Presentazione del libro “Colpevoli e Vincenti” di Davide Giacalone
Introduzione
Giuseppe Benedetto
Interverranno
Davide Giacalone
Mariastella Gelmini
Raffaella Paita
Modera
Andrea Pancani
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Così l’Aeronautica e Leonardo addestrano i piloti svedesi
Un ulteriore significativo passo per la sicurezza dei cieli europei. Così il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, generale Luca Goretti, ha definito l’adesione della Svezia al programma che vedrà i piloti del Paese scandinavo addestrarsi in Italia. La firma dell’accordo, avvenuta in modalità “a distanza”, ha visto oltre al generale italiano, anche la sigla del capo di Stato maggiore dell’aviazione svedese, il generale Jonas Wikman. Come sottolineato ancora da Goretti: “Trovare intese e sinergie tra Paesi che condividono spazi e orientamenti è sempre produttivo. Lavorare con i colleghi svedesi rappresenterà un’occasione di crescita per entrambi i Paesi”. La Svezia, infatti, è solo l’ultimo dei Paesi che hanno richiesto di formare i propri piloti alla International flight training school (Ifts) di Decimomannu, la scuola di volo avanzato gestita insieme da Leonardo e dall’Aeronautica militare per la formazione dei piloti militari italiani e stranierei, dopo Austria, Canada, Germania, Giappone, Qatar, Singapore, Regno Unito, Arabia Saudita, Svezia e Kuwait.
L’accordo
L’accordo tra i due Paesi, infatti, vedrà l’invio di piloti militari svedesi ai corsi di addestramento al volo in Italia. L’intesa prevede un inserimento costante negli anni di allievi piloti e istruttori di volo dell’Aeronautica svedese, distribuiti nell’arco di un decennio, per un totale di oltre cento allievi e una decina di piloti istruttori. Il percorso formativo di questi aviatori si svolgerà presso il 61° Stormo, sia di livello basico (le Fasi 2 e 3 dell’iter addestrativo), presso la base di Galatina, sia di livello avanzato (Fase 4) presso il 212° Gruppo, quest’ultimo basato sulla International flight training school (Ifts) di Decimomannu.
L’International flight training school
La struttura sarda è una vera e propria accademia del volo in grado di ospitare allievi, personale tecnico e le infrastrutture logistiche con una flotta di 22 velivoli T-346A, piattaforme considerate particolarmente efficaci per la formazione di piloti destinati ad un’ampia gamma di caccia delle ultime generazioni, tra cui gli F-35, gli Eurofighter e i Gripen. Come sottolineato da Goretti, l’accordo ““rappresenta inoltre un altro fondamentale tassello per il progetto Ifts, sul quale il Sistema Paese sta investendo con fiducia, convinzione e, soprattutto, risultati”, un progetto “nato grazie al pieno e convinto supporto del Ministero della Difesa e che si regge anche sulla proficua e collaudata sinergia con Leonardo”.
Un’avanguardia globale
Un intero edificio della Ifts è dedicato al Ground based training system (Gbts) il moderno sistema di addestramento basato su sistemi di simulazione di ultima generazione basati sui sistemi sviluppati da Leonardo dotati di un avanzato software che permette agli allievi al simulatore di “volare” in coppia con un pilota effettivamente in volo in quel momento, condividendo le stesse sensazioni e gli stessi dati tramite il data link, riducendo così i tempi per diventare operativi. Una tecnologia all’avanguardia che ha trasformato la International flight training school in un punto di riferimento mondiale per l’addestramento dei piloti militari.
Se demilitarizzare il pianeta è anche una battaglia ecologica
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 8 dicembre 2023 – Può sembrare ridondante la ricerca di nuovi argomenti che dimostrino la nefandezza della guerra. Lapalissiana, addirittura, soprattutto nel mondo occidentale e democratico, in cui i diritti civili e sociali di ogni essere umano sono considerati un bene inderogabile e il ripudio della guerra è spesso scolpito nelle carte costituzionali. Mentre a Gaza continuano i bombardamenti, però, e oltre 17.000 persone sono state trucidate in un solo mese e 1 milione e mezzo di abitanti sono diventati profughi nel loro Paese, e dopo quasi due anni di polarizzazione e militarizzazione planetaria nell’impegno nel conflitto russo-ucraino, ciò che appare chiaro e scontato è esattamente l’opposto: il mondo è pronto a rinunciare a tutto, fuorché alla guerra.
A Dubai, i Paesi riuniti per la Cop28, la conferenza per il Clima delle Nazioni Unite, hanno discusso in questi giorni sul phase out, ovvero sull’eliminazione delle fonti fossili, e si stanno confrontando sui fondi da stanziare per il loss and damage, cioè sul piano di rimborso per i Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Nessuna menzione è stata fatta, per il momento, sulla catastrofe in cui la guerra continua a trascinare il pianeta, che non è solo umanitaria, ma anche ambientale.
Nel 2021, il Consiglio Militare Internazionale sul Clima e la Sicurezza ha riconosciuto che il settore della difesa è il consumatore istituzionale più significativo di idrocarburi. Una ricerca dell’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente e degli Scienziati per la Responsabilità Globale, inoltre, ha rivelato come nel 2022 il 5.5% delle emissioni globali di carbonio siano state generate dalla macchina bellica. Si parla di oltre 2,750 milioni di tonnellate di anidride carbonica, emesse per le operazioni militari, per mantenere le proprie basi all’estero e per gli spostamenti del personale impiegato negli eserciti.
Al primo posto tra i Paesi che inquinano a causa del loro impegno bellico nel mondo ci sono gli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito. L’impronta ambientale delle loro operazioni militari supererebbe, secondo l’inchiesta, quella di intere Nazioni. Il Pentagono, ad esempio, produce più gas inquinanti con le proprie decisioni militari di tutto il Perù o la Svizzera, per mantenere le sue oltre 750 basi militari in 80 Paesi.
Nonostante l’impatto gravissimo che le operazioni di guerra determinano sull’ambiente sia ufficialmente noto e riconosciuto, nell’agenda delle conferenze per il Clima il dibattito sugli effetti della militarizzazione globale sull’inquinamento atmosferico non è mai stato incluso. Né nella valutazione delle emissioni di carbonio dei singoli stati sono mai state conteggiate le tonnellate prodotte dai Paesi in guerra. Una dimostrazione di due evidenze: da una parte, di quanto i calendari delle conferenze climatiche rappresentino in buona parte per gli Stati riuniti soltanto un’occasione di greenwashing dei loro peccati; dall’altro, di come la necessità della guerra non possa essere messa in discussione, neppure con argomenti e dati scientifici.
Basterebbe, tra l’altro, lungi dal tentare di cancellare la guerra dagli impegni dei Paesi sviluppati, quantomeno introdurre nella gestione delle risorse militari e degli eserciti strategie ecologiche basate sul risparmio delle emissioni, sulla riduzione del numero di trasporti e sull’ottimizzazione delle fonti energetiche.
La Cop28 potrebbe offrire effettivamente l’occasione per introdurre una riflessione sui costi ambientali della guerra, ora più che mai, che quotidianamente l’opinione pubblica internazionale assiste all’ecatombe che in Medio Oriente la follia bellica sta producendo. A maggior ragione perché, se i Paesi riuniti nella conferenza per il clima volessero aiutarsi reciprocamente nel risolvere la propria miopia, potrebbero realizzare quanto i danni militari sull’ambiente determinino circoli viziosi, o meglio cortocircuiti, destinati a generare nuovi conflitti e ulteriori disastri umanitari. Nei prossimi decenni più che in passato, i conflitti saranno guerre ecologiche e si svilupperanno intorno al controllo dei corsi d’acqua e delle aree fertili a causa della desertificazione, mentre i migranti ambientali si moltiplicheranno. Secondo il Centro Globale per la Mobilità climatica, fino al 10% della popolazione del Corno d’Africa nei prossimi anni sarà costretta a emigrare a causa della crisi climatica. Se l’orrore umano di massacri e interi genocidi non riesce a fermare i miliardi di dollari che continuano a essere investiti nella macchina bellica, però, è difficile immaginare che possano farlo le tonnellate di anidride carbonica emesse nell’atmosfera.
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Stop ai V-22 Osprey. La Difesa Usa mette a terra i suoi convertiplani
L’intero servizio navale e l’aeronautica militare Usa hanno messo a terra i propri convertiplani Osprey V-22 (mezzi in grado di decollare e atterrare verticalmente come un elicottero, ma di ruotare le eliche anteriori per poter volare alla velocità che si avvicina ad aerei ad ala fissa), dopo l’incidente che il 29 novembre è costato la vita a otto militari Usa. Una decisione senza precedenti, che coinvolge l’intera flotta di V-22 dell’Air force, della Marina e del corpo dei Marines. Centinaia di velivoli sono ora tenuti a terra in attesa che le indagini sull’incidente chiariscano se a causare la caduta dell’Osprey sia stato un errore umano o un malfunzionamento dell’apparecchio, e in quest’ultimo caso, se il guasto riguardava quella singola macchina o potrebbe coinvolgere l’intera linea di V-22. Il motivo delle preoccupazioni che hanno spinto le Forze armate a stelle e strisce a bloccare i voli di tutta la flotta è nei dubbi crescenti circa la sicurezza dell’Osprey, macchina che ha accumulato diversi incidenti nel corso della sua relativamente breve vita di servizio. I primi rumours che stanno girando ma da verificare puntano il dito su “problemi strutturali del velivolo”, se così fosse sarebbe davvero un problema di dimensioni enormi.
Il “fabbrica-vedove”
Il V-22 Osprey, sviluppato da un’alleanza strategica fra Bell Helicopter (del gruppo Textron) e Boeing, è un aereo multiruolo da combattimento che utilizza tecnologie convertiplano per unire la capacità di volo verticale dell’elicottero con la velocità e autonomia dell’aereo ad ala fissa. Tuttavia, nel corso del tempo, queste macchine si sono guadagnate il nome di “fabbrica vedove” (Widowmaker), degli incidenti che si sono verificati fin dalle fasi iniziali di sviluppo e test. Tra il 1991 e il 2000, quattro incidenti con trenta vittime spinsero i Marines a lasciare a terra i propri Ospray, parte di un’unità sperimentale. Dall’entrata in servizio nel 2005, e l’inizio delle attività operative nel 2007, il mezzo ha subito tredici incidenti, di cui quattro negli ultimi due anni, portando a un totale di 53 vittime. L’ultimo incidente ha rinnovato l’attenzione sulla sicurezza del velivolo, in particolare su un problema meccanico alla frizione, e sui dubbi riguardo al fatto che tutte le parti dell’Osprey siano state prodotte secondo le specifiche di sicurezza.
Tokyo blocca i voli
Anche il Giappone, l’unica altra nazione ad utilizzare gli Osprey, ha sospeso tutti i voli della propria flotta di 14 veicoli. A Tokyo, il segretario stampa del ministero della Difesa, Akira Mogi, ha dichiarato martedì che il dispiegamento degli Osprey è molto importante per la difesa del Giappone sud-occidentale, a maggior ragione a causa delle attuali preoccupazioni per la sicurezza regionale. Mogi ha detto che i funzionari della difesa giapponese stanno esaminando le informazioni condivise dagli Stati Uniti per determinare se le risposte militari statunitensi sono adeguate, ma ha aggiunto che le informazioni condivise finora sono insufficienti.
Quale futuro per i convertiplani?
I problemi legati al V-22 Osprey potrebbero gettare qualche ombra anche su un altro progetto per un convertiplano trirotore della Bell, il V-280, il mezzo scelto dall’Esercito degli Stati Uniti per sostituire i propri elicotteri UH-60 Black Hawk, in servizio dagli anni Settanta, nel contesto della gara denominata Future Long-Range Assault Aicraft (FLRAA). La Bell ha ricevuto un contratto da 232 milioni di dollari, la prima tranche di quello che potrebbe essere un accordo da 7,1 miliardi di dollari per lo sviluppo del progetto e un primo lotto di velivoli. Un primo prototipo potrebbe arrivare nel 2025, ma lo US Army dovrà assegnare altri contratti prima che ciò avvenga. Anche in questo caso girano molti rumours sui ritardi già accumulati dal programma.
Lo scenario indo-pacifico
Il tema è di portata strategica non solo per quanto riguarda il futuro del mezzo. Non è un caso che numerosi di questi incidenti siano avvenuti nella regione dell’Indo-Pacifico, l’ultimo dei quali appunto nelle acque antistanti il Giappone. Le dimensioni del teatro, la distanza tra isole, e la necessità in caso di conflitto di muovere rapidamente e a grandi distanze militari, mezzi ed equipaggiamento, richiedono alle Forze armate responsabili della difesa del quadrante (Stati Uniti in primis, insieme al Giappone e agli altri Paesi alleati come l’Australia), mezzi in grado di garantire la necessaria mobilità strategica. Di fronte alla minaccia rappresentata dalla Cina, per gli Usa è indispensabile avere a disposizione mezzi veloci come un aereo, ma in grado allo stesso tempo di atterrare anche in spazi ridotti (come le isole dell’Indo-Pacifico, appunto).
GAZA. Armi dagli Stati uniti per l’attacco più violento
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 8 dicembre 2023 – Benyamin Netanyahu non ha dubbi su cosa chiedere agli alleati americani. «Abbiamo bisogno di tre cose dagli Stati uniti: munizioni, munizioni e munizioni», avrebbe detto il primo ministro israeliano durante un incontro, secondo una registrazione ottenuta dal quotidiano Israel Hayom. Non ha motivo di preoccuparsi. Nel pieno dell’offensiva di terra a Khan Yunis e nel sud di Gaza che sta aggravando la situazione di milioni di civili palestinesi che il capo dei diritti umani dell’Onu, Volker Turk, ha definito «Apocalittica», Washington fa la sua parte nella guerra garantendo a Israele le bombe che vengono sganciate sulla Striscia. La distruzione del nord di Gaza, dicono gli analisti militari, si avvicina a quella causata dai bombardamenti a tappeto sulle città tedesche durante la Seconda guerra mondiale. L’analisi satellitare dei ricercatori del Cuny Graduate Center e dell’Oregon State University aggiornata al 4 dicembre, dice che alcune aree abitate sono state ridotte in macerie al 60% al 70%. Washington ora chiede attacchi «chirurgici» su Gaza e le Forze armate israeliane lanciano qualche volantino per spingere i civili palestinesi a raggiungere «aree sicure» che non sono affatto «sicure». «Ho la sensazione che il primo ministro (Netanyahu) non senta alcuna pressione e che faremo tutto il necessario per raggiungere i nostri obiettivi militari», ha detto alla Reuters Ophir Falk, consigliere per la politica estera di Netanyahu quando gli è stato chiesto della pressione internazionale su Israele. La Casa Bianca, nel frattempo, chiede al Congresso di approvare senza esitazioni il «pacchetto di aiuti» da 106 miliardi di dollari di cui 14 destinati all’assistenza militare a Israele.
Durerà ancora settimane l’offensiva nel sud di Gaza prevedono funzionari dell’Amministrazione Biden. Poi sarà più localizzata, aggiungevano. In qualsiasi forma sarà un inferno per gli abitanti di Khan Yunis. In queste ore nella seconda città per importanza e grandezza di Gaza è in corso una delle avanzate più violente di mezzi corazzati e truppe avviate da Israele nella sua storia. Gli aerei da guerra hanno bombardato più volte Khan Yunis per coprire l’avanzata dei reparti corazzati che ora circondano la casa di Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza che si nasconderebbe in bunker sotterranei sotto la città invasa nei giorni scorsi. I combattenti del movimento islamico oppongono la resistenza armata più accanita vista in questi ultimi due mesi di guerra, in quella che è vista come la «battaglia decisiva». Utilizza ordigni esplosivi improvvisati e mine antiuomo in un cambiamento di tattica imposto dal combattimento ravvicinato. I comandi israeliani parlano di «quattro battaglioni» schierati da Hamas. Una descrizione delle forze in campo che vuole dare l’immagine di una battaglia tra due eserciti che si equivalgono. Ma non è così. Hamas è una forza guerrigliera, non può vincere contro una delle macchine belliche più potenti al mondo: non ha mezzi corazzati, aerei, armi avanzate, bombe ad alto potenziale. Ma nei combattimenti casa per casa riesce ad infliggere perdite agli avversari: ieri è stato aggiornato a quasi 90 il numero di soldati uccisi a Gaza.
Una pioggia di fuoco cade in queste ore sui civili palestinesi, di fatto in trappola. Scappano senza sapere dove andare e non sempre riescono a sfuggire alla morte. Sono stati uccisi da un bombardamento 22 parenti del giornalista di Al Jazeera Moanen Sharafi. In cerca di salvezza il producer Safwat Kahlout, la moglie e i figli sono sfollati più volte in due mesi: da Gaza city a Deir al Balah, quindi a Khan Yunis e due giorni fa a Rafah. «Delle volte sono preso dalla disperazione, non so dove portare la mia famiglia, non c’è un luogo sicuro, le bombe possono ucciderci ovunque», ci diceva ieri sera. Neanche la città di Rafah è sicura. Si attende l’avanzata delle forze israeliane sulla «Filadelfia», la strada sul confine tra Egitto e Gaza dove è situata Rafah con il suo valico. Il gabinetto di guerra guidato da Netanyahu intende costituire lì una parte della «zona cuscinetto» di cui si parla in questi giorni.
Gli ospedali del sud, gli unici ancora parzialmente operativi, si riempiono di morti e feriti, molti dei quali donne e bambini. Al Nasser di Khan Yunis, con 364 posti letto, le scorte si stanno esaurendo rapidamente. Non c’è quasi acqua potabile, non c’è elettricità. Alcune organizzazioni umanitarie hanno eretto tende per nuovi reparti improvvisati sperando di diminuire l’affollamento che causa di infezioni intestinali soprattutto nei bambini. Non va meglio all’ospedale Europeo. «Abbiamo attraversato così tante crisi ma non abbiamo mai sperimentato qualcosa di simile» ha spiegato il suo direttore, Yusef Al Qaed, in un’intervista a Radio a-Shams. «L’ospedale ha 240 posti letto per 900 pazienti. Abbiamo eretto tende per aggiungere letti e trasformato le ali di due scuole adiacenti all’ospedale in reparti di degenza. Abbiamo sistemato letti anche negli ambulatori e allestito stanze destinate alle radiografie». Al nord si aggrava la situazione dell’ospedale Kamal Adwan, isolato e pieno non solo di feriti ma anche di cadaveri da seppellire al più presto. In quella parte di Gaza occupata da settimane, carri armati, navi e aerei da guerra israeliani hanno colpito presunte postazioni di Hamas nel campo profughi di Jabaliya. Pagine Esteri
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Plutone: ecco perché è stato declassato a pianeta nano | Passione Astronomia
"Scoperto nel 1930, Plutone è stato considerato per anni il nono pianeta del sistema solare fino al 2006."
Rifondazione: sosteniamo proposta di legge per cannabis legale
Rifondazione Comunista aderisce alla campagna #iocoltivo per una legge di iniziativa popolare per la legalizzazione della coltivazione domestica della cannabisRifondazione Comunista
Armi chimiche, subacquea e… Gli emendamenti della Difesa alla Manovra
Tra gli emendamenti del governo alla Legge di Bilancio ce ne sono quattro proposti dalla Difesa. Le votazioni in commissione al Senato attese per mercoledì prossimo.
Distruzione delle armi chimiche
L’emendamento autorizza la spesa di euro 800.000, per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026, al fine di proseguire le attività di proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e loro distruzione.
Ridenominazione dei progetti navali di rilevanza strategica nazionale
L’emendamento include tra i progetti di rilevanza strategica nazionale finanziati dal fondo di cui all’articolo 1, comma 712, della legge di bilancio 2022 anche i progetti del settore subacqueo (e navale).
Rifinanziamento del Nato Innovation Fund
L’emendamento modifica l’art. 69, comma 2, portando da 1 milione a 7.726.500 euro per l’anno 2024 lo stanziamento per far fronte agli impegni derivanti dalla sottoscrizione del fondo.
Polo nazionale della subacquea
L’emendamento porta da 2 a 3 milioni di euro, a decorrere dal 2024, l’ammontare delle risorse stanziate per le attività svolte dal Polo nazionale della subacquea.
Proroga stato di emergenza crisi Ucraina
La Protezione Civile ha proposto un emendamento che prevede la proroga al 31.12.2024 lo stato di emergenza relativo all’esigenza di assicurare le misure di soccorso e assistenza in favore della popolazione ucraina.
Dindarolo
Il calendario è inesorabile e il negoziato destinato a modificare il contenuto del “Patto europeo di stabilità e crescita” entra nella sua fase finale. Un accordo è nell’interesse e nella volontà di tutti. Bisogna stare attenti a non banalizzare e non ridurre tutto a slogan, finendo con il capovolgere la realtà.
Nel programma del nostro attuale governo – come in tanti altri nel passato – c’è l’impegno a ridurre il deficit e il debito. Quindi non è una cosa marziana e che viene da fuori, ma un interesse italiano che va realizzato da dentro. La discussione si concentra su come interpretare la stabilità e promuovere la crescita. Per capirci: se affermo che tutti i debiti pubblici devono tornare entro il 60% del Prodotto interno lordo entro un paio d’anni non sto promuovendo la stabilità ma innescando il caos, perché è vero che ridurre il debito è cosa ottima, ma farlo in modo violento è dissennato; né promuovo la crescita se faccio crescere la spesa pubblica e ne dilapido la sostanza, come si è fatto con il bonus 110%. Non basta dire “rigore” per intendere “stabilità” e non basta dire “spesa” per intendere “crescita”. Su questo si discute, nell’interesse della ricchezza e del salvadanaio comune e nazionale, naturalmente tenendo presente non solo la condizione oggettiva, ma anche l’affidabilità di ciascun Paese europeo. E no, non giova all’Italia avere scelto di usare la sospensione del Patto – indotta dalla pandemia – per aprire i rubinetti dei bonus che portano male, come non giova avere esponenti del governo che rivendicano alleanze politiche ritenute impraticabili e ripugnanti da tutti gli altri (compresi i loro stessi alleati di governo). Mentre giova avere dimostrato moderazione nello scrivere la legge di bilancio, come giova l’inequivocabile posizione europeista e atlantista del governo (anche a dispetto di certe parole del passato). E qui si viene a una questione politica, non soltanto nostra.
Dice Matteo Salvini che i suoi amici europei, ovvero quelli che gli altri non vogliono neanche frequentare, propongono «un’Europa diversa da quella plasmata (male) dai socialisti». Quali socialisti? Quando? La presidenza del Parlamento europeo e della Commissione sono in capo a due esponenti del Partito popolare, la Bce è presieduta da chi stava con Sarkozy. In passato? Quelli che avviarono il processo d’integrazione erano popolari, democristiani e liberali. Non solo la storia e il presente smentiscono lo slogan salviniano, ma la sostanza lo capovolge del tutto: il socialista, se la mettiamo su questo piano, è lui.
Le politiche di rigore economico e di equilibrio di bilancio sono di destra. Non sono reazionarie (come taluni degli alleati della Lega odierna), ma sono di destra. Le politiche che puntano ad allargare la spesa pubblica e il ruolo dello Stato nel mercato sono di sinistra. Il braccino corto è di destra, la manica larga è di sinistra. E se si esce dal mondo delle tifoserie ideologiche è ragionevole che gli elettori che pensano di dovere pagare votino i primi, mentre quelli che sperano d’incassare votino i secondi. Per giunta i primi vogliono meno spesa per avere meno tasse, mentre i secondi pensano che più tasse aiutino la spesa sociale. La cosa paradossale è dirsi di destra per poi rivendicare il diritto alla politica spendarola socialisteggiante (che la sinistra ragionevole ripudia in tutta Europa). È un non senso.
Siccome conta la sostanza, il confronto sul Patto si fa sull’equilibrio fra stabilità e crescita, non su quelle menate fantasiose e inconcludenti. A tal proposito è oscuro il perché i governi, da anni, non usino l’importante patrimonio immobiliare pubblico (non sfruttato e che si deteriora) per abbattere il debito senza ricorrere a tasse. Da ultimo ne ha parlato Carlo Messina, ceo di Banca Intesa, ma è idea vecchia. E sana, che indicherebbe una volontà di non usare il dindarolo soltanto per spendere, ma anche per rimpinguarlo e non dissanguarlo con i debiti. Un’idea che rafforzerebbe la credibilità.
La Ragione
L'articolo Dindarolo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Settimana Corta e Parità di Retribuzione
Perché serve la settimana corta a parità di retribuzione: i tentativi delle grandi aziende di cambiare il mondo del lavoro
Luxottica, Lamborghini e altre grandi aziende stanno provando a cambiare il mondo del lavoro con la settimana corta a parità di retribuzione.Gianfranco Librandi (il Riformista)
L’AIE aderisce all’Osservatorio “Carta, penna e digitale” della Fondazione Einaudi
L’Associazione italiana editori (AIE) ha aderito quest’oggi all’Osservatorio “Carta, penna & digitale” della Fondazione Luigi Einaudi. Un progetto nato per promuovere, soprattutto nei giovani, l’importanza della lettura su carta e della scrittura a mano, abitudini imprescindibili per un corretto sviluppo delle attività cognitive. Significativa è, dunque, l’adesione di AIE, presieduta da Innocenzo Cipolletta: la più antica associazione di categoria italiana, da sempre attenta a questi temi. L’Osservatorio, al quale hanno già aderito i confindustriali di Federazione Carta e Grafica e Comieco, è stato presentato a novembre a Milano alla fiera BookCity e riproposto oggi a Roma in occasione della Fiera internazionale della piccola e media editoria, “Più libri più liberi”. Di fronte a una platea di studenti delle scuole secondarie.
“Luigi Einaudi riteneva che una società è sana quando ciascuna persona è messa nelle condizioni di realizzare al massimo le proprie potenzialità. Sta accadendo esattamente il contrario”, ha detto il Segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, Andrea Cangini. “Nessun pregiudizio sul digitale, che sta trasformando e migliorando le nostre vite, ma carta e penna sono letteralmente insostituibili”, sottolinea.
Lo scorso luglio, la Fondazione Luigi Einaudi ha presentato in Senato uno studio che, compendiando le principali ricerche scientifiche internazionali, ha dimostrato l’importanza della scrittura a mano e della lettura su carta, soprattutto nel mondo dell’Istruzione. Perdere queste consuetudini significherebbe compromettere il pensiero logico-lineare, impoverire il linguaggio, limitare la conoscenza, fiaccare la memoria. Un danno alla persona, un danno alla società. A conclusioni analoghe sono recentemente giunti sia il governo svedese sia l’Economist britannico.
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Giovanni Moschella sul tema “La scelta del Premier nei sistemi parlamentari”
Dodicesimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La dodicesima lezione si svolgerà giovedì 7 dicembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.
La lezione sarà tenuta dal prof. Giovanni Moschella (Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Messina), che relazionerà sull’opera “La scelta del Premier nei sistemi parlamentari” di Salvatore Bonfiglio.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao, Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Montagne a oltre 6 miliardi di chilometri dalla Terra: guarda il video di Plutone | Passione Astronomia
"La sonda New Horizons ha sorvolato Plutone nel 2015 inviandoci foto incredibili, lasciandoci un’eredità enorme! Il filmato bellissimo della montagne ghiacciate."
PODCAST GAZA: “I soldati ci hanno preso la casa, sparano sui civili. Denunciamo il mondo intero”
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Pagine Esteri, 7 dicembre 2023. “Abbiamo perso il conto dei giorni di guerra. La gente comincia a morire di fame. Ho appena perso due nipoti, uccise dai soldati che hanno sparato in una scuola dell’UNRWA. I cecchini israeliani hanno preso la mia casa, ci hanno cacciati e costretti ad andare verso Rafah, insieme ad altre migliaia di persone. Ma a Rafah non c’è più spazio. La gente ha cominciato a comprare della plastica per costruire le tende. Ma il problema più grande è l’acqua, che manca dappertutto”. La disperata testimonianza di Sabi Abu Omar, cooperante palestinese: “Denunciamo l’Italia, l’Europa, le Nazioni Unite, tutto il mondo”.
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The PrivaSeer Project in 2023: Access to 1.4 million privacy policies in one searchable body of documents
In the summer of 2021, FPF announced our participation in a collaborative project with researchers from the Pennsylvania State University and the University of Michigan to develop and build a searchable database of privacy policies and other privacy-related documents, with the support of the National Science Foundation. This project, PrivaSeer, has since become an evolving, publicly available search engine of more than 1.4 million privacy policies.
PrivaSeer is designed to make privacy policies transparent, discoverable, and searchable, for use by researchers in the privacy field as well as privacy practitioners in the marketplace. PrivaSeer supports searches of a corpus of privacy policies collected from the web at distinct points in time – currently four time stamps. Search results can be filtered by a wide variety of parameters, including the date of the crawl, the publisher’s industry, use of particular tracking technologies, inclusion of relevant regulations, assessment on Flesch-Kincaid Reading Level, and more. The high level of customizable searchability is made possible via NLP techniques designed and implemented by researchers at the Pennsylvania State University and the University of Michigan. The project will continue to add new tranches of policies to the existing corpus on a periodic basis.
Two Project-Related Publications Received “Best Student Paper” Awards This Year
In addition to building the eponymous online tool, the PrivaSeer project grant has supported the publication of a number of papers by researchers involved in the privacy field. First, an effort to systematically identify and discuss issues within the privacy research community titled “Researchers’ Experiences in Analyzing Privacy Policies: Challenges and Opportunities” was presented at the 2023 Privacy Enhancing Technologies Symposium held in Lausanne, Switzerland by lead author Abraham Mhaidli, one of PrivaSeer’s graduate researchers from the University of Michigan. The paper was selected as one of the winners of the Symposium’s Andreas Pfitzmann Best Student Paper Award.
The paper was based on semi-structured interviews conducted with 26 researchers from a variety of academic disciplines working in the privacy space, and investigated what common research practices and pitfalls might exist in the privacy research space. The co-authors identified a lack of consistent, re-usable, well-maintained tools as one of the major obstacles to ongoing privacy research, resulting in significant duplication of effort among the research community, and noted the difficulty in fostering interdisciplinary collaboration.
A second paper, “Privacy Now or Never: Large-Scale Extraction and Analysis of Dates in Privacy Policy Text,” was accepted at the 23rd Symposium on Document Engineering (DocEng), hosted in Limerick, Ireland. This paper was presented by PrivaSeer graduate researcher and lead author Mukund Srinath from the Pennsylvania State University, and investigated the degree to which online privacy disclosures comply with annual update requirements across a set of large-scale web crawls containing several million distinct policies. Using a newly developed method for extracting dates from plain-text documents, the researchers discovered that under 40% of public privacy notices contain readable dates, and further, updates correlated heavily to major changes in the data protection legal landscape, with a significant percentage likely dating to 2018 without subsequent change. The paper’s conclusions point to the significant compliance problem of ensuring that privacy notices are actually kept up-to-date, and suggest that for many data controllers this is not the case, although more recent updates were associated with URLs that saw greater amount of online traffic.
A third paper, “Privacy Lost and Found: An Investigation at Scale of Web Privacy Policy Availability,” was also accepted at DocEng, and was further selected as the winner of the Best Student Paper Award. This paper presented a large-scale investigation of the availability of privacy policies, seeking to identify and analyze potential reasons for policy unavailability such as dead links, documents with empty content, documents that consist solely of placeholder text, and documents unavailable in the specific languages offered by their respective websites. The paper was also able to offer critical analysis and conclusions regarding privacy notices generally, based on a number of statistical methodologies. Overall, the researchers found that privacy policy URLs were only available in 34% of websites examined, and were able to estimate population parameters for both the total number of English-language privacy documents on the web and for their likely distribution across different commercial sectors. The study was able to further the privacy research community’s understanding of the overall status of English-language privacy policy policies worldwide, and provide valuable information about the rate and likelihood of users encountering various difficulties in accessing them.
2023 Stakeholders Workshop Provided Valuable Input Into Refining the PrivaSeer Search Engine and Tools
In addition to the publications associated with the PrivaSeer project, on July 25, 2023, the Future of Privacy Forum hosted an interdisciplinary workshop with key stakeholders to present the project to members of the privacy research community in industry and civil society.
July’s workshop featured presentations from FPF’s Vice President for Global Privacy Dr. Gabriela Zanfir Fortuna, as well as project co-leads Dr. Shomir Wilson, Assistant Professor in the College of Information Sciences and Technology at the Pennsylvania State University and Dr. Florian Schaub, Associate Professor of Information and of Electrical Engineering and Computer Science at the University of Michigan. Dr. Zanfir-Fortuna provided a practical demonstration of the PrivaSeer tool in action, while Professors Wilson and Schaub provided an overview of PrivaSeer’s development and current functionality.
Presentations by the project’s co-leads were followed by a discussion of how the tool may be used and improved as a future resource for researchers and industry professionals with various key FPF stakeholders. Discussants raised the prospect of using PrivaSeer to research the emergence of specific terms relating to the use of AI/ML technologies in privacy notices, conduct comparative studies of privacy policies presented in multiple languages, and examine how required disclosures related to cross-border data transfers may be changing over time. Participants also discussed how the tool might be useful in assessing privacy-adjacent disclosures such as cookie notices and terms of service, and provided the research team with a wide array of useful feedback as the project progresses into its third year.
PrivaSeer is now a functional, public-facing tool available to the privacy community, both for researchers and for privacy professionals working in public or private-sector compliance. FPF will continue to support the development of new functionality in the tool, and our team looks forward to contributing however we can to the scholarship in this area.
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Sentenze di riferimento della CGUE sul "credit ranking" e sulla revisione delle DPA La CGUE ha emesso due sentenze con conseguenze di vasta portata per il settore del ranking creditizio e per il controllo giurisdizionale delle DPA
In Cina e in Asia – Navi militari cinesi attraccano alla base navale di Ream in Cambogia
I titoli di oggi: Navi militari cinesi attraccano alla base navale di Ream in Cambogia Apple vuole produrre le batterie degli iPhone in India Cina e Iran insieme per raggiungere la pace nella guerra tra Israele e Hamas Le riforme del sistema scolastico cinese hanno alimentato la disuguaglianza educativa La Cina ha attivato la prima centrale nucleare di quarta generazione ...
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GAZA. Il piano Biden per la Striscia: una Autorità «riformata» e senza Abu Mazen
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di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 7 dicembre 2023 – Da «rivitalizzata» a «riformata» passando per l’uscita di scena, si dice in primavera, di Abu Mazen, fino ad arrivare alla nomina di un «premier» ad hoc a Gaza. Forse l’ex primo ministro Salam Fayyad, gradito ad americani ed egiziani e che potrebbe essere accettato da Israele. Un ruolo, volto a rassicurare la popolazione palestinese, potrebbe averlo anche l’ex ministro degli esteri Nasser al Qudwa, perché nipote dello scomparso leader dell’Olp Yasser Arafat e vicino a Marwan Barghouti, popolare prigioniero politico. È questo lo scenario che, più di altri, si affaccia all’orizzonte quando si parla del futuro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata dagli Stati uniti, e a rimorchio dall’Europa, a guidare Gaza quando «Hamas non sarà più al potere» e si dovrà avviare la ricostruzione, se Israele lo consentirà.
«Il nome di Salam Fayyad, un indipendente con rapporti pessimi con Abu Mazen, gira da un po’, da quando (l’ex premier) ha pubblicato un articolo in cui spiega la sua visione per Gaza e la necessità di una riorganizzazione dell’Anp», dice T.A. giornalista di Ramallah ben informato sulle questioni interne palestinesi che per la delicatezza del tema ha chiesto di restare anonimo. «Fayyad piace all’Amministrazione Biden e agli egiziani» aggiunge T.A. «Ci sono due grandi incognite: la posizione di Israele e la portata delle ‘riforme’ che l’Anp dovrebbe avviare. In questo quadro l’uscita di scena del presidente Abu Mazen è un fattore centrale. Gli americani la vogliono in tempi brevi. L’ultimo incontro tra (il segretario di stato) Blinken e Abu Mazen è stato carico di tensione».
Casa Bianca e Dipartimento di stato da quando è iniziata la catastrofica offensiva israeliana a Gaza, hanno indicato nell’Anp l’entità che dovrà subentrare ad Hamas – e l’hanno ribadito ieri sera – e ribadito sostegno alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Una Anp però da «rivitalizzare», dice Washington, alla luce dello scarso consenso di cui gode tra i palestinesi. Da parte loro Abu Mazen e il suo primo ministro, Mohammed Shttayeh, hanno replicato che l’Anp a Gaza non ci tornerà «sui carri armati israeliani». Lo farà soltanto nell’ambito di una ripresa dei negoziati per la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Israele per giorni ha reagito con gelo alla proposta di Biden e Blinken. Quindi è sceso in campo Netanyahu che, con toni oltremodo decisi, ha respinto l’idea che venga coinvolta l’Anp. Ufficialmente perché «legata ai terroristi», cioè ad Hamas, affermazione sconcertante alla luce della frattura insanabile tra le due parti palestinesi e della cooperazione di sicurezza che l’Anp mantiene con Israele. In realtà Netanyahu non intende riprendere il negoziato che ha coscientemente affossato per 14 anni e ridare slancio all’idea dello Stato di Palestina «rivitalizzando» l’Anp che, con tutti i suoi gravi limiti agli occhi dei palestinesi, continua in qualche modo a rappresentare. Per Netanyahu la risposta all’attacco del 7 ottobre non deve concentrarsi solo su Hamas, deve anche affossare le aspirazioni politiche palestinesi.
Comunque sia, l’ostilità di Israele nei confronti dell’Anp ha impresso una svolta al processo di pianificazione per Gaza dell’Amministrazione Biden. A inizio settimana il coordinatore per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, parlando dell’Anp ha messo da parte il verbo «rivitalizzare» per adottare «riformare» in modo da avvicinare la posizione americana a quella israeliana. Netanyahu, dicono le indiscrezioni, avrebbe chiarito agli alleati americani che Israele pretende una Anp che combatta, armi in pugno e ogni giorno, contro Hamas e altre organizzazioni armate. Altrimenti, ha ammonito, i soldati israeliani non lasceranno mai Gaza. In sostanza l’Autorità palestinese «riformata» che ha in mente Israele si avvicina molto per ruolo e funzioni a ciò che era l’Esercito del Libano del sud, la milizia mercenaria libanese che per oltre venti anni ha sorvegliato la «Fascia di sicurezza» a ridosso del confine con lo Stato ebraico. Un progetto che si sposa con la creazione, da parte di Israele, di una «zona cuscinetto» all’interno di Gaza.
«Con ogni probabilità questa è l’idea dell’Anp ‘riformata’ che ha in mente Netanyahu» ci dice l’analista Ghassan Khatib, docente all’università di Bir Zeit, «in parte è diversa da quella degli Stati uniti che danno più rilievo alla dimensione politica. E riformare per gli americani significa cambiare i leader politici». Venti anni fa, durante la seconda Intifada, – ricorda Khatib – gli Usa allo scopo di isolare Yasser Arafat imposero la nomina di un vice ai vertici dell’Anp. In quel caso fu scelto Abu Mazen che poi nel 2005 divenne presidente». Il problema degli Usa è che ora non ci sono palestinesi pronti a svolgere il ruolo di premier o presidente fantoccio a Gaza. Neppure il reietto di Fatah, sempre molto influente, Mohammed Dahlan, originario di Khan Yunis, è tanto ingenuo da accettare una poltrona così scomoda imposta ai palestinesi dagli occupanti e da Washington. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 6 dicembre 2023 dal quotidiano Il Manifesto
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In Ucraina è l’ora delle brutte notizie
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 7 dicembre 2023 – «Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie». L’avviso è arrivato nei giorni scorsi dal segretario generale della Nato nel corso di un’intervista alla tv tedesca ARD. Jens Stoltenberg ha ribadito che «dobbiamo stare al fianco dell’Ucraina sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi» spiegando che «più sosteniamo l’Ucraina, più velocemente questa guerra finirà», ma le quotazioni di Kiev nel conflitto in corso contro la Russia stanno rapidamente crollando.
“Putin può vincere”
Solo due giorni prima, il settimanale “The Economist” scriveva che «per la prima volta da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina sembra che abbia la possibilità di vincere. Il presidente russo ha preparato il suo Paese alla guerra e rafforzato il suo potere. Si è procurato forniture militari all’estero e sta aizzando il sud del mondo contro gli Stati Uniti. Fondamentalmente, sta minando la convinzione in Occidente che l’Ucraina possa emergere dalla guerra come una fiorente democrazia europea».
Lo stesso Volodymyr Zelensky, che pure insiste sul fatto che il conflitto potrà terminare solo con la riconquista ucraina di tutti i territori sottratti dai russi, ha dovuto ammettere che la controffensiva estiva «non è riuscita a produrre i risultati desiderati a causa della persistente carenza di armi e forze di terra». Una dichiarazione che ha fatto arrabbiare il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko. In un’intervista l’ex pugile ha accusato il presidente di dare un’immagine euforica della guerra, e ha sottolineato: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati per questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati ad un conflitto (…) Troppe informazioni non corrispondevano alla realtà».
Tutti contro Zelensky
Più la situazione dal punto di vista militare si fa difficile, più a Kiev aumentano le tensioni e le divisioni all’interno dell’establishment, anche in vista di elezioni presidenziali che prima o poi Zelensky, dopo averle sospese, dovrà indire. Il moltiplicarsi delle critiche e degli attacchi espliciti nei confronti del presidente è evidente.
Le polemiche sono esplose quando l’SBU, i servizi di sicurezza di Kiev, hanno impedito al leader del partito “Solidarietà Europea” Petro Poroshenko di lasciare l’Ucraina, nonostante l’esponente politico di opposizione avesse già ottenuto tutte le autorizzazioni. Il motivo è che intendeva incontrare il premier ungherese Viktor Orban, colpevole di aver posto il veto all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e di essere troppo vicino a Mosca. L’ex presidente ucraino avrebbe dovuto partecipare anche al vertice dell’IDU – l’organizzazione che riunisce i partiti di centrodestra occidentali – ed incontrare a Washington i dirigenti repubblicani e democratici; probabilmente Zelensky ha temuto che il miliardario gli rubasse la scena ed ha deciso di bloccarlo, dando però un segnale di debolezza.
Ivanna Klympush-Tsintsadze, che è stata la vice di Petro Poroshenko, ha denunciato la «involuzione autoritaria» in atto nel paese. Klitschko afferma che «Zelensky sta pagando gli errori che ha commesso» e di temere che «ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». Al notiziario svizzero “20 minuten” il sindaco della capitale ha spiegato di sostenere il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny, da tempo in contrasto con le alte sfere del governo, perché non avrebbe paura di dire le cose come stanno rispetto all’andamento della guerra. Secondo “Ukrayinska Pravda”, l’ex attore starebbe intanto comunicando con i comandanti militari fedeli tagliando fuori Zaluzhny, nel tentativo di isolarlo.
Vitali Klitschko e Petro Poroshenko
L’Ucraina ora gioca in difesa
Dal fronte continuano ad arrivare brutte notizie per Zelensky. Le forze russe starebbero continuando ad avanzare, seppur molto lentamente, in alcuni punti del Donbass, con l’obiettivo di conquistare Avdiivka e spingersi fino a Lyman e Kupyansk, per poi occupare Sloviansk e Kramatorsk.
Mosca sta già intensificando gli attacchi contro le infrastrutture energetiche ucraine; la possibilità che milioni di persone passino un nuovo inverno al buio e al freddo, e che calino quindi ulteriormente il morale e la fiducia degli ucraini, è molto concreta e preoccupa non poco Kiev.
Intanto Putin ha ricominciato ad ammassare uomini e mezzi nelle regioni di confine ed ha firmato venerdì scorso un decreto che punta ad aumentare gli effettivi del proprio esercito, tramite arruolamenti più o meno volontari, di 170 mila unità, in maniera da avere più forze a disposizione in vista dello “scongelamento” dei combattimenti in primavera. Probabilmente Mosca non ha fatto ricorso ad un’ulteriore mobilitazione dei riservisti per non aumentare lo scontento nella società russa, dove le opinioni critiche nei confronti dell’avventura militare di Putin in Ucraina sembrano aumentare, almeno stando ad alcuni sondaggi.
Per ora la strategia di Mosca sembra essere quella di reggere un minuto più di Kiev e di non forzare quindi troppo la mano dal punto di vista militare, continuando nel frattempo a premere sull’Ucraina nell’attesa che le difficoltà crescenti spingano Zelensky – o chi lo sostituirà – a negoziare un cessate il fuoco che congelerebbe una situazione favorevole alla Federazione Russa.
Le lamentele e le proteste dei militari ucraini si fanno sempre più forti, e ora le famiglie di molti coscritti bloccati al fronte anche da 650 giorni chiedono una più ampia turnazione tra gli uomini e le donne mobilitate, l’abolizione del servizio militare a tempo indeterminato e l’abbassamento dell’età per essere richiamati.
Per evitare che le forze russe, dopo il disgelo, sfondino le linee di un esercito ucraino sempre più debilitato, Zelensky avrebbe scelto di dare la priorità al rafforzamento e alla fortificazione delle proprie posizioni, copiando di fatto la strategia utilizzata da Mosca per bloccare la controffensiva estiva di Kiev. In attesa delle decisioni dei politici dei due opposti schieramenti, quella in corso potrebbe diventare una logorante guerra di trincea.
Soldato ucraino ferito
Il sostegno USA vacilla
Altre brutte notizie stanno arrivando a Kiev dai paesi che finora l’hanno sostenuta (se non aizzata) finanziariamente e militarmente contro la Russia e che ora sembrano tirare i remi in barca, alle prese con reali problemi di budget o interessati a congelare lo scontro con Mosca.
La responsabile del bilancio della Casa Bianca, Shalanda Young, ha suonato l’allarme: i fondi stanziati dagli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina potrebbero esaurirsi nel giro di poche settimane a causa della mancata approvazione di nuovi stanziamenti da parte del Congresso americano, bloccato dai Repubblicani di Trump. Young ha rivolto un accorato appello ai congressisti affinché approvino presto un nuovo pacchetto di aiuti finanziari a Kiev, perché altrimenti «l’interruzione del flusso di armi ed equipaggiamenti statunitensi metterà in ginocchio l’Ucraina sul campo di battaglia, mettendo a rischio i successi ottenuti e aumentando la probabilità di vittorie militari russe».
L’esponente dell’amministrazione Biden ha chiarito che gli ultimi stanziamenti «in materia di sicurezza sono già diventati più ridotti e le consegne di aiuti sono diventate più limitate». In cambio dello sblocco dei 106 miliardi di dollari chiesti da Biden per Ucraina e Israele, alcuni senatori repubblicani pretendono l’approvazione di nuove restrizioni all’immigrazione e al diritto di asilo.
La situazione è così incerta che nei giorni scorsi Zelensky ha inviato a Washington il capo del suo staff, Andriy Yermak, il ministro della Difesa e il presidente del parlamento per incontrare personalmente deputati e senatori recalcitranti. L’esito negativo dei colloqui avrebbe però convinto il presidente a rinunciare al previsto video-appello ai legislatori statunitensi. La notte scorsa al Senato i repubblicani (e il democratico di sinistra Bernie Sanders) hanno bloccato l’approvazione di una legge straordinaria che avrebbe stanziato circa 111 milioni di dollari di aiuti all’Ucraina.
L’UE è divisa
Il problema è che ora anche i rubinetti europei potrebbero chiudersi o comunque farsi più avari. I forti disaccordi tra i paesi dell’Unione Europea potrebbero ritardare o bloccare del tutto il pacchetto di assistenza finanziaria da 50 miliardi promesso da Bruxelles. Nonostante l’impegno dei dirigenti comunitari, poi, la recente decisione della Corte Costituzionale tedesca di limitare l’indebitamento pubblico del paese starebbero complicando il raggiungimento di un accordo con i partner. A bloccare esplicitamente gli aiuti a Kiev c’è il premier ungherese Viktor Orbán, seguito dal nuovo primo ministro slovacco Robert Fico che ha anche sospeso le spedizioni di armi all’Ucraina. Nel frattempo il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha posto il veto alla fornitura di veicoli blindati all’Ucraina, chiedendo al parlamento di rivedere la legge di ratifica dell’accordo raggiunto con Kiev.
Questo mentre la rivista statunitense “Forbes” ammette che i carri armati “M-1 Abrams” forniti all’Ucraina da Washington non sono adeguati a operare nei terreni fangosi, che rappresentano la normalità sul fronte orientale ucraino durante i mesi invernali e primaverili, a causa dei delicati filtri che impediscono alla turbina del motore di intasarsi. Se non vengono puliti almeno ogni 12 ore, i filtri degli Abrams sono soggetti a gravi danni che possono essere riparati solo in strutture specializzate situate in Polonia. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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GERMANIA. Scioperi della fame in sostegno agli oppositori politici turchi arrestati
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 6 dicembre 2023. Il 16 maggio 2022 la giornalista turca Özgül Emre è stata arrestata in Germania, dove da anni risiedeva. Nei due giorni seguenti le forze armate tedesche hanno fermato e portato in prigione altri due cittadini di origine turca, İhsan Cibelik, uno dei fondatori della band musicale Grup Yorum e Serkan Küpeli, studente. Tutti e tre sono attivisti politici impegnati in attività associative, musicali, culturali o di sensibilizzazione in opposizione alle misure ritenute repressive e antidemocratiche dei governi turchi. Sono stati arrestati con l’applicazione di una legge che consente, in Germania, di fermare persone sospettate di appartenere ad associazioni terroristiche. Anche di altri Stati. E anche senza l’accusa di aver compiuto azioni criminali. Emre, Cibelik e Küpeli sono accusati di appartenere al Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo, DHKP-C, un partito marxista-leninista rivoluzionario considerato terrorista in Turchia, Stati Uniti e Unione Europea.
Tra le prove a sostegno dell’arresto di Özgül Emre, ad esempio, l’organizzazione di un concerto, realizzato rispettando tutte le normative vigenti, al quale parteciparono più di 10.000 persone. O anche la presenza della stessa giornalista al funerale, nel 2022 a Stoccarda, di una oppositrice politica turca: Birsen Kars è morta lo scorso anno in seguito alle ustioni riportate nel 2000, durante l’assalto operato delle forze armate turche alle carceri con lo scopo di interrompere lo sciopero della fame a cui aderivano centinaia di detenuti politici. Un’altra prova a carico di Emre è rappresentata dalla sua partecipazione al matrimonio di due membri della storica band Grup Yorum. Si tratta di un gruppo musicale estremamente noto in Turchia e nel mondo per il suo impegno politico. Non è considerato fuorilegge in Germania né in Turchia dove però i musicisti vengono da anni arrestati e trattenuti in prigione: nel 2020 Helin Bölek e Ibrahim Gökçek, due membri del gruppo, morirono in Turchia di sciopero della fame.
L’accusa di appartenenza al DHKP-C è stata sufficiente a criminalizzare le attività legali che gli oppositori politici turchi hanno svolto in Germania: concerti, campi estivi, seminari, partecipazione a manifestazioni che coinvolgevano centinaia di persone e a cerimonie private come matrimoni e funerali.
L’Associazione tedesca degli Avvocati Democratici, VDJ, sta seguendo il loro processo, cominciato il 14 giugno 2023 presso il Tribunale regionale superiore di Düsseldorf. Il copresidente dell’associazione, l’avvocato Joachim Kerth-Zelter ha dichiarato che il procedimento soffre del fatto che i termini di “organizzazione terroristica” o “movimenti di liberazione” non siano definiti dalla legge ma determinati politicamente. In Germania, l’inclusione del DHKP-C tra le organizzazioni terroristiche – dichiara Kerth-Zelter – è operata in base alle valutazioni delle autorità turche, e alla classificazione dell’Unione Europea, che si basa su quelle stesse valutazioni. L’avvocato specifica che “gli imputati non sono accusati di atti di terrorismo o di reati penali propri. Essi vengono invece ritenuti responsabili di attività come l’organizzazione di eventi musicali e conferenze informative, poiché queste costituiscono sostegno al DHKP-C, classificato come organizzazione terroristica. Tutti gli imputati sono in custodia da quasi 18 mesi. L’imputato Küpeli fu imprigionato poco dopo la nascita di sua figlia. L’imputato Cibelik soffre di cancro alla prostata, come è stato scoperto da un medico con un ritardo di 16 mesi, motivo per cui la sua detenzione ha un peso particolare”.
La legge che consente la responsabilità penale per atti di sostegno a organizzazioni terroristiche straniere (anche non europee) è stata introdotta pochi mesi dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2011 alle Torri Gemelle di New York, con l’approvazione dell’articolo 129b del Codice penale tedesco. “Come in molti altri procedimenti ai sensi dell’articolo 129b StGB, – spiega la VDJ – l’accusa si basa, tra l’altro, su accertamenti di autorità straniere, in questo caso la Turchia, il che è particolarmente problematico quando i Paesi stessi non sono governati dallo Stato di diritto”. Soprattutto se “si considera il vasto smantellamento dello Stato di diritto in Turchia: in particolare dopo la repressione del tentativo di colpo di stato nel luglio 2016, le autorità di contrasto e i tribunali tedeschi devono chiedersi se la Turchia possa essere un oggetto adeguato di protezione ai sensi della Sezione 129b StGB”. Molte delle accuse nei confronti degli imputati sono state mosse sulla base di indicazioni portate dalle autorità turche e dalla testimonianza di un informatore su cui già gravava l’accusa di falsificazione di documenti. Gli avvocati fanno, infine, notare che secondo l’articolo 129b è il Ministero della Giustizia ad autorizzare le indagini e l’arresto delle persone accusate di far parte di un’organizzazione terroristica, cosa che rappresenta un’eccezione alla separazione dei poteri, garantita dalla Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania.
Eda Deniz Haydaroğlu, in sciopero della fame da 264 giorni
Una giovane donna tedesca di 23 anni, Eda Deniz Haydaroğlu, figlia di genitori turchi, ha cominciato 264 giorni fa uno sciopero della fame (con l’assunzione acqua, zucchero, sale e vitamina B) per richiedere la liberazione degli oppositori politici e l’abrogazione dell’articolo di legge 129 e dei paragrafi 129a e 129b. Insieme a lei, altri tre giovani, due ragazze e un ragazzo, hanno iniziato a scioperare, dando vita così una campagna di sostegno internazionale. Si tratta di Ilgin Güler, in sciopero della fame da 212 giorni, Sevil carino Guler, da 207 giorni e Lena Açıkgöz, da 147 giorni. Le condizioni fisiche di Eda Deniz Haydaroğlu, come quelle degli altri 3 giovani si fanno giorno dopo giorno più serie e gli appelli al Ministero della Giustizia tedesco si moltiplicano. Lo scorso 3 dicembre si è tenuta a Berlino una manifestazione in loro sostegno.
La seduta del processo ai tre oppositori politici turchi arrestati, che doveva tenersi oggi, è stata rimandata alla prossima settimana. Pagine Esteri
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L’Italia è uscita dalla Via della Seta
Il governo Meloni ha comunicato l'addio alla Belt and Road Initiative. La scelta era nota già da mesi, ma Roma e Pechino hanno trattato sulle modalità, molto lontane dalla grande esposizione dell'accordo del 2019. Le tempistiche non sono casuali, vista la concomitanza col summit Cina-Ue che può "assorbire" il dossier italiano
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Sostenere Letta
Gianni Letta ha la fama d’essere morbido e avvolgente, una specie di Coccolino della politica. Ma conosce i tessuti ruvidi che l’esercizio del potere può costringere a indossare, come conosce il gelo cui può lasciare l’esserne spogliati. L’educazione e la ragionevolezza lo inducono a non fare mai degli scontri una questione personale, incarnando la gravitas – oramai sconosciuta – di istituzioni che sopravvivono ai loro abitanti. Quel che ha detto, a proposito della riforma costituzionale, è chiaro: ammesso si faccia, il testo deve ancora essere scritto.
I poteri del Presidente della Repubblica non sono il punto decisivo, ma quello indicativo. Al Quirinale abitò il pontefice quando era anche re. In quelle stanze passeggiò il re che non era papa. Quando vi fecero ingresso i presidenti era chiaro che non sarebbero stati né come l’uno né come l’altro, benché non fosse chiaro cosa sarebbero stati e, del resto, ciascuno ha interpretato a suo modo la funzione e gestito diversamente i poteri. Basterà un solo esempio, quello della presidenza del Consiglio superiore della magistratura: chi non voleva mancare e chi non voleva andare. La Costituzione era sempre la stessa. Il punto non sono i poteri, ma l’idea che si ha degli squilibri politici. Noi appassionati possiamo scucuzzarci all’infinito, ma non è in accademia che la questione va affrontata.
I sistemi istituzionali non sono belli o brutti in sé, così come le leggi elettorali. Funzionano se sono fra loro coerenti e adatti al Paese in cui vengono usati. Se voto all’americana non divento americano, ma distorco quel sistema con il peso della mia storia (prego osservare la fine fatta dal processo accusatorio, all’americana). Il tema dominante della storia italiana non è rendere stabile il potere, ma evitare che le crisi destabilizzino il Paese. Se non è a tutti chiaro è perché c’imbrogliamo per i fatti nostri: chiamiamo “era berlusconiana” una stagione in cui l’eroe eponimo non vinse mai due elezioni di seguito, mentre intitoliamo alle crisi continue l’“era democristiana”, con la Dc che dal 1948 al 1994 non perse mai le elezioni mentre le maggioranze di governo raccoglievano sempre la maggioranza assoluta dei voti degli italiani, cosa mai più avvenuta dal 1994. Dicono: ma i governi cadevano sempre. Vero, ma si rifacevano simili e con le stesse persone. In fondo ne abbiamo avuti quattro: centrismo, centrosinistra, solidarietà nazionale e pentapartito. La nostra stabilità nazionale poggiava sull’instabilità politica. Il che porta al Quirinale.
Puoi eleggere direttamente il capo del governo, puoi contare i voti con un sistema che consegni ai vincitori la maggioranza assoluta degli eletti, ma ci farai la birra quando, la mattina dopo, si divideranno: il capo eletto non avrà più la maggioranza e se non c’è un punto di caduta istituzionale si passa a quello elettorale. E farlo troppo spesso porta male.
Come osserva Armaroli, la maggioranza di Meloni è ampia e senza alternative, quindi è forte e stabile, lasciando poco margine al Colle. Vero. Ma non so se avete avuto cuore di seguire quel che sta facendo Salvini che, se non riuscirà a far saltare i nervi a Meloni, comunque costringerà Tajani a far osservare che anche lui è ancora fra i viventi. È dal 1994 che le elezioni vengono vinte da false coalizioni, come falsa è quella oggi all’opposizione. Non c’è riforma costituzionale che possa cancellare questa evidenza. Interrare la nostra storia e questa evidenza sotto il cemento della riforma costituzionale serve soltanto a farne il Seveso della politica: quattro gocce di pioggia e salta tutto. Non si rimedia mai a una liquidità politica con una cementificazione costituzionale.
Einaudi non era Gronchi e, per nostra fortuna, Mattarella non è Scalfaro, ma è utile un luogo dove il pallone venga preso in mano prima che chi è in difficoltà lo squarci. Tutto qui, facile e inaggirabile. Poi, oh, possiamo pure continuare nella fiera dell’analfabetismo e chiamare “premier” il presidente del Consiglio. La cosa mi sollazza, perché dove il premier c’è veramente sono già al terzo, senza elezioni.
La Ragione
L'articolo Sostenere Letta proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’oligarchia che manca all’Italia
Nella recente televisiva autocritica di Beppe Grillo c’è un aspetto che non va lasciato cadere, perché non riguarda l’ambigua psicologia del personaggio, ma riguarda la battaglia più dura che Grillo ha condotto, e con successo: la battaglia contro la concentrazione dei poteri, l’oligarchia, la «casta», per usare un termine non suo. Egli ha nel tempo coltivato un diffuso disprezzo verso quei pochi ambienti e quei pochi personaggi che conoscono la complessità del potere e sono attrezzati per gestirla (si tratti di banchieri internazionali o di opinionisti domestici). Un disprezzo che continua a circolare anche dopo il definitivo declino del grillismo di lotta e di governo.
Certo, non va più di moda la violenza del «vaffa» urlato in piazza contro i grandi potenti, ma la polemica antioligarchica è costante e cattiva. La si ritrova nella contestazione degli «esperti» di ogni tipo; nella diffusa polemica verso i «tecnici» e i «governi tecnici», oscuri promotori di ribaltoni trasformisti; nelle perfide ironie sui «migliori» (da Monti a Draghi); nella ferocia contro il «nonnetto amante di incarichi» Giuliano Amato (il più bravo premier degli ultimi cinquant’anni); nella propensione a negare ad alcuni parlamentari l’uso della propria conclamata professionalità (specie se di avvocato); nella stessa estemporanea propensione a eliminare la figura dei senatori a vita, finora unico spazio di inclusione istituzionale di competenze non politiche.
Tempi cupi per i bravi, verrebbe da dire, riandando con la memoria all’episodio dell’antica Atene, quando Aristide domandò ad un cittadino perché stesse votando per il suo ostracismo, e quello rispose «Questo Aristide non lo conosco neppure, ma sono stufo di sentir dire che è il più bravo di tutti».
Ma non è il caso di adagiarsi in citazioni dotte, visto che i «vaffa» della piazza di Grillo hanno prodotto ripulse antioligarchiche e un progressivo disfacimento dei processi decisionali, specie di quelli dello Stato. In altre parole, c’è una crisi della cultura di governo che è una silenziosa conseguenza della crisi degli apparati decisionali, laddove si intrecciano la dimensione politica, quella tecnica e quella di alta amministrazione. Non si può negare l’attuale crollo di tali apparati. Di fatto, abbiamo governi senza più «segreterie tecniche» nei ministeri (è lontano il tempo in cui nella segreteria tecnica di Andreatta e poi di Goria al Tesoro lavoravano insieme Cipolletta, Draghi, Cappugi, un relazionale capo di gabinetto e un silenzioso Ragioniere generale). Al tempo stesso, i dirigenti generali, dopo la sciagurata introduzione dello spoil system non sono più l’asse portante delle decisioni amministrative e non hanno interesse ad avere traguardi alti e di medio periodo. La lunga propensione alle carriere interne non c’è più, visto che nelle stanze ministeriali lavorano masse di persone in affitto, pagate dalle società di consulenza; e queste ultime in più hanno con il tempo dimenticato la propria base culturale, cioè la consulenza strategica. Certo, in alcune carriere pubbliche (quella prefettizia come quella militare) resta un orgoglio di classe dirigente, ma si tratta di una minoranza: il resto è testimonianza della profezia antioligarchica di Grillo e seguaci (basti rileggersi il recente volume di Mariana Mazzucato, titolato «Il grande imbroglio»).
Ma in una società sempre più complessa, ogni struttura socioeconomica (dalle imprese individuali alle aziende di logistica, a quelle di servizio collettivo, alle centrali sindacali) ha un bisogno irrinunciabile di una cultura capace di interpretare e governare la complessità circostante. E non bastano i «cerchi magici» intorno al leader, come non bastano piccole oligarchie familiari. Verrebbe quindi da implorare «aridateci una oligarchia», ma sarebbe un puro annuncio volontaristico; sarebbe meglio dire «ricostruiamo una oligarchia», sapendo che essa non nasce per editto del principe o per trasversale manovra di confraternite, ma matura lentamente e con pazienza e serietà intrecciando tante vecchie e nuove relazioni interpersonali. Ma proprio su quelle relazioni ha inciso la colonna portante dell’ideologia del «vaffa» come negazione della normale relazionalità fra le persone, come radice della rottura di ogni rapporto. Ma questo è un altro discorso, più delicato e difficile.
L'articolo L’oligarchia che manca all’Italia proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Un oggetto Herbig-Haro in dettaglio | Cosmo
"Gli oggetti di Herbig-Haro si formano quando il gas caldo che viene espulso da una stella appena nata impatta con il gas e la polvere che la circondano, cozzando a velocità fino a 250mila km/h e creando onde d’urto luminose.
Questi oggetti si trovano in una vasta gamma di forme, ma la configurazione di base è solitamente la stessa: getti simmetrici di gas riscaldato, espulsi in direzioni opposte da una stella in formazione, che fluiscono attraverso lo spazio interstellare.
Gli oggetti di Herbig-Haro non sono oggetti stabili ma sono fenomeni transitori che scompaiono nel nulla nel giro di poche decine di migliaia di anni."
A Blueprint for the Future: White House and States Issue Guidelines on AI and Generative AI
Since July 2023, eight U.S. states (California, Kansas, New Jersey, Oklahoma, Oregon, Pennsylvania, Virginia, and Wisconsin) and the White House have published executive orders (EO) to support the responsible and ethical use of artificial intelligence (AI) systems, including generative AI. In response to the evolving AI landscape, these directives signal a growing recognition of the rapid pace of AI development and the need to manage potential risk to individuals’ data and mitigating algorithmic discrimination against marginalized communities.
FPF has released a new comparison chart that summarizes and compares U.S. state and federal EOs and discusses how they fit into the broader context of AI and privacy.
In addition to the state governments, several cities (e.g., Boston, San Jose, and Seattle) have also issued guidelines on generative AI use that seek to recognize the opportunities of AI while mitigating bias, privacy, and cybersecurity risks. In contrast, other jurisdictions, such as Maine, have issued a moratorium on state generative AI use while they perform a holistic risk assessment.
Although each of the state and federal EO’s on AI and generative AI has a different scope. Most, at minimum, charge agencies with the creation of a task force to study AI and offer recommendations.
Here are some overarching takeaways from our analysis of all of the EOs:
1. The White House and California Issued the Most Prescriptive EOs
Of the U.S. state and federal EOs analyzed, the White House requires the heaviest lift. The White House EO mandates dozens of reports and next steps for federal agencies, including the creation of guidance and standards for AI auditing, generative AI authentication, and privacy-enhancing technologies (PETs).
Similarly, of the state EOs, California is the most prescriptive and includes a number of specific mandates and reports tailored to different agencies, such as the creation of procurement guidelines, assessments on the effect of generative AI on infrastructure, and research on the impact of generative AI on marginalized communities.
2. Most State EOs Focus on “Generative AI”
Several state governments, such as California, Kansas, New Jersey, Pennsylvania, and Wisconsin, only focus on generative AI – how the technology should be used by state agencies, the risks it carries, and how it may affect their state industries and workforce. Oklahoma, Oregon, and Virginia take a broader stance and cover generative AI as well as broader types of AI systems in their EOs. Kansas and Pennsylvania are the only two states to explicitly define generative AI.
The White House EO represents an amalgam of the state EOs, as it defines generative AI (similar to Kansas and Pennsylvania) and also broadly covers different types of AI systems (similar to Oklahoma and Virginia).
3. Varying Approaches to Agencies’ Roles
The White House EO charges certain agencies with authority to create binding guidelines and standards for government actors. In contrast, rather than creating new task forces or boards, Kansas, Oregon, and Virginia charge state agencies to study AI technology and provide general recommendations. New Jersey and Wisconsin, two states with less rigorous EOs, emphasize that their task forces serve solely advisory roles. Oklahoma and the White House are the only EOs to require each agency to appoint an individual on their team to become an AI and generative AI expert.
4. Impact to Industry
While these Executive Orders are primarily focused on government use of emerging AI systems, there are major requirements contained in many of them that may have consequential effects on industry.
- Procurement Requirements:Companies selling certain AI products and services to government entities will need to satisfy new baseline procurement standards.
- Enforcement:Agency-created standards and policies may inform government regulators’ perspectives on AI compliance with data privacy, security, civil rights, and consumer protection laws, particularly given the forthcoming standard setting activity directed by the White House Executive Order.
- Influence on Legislation:As mentioned in California’s EO and the White House EO’s accompanying fact sheet, key actors in state and federal executive agencies will work with policymakers to pursue legislative approaches to support the development of responsible AI by the private sector.
These EOs represent a watershed moment for AI system users, developers, and regulators alike. Over the next few years, increased government action in this area will lead to new requirements and opportunities that will have lasting implications for both the public and private sector.
Catture di Corsari Musulmani sulle Coste Italiane
Le incursioni corsare dal nordafrica e dalle coste dell’Impero Ottomano hanno flagellato la nostra penisola per lungo tempo. Nel corso di queste razzie o di battaglie navali, capitava che marinai e corsari (specie nordafricani) finisseroContinue reading
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Ghedi, terra di un arsenale nucleare che si addestra a spiccare il volo
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Di Alessandra Mincone
Le base di Ghedi, a venticinque chilometri da Brescia, si estende per oltre dieci chilometri quadrati. Non è una base Nato, ma in adesione al “Nato Nuclear Sharing” è il deposito di arsenale di almeno venti bombe atomiche americane con una potenza oscillante tra i cinquanta e i cento chilotoni ciascuna, date in controllo all’esercito italiano. A Ghedi risiede il 6° Stormo, un reparto di interdizione militare che ha il compito di intercettare e distruggere i caccia bombardieri nemici in territorio nazionale. Hanno in dotazione i caccia multiruolo “Tornado” in tre varianti, sviluppati e fabbricati dalla Panavia Aircraft, multinazionale che unisce le aziende British Aereospace, MMB e Leonardo. La caratteristica che rende questi velivoli un’eccellenza tra i sistemi di aviazione bellica è la capacità di poter agganciare tutte le armi da guerra impiegabili, incluse bombe a grappolo e, ovviamente, le bombe atomiche.
In una nota stampa trasmessa sul canale ufficiale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg ha dichiarato che i mezzi coinvolti nell’addestramento 2023 hanno la funzione di trasporto delle testate nucleari, ma che lo scopo decennale del programma resta limitato alla formazione dei piloti per le operazioni di manovre aeree, senza quindi spingersi in veri test di volo con testate nucleari agganciate.
Poco più di un anno fa, il 6° Stormo di Ghedi aveva partecipato ad altre due attività internazionali, Iniochos 2022 e la Frisian Flag 2022, nell’ottica di rivalutare le capacità tattiche-operative dei sistemi di tecnologia in dotazione e di consolidare la reattività dei velivoli con operazioni congiunte in contesti multinazionali, attraverso la simulazione di combattimenti combinati tra varie potenze. La partecipazione attiva all’addestramento del progetto Iniochos, sviluppata oltre i confini circoscritti ad oggi dall’Alleanza Atlantica, ha visto impiegate le forze di difesa nazionale cipriote e le forze aeree francesi, israeliane e statunitensi.
Nel Giugno 2022, a Ghedi è anche iniziato il processo di sostituzione graduale dei Panavia Tornado, con l’introduzione dei nuovi modelli di velivoli multiruolo di quinta generazione quali gli F-35, progettati per svolgere in contemporanea ogni tipo di missione: dalle azioni deterrenti finalizzate alla difesa e alla conquista di una supremazia aerea, fino a quelle di identificazione dei bersagli nascosti e di attacco con bombardamenti tattici.
Ad oggi, l’aereoporto ha svolto le sue funzioni di trasporto verso i confini dell’Ucraina, interessandosi in via diretta di una parte dei pacchetti di armi garantiti dall’Italia al Governo Zelens’kyj. La rassegna stampa delle Forze italiane elenca tra le spedizioni già assicurate gli M113, veicoli cingolati per il trasporto delle truppe; i Lice Vtml, veicoli tattici multiruolo; carri armati Leopard; mitragliatrici, munizioni e kit di sopravvivenza; e i Samp T, missili terra-area per il contrasto di minacce aeree e gli Aspide, missili terra-area di vecchia generazione. Ancora, “due MLRS, il cui sistema che permette di lanciare in maniera rapida, continuata e a lunga gittata razzi di diversa tipologia, tra cui testate chimiche, biologiche e anticarro. I Pzh2000, obici con un cannone da 155 millimetri con sparo computerizzato. Sono semoventi e capaci di colpire fino a 40 chilometri di distanza. E sparano 20 proiettili in 3 minuti. Verranno inviati 6 semoventi M109L dei 68 in possesso (…) Da alcuni giorni sono spuntate foto di “movimenti” sulle autostrade del Nord Italia dove si vede che dai depositi dell’Esercito vengono prelevati anche i veicoli di trasporto truppe M113”. Insomma, un prestito di guerra ripagato ad oggi con una stima di cinquecento mila morti tra gli eserciti e in feriti dal lato russo e da quello ucraino, come riportava quest’estate il New York Times. E ancora da ripagare col sovrapprezzo, dettato dal rischio di un’escalation di guerra internazionale.
Lo scorso Ottobre si è tenuta una manifestazione di oltre cinque mila persone presso l’aereoporto miliare di Ghedi.
Alla testa del corteo, attivisti locali hanno sventolato bandiere di pace in risposta alle crescenti preoccupazioni legate all’eventualità di un’escalation militare tra le belligeranti Nato e Russia in relazione al conflitto in Ucraina. A pochi metri, hanno seguito gli iscritti di alcune sigle del sindacalismo conflittuale in Italia e i militanti dei movimenti politici della sinistra extra parlamentare. La composizione dei pullman arrivati da tutta Italia, in prevalenza di lavoratori di origine araba iscritti al SI Cobas, non ha mancato di esprimere grande solidarietà alla popolazione che resiste in Palestina, con slogan, interventi e spezzoni rivolti a denunciare l’assedio e il massacro di Israele nella Striscia di Gaza. Le realtà promotrici hanno lavorato sulla caratterizzazione anti imperialista e anti colonialista del corteo, denunciando il ruolo delle aziende italiane in materia di produzione e esportazione di armamenti in giro per il mondo e quello del Governo Meloni, che ha promesso all’incirca di raddoppiare la spesa militare giornaliera con un aumento del Pil al 2% per la difesa entro il 2024.
La scelta di costeggiare la base d’aviazione tra le più grandi d’Europa per estensione, si è incrociata con l’appuntamento annuale della Nato “Steadfast Noon”, cioè il programma di esercitazione militare che avrebbe lo spirito di rafforzare le capacità di deterrenza nucleare dei paesi uniti dal Patto Atlantico. Il 17 Ottobre, è iniziato il dispiegamento di circa sessanta velivoli da combattimento come gli aerei B-61 abilitati al trasporto di bombe atomiche, bombardieri pesanti B52 e jet di rifornimento che, dagli Stati Uniti, sorvoleranno 13 paesi membri tra cui l’Italia fino al 26 Ottobre. I corridoi di transito della penisola, includono, oltre Ghedi, anche le infrastrutture militari aeree di Aviano, Amendola, Gioia del Colle e Trapani.
Gli attivisti di Ghedi da oltre un anno denunciano lo stato di pre-allerta militare. La manifestazione dello scorso Ottobre ha tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul livello di tensione bellica che investe tutta la regione lombarda e, potenzialmente, tutta l’Europa. Secondo uno studio del Ministero della Difesa del 2020, nella peggiore delle ipotesi possibili, ossia del verificarsi di un attacco bellico contro la base di aviazione militare di Ghedi e contro la base militare Nato di Aviano, un danno atomico ricadrebbe su una fascia di popolazione compresa dai due ai dieci milioni di persone a seconda dell’intensità dei venti e della capacità di intervento di evacuazione delle zone a alto rischio.
Nonostante non ci siano dei report e delle stime ufficiali sul quantitativo di arsenale nucleare dispiegato in tutta Europa dal blocco militare Nato e dagli USA, nel 2021 il gruppo di giornalisti investigativi “Bellingcat” aveva rivelato un pacchetto di informazioni, mal secretato dall’esercito statunitense e dai responsabili alla custodia delle riserve nucleari in giro per il mondo.
Applicazioni web per la rappresentazione e l’apprendimento dei dati, come Chegg, Quizlet e Cram, sono state utilizzate per mappare e definire i territori strategici del nucleare americano oltre i suoi confini: non solo Ghedi e Aviano, ma anche Kleine Brogel in Belgio, Buechel in Germania, Volkel nei Paesi Bassi, fino a Incirlik in Turchia.
Attraverso queste app di flashcard, i soldati incaricati di sorvegliare questi dispositivi, identificavano con esattezza i rifugi che conterrebbero armi nucleari, da come si può leggere nell’inchiesta. Descrivevano i protocolli di sicurezza inviolabili, come il numero e le posizioni delle videocamere; la frequenza dei pattugliamenti intorno ai caveau e l’equipaggiamento delle forze di protezione delle basi. Alcune flashcard riportavano persino le parole segrete stabilite e da utilizzare in caso di minaccia alla sicurezza delle guardie e ai tentativi di intrusione nelle aree da vigilare. In certi casi i giornalisti hanno scoperto con semplici click i dettagli per la composizione delle password e dei relativi nomi utente; in altri “set” sgominati on line, i militari avrebbero salvato finanche le versioni dei codici di rilascio mondiale per aprire tutti i caveau segreti nello stesso momento. Tra i dettagli dell’inchiesta di Bellingcat, emerge come sia stato facile addirittura trovare per alcune basi, le informazioni sugli edifici dove sono nascoste le chiavi dei rifugi aerei e le informazioni sui controlli dei siti “caldi” e
“freddi”, ossia i depositi delle bombe atomiche. Gran parte dei dati estratti dai giornalisti sono stati verificabili grazie alla rintracciabilità degli utenti, iscritti alle applicazioni con i propri dati sensibili e le foto profilo esportate da LinkedIn e Facebook. “Anche nei casi in cui non è immediatamente chiaro dove si trovi l’utente”, di legge dall’inchiesta, “si può dedurre la base militare a cui si riferiscono le loro flashcard da ciò che stanno studiando: leggi locali, nomi degli squadroni, delle zone, degli edifici”.
Il report dei giornalisti di Bellingcat nel 2021 aveva allertato tutte le massime cariche delle forze di difesa statunitensi e della Nato, dimostrando quanto i sistemi di sicurezza intorno ai depositi dell’arsenale nucleare europeo fossero fragili e violabili. Chiamato in causa in qualità di esperto del controllo degli armamenti, Jeffrey Lewis aveva dichiarato che il segreto sulle armi nucleari in Europa esiste solo per proteggere i politici dalla domanda di quanto abbiano senso, ancora, i piani di avanzamento e deterrenza nucleare.
Una risposta alla domanda della validità dei piani nucleari, pare essere arrivata il 23 Ottobre al Centro internazionale di fisica teorica di Triste dal Presidente dell’organizzazione internazionale degli scienziati di Pugwash, Karen Hallberg. Al workshop sul tema del ruolo degli scienziati nella riduzione della minaccia nucleare, che si terrà fino al 25 Ottobre, ha sostenuto: “gli accordi internazionali si stanno sgretolando e dobbiamo ripristinarli con urgenza se vogliamo evitare un’altra guerra nucleare. Dobbiamo liberarci delle armi nucleari, perché finché esistono, il rischio di un loro utilizzo rimarrà elevato”.
Fonti:
I soldati statunitensi espongono i segreti delle armi nucleari tramite app di flashcard – bellingcat
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GAZA. Il piano Biden per la Striscia: una Autorità «riformata» e senza Abu Mazen
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di Michele Giorgio
(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)
Pagine Esteri, 6 dicembre 2023 – Da «rivitalizzata» a «riformata» passando per l’uscita di scena, si dice in primavera, di Abu Mazen, fino ad arrivare alla nomina di un «premier» ad hoc a Gaza. Forse l’ex primo ministro Salam Fayyad, gradito ad americani ed egiziani e che potrebbe essere accettato da Israele. È questo lo scenario che, più di altri, si affaccia all’orizzonte quando si parla del futuro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata dagli Stati uniti, e a rimorchio dall’Europa, a guidare Gaza quando «Hamas non sarà più al potere» e si dovrà avviare la ricostruzione, se Israele lo consentirà.
«Il nome di Salam Fayyad, un indipendente con rapporti pessimi con Abu Mazen, gira da un po’, da quando (l’ex premier) ha pubblicato un articolo in cui spiega la sua visione per Gaza e la necessità di una riorganizzazione dell’Anp», dice al manifesto T.A. giornalista di Ramallah ben informato sulle questioni interne palestinesi che per la delicatezza del tema ha chiesto di restare anonimo. «Fayyad piace all’Amministrazione Biden e agli egiziani» aggiunge T.A. «Ci sono però due grandi incognite: la posizione di Israele e la portata delle ‘riforme’ che l’Anp dovrebbe avviare. In questo quadro l’uscita di scena del presidente Abu Mazen è un fattore centrale. Gli americani la vogliono in tempi brevi. L’ultimo incontro tra (il segretario di stato) Blinken e Abu Mazen è stato carico di tensione».
Casa Bianca e Dipartimento di stato da quando è iniziata la catastrofica offensiva israeliana a Gaza, hanno indicato nell’Anp l’entità che dovrà subentrare ad Hamas e ribadito sostegno alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Una Anp però da «rivitalizzare», hanno ripetuto, alla luce dello scarso consenso di cui gode tra i palestinesi. Da parte loro Abu Mazen e il suo primo ministro, Mohammed Shttayeh, hanno replicato che l’Anp a Gaza non ci tornerà «sui carri armati israeliani». Lo farà soltanto nell’ambito di una ripresa dei negoziati per la creazione di uno Stato palestinese. Israele per giorni ha reagito con gelo alla proposta di Biden e Blinken. Quindi è sceso in campo Netanyahu che, con toni oltremodo decisi, ha respinto l’idea che venga coinvolta l’Anp. Ufficialmente perché «legata ai terroristi», cioè ad Hamas, affermazione sconcertante alla luce della frattura insanabile tra le due parti palestinesi e della cooperazione di sicurezza che l’Anp mantiene con Israele. In realtà Netanyahu non intende riprendere il negoziato che ha coscientemente affossato per 14 anni e ridare slancio all’idea dello Stato di Palestina «rivitalizzando» l’Anp che, con tutti i suoi gravi limiti agli occhi dei palestinesi, continua in qualche modo a rappresentare. Per Netanyahu la risposta all’attacco del 7 ottobre non deve concentrarsi solo su Hamas, deve anche affossare le aspirazioni politiche palestinesi.
Comunque sia, l’ostilità di Israele nei confronti dell’Anp ha impresso una svolta al processo di pianificazione per Gaza dell’Amministrazione Biden. A inizio settimana il coordinatore per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, parlando dell’Anp ha messo da parte il verbo «rivitalizzare» per adottare «riformare» in modo da avvicinare la posizione americana a quella israeliana. Netanyahu, dicono le indiscrezioni, avrebbe chiarito agli alleati americani che Israele pretende una Anp che combatta, armi in pugno e ogni giorno, contro Hamas e altre organizzazioni armate. Altrimenti, ha ammonito, i soldati israeliani non lasceranno mai Gaza. In sostanza l’Autorità palestinese «riformata» che ha in mente Israele si avvicina molto per ruolo e funzioni a ciò che era l’Esercito del Libano del sud, la milizia mercenaria libanese che per oltre venti anni ha sorvegliato la «Fascia di sicurezza» a ridosso del confine con lo Stato ebraico. Un progetto che si sposa con la creazione, da parte di Israele, di una «zona cuscinetto» all’interno di Gaza.
«Con ogni probabilità questa è l’idea dell’Anp ‘riformata’ che ha in mente Netanyahu» ci dice l’analista politico Ghassan Khatib, docente all’università di Bir Zeit, «in parte è diversa da quella degli Stati uniti che danno più rilievo alla dimensione politica. E riformare per gli americani significa cambiare i leader politici». Venti anni fa, durante la seconda Intifada, – ricorda Khatib – gli Usa allo scopo di isolare Yasser Arafat imposero la nomina di un vice ai vertici dell’Anp. In quel caso fu scelto Abu Mazen che poi nel 2005 divenne presidente». Il problema degli Usa è che ora non ci sono palestinesi pronti a svolgere il ruolo di premier o presidente fantoccio a Gaza. Neppure il reietto di Fatah, sempre molto influente, Mohammed Dahlan, originario di Khan Yunis, è tanto ingenuo da accettare una poltrona tanto scomoda imposta ai palestinesi dagli occupanti e da Washington.
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In Cina e Asia – Scambio sul Medio Oriente tra Wang Yi e Blinken
I titoli di oggi:
Cina, l'export di automotive potrebbe subire gravi danni dalle tensioni in Medio oriente
Papua Nuova Guinea, ok all'accordo con l'Australia per la sicurezza
Moody's abbassa le previsioni sui titoli di stato cinesi
Cop28, la Cina difende il suo piano di riduzione di emissioni di metano
La Cina festeggia i 75 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Nepal, arrestate dieci persone coinvolte nell'invio di cittadini nepalesi nell'esercito russo
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Weekly Chronicles #57
Questo è il numero #57 delle Cronache settimanali di Privacy Chronicles, la newsletter che parla di sorveglianza di massa, crypto-anarchia, privacy e sicurezza dei dati.
Nelle Cronache della settimana:
- Cypherpunk moderni: una chiacchierata con Daniela Brozzoni
- Anti-cypherpunk moderni: i droni del supermercato
Nelle Lettere Libertarie: L’illuminismo uccise prima Dio, e poi la ragione
Rubrica OpSec & OSINT: Come proteggersi dalla stilometria
Cypherpunk moderni: una chiacchierata con Daniela Brozzoni
Questa settimana condivido con voi una chiacchierata che ho fatto con Daniela Brozzoni, sviluppatrice Bitcoin, co-founder dello spazio hack.bs, e mainteiner del progetto open source BitcoinDevKit. Ha lavorato in varie aziende del settore, tra cui Blockstream, Braiins e Wizardsardine.
Con lei abbiamo parlato di privacy, ethos cypherpunk e Bitcoin.
> Sei la co-fondatrice di hack.bs.it, che si descrive come “un hackerspace cypherpunk”. Puoi dirci in cosa consiste questo spazio e qual è lo scopo?
hack.bs nasce come spazio d'incontro per sviluppatori, studenti, hacker, nerd e tecno-curiosi.Abbiamo creato un posto che permetta di ritrovarsi, scambiarsi idee, imparare l'uno dagli altri, e soprattutto lavorare assieme a vari progetti. Una grande ispirazione è stata la miniserie Netflix "The Billion Dollar Code", che racconta le vicende di un gruppo di ragazzi tedeschi, alcuni sviluppatori e alcuni artisti, che lavorano a quello che poi diventerá (ingiustamente) Google Earth - l'idea di avere un luogo simile all'ufficio dove è nato questo software ci è piaciuta molto, e allora ci siamo dati da fare.
Oggi il Manifesto Cypherpunk è piú rilevante che mai - la libertá di parola, di espressione, e di nascondere ció che non vogliamo sia pubblico sono messe in pericolo da uno stato che sempre di piú tende a zittire, a censurare, a farsi i fatti nostri. E allora, perché non divulgare l'importanza di queste libertá, partendo proprio dal Manifesto e dagli sviluppatori?
Penso ci sia bisogno di spiegare alle persone comuni come e perché difendersi, ma purtroppo io non lo so fare. Io so parlare agli sviluppatori, insegnare loro come usare GPG e github, come e perché scrivere codice libero, e perché lavorare per creare applicativi che ci permettano di proteggerci sia piú appagante di lavorare per Google.
Forse il termine "hackerspace cypherpunk" un po' spaventa - non è un posto solo per hacker, non nemmeno è un posto solo per sviluppatori, non è un posto dove si parla solo di privacy o si lavora solo su Bitcoin.
Lo chiamiamo "hackerspace" perché vogliamo ricordare che lo scopo è di *creare*, che può vuol dire scrivere software, stampare oggetti in 3D, o costruire oggetti fisici (al momento, ad esempio, stiamo costruendo un tavolino da caffè partendo da vecchio server).
Lo chiamiamo "cypherpunk" perché ci teniamo a ricordare il Manifesto, a divulgare le idee quando possibile (soprattutto attraverso talk e meetup), e a sottolineare che per noi il diritto di parola e di privacy sono inalienabili, e non permetteremo a nessuno di intaccare lo spazio con progetti che li violino in un qualche modo.
> Cypherpunks write code, così affermava Eric Hughes nel 1992. Tu sei una software developer con la passione per Bitcoin e so che contribuisci a sviluppare il BitcoinDevKit, puoi spiegarci con parole semplici quello che fai?
Sviluppare portafogli Bitcoin è un lavoro complicato - richiede una conoscenza approfondita del protocollo, e ogni minimo errore puó far perdere soldi agli utenti.BitcoinDevKit nasce per astrarre molte complessitá di Bitcoin e rendere il lavoro facile agli sviluppatori. Possiamo pensarlo come una "cassetta degli attrezzi" - contiene strumenti per creare portafogli Bitcoin, tra cui primitive per generare indirizzi, creare transazioni, aggiornare il bilancio, e tanto altro.
Quello che io e altri mainteiner del progetto facciamo è assicurarci che gli strumenti funzionino bene, siano comodi da maneggiare, e siano d'aiuto e non di intralcio agli sviluppatori.
>Sono passati più di 30 anni da quando Eric Hughes scrisse il Manifesto Cypherpunk. Per te cosa significa essere cypherpunk, oggi?
Forse romanticizzo un po' il Manifesto, ma ogni volta che lo leggo sento che mi scuote dentro. Sono d'accordo con ogni parola che contiene, e mi sento parte di questo movimento di pazzi che lotta per proteggere proprietà individuali.Essere Cypherpunk, per me, vuol dire sentirsi scossi leggendo il Manifesto, e decidere di agire nella direzione Cypherpunk. "Cypherpunks write code"... sì, ma non solo. È sicuramente importante anche insegnare la cultura Cypherpunk oltre che "praticarla" nel senso più tecnico.
Se hai mai scritto una riga di codice per proteggere le libertà di qualcuno, se hai mai scritto un articolo per spiegare l'importanza della privacy, se hai mai fatto un discorso ubriaco ai tuoi amici sull'importanza della libertà di parola, secondo me, sei Cypherpunk.
> Mi sembra che molto dell'interesse su Bitcoin oggi sia relativo all’aspetto finanziario e ai mercati. Eppure nella visione originaria di Satoshi e dei Cypherpunk l'aspetto centrale era la privacy e la libertà delle persone. Secondo te l’ethos Cypherpunk è ancora vivo nella community Bitcoin, o in qualche modo è venuto meno a causa del suo successo finanziario?
La maggior parte degli utenti normali è sicuramente piú interessata al prezzo che alla privacy; c'è anche da dire che spesso si inizia a interessarsi a certi argomenti quando è troppo tardi. Quando la nostra privacy è stata violata ci rendiamo conto che ci saremmo dovuti proteggere meglio, e quando le nostre libertà ci vengono tolte ci rendiamo conto che dovevamo difenderle meglio.Forse uno degli obiettivi di oggi per noi sviluppatori non è rendere la privacy sexy, ma renderla implicita. Anziché provare a convincere chiunque che la privacy è importante, dovremmo creare strumenti semplici e privati di default, senza che l'utente si accorga di nulla.
Avremo vinto quando compare Bitcoin peer-to-peer, tenerli in portafogli non-custodian, e fare Coinjoin sarà tanto facile quanto acquistare su Coinbase. Poi certo, non tutti gli utenti decideranno di percorrere la strada privata. Tanti non capiranno perché un Bitcoin di cui hai le chiavi (cioè, che è veramente in tuo possesso) abbia molto più valore di un Bitcoin in un exchange. Ma, per chi lo capisce, usare gli uni o gli altri dev'essere semplice allo stesso modo.
> Bitcoin è un progetto opensource aperto a chiunque voglia contribuire. Che consiglio daresti a un giovane software developer che vorrebbe iniziare a interessarsi del mondo bitcoin per dare il suo contributo? Da dove si inizia?
Ogni sviluppatore in Bitcoin ha una storia un po' diversa, e sicuramente non c'è una roadmap che funzioni per tutti. L'unico consiglio che mi sento di dare è di seguire la propria curiosità e di non aver paura di sperimentare e provare cose nuove.Io ho iniziato leggendo Mastering Bitcoin e provando vari software, principalmente per computer - ricordo di aver passato un po' di tempo giocando con Bitcoin Core e le varie opzioni per creare transazioni. Conoscere persone con obiettivi simili ai miei mi ha aiutato tanto - provate a partecipare a forum online, andare a conferenze, seguire corsi. Per chi è giá un po' piú esperto, io consiglio sempre il seminario gratuito di Chaincode Labs - mi ha aiutato ad approfondire alcune sfacettature di Bitcoin, e mi ha fatto conoscere davvero tante persone interessanti.
Se siete interessati a contribuire al codice open source, iniziate dalle applicazioni che giá conoscete e usate.
Avete scovato qualche bug? Provate a indagarlo, oltre che riportarlo. Avete qualche miglioria in testa? Parlatene coi maintainer del progetto per avere feedback. Oppure, cercate direttamente tra le issues del progetto una adatta a voi. Inoltre, ogni progetto open source ha una qualche community online, che sia su Telegram, su Discord, o su IRC: provate ad entrare a farne parte e dire che vorreste dare una mano, sono sicura che troverete qualcuno disposto a guidarvi.
> Cos'è per te la privacy?
A me piace la definizione del Manifesto Cypherpunk: la privacy non è segretezza, ma è il potere di rivelarsi selettivamente al mondo.Esistono video miei, del mio viso, mentre parlo in pubblico. È perché non ho a cuore la mia privacy? No, è perché ho *deciso* di rivelare il mio viso e il mio lavoro al mondo. È il verbo *decidere* che è importante. E allora è facile vedere perché nella nostra narrativa Google, Apple, e compagnia bella sono "i cattivi": non è perché raccolgono i nostri dati, ma perché non ci permettono di decidere cosa rivelare e cosa no; perché li raccolgono tutti, di default, senza chiederci niente, senza darci la possibilità di fare opt-out; perché li usano come vogliono e li vendono come vogliono, e noi nemmeno sappiamo bene come.
La privacy è il potere di decidere chi può sapere cosa di noi, e quando.
Anti-cypherpunk moderni: i droni del supermercato
Sui social gira questo video di qualche minuto in cui una persona mostra l’ultima trovata tecnologica: supermercati senza casse, senza personale e senza pagamenti. In alcuni paesi sono già diffusi ma in Italia è un’idea abbastanza nuova.
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Tutto il cielo ad Anabah – “L’Afghanistan, un’emergenza senza fine”
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, Anabah, 6 dicembre 2023 – Quando arrivano nel pronto soccorso della Pediatria dell’ospedale di Emergency ad Anabah non c’è più niente da fare. Il corpo del bambino, due anni di età, è già rigido e grigio. Gli uomini non piangono in questo Paese, eppure il padre si getta a terra e inizia a urlare. Non esistono più codici maschili e divieti, ma solo il pavimento, il pianto e quel figlio perso per un’intossicazione da monossido di carbonio. La madre si era addormentata abbracciata al suo bambino vicino a una stufa, per tenerlo al caldo, in una stanza troppo piccola di una casa senza altre fonti di riscaldamento. Quando si è svegliata, il bambino non si muoveva già più. La stagione invernale in arrivo inizia a congelare quest’angolo di terra, soprattutto di notte. Casi simili, come ogni anno, sono destinati ad aumentare e ripetersi fino alla primavera. Il monossido di carbonio emanato dalle stufe si lega inesorabilmente all’emoglobina nel sangue, che non riesce più a trasportare l’ossigeno nel corpo. Nel sonno, si passa dalla vita alla morte. La povertà, le case minuscole e affollate dove nel gelido inverno una stufa a metano è spesso l’unica fonte di calore, e l’isolamento, la distanza dagli ospedali, scarsi e inadeguati a gestire casi simili, contribuiscono ad aumentare la mortalità da monossido.
Il 4 dicembre l’agenzia Onu per i rifugiati, l’UNHCR, ha definito l’Afghanistan una “forever emergency”, ovvero emergenza eterna, senza fine. “L’emergenza dell’agosto del 2021 (quando i Talebani hanno ripreso il potere nel Paese, ndr) non è scomparsa”, ha dichiarato a Bruxelles alla testata Eubsorver il rappresentante dell’UNHCR in Afghanistan, Leonard Zulu. Secondo la sua previsione, è impossibile aspettarsi che la catastrofe afghana, che è una tragedia economica, civile, sociale, possa arginarsi nei prossimi anni. “Sarà un’emergenza ricorrente”, ha annunciato.
In maniera ricorrente, si succederanno le morti per intossicazione da monossido di carbonio e le morti di freddo. Come un anno fa, quando sei milioni di persone, ha ricordato, “bussavano alle porte della carestia” e 29 milioni di afghani dipendevano dagli aiuti umanitari. La tragedia afghana non è scomparsa nel 2023, anche se le pagine dei giornali nel resto del mondo l’hanno dimenticata. I fondi destinati al Paese da parte dell’Unione Europea, per essere spesi da organizzazioni umanitarie internazionali, sono passati dai 174 milioni di euro del 2022 ai 156.5 milioni di quest’anno.
Insieme all’inverno e alla fame, pende sul Paese il dramma di un’intera metà della popolazione, le donne, tagliata fuori dai posti di lavoro, con tutte le conseguenze che per l’economia – oltre che per la sanità e l’istruzione, per citarne alcune – ne possono derivare. Ci si aggiunge la tragedia di 1,7 milioni di profughi afghani rigettati dal Pakistan e la necessità di riallocarli in un Paese allo stremo e fornire loro l’assistenza umanitaria essenziale. Per soccorrerli, il World Food Programme dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha lanciato un appello di 26,3 milioni di dollari. Sono ancora recenti e drammatici, infine, gli effetti del terremoto a Herat, che ha provocato almeno 1400 vittime tra morti e feriti e lasciato senzatetto migliaia di persone.
In ospedale, intanto, appena finito il turno, in un momento di tregua, A. srotola un metro da sarta e le altre infermiere lo avvolgono attorno alla vita, al petto, poi ai fianchi di F., la neonatologa responsabile della terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Emergency. Tra qualche settimana sarà il suo compleanno, e stanno lavorando al suo regalo con una strategia non troppo discreta ma che le diverte molto. Nonostante la povertà, malgrado la scarsità di risorse di un Paese descritto come un’emergenza senza fine, loro si scambiano risolini, occhiate di intesa, e non si lasciano persuadere che non sia necessario farle alcun regalo. La neonatologa le implora di fermarsi, giura che non potrà accettare nessun vestito. Loro negano, qualcuna dice “Prendiamo le misure per un’amica alta quanto te”, un’altra dice che si tratta di un gioco fatto “per curiosità”. La generosità per molti è sacra qui in Afghanistan, e sembra non esserci emergenza senza fine capace di arginarla del tutto.
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Serbia: il sistema di welfare digitale finanziato dalla Banca Mondiale aumenta la povertà dei rom e delle persone con disabilità
Il registro della Social Card in Serbia ha privato i rom e altri gruppi emarginati della loro magra assistenza sociale finanziaria, costringendoli ulteriormente nella povertà. La Banca Mondiale ha finanziato il registro della Social Card con un prestito nel 2021 e il registro è stato istituito nel 2022. È stato elogiato come un database centralizzato che avrebbe reso più equo e semplice fornire assistenza finanziaria alle comunità più emarginate della Serbia e proteggerle da povertà. Ma in alcuni casi, ha effettivamente fatto l’esatto opposto, spingendo le persone emarginate ulteriormente nella povertà, poiché l’assistenza sociale era la loro unica forma di reddito. L’introduzione dell’automazione in un sistema di assistenza sociale finanziaria già imperfetto può esacerbare problemi e disuguaglianze preesistenti. È fondamentale che, quando la Banca Mondiale e i governi introducono l’automazione per migliorare la protezione sociale, conducano solide valutazioni dei rischi per i diritti umani sia durante la progettazione che l’implementazione di tali programmi e progettano il sistema per eliminare il potenziale impatto sui diritti umani sulle persone. Film di: Nemanja Vojinovic Link al rapporto completo: Intrappolati dall'automazione: povertà e discriminazione nello stato sociale della Serbia - Amnesty International
youtube.com/watch?v=y_u3FnMYgn…
Serbia: World Bank Funded Digital Welfare System Raises Poverty for Roma and Those with Disabilities
The Social Card registry in Serbia has stripped Roma people and other marginalized groups of their meagre financial social assistance, forcing them further i...YouTube
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Serve un Fondo per la Sovranità Digitale dell’Ue
L’Unione Europea è attualmente impegnata in negoziati decisivi riguardanti la legge sull’intelligenza artificiale, un processo che determinerà se questa normativa emergerà come un modello globale per un approccio progressivo e rigoroso alla regolamentazione dell’IA. Ciò include l’implementazione di norme stringenti per le applicazioni IA di alto rischio, la trasparenza obbligatoria e la protezione dei diritti fondamentali. Tuttavia, persiste il timore che questa legislazione possa subire l’influenza delle grandi corporazioni nel settore dell’intelligenza artificiale, degradandola a un semplice codice di condotta volontario. Questo scenario potrebbe aggravare le già presenti disparità di potere e gli impatti negativi dell’intelligenza artificiale sulla società. Gli eventi recenti di OpenAI, inclusi il controverso licenziamento e la successiva reintegrazione delCEO Sam Altman, e le potenziali dimissioni collettive dei dipendenti, riflettono la natura imprevedibile, volubile e ancora immatura del governo del settore.
Aggiungendo a ciò, le questioni legali di OpenAI legate all’uso non autorizzato di contenuti protetti da diritto d’autore nella formazione dei suoi modelli di intelligenza artificiale, insieme a una supervisione normativa e misure di sicurezza inadeguate, enfatizzano la necessità impellente di una legislazione chiara e globale sull’IA. Queste dinamiche critiche non dovrebbero essere lasciate alla sola autoregolamentazione delle entità commerciali operanti in ambito privato. Oltre all’AI Act, l’Ue ha introdotto regolamenti come il Digital Market Act e il Digital Services Act per limitare il predominio dei colossi tecnologici, promuovendo una concorrenza equa e la tutela dei consumatori. Nonostante ciò, la semplice regolamentazione del potere delle Big Tech non basta. La crescente dipendenza dell’Europa dall’importazione di tecnologie solleva preoccupazioni significative per la sua autonomia digitale e la competitività economica e industriale. Di fronte a questa sfida, l’Europa deve concentrarsi sull’investimento nel proprio settore tecnologico e sostenere soluzioni aperte, sovrane e indipendenti che riflettano i valori e le esigenze europee. È
fondamentale che l’UE intensifichi gli investimenti nella ricerca, nell’innovazione e nelle infrastrutture pubbliche digitali. Promuovendo standard etici, indirizzando strategicamente sussidi e appalti pubblici, l’Europa può affermarsi come un leader tecnologico, dove l’innovazione serve il bene comune e enfatizza la necessità di un nuovo patto sociale nel tecno-capitalismo che affronti non solo le sfide immediate ma anche le implicazioni a lungo termine per l’occupazione,
i diritti dei lavoratori, la creatività, l’istruzione e le norme sociali.
Immaginiamo un futuro dove gli agenti di intelligenza artificiale diventano mediatori essenziali in tutte le nostre interazioni digitali, custodi della conoscenza umana. In questa nuova era di Internet, è cruciale che tali piattaforme rimangano aperte e universalmente accessibili, e non cadano sotto il controllo dei giganti tecnologici della Silicon Valley. Il controllo centralizzato di queste piattaforme potrebbe manipolare l’opinione pubblica, influenzare la cultura e amplificare pregiudizi legati a razza, genere, salute e classe sociale. Pertanto, è vitale che questi sistemi di intelligenza artificiale siano gestiti come beni comuni digitali, con un impegno costante verso la trasparenza, la responsabilità democratica e la supervisione pubblica. L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha scatenato un acceso dibattito in Europa sull’urgenza di sviluppare piattaforme sociali native, regolate secondo principi democratici. Il modello di business attuale delle piattaforme
sociali e l’ingombrante influenza dei tycoon tecnologici nell’ambito pubblico intensificano le preoccupazioni relative alla diffusione di fake news, discorsi d’odio e ideologie estremiste. È imprescindibile che queste nuove piattaforme sociali europee siano costruite basandosi su principi come l’open source, l’interoperabilità e la privacy. Questo impegno mira a creare uno spazio pubblico digitale europeo che promuova valori di pluralismo, privacy e libertà di espressione, resistente alle manipolazioni dei movimenti populisti e agli interessi particolari.
In vista delle prossime elezioni europee, è fondamentale definire una strategia complessiva e destinare investimenti significativi. Un Fondo per la Sovranità Digitale dell’UE da dieci miliardi di euro potrebbe essere il trampolino di lancio per armonizzare e potenziare le iniziative nazionali ed europee ancora frammentate. Questo fondo sosterrebbe lo sviluppo di modelli e applicazioni di intelligenza artificiale aperti e sovrani, infrastrutture di dati, piattaforme europee per la diffusione di conoscenza e contenuti digitali, identità digitali che tutelano la privacy e sistemi di pagamento digitale. Tali strumenti sono cruciali per forgiare un’alternativa pubblica ai servizi e alle applicazioni digitali paneuropee, stimolando mercati open source e interoperabili in settori chiave come la mobilità intelligente, lo sviluppo urbano, l’assistenza sanitaria, la partecipazione civica, l’istruzione e la cultura, integrando le normative europee su fisco, diritti del lavoro e licenze.
Il progresso nelle infrastrutture digitali pubbliche nelle città europee sta raggiungendo traguardi significativi. Focalizzandosi su concetti come la cittadinanza digitale, la sovranità dei dati, le tecnologie che tutelano la privacy e l’autodeterminazione algoritmica di lavoratori e cittadini, l’Europa può emergere come un leader nella società digitale, ponendo le persone e l’interesse pubblico al centro delle sue politiche. L’Europa deve prendere l’iniziativa, tracciando un proprio percorso nell’era digitale e offrendo un’alternativa convincente al predominio tecnologico degli Stati Uniti e della Cina.
Questo modello, allineato agli obiettivi delle Nazioni Unite di promuovere e governare efficacemente i beni pubblici digitali, enfatizza il ruolo della tecnologia in armonia con i valori democratici, inserendosi in un contesto sociale più ampio che mira a promuovere la giustizia sociale e ambientale e a ridurre le disuguaglianze.
Il Sole 24 Ore
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