ufficio nella colonia israeliana di Modiin – foto di Haaretz/TheMarker/Radio France)
Pagine Esteri, 17 febbraio 2023 – Dopo la NSO, creatrice del famigerato spyware Pegasus impiegato da dittature e governi autoritari per spiare oppositori, dissidenti e giornalisti, ieri è stata smascherata un’altra società israeliana accusata di pirateria informatica, la Demoman International (DI) con sede a Modiin, tra Gerusalemme e Tel Aviv, ed è regolarmente registrata al Ministero della difesa. A guidarla è Tal Hanan, un ex membro di unità speciali delle forze armate dello Stato ebraico. Agisce con il nome in codice di Team Jorge ed impiega sia ex appartenenti alle Forze armate sia ex agenti dell’intelligence. Incassa tra 400mila e 600mila dollari al mese per fare disinformazione automatizzata e influenzare, cioè manipolare, elezioni e referendum in tutto il mondo. Riesce a farlo in molti modi: hackerando, ad esempio, il servizio di messaggistica istantanea Telegram, che pure è ritenuto uno dei più sicuri, e il server di posta elettronica Gmail. E impiegando un software – Advanced Impact Media Solutions (AIMS) – controlla oltre 30 mila bot, ossia profili non riconducibili a persone reali su Twitter, LinkedIn, Facebook e YouTube. Alcuni avatar hanno persino account Amazon con carte di credito, portafogli bitcoin e account Airbnb.
A portare alla luce Team Jorge, scriveva due giorni fa il Guardian, è stata una indagine condotta da Forbidden Stories, un’ong francese la cui missione è portare avanti e sviluppare il lavoro svolto da giornalisti assassinati, minacciati o incarcerati. Ha partecipato all’inchiesta un consorzio di giornalisti di 30 testate tra cui Le Monde, Der Spiegel ed El País e anche il quotidiano israeliano Haaretz. Tre giornalisti di Radio France, Haaretz e The Marker si sono spacciati per potenziali clienti hanno preso contatto con Team Jorge. Tal Hanan, illustrando ed esaltando le capacità della sua azienda, ha detto di «essere intervenuto in 33 campagne elettorali a livello presidenziale», dal Kenya alla Catalogna. Di queste, «i due terzi» si sono tenute in Africa e «27 sono state un successo». In Africa, ha proseguito, «possiamo confermare che durante l’estate 2022, mentre l’elezione presidenziale kenyana si avvicinava, Team Jorge si è interessato ai conti dei conoscenti del futuro presidente William Ruto».
In più di sei ore di riunioni registrate segretamente, Hanan e i suoi collaboratori hanno parlato di come sono in grado di raccogliere informazioni, vantandosi di piantare materiale anche in testate giornalistiche riconosciute. E di come Team Jorge sia abile ad intromettersi senza lasciare traccia. Gran parte della loro strategia ruota attorno all’interruzione o al sabotaggio delle campagne elettorali: la squadra della disinformazione ha riferito di aver persino inviato un sex toy a casa di un politico, con l’obiettivo di far sospettare alla moglie che l’uomo avesse una relazione extraconiugale. Uno dei componenti chiave della manipolazione è AIMS, molto efficace nei social media, in particolare Twitter. È stato scoperto, ad esempio, che un bot di nome @Canaelan ha collegamenti a numerosi falsi profili falsi di social media, tutti controllati da AIMS. Con 58 follower e un’immagine rassicurante di un uomo sorridente con gli occhiali, Canaelan condivide periodicamente link ad articoli di fonti come AP, Bloomberg e la BBC e a prima vista nessuno potrebbe dubitare della sua autenticità. L’inchiesta ha però accertato che gli effetti causati da questo bot non sono stati affatto modesti. E uniti a quelli di altri profili fake sono stati efficaci per manipolare l’opinione pubblica.
La rivelazione – alla quale Tal Hanan ha reagito affermando di non aver commesso «alcun illecito» – è straordinaria per la gravità delle attività svolte da questa società israeliana. Eppure, sebbene sia stata riferita da molti mezzi di informazione, le reazioni dei paesi coinvolti, in buona parte africani, sono state modeste. Insignificanti anche quelle dei paesi occidentali dove, almeno a parole, si assegna particolare attenzione alle fake news e alla disinformazione pianificata. Certo sono state ben diverse rispetto a quelle riguardanti attività simili svolte da società e organizzazioni russe. Pagine Esteri
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Ascanio della Corgna: Introduzione
Ascanio della Corgna è famoso soprattutto per un grande duello, forse il più conosciuto del XVI secolo, ma è soprattutto un eccezionale uomo d’arme e ingegnere militare. Nel primo volume pubblicato con Zhistorica, I PadroniContinue reading
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Firenze: le foibe furono una vendetta
A #Firenze hanno intitolato ai "#martiri delle #foibe" uno slargo con un muro sbrecciato lordo di #graffiti, usato come parcheggio e come ricettacolo per i cassonetti della spazzatura.
Un gesto più di scherno che di omaggio.
Ogni tanto qualcuno spezza o danneggia in altro modo la targa con il nome, che nel febbraio 2023 è stato sostituita per la terza volta almeno.
Giusto in tempo perché venisse corretta con la scritta "#Vendetta".
Una valutazione gelida e realistica. Imporre a Firenze i piagnistei della propaganda difficilmente avrebbe portato a risultati diversi: in città è diffusa da decenni, specie tra le persone serie, la propensione a non sentire alcuna appartenenza per lo stato che occupa la penisola italiana e a comportarsi di conseguenza nei confronti dei suoi propagandisti.
StatusSquatter 🍫
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