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Serve un servizio militare volontario nazionale? Risponde Farina


Periodicamente si torna a parlare dell’opportunità di prevedere un servizio militare su base volontaria. L’argomento è stato rilanciato ai massimi livelli dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Udine in occasione dell’Adunata nazionale degli Alpi

Periodicamente si torna a parlare dell’opportunità di prevedere un servizio militare su base volontaria. L’argomento è stato rilanciato ai massimi livelli dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Udine in occasione dell’Adunata nazionale degli Alpini il 14 maggio scorso. Sul tema si era espresso più volte anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, prefigurando una proposta di legge per istituire una “Mininaja” della durata di 40 giorni per i giovani che volontariamente desiderassero fare questa esperienza. Queste proposte, benché enunciate in modo sintetico, sono tutt’altro che campate in aria e meritano una giusta considerazione.

Le reazioni

Tuttavia, come spesso accaduto anche in passato, tali idee tendono a generare reazioni di vario tipo. La prima, da parte di coloro che vorrebbero il ripristino del servizio di leva obbligatorio (sospeso dal 2006) finalizzato non solo alla formazione del cittadino soldato per la difesa della Patria, ma anche funzionale per garantire una esperienza di vita fondata sulla disciplina e sui doveri che – a loro dire – contribuirebbe ad accrescere il senso civico e la maturazione dei giovani che sempre più rifuggono dai concetti di autorità, senso di responsabilità e spirito di gruppo. Il secondo moto d’opinione contesta decisamente qualsiasi idea di un ritorno al servizio di leva, sia pur volontario e di breve durata, considerando assai validi altri percorsi per migliorare il senso di cittadinanza e il contributo alla collettività, quali ad esempio i servizi nel terzo settore, nel sociale e nelle iniziative di volontariato in generale. Entrambe le posizioni, pur rispettabili, non colgono l’essenza della questione.

L’organico delle Forze armate è sufficiente?

La domanda cui si dovrebbe dare risposta è la seguente: l’organico attuale delle nostre Forze Armate è sufficiente per far fronte ai mutati scenari di sicurezza e alle molteplici emergenze che sempre più frequentemente affliggono il nostro Paese? La risposta è no. Difatti l’organico di Esercito, Marina e Aeronautica, ridotto da 190mila a 150mila unità complessive con la legge 244 del 2012, è stato ritenuto insufficiente ad affrontare le nuove sfide che vedono il ritorno della guerra nel continente europeo e un quadro di crisi e instabilità che si estende su un ampio arco a est e a sud del Mediterraneo, con il nostro Paese proprio al centro delle aree di instabilità.

Riserva ausiliaria

E proprio sulla base del mutato scenario di sicurezza il nostro Parlamento, con la legge 119 del 5 agosto del 2022, ha già delegato il Governo a definire la costituzione di una Riserva ausiliaria dello Stato pari a diecimila unità. Tale riserva verrebbe ripartita su base regionale alle dipendenze delle Forze armate, con compiti di impiego in caso di conflitti, grave crisi internazionale o per emergenze e calamità nazionali, nonché con funzioni in campo logistico e di cooperazione civile-militare. Siamo quindi di fronte a valutazioni solide e a un quadro condiviso in cui all’evidente esigenza si associa la volontà politica e la presenza di un impianto legislativo idoneo per procedere in tal senso. Un servizio militare volontario e limitato nel tempo costituirebbe un’importante fonte di alimentazione di detta Riserva ausiliaria dello Stato. A fronte di una chiara esigenza perché quindi non consentire a un giovane cittadino italiano, che decide di non intraprendere la carriera professionale nelle Forze armate, di avere l’opportunità, se lo desidera, di essere addestrato in campo militare per un periodo limitato per contribuire alla difesa e alla sicurezza dei suoi connazionali? Perché privarsi di una capacità importante ottenibile senza limitare alcuna libertà personale? Ci sono pertanto tutte le premesse per procedere in tal senso.

Prossimi passi

Si tratta ora di prefigurare il percorso addestrativo e il successivo eventuale impiego, improntati a ottimizzare il rapporto costi-benefici. Ad esempio, si potrebbe stabilire una fase di addestramento basico della durata variabile, compresa tra le 8 e le 12 settimane, in funzione degli incarichi da assegnare. Due o tre mesi di intenso addestramento, da svolgere nei mesi estivi, sarebbero poi facilmente compatibili con gli iter formativi scolastici-universitari dei giovani cittadini militari volontari. Terminata la formazione iniziale, i volontari del Servizio nazionale verrebbero inquadrati in unità già esistenti, dislocate nelle regioni di provenienza su tutto il territorio nazionale. Questo personale conserverebbe il proprio posto di lavoro civile, avrebbe uno “status militare” e potrebbe essere disponibile ad un richiamo addestrativo annuale della durata di 15-20 giorni.

I costi

Per ciò che concerne i costi, si evidenzia che la citata legge 119 ha previsto lo stanziamento di circa 50 milioni annui, defalcati dai risparmi della legge 244/2012, per i soli oneri di richiamo del personale; oltre ai quali dovranno essere previsti gli oneri di selezione, vestizione, equipaggiamento, mezzi e materiali, istruttori, e infrastrutture. Si potrebbe procedere con gradualità, prevedendo una fase sperimentale nei primi due anni con un reclutamento tra 1500 e 2000 volontari all’anno, per poi passare a regime su un reclutamento annuale di 3000 Volontari, sufficienti per alimentare un bacino di 30mila unità in dieci anni. Ciò consentirebbe, con ampia flessibilità, il richiamo fino al massimo di diecimila unità previste per l’eventuale impiego della Riserva ausiliaria dello Stato nei casi di massime emergenze.

Un supporto alle emergenze

In quanto all’utilità di un siffatto bacino di forze Volontarie, basti pensare alle calamità che purtroppo hanno interessato il nostro Paese negli ultimi decenni (terremoti, Covid-19, frane, inondazioni, ecc.) e che proprio in questi giorni affliggono una vasta parte del nostro Paese. La disponibilità di un battaglione aggiuntivo di riservisti volontari su base regionale o areale (con dotazioni di mezzi e materiali) consentirebbe immediato intervento in supporto alla Protezione civile e agli altri organi dello Stato con tempestività ed aderenza. C’è già un modello in tal senso: il battaglione Alpini “Vicenza” costituito in seno al 9° reggimento Alpini a L’Aquila, alimentato da personale in servizio permanente. Replicare tale schema con i volontari della Riserva ausiliaria sarebbe agevole e assai meno dispendioso del reclutamento di analoga aliquota in servizio permanente. Le differenti specificità delle tre Forze armate indicheranno poi anche compiti in campo logistico e di supporto che sono altrettanto importanti per sostituire temporaneamente il personale professionista inviato in missioni di difesa, sicurezza e gestione delle crisi internazionali.

Basi solide

Ecco in definitiva che gli intendimenti dei nostri governanti sull’istituzione di un servizio militare volontario e temporaneo poggiano su basi solide. Si tratta di un’iniziativa nobile che accrescerebbe ancor più il legame tra le nostre Forze armate, il territorio e i nostri concittadini. È giunto il momento di mettere da parte la retorica e le critiche argomentate con titoli semplificativi. Il Governo ha tempo fino a fine agosto per esercitare la delega conferitagli dal Parlamento e definire in concreto i parametri della Riserva ausiliaria dello Stato.


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La Guerra tiepida. La sfida dell’Occidente per Casini e Manciulli


Gli strumenti della deterrenza e dell’equilibrio non bastano più. Lo scenario internazionale è caratterizzato contemporaneamente dalla competizione globale “fredda” tra potenze e da conflitti “caldi”. È la guerra tiepida, teorizzata nel nuovo libro chiama

Gli strumenti della deterrenza e dell’equilibrio non bastano più. Lo scenario internazionale è caratterizzato contemporaneamente dalla competizione globale “fredda” tra potenze e da conflitti “caldi”. È la guerra tiepida, teorizzata nel nuovo libro chiamato appunto “La guerra tiepida. Il conflitto ucraino e il futuro dei rapporti tra Russia e Occidente”, di Enrico Casini e Andrea Manciulli (edito dalla Luiss University Press), presentato ieri alla sede dell’ateneo con la moderazione di Flavia Giacobbe, direttore delle riviste Airpress e Formiche. Questo nuovo tipo di confronto “intermedio tra lo scontro militare e l’equilibrio della tensione”, come lo ha definito il direttore generale dell’Università Luiss Guido Carli, Giovanni Lo Storto, richiede “l’analisi di specialisti che possano ipotizzare come sarà il monto dei prossimi anni, con una Europa nel vortice della Storia”. Per la vice presidente della Luiss, Paola Severino, il libro “analizza le premesse e il contesto di questa guerra tiepida” attraverso una “metodologia seria con diversi studiosi che analizzano i fenomeni”.

La Guerra tiepida

Alla base del libro, per Enrico Casini c’è “la volontà di fare chiarezza nel caos in cui siamo stati immersi, dove si confondevano invasi e invasori e non si distinguevano le origini del conflitto”. Per questo scopo il volume è diviso in due parti, una dedicata alle radici storiche, dal rapporto tra Mosca e Kiev dopo la dissoluzione dell’Urss, alla svolta impressa alla politica russa da Putin. La seconda parte è invece dedicata a una riflessione sulle possibili conseguenze. Sul titolo “Guerra tiepida” è intervenuto anche Andrea Manciulli, che ha spiegato come si tratti di un “termine per il futuro”. “Non stiamo assistendo solo alla guerra in Ucraina, ma siamo in una fase della storia di discrimine geopolitico”. Dopo la fine della guerra fredda, per l’autore, ci si è illusi che la democrazia avesse vinto; invece, “è stata coltivata con attenzione scientifica la disgregazione dei valori dell’Occidente”. Le sfide del resto sono tante, oltre quella ucraina a est, c’è l’Artico, ormai navigabile, e le fragilità dell’Africa. “L’Europa è circondata” ha detto Manciulli e si trova “in una nuova fase della storia in cui non c’è più solo l’equilibrio del freddo, ma ci sono tanti conflitti, importanti sia per la geopolitica che per la nostra vita quotidiana.

Lo scontro tra democrazia e autocrazia

Per la Difesa italiana è evidente che questa guerra abbia superato i confini europei, e si sia spostata in tutto il mondo e, più vicino a noi, nel Mediterraneo. A dirlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quello che serve, dunque, è che la politica “assuma uno sguardo più che decennale”. Il problema, ha sottolineato il ministro, è che “l’Europa per troppo tempo ha assunto un approccio burocratico, ma manca una volontà politica complessiva, cosa che hanno invece singolarmente i Paesi del Vecchio continente”. La domanda che si è posto il ministro, infatti, è “come si comporterebbe l’Unione se gli Usa ritirassero il proprio sostegno all’Ucraina?”. La complessa risposta è che se per alcuni non cambierebbe nulla, per altri invece sì. “È un momento in cui si scontrano due modelli, le democrazie e le autocrazie; il problema è che le democrazie sono più lente nelle decisioni, che possono sempre cambiare, e hanno catene di comando più lente”. Inoltre, il modello democratico, ha sottolineato Crosetto, prevale nella parte agiata del mondo, “incapace di avere la stessa voglia di combattere di chi vive nella parte povera”. Ci troviamo nella condizione di dover difendere “il modello di società dove si sta meglio, ma che sconta delle debolezze quando si scontra con le autocrazie”.

Un cambio culturale

Uno scontro che si combatte anche sul piano della comunicazione. “La Russia ha dimostrato di avere una StratCom più avanzata di noi; noi parliamo di pace o guerra, mentre dovremmo parlare di resa o resistenza, repressione o libertà. Noi stessi siamo stati contaminati”. “Come ho detto al Copasir – ha raccontato ancora Crosetto – la guerra finirà quando chi sta bombardando smetterà di farlo”. Per il ministro “la guerra è una cosa brutta, ma purtroppo l’unico modo per allontanarla è combattere chi vuole la guerra”. Quello che serve, dunque, è uno sforzo dell’intera classe dirigente per cercare di capire cosa potrà succedere tra vent’anni, “individuando i passi da fare per cambiare la cultura del nostro Paese ed europea, togliendo la sedimentazione di decenni per cui ci faceva schifo quello di cui avevamo bisogno”. Per Crosetto, “riscoprire questo percorso è l’unico per assicurare un futuro incarnato dalle democrazie”.

Destabilizzazione globale

Per il presidente della Fondazione MedOr, Marco Minniti, “non solo è una guerra tiepida, ma sarà anche una guerra lunga”. Il punto è che non può esserci pace “fondata sulla pace di un popolo, e chi lo chiede non sa di cosa parla”. Per Minniti, la guerra si combatte su due fronti, il primo materiale, sui campi di battaglia ucraini, “poi c’è una guerra asimmetrica, fatta di molte cose, dall’energia, al cyber”. L’obiettivo, spiega ancora il presidente di MedOr, è la destabilizzazione del mondo “che ha un epicentro: il Mediterraneo”. Per Minniti, infatti, l’obiettivo delle autocrazie è creare “tali e tante tensioni che sfaldano i legami e colpiscono lo schieramento occidentale” e l’elemento oggi più preoccupante è la conduzione di questa guerra asimmetrica in Africa. “Non c’è una grande regia strategica dietro, ma ci sono eventi e fatti che fanno comodo a Mosca e Pechino”.

Serve un’analisi approfondita

Come ha registrato il direttore generale dell’Agenzia industrie difesa, Nicola Latorre, “c’è stata superficialità nel valutare la strategia di Putin alla conferenza di Monaco nel 2007, in Georgia nel 2008, e poi in Crimea nel 2014”. Una superficialità dettata dal prevalere degli interessi economici invece che geopolitici. “La storia non si fa con i se – ha continuato il direttore generale – ma bisogna fare tesoro delle esperienze”, e non è la prima volta che succede all’Europa di sbagliare valutazioni, come successo con le Primavere arabe. L’obiettivo dell’analisi, allora, deve essere sviluppare un “margine di prevedibilità nella complessità di una partita enorme come quella che si sta giocando per ridefinire gli equilibri mondiali”.

Lo scontro sull’informazione

Il tentativo di destabilizzazione non si limita agli scenari esteri, ma accade anche nelle nostre società. “Nel nostro Paese il fenomeno della disinformazione ha due facce” ha spiegato la giornalista Monica Maggioni, “da una parte c’è chi decide di usare le informazioni per portare avanti un proprio credo ideologico, dall’altro c’è invece un deficit di consapevolezza”. Il punto, è che la guerra si combatte a Kiev e dentro le case di ognuno di noi: “si scontrano due visioni del mondo, progetti diversi sugli equilibri del globo”. Il problema è che negli Stati totalitari, in cui l’informazione è controllatissima, e i media tradizionali sono sotto scrutinio estremo da parte dello Stato, si è costruito un sistema di disinformazione sistematica a uso del nemico tra i più avanzati al mondo”.


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#PNSD, fino al prossimo 15 giugno si svolgerà la consultazione pubblica lanciata dalla Direzione generale per i fondi strutturali per l’istruzione, l’edilizia scolastica e la scuola digitale del Ministero, con l’obiettivo di raccogliere pareri e cont…
#PNSD


Fronte popolare-comando generale: raid Israele ha ucciso 5 nostri militanti


Nell'attacco sarebbero rimaste ferite altre dieci persone, due delle quali in modo grave L'articolo Fronte popolare-comando generale: raid Israele ha ucciso 5 nostri militanti proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/05/31/medioriente/fro

della redazione

Pagine Esteri, 31 maggio 2023 – Cinque membri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina comando generale (Fplp-cg), sono stati uccisi oggi da una potente esplosione avvenuta nella cittadina di Qousaya, nel Libano meridionale, a ridosso del confine con la Siria e a circa 70 chilometri da quello con Israele. L’organizzazione palestinese ha accusato lo Stato ebraico di aver colpito la sua base. Forse con un drone o un missile sganciato da alta quota da un cacciabombardiere, affermano alcune fonti. Nell’attacco sarebbero rimaste ferite altre dieci persone, due delle quali in modo grave ha detto Anwar Raja, portavoce del Fplp-cg.

Da parte sua Israele nega di aver effettuato un attacco aereo sul confine libanese-siriano.

Un dirigente del Fplp-cg, Abu Wael Issam, ha detto all’Associated Press che il suo gruppo si vendicherà “al momento opportuno”. Ha aggiunto che l’attacco non dissuaderà i combattenti palestinesi “dalla lotta contro il nemico israeliano”.

Fonti della sicurezza libanese, citate da media locali, invece sostengono che “i cinque membri del Fplp-cg sono stati uccisi dall’esplosione accidentale di un loro missile e non in un attacco aereo israeliano”.

Il Fplp-cg, Fondato da Ahmed Jibril (morto nel 2021) e nato da una scissione dal più noto Fronte popolare per la liberazione della Palestina, è sostenuto da Damasco e ha basi lungo il confine tra Libano e Siria e una presenza militare in entrambi i paesi. Pagine Esteri

L'articolo Fronte popolare-comando generale: raid Israele ha ucciso 5 nostri militanti proviene da Pagine Esteri.



In Spagna è boom delle destre. Il ruolo delle chiese evangeliche


Alle elezioni amministrative è boom dei popolari e di Vox, mente i socialisti arretrano e le sinistre incassano una dura sconfitta (con l'eccezione degli indipendentisti baschi e galiziani). Sanchez convoca elezioni anticipate. Le chiese evangeliche soste

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 31 maggio 2023 – I sondaggi davano i due principali partiti appaiati, uno scenario tollerabile per i socialisti al potere. Ma i risultati delle elezioni regionali e municipali di domenica in Spagna hanno consegnato una netta vittoria al Partito Popolare, provocando un vero e proprio terremoto politico.

Il premier manda la Spagna al voto anticipato e spera nel miracoloLunedì, a sorpresa, il primo ministro Pedro Sánchez ha infatti annunciato lo scioglimento delle camere e l’indizione di elezioni anticipate per il 23 luglio.
«Molti presidenti dalla gestione impeccabile hanno smesso di esserlo. Tutto ciò rende opportuno che gli spagnoli facciano chiarezza sulle forze politiche che dovrebbero guidare questa fase. La cosa migliore è che gli spagnoli possano dire la loro nel definire la direzione politica del Paese», ha spiegato il premier.
Il leader socialista spera, anticipando il voto da dicembre a luglio, di costringere alla mobilitazione almeno parte dell’elettorato progressista che domenica si è astenuto o ha “disperso” il voto, obbligandolo ad una scelta di campo netta per evitare di consegnare il paese ad uno schieramento di destra che non comprende solo i postfranchisti del Partito Popolare, ma anche gli estremisti di Vox. Tra qualche settimana sapremo se l’azzardo di Sánchezsi sarà rivelato vincente, o se invece la trasformazione delle legislative in un referendum pro o contro l’attuale maggioranza di governo consegnerà una vittoria ancora più netta alle forze reazionarie.

Netta vittoria del PP
La destra di Feijóo ha intanto ottenuto il 31,5% e 7.055.000 voti; un balzo in avanti, rispetto alla precedente tornata, di ben 1 milione e 800 mila consensi, nonostante il leggero calo nell’affluenza generale che domenica è stata del 63,9% (l’1,3 in meno rispetto al 2019).
Il Partito Popolare è riuscito a espugnare 15 dei 22 capoluoghi in ballo, compresi molti tradizionali feudi socialisti. La destra ha ottenuto la maggioranza assoluta sia a Madrid che nella regione della capitale e si è piazzata in testa a Malaga, Almeria, Cadice, Cordoba, Granada, Murcia, Oviedo, Santander, Teruel, Logrono, Badajoz, Salamanca, Valencia, Siviglia, Valladolid, Castellòn e Palma. In Andalusia, il Pp ha vinto in tutti i capoluoghi tranne che a Jaen. In Castiglia La Mancia, dove il Psoe governava i cinque capoluoghi, il Pp può ora assumere il controllo a Toledo, Ciudad Real, Guadalajara e Albacete. Feijóo ha ottenuto buoni risultati anche nelle città catalane, terreno da sempre difficile per la destra spagnola.

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Isabel Díaz Ayuso (PP), presidente della Comunità di Madrid

I socialisti arretrano, le sinistre si leccano le ferite
Il Psoe si è fermato invece al 28,1% e a 6.292.000 voti, perdendo centinaia di città e sei comunità autonome. È andata anche peggio alle forze politiche a sinistra dei socialisti, con Podemos (alleato quasi ovunque con Izquierda Unida, i verdi e liste progressiste locali) che ottiene il peggior risultato della sua storia. Le alleanze di sinistra escono da molti consigli comunali e regionali non riuscendo spesso a superare la soglia di sbarramento del 5% ad esempio né a Madrid né a Valencia. Anche la lista della sindaca uscente di Barcellona, Ada Colau, si è piazzata solo terza.
Il netto ridimensionamento di Podemos e l’anticipo delle elezioni a fine luglio obbligherà probabilmente il partito fondato da Pablo Iglesias ad accettare obtorto collo la confluenza nella piattaforma Sumar promossa dalla Ministra del Lavoro Yolanda Diaz, alla quale hanno già aderito la maggior parte delle forze di sinistra, ecologiste e di centrosinistra del paese.

L’eccezione basca a galiziana
L’unico risultato in controtendenza per le sinistre – ma stavolta quelle indipendentiste – si è registrato nei Paesi Baschi/Navarra e in Galizia. Nel primo caso EH Bildu ha aumentato in maniera consistente i consensi, scavalcando in alcuni casi il centrodestra del Partito Nazionalista Basco e riuscendo ad espugnare un certo numero di città (per la prima volta Vitoria-Gasteiz) e la provincia di Donostia e crescendo in Navarra. La sinistra indipendentista basca ha ottenuto il buon risultato nonostante la polemica suscitata, durante la campagna elettorale, dalla decisione di candidare una manciata di membri in passato condannati per appartenenza all’ETA, che a pochi giorni dal voto hanno però annunciato che non avrebbero accettato l’incarico nell’eventualità che fossero stati eletti. Inoltre con Bildu si sono schierati anche alcuni noti esponenti politici provenienti da altre forze politiche di sinistra e di centrosinistra non indipendentista, tra i quali l’ex leader di Izquierda Unida Javier Madrazo e l’ex dirigente socialista Gemma Zabaleta.
Il Blocco Nazionalista Galiziano aumenta i suoi voti del 50% e in molti casi supera i socialisti, piazzandosi in vari capoluoghi e località della regione atlantica.

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Il leader di Vox, Santiago Abascal

Vox si prepara a governare la Spagna, Ciudadanos sparisce
Nonostante il forte exploit del PP – formazione che non può certo essere considerata moderata – anche l’estrema destra spagnola esce notevolmente rafforzata dalle amministrative.
Alle municipali Vox passa da 813 mila a 1 milione e 608 mila voti, cioè dal 3,56 al 7,18%, raddoppiando consensi e percentuale. In termini di consiglieri è un vero boom, da 530 a 1695.
Il bacino di voti che negli ultimi anni era andato a Ciudadanos lo ha assorbito quasi del tutto il partito di Feijóo, ma i neofranchistisono riusciti comunque a captarne una parte, pescando anche altrove. Ad esempio Vox è riuscita ad attirare completamente il voto, seppur marginale, che tradizionalmente andava ai partitini apertamente neofascisti e neonazisti.
Il partito fondato da Albert Rivera in Catalogna nel 2006 e poi rapidamente cresciuto grazie alla crisi dei due partiti maggiori negli anni dell’austerity, è stato espulso da tutti i parlamenti regionali e dalla quasi totalità dei consigli municipali. Ciudadanos, a lungo rappresentatosi come un partito liberale, moderno e moderato è stato fagocitato dalle destre radicali ed estreme e si avvia alla dissoluzione dopo la decisione di non presentarsi alle imminenti elezioni legislative.
Al contrario, Vox canta vittoria non solo per la vistosa crescita, ma soprattutto perché i suoi eletti diventano fondamentali per permettere al PP di raggiungere la maggioranza assoluta e governare in ben sei comunità – Aragona, Baleari, Cantabria, Estremadura, Murcia e Valencia – oltre che in molte città.
Domenica Vox è riuscito ad irrompere in molti consigli regionali e comunali dalla Castilla La Mancha all’Estremadura; nella Murcia passa dal 9,5 al 17,7%, e da 4 a 9 seggi, nonostante il boom del Pp che dal 32 sale al 43%. Nella Comunitat Valenciana il capolista Carlos Flores – condannato per “violenza psicologica” ai danni dell’ex moglie – porta i neofranchisti da 10 a 13 seggi.
«Celebriamo il consolidamento di Vox come partito assolutamente necessario per costruire l’alternativa al socialismo, al comunismo e ai loro soci separatisti e terroristi» ha commentato a caldo Santiago Abascal, riferendosi agli indipendentisti baschi di Bildu.

Trionfante, il leader dell’estrema destre nazionalista, xenofoba e omofoba ha avvisato lo stato maggiore del Pp di «non aspettarsi regali» e che nelle trattative per la formazione dei governi locali «non accetterà ricatti». Abascal ora assapora la concreta possibilità che le prossime elezioni consegnino la vittoria al Pp e permettano a Vox di accedere al governo statale come necessario puntello di Feijóo.

Il duello tra PP e Vox per il voto degli evangelici
La competizione tra i due partiti della destra, già forte nelle scorse settimane si appresta a diventare ancora più feroce nelle prossime.
I due partiti, tra le altre cose, si contendono i fedeli delle chiese evangeliche con i quali, negli ultimi anni, hanno stretto forti legami fino a trasformarne alcune in bacini elettorali stabili e organizzati.
In Spagna il cristianesimo evangelico è la religione che è aumentata di più e più in fretta negli ultimi due decenni, trainata dagli immigrati latinoamericani che conquistano gradualmente la cittadinanza e con la loro aggressiva attività di proselitismo pescano sempre più anche tra gli autoctoni.
Attraverso le loro reti di sostegno sul territorio alle famiglie di immigrati che hanno bisogno di aiuto per trovare lavoro, risolvere questioni burocratiche o affrontare drammi familiari legati alla droga, alla prostituzione o all’ingresso dei giovani nelle gang, le organizzazioni religiose aumentano rapidamente il numero di adepti, sottoposti a sedute motivazionali e una serrata “formazione ideologica”.
Secondo i dati dell’Osservatorio sul Pluralismo Religioso, il 2% della popolazione spagnola (48 milioni di persone) è di confessione protestante, e di questa percentuale i due terzi sono rappresentati da evangelici. I potenziali elettori da contendersi, quindi, ammontano a quasi 600 mila. Secondo l’Osservatorio, ben il 70,6% dei praticanti evangelici sono donne, e la fascia d’età più numerosa è quella che va dai 18 ai 44 anni. La maggioranza dei fedeli sono immigrati, e tra i nati in Spagna primeggiano le seconde generazioni o molti membri delle comunità gitane.
Le Chiese Evangeliche hanno messo solide radici nel paese, dove possono contare già su 4322 luoghi di culto, contro le 1750 moschee e i 634 templi dei Testimoni di Geova esistenti nel Regno. Tra le comunità autonome, a guidare la classifica c’è la Catalogna, seguita dalla regione di Madrid, dall’Andalusia e da Valencia.

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Rito neopentecostale

In generale, gli aderenti alle chiese evangeliche spagnole tendono a non schierarsi pubblicamente a favore di questo o quel partito. Secondo l’ultima inchiesta dell’Osservatorio (2018) solo il 3% dei sondati si dichiara di destra, contro il 41% che si definisce di centro e il 17,6% che si colloca a sinistra (il 38% però si rifiuta di rispondere).
Ma la verità è che generalmente i valori su cui si basano le varie chiese evangeliche, soprattutto neo-pentecostali, sono decisamente affini all’identità politica e alla propaganda della destra. Mentre i fedeli di vecchia data, per lo più autoctoni, sono generalmente più vicini al centrosinistra (in opposizione al dogma nazional-cattolicista del regime franchista che fino al 1967 perseguitò i membri delle confessioni riformate) la più recente ondata di immigrazione latinoamericana ha portato alla crescita della componente tradizionalista e fondamentalista. Anche il grosso della comunità gitana spagnola, aderente alla Chiesa di Filadelfia, è su posizioni politicamente molto conservatrici. Le prediche dei pastori e dei predicatori si incentrano spesso sugli strali pronunciati contro i “costumi corrotti e perversi” di coloro che difendono l’aborto o i diritti della comunità Lgbt, quando non la parità dei sessi. Non è raro che i leader religiosi si dedichino a “curare” l’omosessualità dei neofiti, a perorare la causa di una società ordinata, gerarchica e corporativa e a inveire contro la “dottrina diabolica del marxismo”.

I forti legami delle propaggini spagnole con le case madri latinoamericane, spesso fortemente attive nel sostegno alle correnti più reazionarie dello scenario politico – fondamentale quello tributato in Brasile a Jair Bolsonaro – avvicinano molte di esse ai partiti di destra ed estrema destra. E questo nonostante le violente campagne dei gruppi falangisti – alcuni dei quali legati o interni a Vox – contro le “bande latine”, termine che spesso identifica non solo le gang composte da immigrati ma anche le intere comunità nazionali di appartenenza.

Non stupisce quindi che la competizione tra Popolari e Vox per aggiudicarsi il voto dei fedeli evangelici sia diventata negli ultimi tempi sempre più accesa, producendo numerosi scambi polemici. In particolare a Madrid, alla fine di marzo, la partecipazione della pastora neo-pentecostale Yadira Maestre (della “Chiesa Cristo Viene”) ad una convention del Partito Popolare, durante la quale ha platealmente benedetto la presidente della regione Isabel Díaz Ayuso, il sindaco José Luis Martínez-Almeida e il presidente nazionale della formazione Alberto Núñez Feijóo, hanno scatenato le ire dei dirigenti di Vox, che hanno accusato i competitori di “strumentalizzazione”. Le parole di Maestre, che aveva chiesto al “Padre Celestiale” di proteggere il Pp e in particolare i tre dirigenti presenti alla convention, non erano andate giù all’estrema destra, che ha rivendicato la sua vicinanza discreta alle chiese evangeliche e ai loro valori 365 giorni l’anno, e non solo a ridosso delle elezioni.
Ed in effetti, negli ultimi anni non è stato raro vedere la leader di Vox a Madrid Rocío Monasterio e il marito Iván Espinosa – portavoce dei neofranchisti al Congresso dei Deputati – partecipare alle funzioni religiose in diversi luoghi di culto neo-pentecostali della capitale. «Ad Ayuso interessano solo i latinos ricchi», hanno tuonato i leader di Vox rivendicando di avere a cuore gli «ispanici della porta accanto».
Ma è stato il PP il partito che per primo ha dedicato funzionari e dirigenti alla captazione dei consensi delle chiese evangeliche, in cambio di favori e facilitazioni che la propria natura di forza di governo gli permette di elargire a pastori e predicatori collaborativi. E per definire gli immigrati latinoamericani Ayuso usa furbescamente il termine “nuovi spagnoli”, che li promuove a immigrati di serie A in opposizione a quelli di altra provenienza, da considerarsi invece estranei e pericolosi. – Pagine Esteri

7454861* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Jordi
@c_gajewski
perché lo stato spagnolo fa da freno alla migrazione africana che va in Europa.
L'Europa razzista ha bisogno di questa frontiera negli Stretti, molto più efficace dei Pirenei e del controllo della sponda settentrionale della Mexiterrania.
Suppongo che l'UE voglia anche una certa influenza in America Latina. E non vorrà nemmeno lasciare isolato il Portogallo.
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Jordi
@c_gajewski
Si si i tant, el diners també tenen molt a veure.
Europa ha abocat molts calers a Espanya, expulsar-la seria disparar-se al propi peu.


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In Cina e Asia – Corea del Nord, fallito il lancio del satellite spia 7452812
I titoli di oggi:
-Corea del Nord, fallito il lancio del satellite spia
-Cina e India, espulsioni incrociate di giornalisti
-Nuove sanzioni americane contro gli spacciatori di fentanyl
-Malesia, arrestato equipaggio cinese per furto di relitti
-Yunnan, proteste della minoranza musulmana per la demolizione di una moschea
-Per sfidare gli Usa sulla tecnologia la Cina deve puntare sulla formazione
-Sentenza storica in Giappone: il divieto dei matrimoni omosessuali è incostituzionale

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Un comitato per le patologie militari. La proposta del gen. Tricarico


Quando avevo formale titolo a farlo, proposi al ministro della Difesa di allora di istituire uno speciale Comitato di esperti che lo potesse assistere per ogni questione riguardante l’eventuale insorgenza di patologie a danno dei militari, a causa della l

Quando avevo formale titolo a farlo, proposi al ministro della Difesa di allora di istituire uno speciale Comitato di esperti che lo potesse assistere per ogni questione riguardante l’eventuale insorgenza di patologie a danno dei militari, a causa della loro esposizione a possibili agenti patogeni durante l’espletamento del servizio.

Il motivo era quello di prevenire gli effetti negativi legati a peculiari ambienti di lavoro quali l’esposizione a onde elettromagnetiche, ad agenti chimici nocivi, a materiali di amianto, a uranio impoverito; una casistica questa non scelta a caso, ma relativa a dossier già aperti e che ogni tanto rispuntano.

L’iniziativa non andò a buon fine perché affondata dalla burocrazia interna e dall’inesorabile meccanismo dell’avvicendamento dei vertici dell’amministrazione che spesso incide negativamente sulla continuità di governo.

Un motivo non secondario per la messa a punto di uno strumento scientifico/conoscitivo di alto livello a beneficio del ministro e della amministrazione era quello di poter assistere i vari comandanti che, numerosi, erano chiamati a rispondere in tribunale per l’insorgenza di malattie a danno dei dipendenti o di altri cittadini, i quali accusavano la Difesa e i loro responsabili locali o centrali per le infermità contratte.

Tra l’altro, si è da poco concluso il processo a carico di cinque generali dell’Aeronautica che si erano avvicendati al comando del Poligono interforze di Salto di Quirra, iniziato nel 2011 e la cui sentenza non è stata ancora depositata, una sentenza assolutoria per tutti in quanto “non vi è idonea prova della sussistenza del fatto”, ma che ha comportato che gli imputati (per l’inquinamento del territorio sardo con agenti dannosi – tra cui torio e uranio impoverito – smaltiti nell’ambiente) si siano dovuti difendere senza poter contare su una documentazione scientifica di alto livello e difficilmente contestabile, quale quella appunto che un comitato di scienziati avrebbe messo a disposizione della giustizia e di imputati innocenti.

Tra l’altro, è fin troppo facile prevedere che la mai sopita vivacità del ricco campionario di movimenti e associazioni sardi non tarderà a risvegliarsi, anche in considerazione dei nuovi insediamenti internazionali sulla base di Decimomannu.

Un caso, quello della Sardegna, che richiama la questione dell’uranio impoverito e del fatto che una mole gigantesca di istanze di indennizzo è ancora oggi in attesa di decisione da parte della giustizia o dell’amministrazione, con conseguenze imprevedibili, perché basate sull’ assunto – ben lungi dall’essere stato definitivamente acclarato sul piano scientifico – che l’esposizione all’uranio impoverito causi l’insorgenza di patologie tumorali.

Tutto questo nel nostro bizzarro paese accade nonostante una cospicua letteratura scientifica, (che la Fondazione Icsa ha voluto mettere insieme – vedi link), sia concorde sulla insussistenza/inverosimiglianza di un nesso causa effetto per i militari malati di tumore, cui in ogni caso va tutta la nostra umana e partecipe vicinanza e solidarietà.

Signor Ministro Crosetto, l’attualità e le prospettive di una Difesa in stato di accusa da parte di migliaia di militari che la chiamano in giudizio per danni subiti a causa del servizio prestato, così come il verosimile replicarsi di scenari dello stesso tipo, anche a causa della partecipazione a missioni multinazionali nei più disparati ambiti geografici, rendono la proposta di nominare un Comitato di esperti più attuale e necessaria oggi di ieri.

Tra l’altro, va tenuto in considerazione che i giudici, in quelle circa cinquanta sentenze favorevoli agli istanti ad oggi registrate, hanno considerato un precedente significativo l’accoglimento delle istanze di indennizzo da parte dell’amministrazione. Decisioni certamente tecniche, ma date le dimensioni del fenomeno – tutto e solo italiano – un monitoraggio della politica pare inevitabile.


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Pronto il settimo pacchetto armi per l’Ucraina. Crosetto al Copasir


È in partenza un nuovo pacchetto di armi per l’Ucraina. Martedì, di fronte al Copasir – presieduto dal Dem Lorenzo Guerini – il ministro della Difesa Guido Crosetto ne ha illustrato i contenuti, che come da consuetudine rimarranno secretati. Il passaggio

È in partenza un nuovo pacchetto di armi per l’Ucraina. Martedì, di fronte al Copasir – presieduto dal Dem Lorenzo Guerini – il ministro della Difesa Guido Crosetto ne ha illustrato i contenuti, che come da consuetudine rimarranno secretati. Il passaggio è necessario per dare il via libera alla spedizione del nuovo lotto di equipaggiamenti che aiuteranno la resistenza ucraina contro l’invasione russa.

Si tratta del settimo pacchetto in termini assoluti e il secondo approvato dal governo di Giorgia Meloni, che agisce sulla base della copertura legale fornita dal decreto legge Ucraina, varato definitivamente a gennaio, che proroga fino al 31 dicembre 2023 la cessione di materiali militari all’Ucraina. Poche settimane dopo l’esecutivo ha dato il via libera al sesto pacchetto, che prevedeva, tra le altre cose, l’invio del sistema di difesa antiaerea Samp/T.

Secondo Repubblica il settimo pacchetto “ rinnova le dotazioni di armi, munizioni e sistemi di difesa antiaeree già inviate con i precedenti provvedimenti”. Materiale che risponde alle esigenze espresse dalla Difesa ucraina, a cui gli alleati occidentali stanno via via rispondendo: gli Stati Uniti con l’autorizzazione all’invio di caccia F-16, il Regno Unito con missili a lungo raggio Storm Shadow e droni, la Germania con tank e radar e così via. Il tutto in funzione della difesa dai missili di Vladimir Putin, ma anche della controffensiva ucraina ormai imminente.

La decisione del governo italiano arriva sulla scia del summit G7 a Hiroshima, dove i leader occidentali (inclusa la stessa Meloni, ai margini dei colloqui) hanno incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ribadito il sostegno finanziario, militare e umanitario a Kyiv. Questi e altri incontri – tra cui la recente visita a Roma – hanno permesso al leader ucraino di sottolineare l’urgenza dell’invio di nuovo materiale. A cui l’Italia, in linea con gli altri partner occidentali, sta reagendo.


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Giorgia Meloni continua a prendere in giro gli italiani, in particolare i suoi elettori. Anche oggi ha riproposto i suoi discorsi sulla patria e la nazione nel



Incontro di spie sul Lago Maggiore. Affonda la barca: uno dei morti era del Mossad


A parte i membri dell'equipaggio, i passeggeri erano appartenenti ai servizi segreti italiani e a quelli israeliani del Mossad. Il comunicato ufficiale diramato dalle istituzioni italiane parla di una festa a bordo: erano riuniti sulla barca, si dice, per

Pagine esseri, 30 maggio 2023 – Nella serata di domenica 28 maggio, una barca con a bordo 24 persone è affondata nel Lago Maggiore in seguito, probabilmente, al peggioramento delle condizioni atmosferiche.

A parte i membri dell’equipaggio, i passeggeri erano appartenenti ai servizi segreti italiani e a quelli israeliani del Mossad. Il comunicato ufficiale diramato dalle istituzioni italiane parla di una festa a bordo: erano riuniti sulla barca, si dice, per celebrare un compleanno. Oltre al capitano e a sua moglie, le altre 22 persone erano tutte di nazionalità italiana o israeliana.

Hanno perso la vita due membri dei servizi di intelligence italiani: Claudio Alonzi di 62 anni e Tiziana Barnobi di 53 anni. Sono stati, inoltre, ritrovati in mare i corpi senza vita di un agente del Mossad in pensione, Shimoni Erez, 50 anni e della moglie del capitano, Anya Bozhkova, di nazionalità russa.

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10 agenti del Mossad sono stati immediatamente riportati in Israele con l’utilizzo di un aereo militare. Si mantiene il riserbo sulla loro identità così come su quella dei 10 membri dei servizi segreti italiani sopravvissuti al naufragio.

La barca, chiamata Goduria o Good… uria, di proprietà del 53enne Carlo Carminati, si è inabissata subito dopo l’incidente, quando le forti raffiche di vento ne avrebbero causato il capovolgimento. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’indagine per stabilire se tutte le condizioni di sicurezza fossero state rispettate (secondo alcuni media la barca trasportava più persone di quante fossero ammesse) e se, soprattutto, non siano altre, oltre al maltempo, le reali cause del naufragio. La barca verrà recuperata dal fondo del Lago Maggiore per procedere alle perizie del caso.

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Nonostante la comunicazione ufficiale rilasciata dal Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, l’idea che venti 007 italiani e israeliani si ritrovino su di una barca al centro del Lago di Como per festeggiare un compleanno, pare grottesca e surreale. Impossibile non immaginare che tra gli obiettivi dell’incontro esistesse, invece, qualche attività sulla quale le fonti ufficiali non possono che tacere.

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Mosca minaccia il Mediterraneo anche sott’acqua. Parola di Cavo Dragone


La guerra in Ucraina i relativi effetti “hanno accentuato le responsabilità della Difesa e dell’Italia per la stabilità del Mediterraneo”, che “si estendono ai correlati fondali, percorsi da reti e infrastrutture strategiche, potenzialmente ricchi di riso

La guerra in Ucraina i relativi effetti “hanno accentuato le responsabilità della Difesa e dell’Italia per la stabilità del Mediterraneo”, che “si estendono ai correlati fondali, percorsi da reti e infrastrutture strategiche, potenzialmente ricchi di risorse naturali e per questo, spesso obiettivo della cosiddetta ‘territorializzazione’ del mare”. Lo ha spiegato l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, intervenuto all’evento “L’Italia, il Mediterraneo allargato e il dominio subacqueo” dell’Istituto Affari Internazionali. Un occasione anche per fare il punto sull’ambiente subacqueo, che sta diventando un dominio operativo di rilievo per la Marina Militare italiana, e una frontiera tecnologica per l’industria del settore e più in generale per il sistema Paese che sta dando vita ad un Polo nazionale per la dimensione subacquea. L’apertura dei lavori è stata affidata all’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dello Iai. Dopo di lui, un saluto inviato da Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare.

IL DOMINIO SUBACQUEO

“Come per lo Spazio e per la Terra”, ha continuato il capo di stato maggiore della Difesa, “l’elevazione del mondo sommerso allo status di ‘dominio’” implica “una piena presa di coscienza anche delle accresciute responsabilità nella sua gestione, che sarà anch’essa un banco di prova della capacità del genere umano di approcciare, con equilibrio, tatto e rispetto, una realtà fondamentale per la preservazione degli equilibri biologici del nostro pianeta”. La rilevanza strategica delle infrastrutture subacquee, come gasdotti o dorsali di connettività digitale, “impone alla Difesa la protezione delle stesse, dedicando allo scopo risorse e investimenti paritetici a quanto garantito ad altre infrastrutture critiche del Paese, soggette a una minaccia sempre più ibrida”, ha continuato spiegando che la Difesa intende proseguire con un approccio “multi-disciplinare, inter-dicasteriale e inter-agenzia valorizzando il dialogo con le eccellenze nazionali, per consolidare una visione coerente, condivisa ed efficace”.

LA MINACCIA RUSSA

Oggi il Mediterraneo “è un punto di polarizzazione delle tensioni internazionali, così come il Nord Africa e la regione Saheliana sono aree dove attori terzi, statali e non statali, agiscono in maniera assertiva alimentandone la destabilizzazione a livello politico, sociale ed economico”, ha spiegato l’ammiraglio Cavo Dragone. In particolare, la Russia “non nasconde di voler estendere il proprio raggio d’azione in tutta questa importante fascia territoriale, nonché a tutto li Mediterraneo, anche attraverso le sue spiccate capacità nel settore underwater (manned e unmanned), ampliando le minacce a cui possono essere esposte le infrastrutture critiche e le dorsali marittime di nostro interesse strategico”.

LA RICERCA

Nella versione preliminare dello ricerca “The Underwater Domain and Europe’s Defence and Security” presentata dagli analisti Elio Calcagno e Alessandro Marrone, vengono analizzati gli scenari riguardanti le attività nel dominio sottomarino di sette Paesi: la Russia, che ha investito in droni subacquei sia per attacchi sia per deterrenza nucleare; la Cina, che punta a 76 sottomarini in cinque anni per anticipare nel mosse degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’Indo-Pacifico; il Giappone, con cui l’Italia ha recentemente rafforzato la relazione a partenariato strategico, dispone di una flotta ampia e moderna (22 sottomarini, che è più di Italia e Francia sommate, il più vecchio è del 2000) e all’ammodernamento preferisce la sostituzione a ritmo di un sottomarino all’anno; la Germania, leader mondiale in sviluppo e produzione, che è stata colta di sorpresa dal sabotaggio del Nord Stream 2 tanto che chiede, assieme alla Norvegia, una struttura di protezione delle infrastrutture critiche della Nato; il Regno Unito, che guarda all’Indo-Pacifico con l’accordo Aukus con Stati Uniti e Australia; la Francia, con 12 sottomarini nucleari di cui 4 con lanciamissili balistici e la Zee più grande al mondo.

IL RUOLO DELL’ITALIA

In generale, si nota un “aumento della rilevanza di sottomarini e droni subacquei, un aumento della domanda ma anche volontà di alimentare offerta tramite investimenti, innovazione e competizione”, ha spiegato Marrone. Aspetti che l’Italia e il sistema Paese non possono che tenere in considerazione.

IL DIBATTITO

Al dibattito successivo, moderato da Karolina Muti, responsabile di ricerca programmi sicurezza e difesa dello Iai, sono intervenuti Giuseppe Cossiga, presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, l’ammiraglio Enrico Credendino, capo di stato maggiore della Marina, Pierroberto Folgiero, amministratore delegato di Fincantieri, Gabriele Pieralli, direttore della divisione elettronica di Leonardo, Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo e Catherine Warner, direttrice del Nato Center for Maritime Research and Experimentation.

LE CONCLUSIONI

Le conclusioni sono state affidate a Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa. “Ancora si deve lavorare sull’opinione pubblica per far comprendere” la portata della dimensione marittima, ha spiegato il sottosegretario. A decidere il futuro del dominio per l’Italia “sarà la nostra capacità di fare sistema Paese e sfruttare il vantaggio competitivo”, ha aggiunto sottolineando l’impegno del governo a dare rapida attuazione al Polo nazionale della subacquea.


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Via della seta, Meloni cambia strada


La decisione è ormai presa, l’unico dubbio è quando e come comunicarla per evitare di compromettere a cascata gli interessi di alcune grandi aziende italiane e di conseguenza l’interesse nazionale. Ma che Giorgia Meloni finirà per non rinnovare il memoran

La decisione è ormai presa, l’unico dubbio è quando e come comunicarla per evitare di compromettere a cascata gli interessi di alcune grandi aziende italiane e di conseguenza l’interesse nazionale. Ma che Giorgia Meloni finirà per non rinnovare il memorandum sulla Via della seta siglato da Giuseppe Conte con la Cina nel 2019 viene dato per certo.

Pesa, naturalmente, il pressing americano. Pesa, ma non basta. Raccontano, infatti, che la presidente del Consiglio abbia affrontato la questione con spirito laico. Ha soppesato gli interessi economici, li ha intrecciati con gli interessi geopolitici ed è giunta alla conclusione che all’Italia convenga affrancarsi da un accordo che in termini commerciali conviene a Pechino più che a noi e che in termini politico-diplomatici è motivo di grande imbarazzo, tant’è che nessuno dei Paesi fondatori dell’Europa o membri del G7 l’ha siglato.

Anche di questo Giorgia Meloni parlerà col presidente statunitense Joe Biden in occasione della sua prima visita di Stato a Washington. Visita che dovrebbe tenersi, ma non è ancora ufficiale, la terza settimana di giugno.

Una delle tante anomalie italiane sembra dunque destinata a venir meno. Un’anomalia nel merito, ma anche nel metodo. Parlando con chi occupava posizioni di rilievo durante il primo governo Conte ci si rende infatti conto di quanto l’importanza di quell’accordo fosse stata trascurata. Non ci fu alcuna discussione né a livello politico né a livello governativo. Il dossier, caro a Beppe Grillo che ancora oggi lo difende, fu istruito dai vertici della Farnesina ispirati dall’ambasciatore italiano a Pechino Ettore Francesco Sequi con Luigi Di Maio ministro e dal sottosegretario leghista filo cinese allo Sviluppo economico Michele Geraci nell’indifferenza dei leader politici e degli altri ministri. Del resto, la segretezza era parte caratterizzante il memorandum. L’intesa sul futuro dei porti di Genova e Trieste, ad esempio, si concludeva con una raccomandazione che suonava grossomodo così: “L’accordo è segreto in tutte le sue parti compresa l’esistenza stessa dell’accordo”. Metodo cinese, appunto.

Il primo ad accorgersi dell’esistenza e soprattutto delle implicazioni del trattato fu l’allora sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, leghista di orientamento atlantista. Mancava poco più di un mese all’arrivo di Xi Jinping a Roma per la firma del memorandum quando Picchi, con un tweet e diverse telefonate, diede l’allarme. Si mosse l’ambasciata statunitense, si informò il Quirinale, si mobilitò il segretario di Stato americano Mike Pompeo. Da una cinquantina che erano, gli accordi bilaterali furono ridotti a 29 e ciascuno dei 29 accordi, di cui 10 commerciali e 19 istituzionali, fu annacquato il più possibile.

Tuttavia, il 23 marzo del 2019 il presidente cinese Xi Jinping e il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte firmarono in pompa magna il memorandum sulla Via della seta a Villa Madama. Sarà ora Giorgia Meloni a cancellare quella firma riportando di conseguenza l’Italia dall’orbita cinese dove la avevano collocata gli interessi grillini e la negligenza dei loro alleati all’orbita occidentale e atlantista che, per ragioni storiche, politiche ed economiche, ci caratterizza da sempre.

Huffington Post

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Il Ministro Giuseppe Valditara ha firmato il decreto che ripartisce ulteriori 700 milioni di euro di risorse del PNRR tra tutte le Fondazioni ITS Academy accreditate con almeno un percorso di formazione attivo.


Arabia saudita. Eseguite altre due condanne a morte per “terrorismo”


L'uso della pena di morte in Arabia Saudita è quasi raddoppiato dall'ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman nel 2015. L'articolo Arabia saudita. Eseguite altre due condanne a morte per “terrorismo” proviene da Pagine Esteri. https:

della redazione

Pagine Esteri, 30 maggio 2023 – L’Arabia Saudita ha comunicato di aver giustiziato due cittadini del Bahrain accusati di aver pianificato atti di “terrorismo”. Secondo le autorità saudite, Jaafar Sultan e Sadeq Thamer sono stati condannati a morte perché presunti membri “di una cellula terroristica” e “per ricevuto addestramento in campi appartenenti a entità terroristiche che mirano a destabilizzare la sicurezza dell’Arabia Saudita e del Bahrain”.

Condannando le esecuzioni, Amnesty International ha riferito che Sultan e Thamer erano stati arrestati in Arabia Saudita l’8 maggio 2015 e condannati nell’ottobre 2021. Il gruppo per la difesa dei diritti umani ha aggiunto che i due bahraniti “avevano detto ai giudici di essere stati torturati e che le loro confessioni sono state estorte con la forza”.

Sayed Ahmed Alwadaei, direttore del Bahrain Institute for Rights and Democracy, ha dichiarato al portale Middle East Eye che le due esecuzioni devono essere classificate come “uccisioni arbitrarie”. “I due uomini hanno confessato sotto tortura e le loro dichiarazioni sono state poi utilizzate come prova contro di loro durante un processo iniquo, una pratica vietata dal diritto internazionale”, ha detto. “La leadership saudita – ha proseguito Alwadaei – si sente immune da qualsiasi conseguenza quando giustizia le persone che ha torturato. Il regime del Bahrein è complice poiché non è intervenuto per salvare le vite dei suoi cittadini, dando il via libera ai sauditi”.

L’Arabia Saudita ha eseguito più di 40 esecuzioni quest’anno. L’uso della pena di morte in Arabia Saudita è quasi raddoppiato dall’ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman. Dal 2015 sono state eseguite più di 1.000 condanne a morte. Solo questo mese, il regno ha condotto nove esecuzioni.

La scorsa settimana, il ministero dell’interno ha annunciato che tre cittadini sauditi Hassan bin Issa al-Muhanna, Haidar bin Hassan Muwais e Mohammed bin Ibrahim Muwais erano stati messi a morte. Pare inoltre imminente l’esecuzione di tre membri della tribù Howeitat nella provincia di Tabuk, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, accusati di aver resistito allo sgombero per far posto al progetto della megacittà di Neom. Pagine Esteri

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Anne Applebaum – La grande carestia


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In un’aula di giustizia occorre tenere le distanze. Separazione delle carriere nodale per la svolta – Il Piccolo


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In Cina e Asia – Shangri-La Dialogue, salta l’incontro tra i ministri della difesa cinese e Usa


In Cina e Asia – Shangri-La Dialogue, salta l’incontro tra i ministri della difesa cinese e Usa li shangfu difesa cinese
I titoli di oggi:
Shangri-La Dialogue, la Cina nega l'incontro tra i ministri della difesa cinese e Usa
Cina, troppi autisti per il ride-hailing: alcune città chiudono l'accesso ai nuovi lavoratori
La Cina e le aste d'arte, raccontate attravero un dipinto di Van Gogh scomparso
Cina-Afghanistan, riaprono i voli diretti
Spazio, partito il nuovo equipaggio della stazione cinese
Giappone, il figlio del premier si dimette per "un comportamento inappropriato"
Corea del Sud, ospitato il primo forum dedicato agli stati insulari del Pacifico

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Le mosse di Xi sulla via della "riunificazione” di Taiwan


Le mosse di Xi sulla via della taiwan
Quali nuovi strumenti per Pechino? Dopo quasi 9 mesi di silenzio, la Procura Suprema del Popolo di Pechino ha comunicato l’incriminazione di Yang Chih-yuan. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sull’indipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito Nazionalista di Taiwan, Non ci sono solo le armi militari. Xi Jinping mira a fare passi avanti sulla ...

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Violenze dei coloni, 200 palestinesi lasciano il loro villaggio


Il trasferimento di piccoli nuclei palestinesi verso le città più grandi è visto con favore dal movimento dei coloni israeliani, poiché concentra la popolazione «araba» lasciando libero più territorio all’espansione degli insediamenti. L'articolo Violenz

di Michele Giorgio*

Pagine Esteri, 30 maggio 2023 –Ne hanno di motivi i coloni israeliani per essere soddisfatti dalla legge di bilancio preparata dal governo di estrema destra religiosa e approvata la scorsa settimana dalla Knesset. Nei prossimi due anni il governo di estrema destra religiosa guidato da Benyamin Netanyahu investirà 3,5 miliardi di shekel (circa 940 milioni di dollari) per gli insediamenti coloniali e altre infrastrutture per i trasporti dei coloni nella Cisgiordania occupata, a cominciare dalle superstrade che aggireranno i centri abitati palestinesi.

A ciò si aggiungono il probabile via libera definitivo alla ricostruzione della colonia di Homesh, nel distretto di Nablus – evacuata e demolita dall’esercito israeliano durante il “ridispiegamento” da Gaza e in Cisgiordania, ordinato nel 2005 dal governo di Ariel Sharon – dove i coloni nei giorni scorsi hanno già allestito un collegio rabbinico e le ruspe sono al lavoro per preparare i siti dove edificare nuove case, e i finanziamenti aggiuntivi per l’espansione degli insediamenti coloniali.

Eppure, ciò che con ogni probabilità soddisfa la destra e i coloni – circa 500 mila in Cisgiordania, oltre ai 250mila a Gerusalemme Est – persino più dei piani faraonici che ha in cantiere il governo Netanyahu, è una notizia in apparenza secondaria ma significativa. Gli abitanti di Ein Samiya, una comunità povera di circa 200 palestinesi, molti dei quali vivono in tende, ad una ventina di chilometri da Gerico, sul versante orientale della Cisgiordania, hanno deciso di lasciare le case in cui vivono dagli anni ’80 perché, spiegano, sono stanchi di dover affrontare le intimidazioni e talvolta violenze vere e proprie da parte di giovani dell’avamposto coloniale di Habladim, nei pressi dell’insediamento di Kochav Hashahar. La ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ha documentato diversi attacchi di coloni e soldati. «I residenti della comunità di Ein Samiya – denuncia – hanno subito anni di violenze da parte delle forze israeliane…l’espulsione è un crimine di guerra».

Il trasferimento di piccoli nuclei palestinesi verso le città più grandi è visto con favore dal movimento dei coloni, poiché concentra la popolazione «araba» lasciando libero più territorio all’espansione degli insediamenti. Un esempio noto è quello della comunità beduina di Khan el Ahmar – alle porte di Gerusalemme Est, in cui si trova la Scuola di gomme costruita dalla ong Vento di Terra – di cui sono soprattutto i coloni che vivono in quella zona a chiedere lo sgombero (congelato dal governo, per il momento, a causa di pressioni internazionali).

Due abitanti di Ein Samiya, parlando al quotidiano Haaretz, hanno raccontato che i problemi, iniziati circa cinque anni fa, sono peggiorati nell’ultimo anno. «Abbiamo deciso di andarcene per paura, per il bene dei miei figli. Uno di loro mi ha detto ‘Non voglio vivere qui, i coloni vengono e lanciano pietre’», ha spiegato Khader, padre di nove figli. L’uomo ha riferito che giorni fa, i coloni sono venuti di notte al villaggio e hanno lanciato pietre contro tende e case, alcune delle quali abitate da famiglie con bambini. Mustafa ha detto che alcuni anni fa è arrivato a Ein Samiya un colono che si è definito «il loro manager». «Gli ho detto, diventiamo amici qui: io ti aiuterò e tu mi aiuterai. Lui ha risposto: che tu viva qui non mi va bene. Vai da un’altra parte». La notizia della partenza dei 200 palestinesi è stata salutata con entusiasmo sul gruppo Whatsapp dei «Giovani delle colline» composto da coloni estremisti. «Buone notizie! Due accampamenti beduini che avevano preso il controllo della terra vicino a Kochav Hashahar stanno lasciando il posto», si legge in un messaggio.

Per gli abitanti di Ein Samiya, originari di Bir Saba (oggi Beersheva), non è il primo trasferimento. Prima vivevano sulle terre dove poi è stato costruito Kochav Hashahar. L’esercito israeliano li obbligò ad andarsene perché, spiegò, proprio lì era prevista la costruzione di una sua base. Invece fu edificato l’insediamento coloniale. Pagine Esteri

*Questo servizio è un aggiornamento per Pagine Esteri dell’articolo, firmato sempre da Michele Giorgio, pubblicato il 26 maggio dal quotidiano Il Manifesto ilmanifesto.it/violenze-dei-co…

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Kosovo. Scontri serbi-Kfor, almeno 50 i feriti


Tra i feriti ci sarebbero 25 soldati del contingente a guida Nato, inclusi alcuni italiani. L'articolo Kosovo. Scontri serbi-Kfor, almeno 50 i feriti proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/05/29/varie/kosovo-scontri-serbi-kfor-almeno-50

della redazione

Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Sarebbero almeno 50, secondo l’emittente serba Rst, le persone rimaste ferite oggi nei violenti scontri scoppiati a Zvecan, nel nord del Kosovo, dopo che i sindaci neoeletti nei giorni scorsi avevano cercato di insediarsi pur non essendo riconosciuti dalle popolazioni locali. 25 dei feriti sono militari del Kfor, il contingente a guida Nato agli ordini del generale Angelo Michele Ristuccia. Tra i militari feriti ci sono anche degli italiani.

Il comando della Kfor sostiene di aver ordinato di disperdere gruppi di cittadini serbi che si erano radunati davanti al Comune di Zvecan. Quando ha fatto uso di lacrimogeni e granate stordenti, la folla avrebbe reagito con il lancio di bottiglie e altri oggetti. Il Kfor ha detto che le unità della missione erano state schierate nelle quattro municipalità del nord del Kosovo per contenere le proteste organizzate per impedire l’ingresso nei loro uffici ai sindaci neoeletti nella parte settentrionale di quella che Belgrado considera sempre una sua provincia, non riconoscendone l’indipendenza decretata nel 2008 dopo l’intervento militare della Nato nel 1999.

Da parte serba invece si sostiene che le truppe del Kfor avrebbero fatto uso della forza senza giustificazione. Secondo Rts, inoltre, non ci sarebbero state tensioni a Leposavic e Zubin Potok, dove i cittadini si sono dispersi e hanno annunciato un nuovo raduno per domani. L’ambasciatore Usa a Pristina, Jeffrey Hovenier, dopo l’incontro degli ambasciatori dei Paesi del Quintetto (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) con il primo ministro Albin Kurti, ha invitato i sindaci eletti del nord a non recarsi negli uffici comunali per non alimentare la tensione.

Per il presidente serbo Aleksandar Vucic ad innescare la tensione sarebbe proprio Albin Kurti. Vuole “portare a spargimenti di sangue nell’intera regione, pochi vogliono sentire la verità e capire il contesto di ciò che sta accadendo”, ha detto Vucic. Il leader serbo ha accusato il primo ministro kosovaro di voler provocare “un grande conflitto tra i serbi e la Nato”, ed “è l’unico da incolpare per tutto ciò che sta accadendo”.

Più di 50.000 serbi che vivono in quattro comuni del nord del Kosovo, tra cui Zvecan, hanno disertato le urne il 23 aprile scorso per protestare contro il fatto che le loro richieste di maggiore autonomia non erano state soddisfatte.

Nei quattro comuni a maggioranza serba l’affluenza elettorale è stata soltanto del 3,47% e la popolazione ha affermato che non collaborerà con i nuovi sindaci – tutti di partiti di etnia albanese – perché non li rappresentano. Se gli albanesi costituiscono quasi il 90% della popolazione totale del Kosovo, i serbi rappresentano di gran lunga la maggioranza nella regione settentrionale. Pagine Esteri

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Erdogan rieletto già agita il pugno contro l’opposizione


Ha accusato Kilicdaroglu di essersi schierato con i terroristi, in riferimento al sostegno elettorale offerto dai curdi al suo rivale. L'articolo Erdogan rieletto già agita il pugno contro l’opposizione proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it

della redazione

Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Il presidente turco Tayyip Erdogan ha prolungato i suoi due decenni al potere ottenendo ieri un nuovo mandato per perseguire le sue politiche autoritarie che hanno polarizzato la Turchia ma anche rafforzato la sua posizione di potenza militare regionale.

Il suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, l’ha definita “l’elezione più ingiusta degli ultimi anni” ma ha riconosciuto il risultato. Kilicdaroglu ha ottenuto il 47,9% dei voti contro il 52,1% di Erdogan, risultati che mostrano una nazione profondamente divisa.

L’elezione è stata tra le più importanti per la Turchia contemporanea, con l’opposizione che credeva fino a qualche settimana fa di avere un’ottima possibilità di spodestare Erdogan, in crisi di popolarità per la crisi economica, e di bloccare le sue politiche. Invece, la vittoria ha rafforzato l’immagine di Erdogan che nei suoi lunghi anni al potere ha ridisegnato la politica interna, economica, di sicurezza ed estera della Turchia, paese con 85 milioni di abitanti e membro della Nato

Nel discorso di vittoria pronunciato ad Ankara, Erdogan si è impegnato a lasciarsi alle spalle tutte le controversie e ha invitato il paese ad unirsi dietro i valori e i sogni nazionali. In precedenza, rivolgendosi ai sostenitori esultanti dall’alto di un autobus a Istanbul, aveva detto che “l’unico vincitore oggi è la Turchia”. “Ringrazio ognuno degli elettori che ci ha dato la responsabilità di governare il Paese per altri cinque anni”, ha detto.

Allo stesso tempo Erdogan si è scagliato contro l’opposizione, accusando Kilicdaroglu di essersi schierato con i terroristi, in riferimento al sostegno elettorale offerto dai curdi al suo rivale. E ha detto che il rilascio dell’ex leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtas, che ha etichettato come “terrorista”, non avverrà sotto il suo governo.

Secondo Erdogan l’inflazione è il problema più urgente della Turchia.

La sconfitta di Kilicdaroglu con ogni probabilità è stata accolta con dispiacere dagli alleati Nato della Turchia, allarmati dai legami di Erdogan con il presidente russo Vladimir Putin, che si è congratulato con il suo “caro amico” per la sua vittoria.

Comunque sia il presidente degli Stati uniti Joe Biden ha scritto su Twitter: “Non vedo l’ora di continuare a lavorare insieme come alleati della Nato su questioni bilaterali e sfide globali condivise”. Le relazioni degli Usa con Ankara sono state segnate da ripetuti disaccordi, come l’obiezione di Erdogan all’adesione della Svezia alla Nato, ma soprattutto lo stretto rapporto del rieletto presidente turco con Mosca, oltre alle divergenze sulla Siria.

Con il rinnovo del suo mandato, Erdogan diventa il leader più longevo da quando Mustafa Kemal Ataturk ha fondato la Turchia moderna sulle rovine dell’Impero ottomano un secolo fa. Si tratta di un anniversario di eccezionale significato politico che Erdogan, indubbiamente legato al passato ottomano, celebrerà al comando del paese.

Erdogan, capo del partito AK di matrice islamista, ha fatto appello agli elettori con una retorica nazionalista e conservatrice durante una campagna controversa che ha distolto l’attenzione dai profondi problemi economici.

Kilicdaroglu, che aveva promesso di portare il Paese su un percorso più democratico e di rispettare i diritti umani, ha detto che il voto ha mostrato la volontà della gente di cambiare un governo autoritario. “Tutti i mezzi dello stato sono stati posti ai piedi di un uomo”, ha detto.

I sostenitori di Erdogan, che si sono riuniti fuori dalla sua residenza di Istanbul, hanno cantato Allahu Akbar, o Dio è il più grande. E un po’ tutti si sono detti convinti che con lui in carica la Turchia diventerà più forte per altri cinque anni.

Ma la Turchia è divisa a metà e chi ha votato per Kilicdaroglu pensa che la speranza di un cambiamento non sia svanita ieri e che esistano ancora le possibilità di rimuovere dal potere Erdogan. La performance del presidente rieletto però ha spiazzato gli oppositori convinti che gli elettori lo avrebbero punito per la crisi economica, la risposta inizialmente lenta dello Stato ai devastanti terremoti di febbraio, in cui sono morte più di 50.000 persone. Non solo, al primo turno di votazioni del 14 maggio, che includeva le elezioni parlamentari, il partito AK del presidente a sorpresa è emerso al vertice in 10 delle 11 province colpite dai terremoti e potrà continuare a governare assieme agli alleati.

Il presidente francese Emmanuel Macron, che spesso ha avuto contrasti con Erdogan si è congratulato, affermando che Francia e Turchia hanno “enormi sfide da affrontare insieme”. I presidenti di Iran, Israele e il re saudita Salman sono stati tra i primi leader a congratularsi con Erdogan per anni in disaccordo con numerosi governi della regione ma che negli ultimi anni ha assunto una posizione più conciliante. Pagine Esteri

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L’insano aumento dei magistrati a presidio del Ministero della Giustizia


La riforma dell’ordinamento giudiziario firmata dal precedente ministro, Marta Cartabia, non ha rappresentato certo una rivoluzione. “Timidi passi nella giusta direzione, ovvero a garanzia dei principi cardine dello Stato di diritto”: è così che il mondo

La riforma dell’ordinamento giudiziario firmata dal precedente ministro, Marta Cartabia, non ha rappresentato certo una rivoluzione. “Timidi passi nella giusta direzione, ovvero a garanzia dei principi cardine dello Stato di diritto”: è così che il mondo forense l’ha grossomodo valutata. Tuttavia l’Associazione nazionale magistrati ne ha paventato effetti dirompenti e ha fatto fuoco e fiamme per impedirne l’approvazione.

La riforma Cartabia è stata approvata sul finire della scorsa legislatura, ma gli addetti ai lavori danno per scontato che non vedrà mai la luce. Il motivo è semplice: i magistrati fuori ruolo che occupano le funzioni apicali del ministero della Giustizia lo impediranno. La tesi non è peregrina. Lo conferma il fatto che lo scorso ottobre la Cartabia non è entrata in vigore a causa, ma guarda un po’, della mancanza dei relativi decreti attuativi che avrebbero dovuto essere licenziati dal Ministero. Non era mai successo prima.

Ebbene, la notizia è che lo strapotere informale della magistratura sulle scelte politiche del ministro della Giustizia di turno non è destinata ad affievolirsi, ma ad accrescersi. Nel Palazzo circola, infatti, un emendamento firmato dal governo che, col pretesto del Pnrr, fa saltare il tetto previsto dal decreto legge 143 del 2008 portando da 65 a 75 il numero massimo di magistrati che possono essere destinati a ricoprire funzioni apicali nel ministero della Giustizia. Dieci magistrati in meno ad occuparsi della giurisdizione, dieci magistrati in più ad impedire che qualsivoglia riforma prenda vita contro il parere della corporazione togata.

Un secondo emendamento governativo prevede la costituzione di una nuova Direzione generale presso il gabinetto del ministro al costo di poco meno di 300mila euro, ed è chiaro a tutti che a ricoprire quella funzione sarà un magistrato. Altri due emendamenti, questa volta di iniziativa parlamentare, firmati da senatori Lega e di FdI, aggira il divieto, previsto della legge Cartabia, di rientro in ruolo per i magistrati che hanno assunto incarichi di governo.

C’è n’è abbastanza per dichiarare ufficialmente defunto l’antico principio del primato della politica. Questione che in tempi ormai lontani il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga così riassunse: “La funzione legislativa è stata ormai usurpata manu militari dalla magistratura, che, con la complicità di politici timorosi delle conseguenze in caso di diniego, impedirà qualsivoglia riforma vagamente seria dell’ordinamento giudiziario”.

Huffington Post

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Una donna a guida delle operazioni navali Usa? Chi è Lisa Franchetti


Sarà forse una donna a guidare lo Stato maggiore della Marina statunitense? Non è ancora dato saperlo con certezza, ma si tratterebbe della prima a ricoprire tale incarico oltreoceano. A dare l’anticipazione sul nome di Lisa Franchetti è stato Breaking de

Sarà forse una donna a guidare lo Stato maggiore della Marina statunitense? Non è ancora dato saperlo con certezza, ma si tratterebbe della prima a ricoprire tale incarico oltreoceano. A dare l’anticipazione sul nome di Lisa Franchetti è stato Breaking defense, definendola “il candidato più probabile” per il ruolo di prossimo capo delle operazioni navali del Paese a stelle e strisce. Ufficiale di carriera della guerra di superficie (surface warfare), Franchetti è attualmente già vice-capo delle operazioni navali e in precedenza ha comandato la Sesta Flotta degli Stati Uniti con sede a Napoli, tra il 2018 e il 2020. È stata, inoltre, la seconda donna (dopo Michelle Howard) a essere promossa ammiraglio a quattro stelle per la Us Navy, rientrando così nell’ancora ristretto alveo delle dieci donne nella storia americana a poter vantare tale grado. Insieme a lei, sembrerebbe esserci l’ammiraglio Samuel Paparo, comandante della Flotta del Pacifico degli Stati Uniti, come altro nome più papabile per guidare le operazioni navali Usa.

In attesa della conferma

Nonostante vi sia la possibilità che le circostanze cambino ancora prima dell’ufficiale nomina di Franchetti e quindi l’annuncio ufficiale da parte della Casa Bianca, sembra essere proprio il suo il nome più papabile secondo gli osservatori e analisti americani. Succederebbe all’ammiraglio Michael Gilday, l’ex comandante della decima Flotta la cui nomina ad ammiraglio maggiore della Marina, quattro anni fa, fu inaspettata e preceduta da uno scandalo che costrinse la prima scelta della Casa Bianca a ritirarsi dal processo.

Il profilo

Nonostante le chiare origini italiane, l’ammiraglio Franchetti è nata a Rochester, nello Stato di New York. Oltre agli incarichi già citati, ha ricoperto il ruolo di direttore per la strategia, i piani e la politica dello Stato maggiore. In qualità del suo ruolo di comando è stata responsabile delle forze nel Mar Nero e zone limitrofe, in particolare in prossimità della Marina russa. Tale esperienza, acquisita operando nel Mediterraneo e vicino alla flotta di Mosca sarà più che mai rilevante, soprattutto ad oggi che perdura da oltre un anno la guerra russo-ucraina. L’ammiraglio Franchetti, tuttavia, non è famosa per stare sotto i riflettori, soprattutto in confronto a Gilday, se non durante le udienze del Congresso e in poche altre occasioni. Quali una recente intervista rilasciata alla Cbs (in compagnia di tre sue colleghe del Pentagono) e nel corso dell’esposizione annuale Sea air space. Non è quindi facile cercare di capire come potrebbe comportarsi nel nuovo ruolo di capo delle operazioni navali per gli Stati maggiori riuniti, in particolare per quanto riguarda il rapporto con il comparto industriale.

Alla guida della VI flotta statunitense

“Lavoriamo per mantenere la pace per un anno in più, un mese in più, una settimana e un giorno in più”, così nel 2018 Lisa Franchetti aveva assunto il ruolo di comandante della Sesta Flotta degli Stati Uniti, l’armata marittima di pronto intervento su tutti gli scacchieri globali, in particolare in Europa e nel Mediterraneo. Contemporaneamente, con il comando della sesta flotta, Franchetti era diventata anche vice comandante delle Forze navali americane in Europa e delle Forze navali statunitensi in Africa.

(Foto: Us Navy)


formiche.net/2023/05/lisa-fran…



Nava, Giacalone e Cangini al seminario su Einaudi e la sua idea di giornalismo – Corriere della Sera


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 di Ramon Mantovani Si sono svolte domenica 28 maggio le elezioni in tutti i municipi spagnoli e in 12 delle 17 comunità autonome. È presto per fare una


Guerra dell’acqua tra Talebani e Iran


Kabul non ha versato all'Iran la quota d'acqua del fiume Helmand stabilita da un accordo del 1973. Ma pesano anche le differenze religiose tra le due parti. L'articolo Guerra dell’acqua tra Talebani e Iran proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri

della redazione

Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – I talebani afghani minacciano di invadere l’Iran se non saranno risolte le dispute tra Kabul e Teheran sul controllo dell’acqua che hanno già fatto tre morti lungo il confine.

In un video, un alto comandante talebano ha avvertito che i talebani sono pronti a combattere la Guardia rivoluzionaria della Repubblica islamica “con più passione” di quanto abbiano combattuto le forze statunitensi in Afghanistan. Ha aggiunto che i talebani “invaderanno presto l’Iran se riceveranno il via libera dai loro comandanti”.

Un altro video dai talebani che schernisce il presidente iraniano Ebrahim Raisi è virale sui social media. In esso un talebano riempie d’acqua una tanica gialla, dicendo sarcasticamente “Signor Raisi, prendi questo barile d’acqua e non attaccare, siamo terrorizzati”.

I media iraniani hanno spiegato gli scontri con la lotta sul confine al traffico di droga generato in Afghanistan. Teheran afferma inoltre che i talebani hanno sparato per primi ai militari della Guardia Repubblicana. I talebani sostengono il contrario.

Gli scontri a fuoco in realtà sono avvenuti per una disputa sull’acqua. All’inizio di maggio, Raisi ha avvertito i talebani di non violare i diritti dell’Iran sul fiume Helmand, condiviso dai due paesi. “Avverto i governanti dell’Afghanistan di concedere immediatamente alla gente i loro diritti sull’acqua”, ha detto. “Prendete sul serio le mie parole o non lamentatevi dopo”, ha aggiunto perentorio.

Le tensioni intorno al fiume sono aumentate negli ultimi due anni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan dopo il ritiro delle forze statunitensi.

Un trattato del 1973 tra i due paesi stabilisce che l’Afghanistan deve fornire all’Iran una certa quantità di acqua dal fiume. Kabul però ha violato il trattato e l’Iran ha ricevuto solo il quattro percento dell’acqua dovuta. La mancanza d’acqua è particolarmente significativa per l’Iran che fa i conti una lunga siccità, un problema che riguarda anche l’Afghanistan.

Sullo sfondo ci sono anche le ampie differenze religiose tra le due parti. Sunniti ultraortodossi e molto rigidi, i Talebani guardano con ostilità l’Iran e gli Sciiti. Sono stati responsabili di massacri e abusi a danno della minoranza sciita Hazara in Afghanistan. Pagine Esteri

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Le due eredità di un uomo per bene


Con la partecipazione di Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora e presidente della Fondazione per la giustizia «Enzo Tortora» Modera Salvo La Rosa, Giornalista e conduttore televisivo L'articolo Le due eredità di un uomo per bene proviene da Fond

Con la partecipazione di Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora e presidente della Fondazione per la giustizia «Enzo Tortora»

Modera Salvo La Rosa, Giornalista e conduttore televisivo

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Ambidestri


Dunque la a lungo bistrattata Unione europea è una cosa buona ed è necessario averne di più, che abbia più competenze, che estenda le proprie funzioni. Mica una cosa da poco. E accipicchia se sono significative le parole del ministro della Difesa Guido Cr

Dunque la a lungo bistrattata Unione europea è una cosa buona ed è necessario averne di più, che abbia più competenze, che estenda le proprie funzioni. Mica una cosa da poco. E accipicchia se sono significative le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto, cui plaudo: «Nessun Paese europeo può difendersi da solo (…). I tempi ci stanno obbligando a mettere insieme le forze armate dei 27 Paesi dell’Unione sul modello Nato». Bravo, ma bravo anche a contestare la tesi di chi gli fa osservare che l’Italia va a rimorchio e conta poco o nulla: «Contiamo moltissimo, assolutamente». Molto bene. È il contrario di quanto gli antieuropeisti hanno salmodiato per anni, esponenti della destra ora al governo compresi; è il contrario dell’Ue in cui non si conta nulla e dalla cui moneta unica si deve uscire. Ma va benissimo così.

Nel mentre Crosetto parlava a Trento, Giorgia Meloni era in Romagna con Ursula von der Leyen, annunciando che accederemo al fondo di garanzia. Giusto. Non che sia una bella cosa, perché si tratta di fondi per far fronte alle disgrazie, ma l’Italia è quella che ha usato il fondo più di ogni altro e ora torna a farlo. L’esistenza di quel fondo è la non nuova dimostrazione della natura solidale dell’Ue. L’opposto di quel che dissero. Del resto, uno dei più grandi meriti di Meloni (e uso il suo nome, anziché quello del suo partito, perché sono sicuro che molti dei suoi – così come i suoi alleati – la pensavano diversamente) è stato quello di assicurare in campagna elettorale che non ci sarebbe stato sfondamento di bilancio, che non avremmo fatto più deficit. Nei successivi atti del governo s’è confermato il percorso di rientro dal debito, già delineato dal governo precedente. E questo è il riconoscimento della validità e utilità dei vincoli di bilancio europei, senza i quali il singolo Paese si troverebbe esposto alla speculazione e soccomberebbe. Come Crosetto ben vede sul fronte militare. Anche in questo caso è il contrario di quel che sostennero, ma va benissimo così. Lo hanno capito tutti e lo hanno capito i mercati. Difatti regna la quiete.

Anche sull’immigrazione s’è capito che non ha senso puntare sulla redistribuzione – perché non funziona e perché già è illegittimamente praticata – ma sui confini comuni, quindi su più Europa. Alla faccia dei paventati e impossibili blocchi navali. E anche qui: bene.

La destra di governo somiglia soltanto nelle pose alla destra di opposizione. Che poi lottizzino la Rai lo trovo disdicevole tanto quanto lo era quando a lottizzarla erano altri. Che il loro elenco di intellettuali di destra sia divertente quanto quello di sinistra (che un intellettuale non si fa intruppare e se si fa intruppare è un corista) era ed è scontato. Si ersero a difensori dell’italianità della mitica “compagnia di bandiera” e ora ne cedono il 90% ai tedeschi di Lufthansa. Va benissimo così. Gianni Agnelli sostenne che la sinistra fa le cose che la destra non può fare. Non che faccia cose di sinistra, ma cose ovvie che agli altri non riescono perché la sinistra s’oppone. Il giochino vale anche al contrario: la destra fa le cose che la sinistra non può fare. Si stanno impiccando alla ratifica della riforma del Mes non perché non sappiano come sciogliere il nodo, ma perché provano a usare furbescamente quel che sanno di dovere fare sommessamente. Meglio non tirare e mollare, tanto più che il cappio non è il Mes – come avventatamente dissero – ma la sceneggiata che stanno facendo.

Dove casca l’asino? In quello che la politica, di destra e di sinistra, non sa fare. La classe dirigente è da troppo tempo selezionata nell’arte parolaia, ma quell’arte serve a nulla quando si ha in mano il Pnrr. Servono competenze, che ci sono ma non fanno politica. E l’occasione è buona per rinsanguare un mondo divenuto anemico. Sperando che, nel frattempo, la sinistra non si metta a fare la destra quand’era all’opposizione, rinunciando a spingere perché i fatti seguano alle parole e sperando di rifarsi gonfiando parole senza sostanza.

La Ragione

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RiOrdino


Non è normale che quando una cosa non si può non farla in tempi ragionevoli, automaticamente si pensi a un commissario. Se poi ci si mette a cincischiare sul colore partitico del commissario stesso è segno che all’imperizia s’unisce l’incoscienza. Non son

Non è normale che quando una cosa non si può non farla in tempi ragionevoli, automaticamente si pensi a un commissario. Se poi ci si mette a cincischiare sul colore partitico del commissario stesso è segno che all’imperizia s’unisce l’incoscienza. Non sono due questioni diverse, ma due facce della medesima moneta. Cattiva.

Che un evento disgraziato, terremoto o alluvione, arrivi senza preavviso rientra nell’ordine naturale delle cose. Non sai cosa, non sai quando, ma sai che le disgrazie hanno questa caratteristica e che, pertanto, occorre prepararsi all’imprevedibile. Lo sappiamo e lo facciamo anche bene, visto che protezione civile, pompieri, esercito e forze dell’ordine hanno assicurato – ancora una volta – un soccorso efficiente e immediato. La cosa curiosa (talmente curiosa da non destare neanche curiosità) è che nessuno pensa che un commissario possa fare alcunché nella fase dell’immediata emergenza, quando le cose sono tutte anormali, ma lo si invoca per la fase successiva, quando le cose vanno tornando alla normalità.

E ci sono cose ancora più curiose, che raccontano moltissimo dell’Italia. Quel che più appassiona il legislatore è concepire un bel pensiero, mettere a fuoco una cosa giusta e quindi scriverla in una legge. Fine. Che il Parlamento abbia anche poteri e doveri di controllo ci se ne ricorda quando si tratta di fare Commissioni d’inchiesta pittoresche o eterne. Eppure il governo è un potere “esecutivo” e ci sono amministrazioni preposte alla concretizzazione di quanto legiferato, ad esempio alimentando le banche dati sulle condizioni territoriali o redigendo i piani triennali per quell’assetto. Poi si dovrebbe controllare che i dati siano gestiti correttamente e i piani realizzati. Qui manco li si è raccolti e preparati. E a farlo sarebbero dovuti essere, in diversi casi, dei commissari. Nominati perché prima non lo si faceva.

È un gravissimo errore credere che questa sia “burocrazia”: è la mascheratura dell’incapacità realizzativa e dell’incompetenza politica. Il che porta ad avere tanti soldi a disposizione e a spenderne pochi secondo quanto pianificato, poi correndo a spenderli a piffero per non perderne la disponibilità. I soldi non spesi, a loro volta, restando in cassa diventano “tesoretti”, che i governi di turno sventolano come loro miracolose scoperte, laddove sono il residuato contabile di miserabili fallimenti.

Non è normale che, passata l’emergenza, si dia per certo che la ricostruzione non si possa fare utilizzando i protagonisti istituzionali esistenti. Si dice: bisogna coordinare Comuni, Provincie, Regioni, enti territoriali e azione governativa. Giusto, e allora? In realtà si sta dicendo: tutta quella roba non funziona, quando qualche pezzo funziona sarà l’inerzia degli altri a bloccarlo; quindi, ora che c’è bisogno di fare e fare subito, saltiamoli tutti e facciamo un commissario, anzi no: facciamo un commissario che parli con tutti loro, ma poi decida. Come dire che l’intera macchina istituzionale e amministrativa è da buttare.

All’apice delle curiosità si trova la superstizione secondo cui, invece, tutto funzionerebbe se il capo dell’Italia – ovunque s’allochi (che il costituzionale e comparato non lo si maneggia con disinvoltura) – lo eleggesse trionfalmente il popolo. Ma è un’allucinazione: la legge stabilisce cosa sia l’autorità; la capacità e la serietà creano l’autorevolezza; il fallimento di autorità e autorevolezza genera autoritarismo. Non è un rimedio, è il monumento al male.

Aggiungete lo spettacolo della discussione sul colore del commissario, con il grottesco immaginarne uno “competente” contrapposto a uno “democratico” e avrete la spiegazione del perché la politica appassiona i fanatici delle tifoserie ma disaffeziona quanti restano convinti che un Paese che fa i nostri risultati non meriti una tale condizione, che un riordino non debba essere una rivoluzione ideologica ma una evoluzione pragmatica. E hanno ragione. Popolando il torto di non sapere come cambiare andazzo.

La Ragione

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La Biblioteca del MIM ricorda la figura di Don Lorenzo Milani, a cento anni dalla nascita (27 maggio 1923), con un’esposizione di volumi, tratti dalle collezioni ministeriali, che sarà aperta ai visitatori fino a fine mese presso la Sala dell’Emerote…


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Ucciso poliziotto Anp a Jenin. Israele ha bombardato in Siria


Ashraf Ibrahim è stato colpito da due proiettili durante un raid dell'esercito israeliano. Ieri missili israeliani su obiettivi alla periferia di Damasco L'articolo Ucciso poliziotto Anp a Jenin. Israele ha bombardato in Siria proviene da Pagine Esteri.

della redazione

Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Un ufficiale dell’intelligence dell’Autorità nazionale palestinese, Ashraf Ibrahim, 36 anni,è stato ucciso oggi da colpi dall’esercito israeliano penetrato nella notte nella città di Jenin per compiere arresti. Combattenti palestinesi hanno provato a respingere il raid. Nel successivo scontro a fuoco, Ibrahim è stato colpito da due proiettili ed è morto durante il trasporto in ospedale. Altri cinque palestinesi sono rimasti leggermente feriti

A Jenin è stato annunciato uno sciopero generale in seguito all’incidente.

L’ucciso era un militante del partito Fatah e aveva trascorso 11 anni nelle carceri israeliane prima di essere rilasciato nel 2019. Come molti altri ex prigionieri politici di Fatah, si era unito poi unità alle forze di sicurezza palestinesi.

Ieri la Siria ha denunciato un attacco israeliano con missili partiti dalle Alture del Golan, un’area parte del territorio siriano che Israele occupa dal 1967. I missili, in parte abbattuti dalle difese antiaeree siriane, hanno colpito nei pressi di Damasco. Non si ha notizie di vittime. Israele ha condotto negli ultimi anni centinaia di raid aerei in Siria contro quelli che descrive postazioni militari dell’Iran, alleato di Damasco. Pagine Esteri

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LiberaLibri 2023 – “Jane Eyre” di Charlotte Brontë


Nell’ambito del Maggio dei Libri, Giulia Savarese legge un estratto di “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, pubblicato nel 1847. La lettura è tratta dal capitolo 23. Progetto LiberaLibri 2023 L'articolo LiberaLibri 2023 – “Jane Eyre” di Charlotte Brontë pr

Nell’ambito del Maggio dei Libri, Giulia Savarese legge un estratto di “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, pubblicato nel 1847.

La lettura è tratta dal capitolo 23.

Progetto LiberaLibri 2023

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Disponibile la nuova puntata del format “Il #MinistroRisponde” 📲

In questo sesto...

Disponibile la nuova puntata del format “Il #MinistroRisponde” 📲

In questo sesto appuntamento si parla degli interventi del Ministero a sostegno delle scuole colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna, delle attività a supporto degli studenti in mater…



Venti di guerra nel Pacifico? Intervista all’ammiraglio Sandalli


Venti di guerra nel Pacifico? Intervista all’ammiraglio Sandalli guerra
Dunque si preparano davvero scenari di guerra nel Mar cinese Orientale e Meridionale? E in che tempi? Qual è la situazione soprattutto da un punto di vista militare nelle acque dove sorge Taiwan, l’isola che la Cina considera una provincia ribelle? La Repubblica Popolare Cinese dispone di una flotta da guerra in grado di competere con quella USA? Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Paolo Sandalli della Marina Militare Italiana, ora in congedo ma a lungo operativo nel Sud est asiatico e dunque attivo per la nostra Marina in quel teatro Estremo Orientale

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In Cina e Asia – Il nuovo ambasciatore cinese fa visita a Kissinger


In Cina e Asia – Il nuovo ambasciatore cinese fa visita a Kissinger kissinger
I titoli di oggi:

Xie Feng fa visita a Henry Kissinger
Gli Usa rafforzano le catene di approvvigionamento dei settori critici
Bill Gates: la Cina può dare un contributo unico alle sfide globali
Il primo aereo a fusoliera stretta realizzato in Cina fa il suo esordio nella tratta Shanghai-Pechino
La Corea del Nord fortifica i suoi confini con Cina e Russia

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Erdogan rieletto già agita il pugno contro l’opposizione


Ha accusato Kilicdaroglu di essersi schierato con i terroristi, in riferimento al sostegno elettorale offerto dai curdi al suo rivale. L'articolo Erdogan rieletto già agita il pugno contro l’opposizione proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it

della redazione

Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Il presidente turco Tayyip Erdogan ha prolungato i suoi due decenni al potere ottenendo ieri un nuovo mandato per perseguire le sue politiche autoritarie che hanno polarizzato la Turchia ma anche rafforzato la sua posizione di potenza militare regionale.

Il suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, l’ha definita “l’elezione più ingiusta degli ultimi anni” ma ha riconosciuto il risultato. Kilicdaroglu ha ottenuto il 47,9% dei voti contro il 52,1% di Erdogan, risultati che mostrano una nazione profondamente divisa.

L’elezione è stata tra le più importanti per la Turchia contemporanea, con l’opposizione che credeva fino a qualche settimana fa di avere un’ottima possibilità di spodestare Erdogan, in crisi di popolarità per la crisi economica, e di bloccare le sue politiche. Invece, la vittoria ha rafforzato l’immagine di Erdogan che nei suoi lunghi anni al potere ha ridisegnato la politica interna, economica, di sicurezza ed estera della Turchia, paese con 85 milioni di abitanti e membro della Nato

Nel discorso di vittoria pronunciato ad Ankara, Erdogan si è impegnato a lasciarsi alle spalle tutte le controversie e ha invitato il paese ad unirsi dietro i valori e i sogni nazionali. In precedenza, rivolgendosi ai sostenitori esultanti dall’alto di un autobus a Istanbul, aveva detto che “l’unico vincitore oggi è la Turchia”. “Ringrazio ognuno degli elettori che ci ha dato la responsabilità di governare il Paese per altri cinque anni”, ha detto.

Allo stesso tempo Erdogan si è scagliato contro l’opposizione, accusando Kilicdaroglu di essersi schierato con i terroristi, in riferimento al sostegno elettorale offerto dai curdi al suo rivale. E ha detto che il rilascio dell’ex leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtas, che ha etichettato come “terrorista”, non avverrà sotto il suo governo.

Secondo Erdogan l’inflazione è il problema più urgente della Turchia.

La sconfitta di Kilicdaroglu con ogni probabilità è stata accolta con dispiacere dagli alleati Nato della Turchia, allarmati dai legami di Erdogan con il presidente russo Vladimir Putin, che si è congratulato con il suo “caro amico” per la sua vittoria.

Comunque sia il presidente degli Stati uniti Joe Biden ha scritto su Twitter: “Non vedo l’ora di continuare a lavorare insieme come alleati della Nato su questioni bilaterali e sfide globali condivise”. Le relazioni degli Usa con Ankara sono state segnate da ripetuti disaccordi, come l’obiezione di Erdogan all’adesione della Svezia alla Nato, ma soprattutto lo stretto rapporto del rieletto presidente turco con Mosca, oltre alle divergenze sulla Siria.

Con il rinnovo del suo mandato, Erdogan diventa il leader più longevo da quando Mustafa Kemal Ataturk ha fondato la Turchia moderna sulle rovine dell’Impero ottomano un secolo fa. Si tratta di un anniversario di eccezionale significato politico che Erdogan, indubbiamente legato al passato ottomano, celebrerà al comando del paese.

Erdogan, capo del partito AK di matrice islamista, ha fatto appello agli elettori con una retorica nazionalista e conservatrice durante una campagna controversa che ha distolto l’attenzione dai profondi problemi economici.

Kilicdaroglu, che aveva promesso di portare il Paese su un percorso più democratico e di rispettare i diritti umani, ha detto che il voto ha mostrato la volontà della gente di cambiare un governo autoritario. “Tutti i mezzi dello stato sono stati posti ai piedi di un uomo”, ha detto.

I sostenitori di Erdogan, che si sono riuniti fuori dalla sua residenza di Istanbul, hanno cantato Allahu Akbar, o Dio è il più grande. E un po’ tutti si sono detti convinti che con lui in carica la Turchia diventerà più forte per altri cinque anni.

Ma la Turchia è divisa a metà e chi ha votato per Kilicdaroglu pensa che la speranza di un cambiamento non sia svanita ieri e che esistano ancora le possibilità di rimuovere dal potere Erdogan. La performance del presidente rieletto però ha spiazzato gli oppositori convinti che gli elettori lo avrebbero punito per la crisi economica, la risposta inizialmente lenta dello Stato ai devastanti terremoti di febbraio, in cui sono morte più di 50.000 persone. Non solo, al primo turno di votazioni del 14 maggio, che includeva le elezioni parlamentari, il partito AK del presidente a sorpresa è emerso al vertice in 10 delle 11 province colpite dai terremoti e potrà continuare a governare assieme agli alleati.

Il presidente francese Emmanuel Macron, che spesso ha avuto contrasti con Erdogan si è congratulato, affermando che Francia e Turchia hanno “enormi sfide da affrontare insieme”. I presidenti di Iran, Israele e il re saudita Salman sono stati tra i primi leader a congratularsi con Erdogan per anni in disaccordo con numerosi governi della regione ma che negli ultimi anni ha assunto una posizione più conciliante. Pagine Esteri

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