Digitale 2022: Lega Salvini premier
NB: questo post è parte dell’attività di monitoraggio descritta qui Il programma della lista è disponibile qui (pagina di download) (qui il link locale) Il programma della Lega presenta un’intera sezione (p.104) dedicata alla digitalizzazione, nella quale l’argomento viene affrontato anche dal punto di vista dei diritti individuali. La sezione è stata sviluppata con molta cura e attenzione e...
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Sull’età della nostra Repubblica, sui recenti spauracchi elettorali, su una futura politica di sinistra
Se fosse una donna o un uomo le si attribuirebbe ciò che si dice un’incipiente vecchiaia. Eppure, giovanissima, non regge il confronto con i fasti di Atene o di Roma, né potremo paragonarla alla ultramillenaria Venezia. Dunque, con i suoi settantasei anni, sebbene avanti negli anni, è poco più che un’adolescente.
Se penso ai tentati colpi di stato, agli anni di piombo, alla strategia della tensione, alle stragi, all’innumerevole sequenza di morti che le mafie e il terrorismo hanno lasciato sul campo nel secondo novecento, lo spauracchio agitato in questi giorni da certa parte giornalistica e opinionistica nella prospettiva di un prossimo governo di destra, appare come un futile trastullo di bambini.
Nel sistema costituzionale italiano, fatto di pesi e contrappesi, c’è una cosa, vivaddio!, che si chiama ‘democrazia dell’alternanza’, ed è non solo lecito ma auspicabile che a una fase di governo ne segua un’altra di diverso segno.
Certo, sarebbe bello godere di una classe politica intellettualmente onesta, di scuola e dottrina, qualcosa di cui vantarsi nel consesso internazionale, concretamente risolutiva dei problemi del paese, ma se così non è bisognerà pure rassegnarsi alla sconcertante sequela di ignorantoni presuntuosi e arroganti che si presenta alle elezioni da trent’anni a questa parte. E dico una ‘classe politica’ per non tirare dentro alcune singole personalità che invece eccellono, come perle tra i porci, nel confuso panorama dei governi della seconda Repubblica.
Sarebbe bello e sarebbe anche giusto, considerato che la fase d’incubazione della civiltà repubblicana è passata da un pezzo e finalmente bisognerebbe raccogliere i frutti di tanto sacrificio. Invece dobbiamo accontentarci del giacobinismo di facciata delle già ex ‘nuove leve’, degli incontri negli autogrill con l’agente segreto in pensione, dei comunicati al popolo sullo sfondo ben studiato di rosari, santini e Marie Vergini, e quasi sorridiamo alle imprese di inizio secolo, quando fiorivano le orgette nel castello incantato del cavaliere plenipotenziario.
Ma tant’è, questa è l’Italia.
Ora, il 25 settembre è molto probabile che i connotati del Parlamento e della compagine di governo cambieranno. Ed è un bene che cambino, per il principio dell’alternanza richiamata dai valori di una sana democrazia. Se dovessimo per questo temere rischi per la Repubblica, significherebbe che i nostri padri costituenti avevano preso un’emerita cantonata, loro che inglobarono, all’indomani dell’odiato fascismo e della miserabile monarchia che ci erano toccati in sorte, fascisti e monarchici pentiti e irredentisti nel nuovo assetto costituzionale. Se ci sono riusciti loro, all’indomani della più drammatica pagina di storia dell’Occidente, vuoi che non ci si riesca noi, che pettiniamo bambole dalla mattina alla sera?
Suvvia, siamo seri, e se dovessimo perdere le prossime elezioni, lavoriamo sodo all’opposizione, per costruire una valida alternativa di sinistra, che assomigli il meno possibile all’imbarazzante pastrocchio in cui fino ad ora ci siamo crogiolati. E non dimentichiamo un fondamentale, come nel calcio: le politiche di sinistra si fanno a diretto contatto col popolo, in costante ascolto e dialogo con esso, non dalle torri d’avorio delle segreterie politiche, né dalle torbide leve dei patronati e delle consorterie locali.
Voi direte, ma questa prerogativa è anche delle destre, populiste per antonomasia. No, non in quel senso. Per un militante di sinistra – ma anche per un moderno cattolico, a ben pensarci – ‘col popolo’ significa ‘con tutti i popoli’, con tutte le confessioni religiose, con tutti i generi umani, con tutti gli esseri viventi. Con tutti, lasciando alla demagogia catto-fascista, catto-nazionalista, catto-leghista e chi più ne ha più ne metta, il nobile compito di immaginare un mondo fatto di soli bianchi, di soli cristiani, di soli italiani, di soli … appunto ‘soli’.
E non dimentichiamo un dolo che tutti, proprio tutti ci accomuna: siamo borghesi, e se non lo siamo lo diventeremo in capo a una generazione politica, talvolta anche in minor tempo, Di Maio docet. Da una tale prospettiva quasi nessuno si salva e dunque, quasi nessuno dovrebbe avere diritto di eleggibilità a sinistra, a meno che non ci si rivesta, come una rinuncia ai beni, dei panni che eravamo soliti portare.
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Il partito più pro-establishment? Il Pd, naturalmente... - Contropiano
«A conti fatti, se volessimo stilare una classifica dei partiti italiani sulla base di un ipotetico range che si estenda tra i due estremi della nota dicotomia “sistema-antisistema”, il partito che, sulla base delle politiche perseguite e poi, una volta al governo, messe in atto con cristallina efficienza e senza colpo ferire, e che, dunque, risulta più saldamente ed utilmente collocato sul punto più estremo del range coincidente, peraltro, con un ultraliberismo sfrenato cui si è aggiunto, di recente, anche un granitico ed ostentatissimo oltranzismo atlantista e guerrafondaio, non possiamo che constatare che quel partito è, in tutta evidenza, il Partito Democratico.»
Grecia libera
Oggi, 20 agosto, la Grecia esce dalla “sorveglianza rafforzata” delle istituzioni europee. È in sicurezza. Salvata. Secondo alcuni è stata “massacrata”, peccato i greci la pensino diversamente. Secondo alcuni la responsabilità del massacro è del “Meccanismo europeo di stabilità”, da cui ci si deve tenere lontani. Falso. Ed è una storia istruttiva.
Quando la Grecia è collassata il Mes non esisteva. È nato proprio perché quell’evento ne mise in luce l’esigenza. Ma esisteva l’Fesf, suo genitore, obiettano. Falso. Il “Fondo europeo di stabilità finanziaria” nasce nel maggio del 2010, per far fronte a crisi finanziarie di Paesi dell’area dell’euro, la crisi greca inizia nell’autunno del 2009, quando il primo ministro riconosce che i conti trasmessi dal governo precedente sono falsi. Ciò porta, nell’aprile del 2010, al declassamento dei titoli greci, considerati spazzatura (occhio, quindi, alle valutazioni del rating). Per questo, in fretta e furia, a maggio nasce l’Fesf.
Sono stati commessi molti errori, non tutti innocenti. Il disastro greco è responsabilità dei greci. Hanno tratto un giovamento enorme dall’ingresso nell’euro, con ampio accesso ai mercati, credito a basso costo e protezione esterna, solo che lo hanno usato per aumentare significativamente il tenore di vita (corretto), elargire prebende, pensioni, assunzioni e spesa pubblica fuori controllo (scorretto), nel mentre prosperava l’evasione fiscale (masochista). Per far campagne elettorali ciascuno dei contendenti prometteva sempre di più (vi suona familiare?) e per far quadrare i conti li hanno falsificati. Quando hanno smesso di sbagliare loro hanno cominciato gli altri.
La prima domanda era: può un Paese dell’euroarea trovarsi o essere messo fuori? No, si rispose. Giustamente. La seconda: può, allora, andare in bancarotta? No, si rispose. Giustamente. Ma le due risposte avevano una conseguenza: gli altri si fanno carico del debito, o, almeno, del modo per gestirlo. No, fu la risposta. Disastro. L’area ricca chiamò il Fondo monetario internazionale. Se non ci si fosse impiccati al dogma secondo cui ciascuno deve pagare i propri debiti e mai uno Stato paga quello di altri, principio più che giusto (vale anche dentro gli Stati Uniti d’America), ma che c’è modo e modo per praticare, se, in quel momento, si fosse coperto il debito greco, trovando il modo di scrivere che i greci avrebbero dovuto rifondere, sarebbe costato una frazione di quel che poi costò. Il tutto aggravato dal fatto che istituti bancari europei, prevalentemente tedeschi e francesi, ma anche italiani, avevano prestato soldi alla Grecia. Si volevano tutelare le banche investitrici? Avrebbe avuto un senso, ma rilevi il debito. Se neghi di volerlo fare poi non devi creare un fondo, finanziato con i soldi degli altri contribuenti europei, e fra i soggetti da rifondere ci metti quelle banche. Epperò: il debito greco è stato tagliato due volte. Due volte sono stati alleggeriti dei loro obblighi e due volte i creditori, banche comprese, hanno visto decurtato il loro avere.
Nel momento in cui la Grecia si era trovata a non avere più accesso ai mercati s’è seccata la liquidità, le banche avevano chiuso e chi andava a prelevare soldi al bancomat non ne cavava nulla. La disperazione si toccava con mano e a quel momento si riferiscono immagini drammatiche, come quella di un uomo seduto per terra, in lacrime. Era quello il risultato del salvataggio europeo? No, questo era quello che accadeva prima che lo si mettesse in atto.
I greci non stanno oggi bene come stavano prima del dissesto. Capita, quando trucchi i conti e vai in bancarotta, ma: a. stanno meglio di come stavano prima di entrare nell’euro; b. grazie ai trasferimenti europei la loro gracile economia s’è rimessa in moto. Sono stati salvati, anche a nostre spese.
La cosa curiosa è che lo nega chi dice di stare dalla parte dei greci, ma i greci non lo negano affatto. Con le doppie elezioni del 2012 (la prima volta non si riuscì a formare un governo) diedero quasi il 27% dei voti al partito guidato da Alexis Tsipras, che promette di rinegoziare gli accordi che erano alla base dell’intervento finanziario di soccorso, ma la maggioranza elettorale e parlamentare è con Antonis Samaras, che quegli accordi ha accettato. Alle successive elezioni, nel 2015, Syryza, il partito di Tsipras, prende più del 36% dei voti e (con una coalizione eterogenea) va a governare. Ma cade subito e, quello stesso anno, si rivota. Convocano un referendum, chiedendo agli elettori se approvano o meno le condizioni dei creditori (originale, chiedere ai debitori se plaudono i creditori), e il 61% risponde di no. A quel punto Tsipras, ancora governante, deve scegliere: o respinge condizioni e aiuti o li accetta. Il suo ministro dell’economia e suo compagno di partito, il sinistro Gïanis Varoufakïs, è per il rifiuto, ma Tsipras prende la direzione opposta. La Grecia gli deve molto, per quella scelta. Accettando e, poi, rinegoziando è riuscito ad ottenere un allungamento enorme del debito e un costo assai ridotto. E su questa base governerà fino al 2019, senza che le sollecitazioni dei radicali alle rivolte e agli sfaceli sortiscano alcunché.
Lui stesso interrompe la legislatura, con un anticipo di pochi mesi, e convoca le elezioni, nel 2019. Il suo partito raccoglie quasi il 32% dei voti. Significa che dopo scissioni e allontanamenti dei ministri e dopo avere governato per anni, su una linea che secondo quelli che credono di essere i soli interpreti della volontà dei greci sarebbe da loro condannata con sdegno, ottiene ancora un ottimo risultato. Ma perde, perché a vincere le elezioni è Nuova Democrazia, di Kyriakos Mitsostakis, ovvero un leader e un partito di centro destra, che gli accordi non ha messo in discussione. Quel che risulta misterioso, nella tesi secondo cui i greci sono stati massacrati e non salvati, è perché mai i greci siano di opinione diversa.
La ripartenza è costata vendite e tagli dolorosi, ma forse insegna a non sperperare per ammaliare gli elettori. Questi i fatti.
La Ragione
L'articolo Grecia libera proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
La privacy [non] è per i criminali
L’attenzione dei legislatori di tutto il mondo verso chi usa strumenti per proteggere la privacy di comunicazioni e transazioni si fa sempre più preoccupante, specie per alcuni sviluppi che arrivano dagli Stati Uniti, fino ai Paesi Bassi.
L’ultimo caso è quello di Tornado Cash, un servizio di mixer di cryptovalute che, come le tecnologie di Coinjoin per Bitcoin, aiuta a preservare la privacy delle transazioni su rete Ethereum, implementando la cosiddetta “plausible deniability”, di cui vi ho parlato a marzo con riferimento a Bitcoin.
I siti specializzati di cryptovalute e Bitcoin ne hanno parlato molto in questi giorni.
Per approfondire consiglio gli articoli di Gianluca Grossi sul sito di Criptovaluta.it, che riporta così la notizia: “La foga regolatrice degli USA si è abbattuta su Tornado Cash, innescando degli effetti a cascata che hanno visto entrare in blacklist da parte di USDC tutti o quasi gli indirizzi che hanno interagito con il mixer. […] Il Tesoro USA, una sorta di equivalente del nostro MEF, ha deciso di inserire Tornado Cash nella lista di servizi in blacklist. Una lista nera di quanto viene utilizzato, secondo il Tesoro USA, da terroristi di grande rilievo e anche piccole canaglie del mondo criminale”.
Poco dopo il blocco da parte del Tesoro USA, è arrivata un’altra notizia - anche più preoccupante: l’arresto di uno sviluppatore del team di Tornado Cash. Sempre Criptovaluta.it riporta così la notizia: “Mercoledì 10 agosto FIOD [gli agenti che si occupano di reati “finanziari” nei Paesi Bassi, NDR] ha arrestato un 29enne ad Amsterdam. È sospettato di essere coinvolto nell’offuscamento di flussi di denaro criminali e di aver facilitato il riciclaggio di denaro con il mixing di criptovalute attraverso Tornado Cash, servizio di mixing per Ethereum”.
Non è ancora chiaro quali siano davvero le motivazioni dell’arresto, ma salvo che la persona non abbia davvero partecipato ad attività di riciclaggio, la notizia si porta dietro una serie di implicazioni che in verità sembrano niente più che il risultato dell’escalation sociale e politica degli ultimi anni contro strumenti per proteggere la privacy.
Libertà, codice e Cypherpunks
Ayn Rand diceva che il pensiero non seguito dall’azione è un’attività fraudolenta.
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Tassare le promesse
L'articolo Tassare le promesse proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Brasile: come i politici populisti usano la religione per vincere
Le elezioni presidenziali in Brasile di questo autunno offrono un assaggio di come i leader populisti del 21° secolo stiano usando la religione per entusiasmare la loro base elettorale
L'articolo Brasile: come i politici populisti usano la religione per vincere proviene da L'Indro.
Come guiderà l’Italia l’estrema destra?
Il 25 settembre, gli italiani si recheranno alle urne per votare in un’elezione parlamentare anticipata innescata dal crollo della fragile coalizione di governo del premier Mario Draghi a fine luglio. L’instabilità politica e i governi di breve durata non sono una novità in Italia, che ne ha avuti 18 negli ultimi 34 anni. Ora, però, [...]
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L’aumento dei tassi di interesse USA colpisce i Paesi in via di sviluppo
Il recente rapporto del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale dipinge un futuro economico cupo. Ha declassato le previsioni di crescita globale dal 6,1% nel 2021 al 3,2% nel 2022. Mentre l’economia globale si sta ancora riprendendo dalla pandemia di COVID-19, le banche centrali delle economie avanzate stanno aumentando i tassi di interesse, un [...]
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La verità non detta sulle relazioni Russia – Kazakistan e sulla politica kazaka
La Russia potrebbe aver perso la maggior parte, o quasi, della sua precedente posizione preminente nel plasmare la percezione del mondo esterno degli altri Paesi della CSI e di tutti gli eventi e i processi che si verificano in essi. Eppure una tale supposizione, vera o no, non è rilevante per il Kazakistan. Le informazioni [...]
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Armenia: la geografia come kryptonite geopolitica
L’Armenia è un Paese che si sta ancora riprendendo dalla disastrosa guerra del Nagorno-Karabakh del 2020, un conflitto che ne ha illustrato la precaria posizione geopolitica. Incastrato tra le due nazioni ostili della Turchia e dell’Azerbaigian, Yerevan non ha avuto altra scelta che affidarsi alla protezione e al vassallaggio della Russia. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, [...]
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BRASILE. Ricardo Rao: “In Amazzonia la sovranità appartiene al crimine”
di Glória Paiva*
Pagine Esteri, 19 agosto 2022 – Tra i 400 abitanti di Spin Time Labs, il palazzo occupato in via di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, c’è un brasiliano di 51 anni. Stanco e appena ripresosi da un infarto. Ricardo Rao, che ha anche la nazionalità italiana, è stato accolto nello stabile tra gli abitanti autorganizzati, appartenenti a diciotto diverse nazionalità, in attesa che la sua compagna e il figlio di quattro anni possano lasciare il Brasile per raggiungerlo in Italia. La vita a Roma, per Ricardo, è quell’attesa ansiosa in una città così diversa dai villaggi indigeni vicino a Imperatriz, nel Maranhão, che sono stati la sua casa per dieci anni. Avvocato ed ex agente della Funai (l’agenzia brasiliana che si occupa dei popoli indigeni), Ricardo è scappato dal Brasile nel 2019 e ha cercato asilo politico a Oslo dopo essersi sentito perseguitato e aver ricevuto minacce per il suo lavoro, in una situazione molto simile a quella di Bruno Pereira, collega di Ricardo, ucciso lo scorso mese di giugno insieme al giornalista britannico Dom Phillips dai pescatori illegali ad Atalaia do Norte, stato dell’Amazonas.
Nella Funai, Rao svolgeva servizi di assistenza sociale alle comunità indigene, nonché il controllo e la protezione delle loro terre, come Pereira. Due anni dopo l’arrivo in Norvegia, Rao si trasferì a Roma, dove fu accolto dalle reti di movimenti popolari e di opposizione a Jair Bolsonaro. Ora si dedica alla scrittura, alla ricerca di lavoro e, insieme ad altri giuristi brasiliani, sta lavorando a una causa che mira a ritenere Bolsonaro responsabile della morte di cittadini italiani in Brasile durante la pandemia di Covid-19.
Secondo Rao, dall’ascesa di Bolsonaro, le vite degli agenti della Funai e dei guardiani forestali indigeni sono diventate insostenibili. Il motivo della sua fuga è stata la morte del suo compagno di lavoro Paulo Guajajara, un capo indigeno e guardiano della foresta. Guajajara è stato ucciso a colpi di pistola a novembre del 2019, pochi giorni dopo aver scoperto una vasta area di piantagioni di marijuana nella terra indigena Arariboia, presumibilmente legata a un ufficiale di polizia militare di Rio de Janeiro, sebbene le indagini di polizia abbiano collegato la sua morte a un “conflitto tra indigeni e non-indigeni”. “Ho lasciato il Brasile perché sapevo che sarei stato il prossimo”, ha detto Rao. Tre giorni prima di imbarcarsi per Oslo, Ricardo ha consegnato un ampio documento alla Camera dei Deputati del Brasile, in cui ha evidenziato i legami tra agenti della polizia civile e militare e la criminalità organizzata del traffico del legno, del narcotraffico e degli omicidi delle popolazioni indigene nel Maranhão. Le sue denunce, tuttavia, non sono mai sfociate in indagini.
Il nome e l’immagine di Rao sono diventati noti in tutto il mondo a luglio, dopo la trasmissione di un video registrato alla 15a Assemblea Generale della FILAC, il Fondo per lo Sviluppo dei Popoli Indigeni dell’America Latina e dei Caraibi, a Madrid. Nella registrazione, Marcelo Xavier, presidente del Funai, lascia l’incontro dopo che Ricardo lo affronta, urlando, accusandolo di essere responsabile del genocidio delle popolazioni indigene del Brasile e della morte di Bruno Pereira e Dom Phillips. Dopo la pubblicazione del video, la compagna e il figlio di Rao hanno iniziato a subire minacce. Rao ha parlato con Pagine Esteri.
Come hai iniziato a lavorare come agente di tutela della popolazione indigena?
Mia madre lavora come infermiera della Funai dal 1982. Vivevo con lei in un villaggio sulla costa nord di San Paolo e lì ho visto le difficoltà delle comunità indigene. Nel 2010 ero avvocato, insegnavo e lavoravo presso IBGE (l’istituto brasiliano di statistica). Mia madre, un giorno, mi ha detto di partecipare a un concorso pubblico della Funai. Ho vinto e sono andato a Brasilia per fare la preparazione per diventare indigenista. È lì che ho conosciuto Bruno Pereira. Ho lavorato nel Mato Grosso do Sul, dove ho conosciuto il genocidio dei Guarani-kaiowa, il gruppo etnico più oppresso di tutti. Hanno perso la loro terra negli anni ’40 e ancora oggi ci sono conflitti con gli eredi dei coloni. Nel 2015 mi sono trasferito a Barra do Corda, nel Maranhão, dove c’era anche una situazione molto conflittuale.
Che tipo di conflitti hai dovuto affrontare?
In qualità di coordinatore tecnico locale, dovevo svolgere l’ispezione e la protezione del territorio. C’era il problema dei taglialegna illegali, un fenomeno molto grave nel Maranhão, insieme ai bracconieri. Gli organizzatori di queste attività non erano mai presenti e ci si imbatteva sempre nella manovalanza, fatta di operai, contadini, in sostanza di poveri. Quindi, non li arrestavamo: il nostro obiettivo era distruggere la struttura con cui lavoravano, veicoli, camion, trattori, traghetti, nelle aree di estrazione illegale di oro. Era un’attività rischiosa, la nostra. Durante questo lavoro siamo stati spesso colpiti da squadre di cecchini nascosti nei boschi. Mi hanno sparato molte volte, mai colpito.
Quando sono iniziate le minacce nei tuoi confronti?
Quando la Polizia Militare ha iniziato a ricevere tangenti dai taglialegna illegali per impedire il nostro lavoro, nel 2019. Prendiamo il caso di Bruno: per 10 anni ha bruciato trattori, affondato traghetti che costavano milioni di reais. Per molti anni abbiamo svolto questo servizio, ma non ci hanno mai toccato, perché sapevano che uccidere un funzionario del governo avrebbe avuto serie conseguenze. Ma dall’ascesa del governo Bolsonaro, soprattutto dopo Marcelo Xavier alla Funai, è diventato tollerabile minacciare gli indigenisti. Per prima cosa hanno ucciso Maxciel Pereira da Silva, che ha lavorato con Bruno nello stato di Amazonas. Poi hanno ucciso Paulo Guajajara. Quindi sapevo che sarei stato il prossimo.
E anche tu ti sei sentito minacciato.
Giorni prima della morte di Paulo, un investigatore della polizia di Imperatriz, noto come “Carioca”, mi ha puntato una pistola alla testa e ha detto: “Chi vuole proteggere gli indios qui, non durerà”. A quel tempo, l’Abin (Agenzia brasiliana di intelligence) è apparsa alla Funai di Imperatriz. Il giorno dopo hanno aperto un procedimento amministrativo contro di me. Allora ho visto che dovevo fare i conti non solo con i criminali, ma anche con buona parte dello Stato. Un comandante della polizia militare è persino entrato nel mio ufficio al fine di trovare la motocicletta che avevo sequestrato a un taglialegna illegale. Il governatore Flávio Dino lo sapeva, ma non ha fatto nulla. Tutti sono intimiditi. Paulo Guajajara è stato ucciso il 1 novembre 2019. Il 28 ero a Oslo.
Che rapporto avevi con Bruno Pereira?
Ho conosciuto Bruno durante la formazione per diventare indigenista, nel 2009. È stato lui ad avvertirmi che stava iniziando una caccia agli indigenisti, dieci anni dopo. Bruno era in cima alla lista degli agenti più compromessi che potevano essere oggetto di persecuzione ed il mio nome veniva subito dopo. Sapeva che molti processi amministrativi avrebbero portato al licenziamento. Quindi ha preso un congedo di due anni ed è stato ucciso mentre era in congedo. L’ho chiesto anch’io, ma mi è stato rifiutato. Quando è scomparso, ho capito subito che era stato ucciso.
Lei ha già affermato di non credere alle versioni ufficiali delle indagini sulla morte di Bruno.
La mia teoria è che Bruno sia stato ucciso perché aveva consegnato un documento proprio come il mio poco prima di morire, un documento molto importante sulla criminalità organizzata in Amazzonia. Come ha fatto a non rendersi conto che le istituzioni sono tutte infiltrate? C’è addirittura un procuratore della repubblica che fa parte delle milizie! E Bruno ha consegnato nelle loro mani il suo resoconto.
In che modo il governo Bolsonaro è connivente con la persecuzione a gli indigenisti?
Una volta ho incenerito un camion del più grande taglialegna illegale di Amarante (Maranhão), Lauro Coelho. Il suo camion era pieno di adesivi “Bolsonaro Presidente”. Ha comprato tanti voti per Bolsonaro in regione. La situazione del Funai oggi è paralizzata. Non ci sono più soldi per riparare le auto, per il carburante, non ci sono più ispezioni. Oggi, la Funai è un ufficio del registro, che timbra i documenti per gli indios. La sistematica persecuzione ai difensori dell’Amazzonia, già esistente, è peggiorata. A mio avviso, bisogna parlare di internazionalizzazione dell’Amazzonia. Non c’è mai stata una sovranità effettiva dello stato brasiliano su quel territorio, la sovranità appartiene al crimine. Se lo Stato brasiliano non è in grado di proteggere questa risorsa naturale di importanza universale, sono favorevole alla sua internazionalizzazione. Gli indigeni devono stare al sicuro. Persone come Bruno e Dorothy Stang, altra attivista statunitense assassinata in Amazzonia nel 2005, dovrebbero essere vive. Pagine Esteri
* Glória Paiva è una giornalista, scrittrice e traduttrice brasiliana
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Chi sta minando la pace nel Caucaso meridionale?
Sia l’Azerbaigian che l’Armenia conoscono gli orrori della guerra in prima persona, non per sentito dire. La guerra del Karabakh di 44 giorni ha riportato alla memoria ricordi dolorosi degli anni ’90 associati alla prima guerra del Karabakh e alle sue devastanti conseguenze. È stato un vero peccato che l’Azerbaigian abbia dovuto utilizzare mezzi militari [...]
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Asini votanti
Sarà bene intendersi, sulla questione del debito pubblico. Tanto più che da quello dipende tanta parte non solo della nostra sorte economica, ma anche direttamente della nostra sovranità e dignità. E bisogna intendersi su un punto: inutile richiamare, di tanto in tanto, i dati resi noti dalla Banca d’Italia, lanciandoli con strilli che avvertono essere stato infranto un nuovo record (negativo). È inutile perché, in valore assoluto, il debito pubblico avrà stabilito un nuovo record prima che io riesca ad andare a capo. Entro la fine di questo articolo, che sia io a scriverlo o voi a leggerlo, il record sarà stato stracciato numerose volte. Ogni secondo che passa. Basterà vi connettiate a un contatore on line del debito per assistere alla polverizzazione continua dei record. Il problema non è (solo e tanto) il valore assoluto, ma manca del tutto la consapevolezza del nesso fra quel debito e la sicurezza del proprio patrimonio privato.
Se non fossimo inanellatori di record debitori sarebbe meglio, ma quel che conta è il rapporto fra il debito e la ricchezza che si genera, il prodotto interno lordo. Avere un debito di 100mila euro significa poco: se ne guadagno 20mila l’anno ho un problema, se ne guadagno 1 milione chi se ne importa. Nei conti del governo italiano, che si riflettono in quelli di chi osserva i nostri bilanci, il peso percentuale del debito è già sceso e continuerà a scendere. Lentamente, da un livello troppo alto, d’accordo, ma fin quando la ricchezza prodotta cresce più velocemente del debito i problemi si affrontano e risolvono senza traumi. Qualche dubbio, però, è lecito. Specie a sentire le cose della campagna elettorale: non promettono anche il salame perché, oramai, pare troppo poco, siamo a un passo dal caviale di cittadinanza. Vabbè, è fisiologico, capita sempre, lo si fa per acchiappare qualche consenso. Ecco, questo è il punto: se fosse chiaro di che stiamo parlando i consensi si perderebbero. E in fretta.
Dunque: l’ultimo record ufficializzato segna un debito a 2.766 miliardi, era di 2.530 a giugno del 2020 e 2.696 in quello 2021. Ora che leggete è già più alto. Grazie alla Banca centrale europea ci costa meno di quel che potrebbe, ma comunque più di quel che costa ad altri. Quindi c’indeboliamo ogni ora che passa. E se i tassi crescono, come cresceranno, saranno guai. Dall’altra parte il patrimonio privato degli italiani supera i 10mila miliardi. Più del triplo del debito. Tranquillizza? Inquieta, perché il debito è dello Stato, mentre la casa e i risparmi sono miei. Ma se, grazie agli argini europei, riceviamo finanziamenti e protezioni, il cui costo ricade su tutti gli europei, ove non si riduca ma accresca il debito, prima o dopo qualcuno osserverà che il patrimonio degli italiani è superiore a quello di altri europei anche perché lo hanno finanziato con il debito pubblico, spendendo senza produrre ricchezza, pagando stipendi senza chiedere prestazioni, elargendo pensioni e via così dilapidando. Sicché al patrimonio si guarderà con relazione al debito.
Il patrimonio medio è al Nord-Ovest il doppio che al Sud, ma è comunque attivo. Le passività sono basse e distribuite come il patrimonio. Un mondo di benestanti viene elettoralmente corteggiato come fossimo straccioni mendicanti. Ma una parte consistente del patrimonio è in attività finanziarie, che l’inflazione erode. Vi piacciono i bonus 110 e chi li promette? Producono inflazione ed erodono i risparmi. Vi piacciono le promesse di pagare meno tasse e avere più pensioni? Lo sbilancio potrà essere compensato con il patrimonio. Credete a chi vi dice che non sarà mai messa una patrimoniale? Peccato esistano di già e supporre che altri garantiscano in eterno i nostri sbilanci è più ardito che credere agli asini volanti. Ecco, appunto, si cerchi di non supporsi così furbi da poi essere asini votanti.
La Ragione
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Sud America, Operazione Condor: la lotta continua
Tra il 1976 e il 1978, una campagna extragiudiziale di repressione violenta è stata condotta dalle dittature sudamericane contro dissidenti politici ed esiliati che si sono espressi contro la repressione interna e il governo militare. Operazione Condor, come era nota questa campagna, da allora ha ispirato numerosi romanzi, opere teatrali e mostre, per non parlare [...]
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Ucraina: la guerra russa sta costringendo l’opposizione bielorussa a ripensare la strategia
Più di quattrocento rappresentanti dell’opposizione bielorussa si sono riuniti a Vilnius l’8 e il 9 agosto per un evento che ha evidenziato uno stato d’animo di crescente militanza mentre il movimento risponde alle nuove realtà create dall’invasione russa in corso nella vicina Ucraina. La conferenza nella capitale lituana è stata programmata per celebrare il secondo [...]
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Sogni e morte sul “fiume d’oro” che scorre nelle viscere dell’Africa
Di Valeria Cagnazzo*
Pagine Esteri, 19 agosto 2022 – Sono state 18 le vittime del crollo di una miniera d’oro in Niger a inizio novembre, nella regione di Maradi, a sud del Paese e a pochi km dal confine con la Nigeria. E’ solo uno degli incidenti gravi che da alcuni anni, sempre con maggiore frequenza, stanno costando la vita a decine di minatori nel territorio saheliano. Tragedie abituali, secondo le autorità locali, a causa dell’instabilità del terreno e dei “metodi obsoleti” utilizzati per estrarre l’oro in questi territori. Le miniere di Maradi, che attirano migliaia di minatori da quando sono state scoperte a inizio 2021, rappresentano del resto solo uno dei tanti giacimenti che punteggiano una vastissima linea di ricchezza sotterranea nota come “il fiume d’oro”. Dal Sudan, come un nervo il percorso delle riserve di questo minerale si spinge nel terreno arido verso est e percorre il Ciad, il Niger, il Burkina Faso, fino al Mali e alla Mauritania: la nuova corsa all’oro che è iniziata da meno di un decennio lungo quest’insperato fiume ha aperto la strada a tecniche di estrazione “artigianali”, che causano costanti rischi per la manodopera impiegata negli scavi ma anche nuove forme di instabilità politica per gli Stati coinvolti.
Il primo giacimento del “fiume d’oro” fu scoperto nel 2012 in Sudan nella zona di Jabel Amir. Seguì il rinvenimento di risorse in Ciad, nel Tibesti, un anno dopo, e nel 2014 in Niger, non lontano da Agadez, e ancora nel nord del Mali e della Mauritania nel 2016. In poco tempo, le economie dei territori sahara-saheliani, che già nei secoli scorsi avevano attirato i colonizzatori per le ricchezze del loro sottosuolo, hanno ricominciato a ruotare intorno a questo minerale: Sudan, Mali e Burkina Faso rientrano oggi tra i primi cinque produttori d’oro nel continente africano. Le tonnellate di minerale estratte nei Paesi lungo questo fiume hanno rimpiazzato in questi anni il cotone nel mercato delle esportazioni.
Il boom dell’oro, tuttavia, ha attirato soprattutto le mire di gruppi parastatali. Almeno un terzo dell’oro della zona saheliana, infatti, è estratto in maniera “artigianale” e “informale”, ovvero da gruppi non statali, rappresentati da privati o da organizzazioni illegali, spesso armate, che controllano le miniere, i lavoratori che scavano nelle viscere del terreno e spesso anche le intere aree abitate intorno alle riserve. Secondo un rapporto dell’International Crisis Group (ICG) del novembre 2019, l’oro ricavato in maniera “artigianale” oscillerebbe tra le 20 e le 50 tonnellate ogni anno in Mali, tra le 10 e le 30 tonnellate in Burkina Faso e intorno alle 15 tonnellate in Niger: un mercato del valore compreso tra 1,9 e 4,5 miliardi di dollari annui.
Una risorsa così ricca rappresenta nei Paesi del Sahel una fonte di impiego di importanza vitale. Dopo la crisi economica mondiale del 2008, per una popolazione quasi interamente dedita all’agricoltura e all’allevamento e pesantemente minacciata dall’avanzata del deserto e dalle drastiche conseguenze del cambiamento climatico, la scoperta del “fiume d’oro” è stato qualcosa di miracoloso. I numeri dei lavoratori impiegati nell’estrazione “artigianale” stilati dall’ICG parlano chiaro: si stimano un milione di minatori in Burkina Faso, 700.000 in Mali, 300.000 in Niger, ma vista l’assenza di un censimento della manodopera, prevalentemente impiegata “in nero”, i numeri potrebbero essere fino a tre volte più alti. Una risorsa di reddito che le famiglie residenti lungo questo nervo minerario difendono a costo di scontrarsi anche con le autorità statali. Ma a che prezzo?
La cronaca rivela, innanzitutto, il rischio che scavare in queste miniere rappresenta per i lavoratori. Gli aggettivi “artigianale” e “informale” non devono necessariamente far pensare a qualcosa di “primitivo”, come spiega in una chiara analisi sul tema Luca Raineri, ricercatore presso la Scuola Sant’Anna di Pisa ed esperto in materia di sicurezza in Africa. Nonostante la gestione spesso illegale e la corsa all’oro di gruppi parastatali che spesso si impossessano dei pozzi secondo la legge del “Chi prima arriva, meglio alloggia”, nelle miniere saheliane non si scava certo a mani nude, o almeno non sempre. Grazie alla loro crescente ricchezza, i proprietari delle miniere hanno potuto in molti casi perfezionare le estrazioni con tecniche sempre più moderne. Resta, però, il fatto che ai minatori impiegati in queste imprese artigianali e ufficiose non siano garantite le minime tutele sul lavoro, né i più elementari diritti umani. I crolli delle miniere nelle quali i lavoratori si ritrovano intrappolati e in cui spesso vengono seppelliti vivi sono all’ordine del giorno: l’incidente del 7 novembre in Niger ricorda quello di inizio settembre in Burkina Faso, in cui i corpi di almeno sei “cercatori d’oro illegali”, così li definì la polizia locale, furono trovati sottoterra, deceduti probabilmente per asfissia.
La gestione delle miniere d’oro da parte di attori non statali, inoltre, può avere un potere distruttivo sui governi dei Paesi coinvolti o, in altri casi, rafforzarne i regimi. In pieno stile neoliberista, infatti, in molte zone del Sahel le estrazioni sono affidate a imprese private legate al governo: in cambio di una completa autonomia, i proprietari dei giacimenti garantiscono un prezioso supporto all’élite della capitale e la sicurezza della regione mediante un proprio corpo armato. In altre aree, al contrario, in cui delle riserve d’oro si sono appropriati gruppi di opposizione, l’estrazione “artigianale” assume un potenziale deflagrante nei confronti dei fragili equilibri politici regionali. La completa deregolamentazione della corsa all’oro, soprattutto laddove lo Stato è assente, comporta la crescita del banditismo. I gruppi terroristici si moltiplicano anche grazie a questa risorsa e il fiume dell’oro diventa lo scenario di scontri armati per il controllo del sottosuolo. Emblematico è il caso del Burkina Faso, dove, dopo la caduta di Compaoré (Presidente del Burkina Faso fino al 2014), i minatori hanno identificato sempre più spesso nei gruppi jihadisti i garanti dei loro posti di lavoro e della loro sicurezza.
Il crollo di una miniera aurifera è solo la punta dell’iceberg del terremoto politico che il fiume d’oro del deserto, scorrendo nei suoi tunnel sotterranei, sta provocando nel Sahel. Ancora una volta, nella Storia, i Paesi africani in gioco si ritrovano a fare i conti con la pericolosa ricchezza del loro sottosuolo. Ancora una volta, mentre i regimi e i gruppi terroristici allungano le mani, a pagare sono sempre i fili d’erba. Pagine Estere
FONTI
mining-technology.com/news/gol…
reuters.com/world/africa/least…
africanews.com/2021/09/03/burk…
iai.it/sites/default/files/rai…
crisisgroup.org/fr/africa/sahe…
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.
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La guerra in Ucraina spinge gli Stati baltici a rimuovere i memoriali sovietici
L’Estonia rimuoverà tutti i suoi monumenti di guerra dell’era sovietica, l’ultimo di una serie di Paesi dell’Europa orientale a percorrere questa strada. Secondo quanto riferito, ci sono da 200 a 400 memoriali o monumenti di epoca sovietica ancora in piedi in tutta l’Estonia. Il primo ministro, Kaja Kallas, ha affermato che ora questi saranno trasferiti [...]
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Sud Caucaso: cosa fa l’Unione Europea?
L’Unione Europea è apparsa sulla scena del Caucaso meridionale all’inizio degli anni ’90. L’UE lanciò il programma TACIS (Technical Assistance to the Commonwealth of Independent States (CIS)) nel 1991 per sostenere il processo di riforma economica e sviluppo nei Paesi della CSI e per sostenere la loro integrazione nell’economia mondiale. In questo contesto, nell’ambito del [...]
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Presidenzialismo a destra e sinistra
Il presidenzialismo fu di sinistra. All’Assemblea costituente lo chiedeva il Partito d’Azione, con Piero Calamandrei. Fra gli argomenti che usarono c’era la necessità di rendere forte e stabile il governo. Lo chiesero da antifascisti, ricordando che ad aprire la strada alla dittatura aveva concorso la debolezza del governo Facta. Fu poi un antifascista e capo partigiano, Randolfo Pacciardi, a sostenere la necessità di riformare la Costituzione, introducendo il presidenzialismo. Gli diedero del fascista. Nel frattempo era successo che al semipresidenzialismo era approdata la Francia, sotto la guida di Charles De Gaulle, avversato dalla sinistra. Sicché il presidenzialismo era vissuto come di destra. Dovettero passare degli anni perché François Mitterrand incarnasse il presidenzialismo in salsa socialista.
La grande differenza, fra i presidenzialisti di allora e quelli di oggi, è che allora sapevano di cosa parlavano. Oggi si brancola nel buio, prendendo cantonate. Nel programma del centro destra la faccenda è liquidata al primo punto del capitolo istituzionale: «Elezione diretta del Presidente della Repubblica». Fine. Che non significa nulla. (Fra parentesi: al secondo punto si reclama l’applicazione degli articoli 116 e 119 della Costituzione, sul regionalismo, così come, pessimamente, modificati dalla sinistra, nel 2001, e senza il loro consenso).
Non c’è nulla di autoritario in sé, nella Repubblica presidenziale. I sistemi democratici si basano su pesi e contrappesi e sulla condotta di chi li abita, talché in Nord e Sud America hanno effetti opposti. È falso dire che con l’elezione diretta i governi restano in carica per la legislatura e che in quel lasso di tempo le maggioranze non cambiano. Chi vuole averne conferma può studiare un po’ di storia e cronaca francesi o indagare le elezioni di medio termine negli Usa. Il guaio del presidenzialismo populista è che suppone “governare” e “comandare” siano sinonimi, così dimostrando non solo pochezza istituzionale, ma culturale in senso vasto.
Suppongo nessuno di loro voglia un sistema austriaco (che è Stato federale), con elezione diretta di un presidente che ha quasi meno prerogative di quello italiano. Chi lo volesse all’americana, quindi eletto e governante, sarà bene approfondisca la natura degli Stati federali. Potrebbe essere una buona idea per l’Unione europea, di sicuro non per l’Italia. In Francia non solo il presidente non è il capo del governo, ma i governi possono cambiare e il presidente stesso perdere la maggioranza. Quando ci avranno fatto sapere, assieme, di che diamine stanno parlando sarà facile dimostrare la frana della baracca retorica con cui accompagnano la non proposta. Del resto, come Silvio Berlusconi ha ricordato: ne parlano dal 1995, hanno vinto le elezioni e non l’hanno fatto, né hanno messo a fuoco l’idea.
Meloni e Salvini, dopo la pubblicazione del programma, hanno manifestato la preferenza per il sistema francese.Quello in cui le estreme non vincono, il che è singolare. Meloni, per prendere in castagna il Pd, ha ricordato che quello era lo schema della commissione bicamerale D’Alema. Ha ragione, magari farebbe bene a ricordare anche che furono loro, il centro destra, a fare saltare tutto.
Una riforma seria richiederebbe una riscrittura costituzionale profonda. Per funzionare e non inquietare richiederebbe un coinvolgimento di altre componenti parlamentari, in una sede sostanzialmente costituente. Pare la destra sia favorevole, ma devono proporla ora (c’era un disegno di legge predisposto dalla Fondazione Luigi Einaudi), non supporla.
Dall’altra parte, finché la sinistra continuerà a usare le proposte della destra, pur generiche e nebbiose, per dire che sono pericolose e che si opporranno, otterrà il risultato di andare in minoranza per potere fare opposizione, consegnando la gramsciana egemonia alla destra. Non un gran risultato. Fuori le idee, se ci sono. Sia sul metodo che sul merito. Qui le abbiamo più volte indicate e il tempo di convergere è ora.
La Ragione
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Le sanzioni alla Russia stanno stimolando una nuova Via della Seta
Le iniziative per rafforzare l'Asia centrale come nodo critico nei corridoi di trasporto est-ovest e nord
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All’ombra di Taiwan, le Filippine affrontano scelte esistenziali
Il governo Marcos non deve scegliere tra Usa o Cina, nelle tensioni su Taiwan. Si trova di fronte a una scelta tra potenziamento militare o sviluppo economico, in mezzo a prospettive economiche globali in calo. Durante il suo recente incontro con il Presidente Marcos Jr., il segretario di Stato Antony Blinken ha affermato che l'”alleanza” [...]
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Guadagnare soldi dalla guerra… basta!
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2021 il mondo ha speso 2.113 trilioni di dollari in armamenti. Di questa somma di denaro quasi incomprensibile, gli Stati Uniti hanno speso quasi la metà del totale, 801 miliardi di dollari. Forse una delle ragioni della spesa sproporzionatamente elevata per le armi degli Stati Uniti [...]
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Siria: la nuova offensiva di Erdogan
Il Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan ha annunciato che sta pianificando una nuova offensiva militare nel nord della Siria diretta contro i curdi. Se un leader autoritario può sfidare l’opinione mondiale, invadere il territorio di uno Stato sovrano e incorrere solo in piccole conseguenze, perché non un altro? Questo potrebbe essere stato il ragionamento [...]
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L’assassinio di Al-Zawahiri potrebbe non essere stata una buona idea
È probabile che il recente assassinio di Ayman Al-Zawahiri di Al-Qaeda crei una serie di effetti ramificati. Al-Zawahiri è stato assassinato da due missili Hellfire R9-X di un drone MQ9 Reaper, che aveva sorvolato o era originario di un Paese terzo, nel cuore di Kabul, da cui gli Stati Uniti hanno evacuato nell’agosto dello scorso [...]
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Esercito israeliano fa irruzione e chiude le 6 ong palestinesi che accusa di “terrorismo”
AGGIORNAMENTO 18 AGOSTO 2022
L’esercito israeliano ha fatto irruzione negli uffici delle 6 ong palestinesi per i diritti umani – tra cui Al Haq, Addameer e Bisan – che aveva dichiarato illegali ad ottobre per presunti “legami con il terrorismo”. I soldati hanno lasciato un ordine militare che dichiara le ong illegali e chiuse, sigillando le porte dei loro uffici in Cisgiordania. Qualche giorno fa il ministro della difesa israeliano Gantz aveva ratificato in via definitiva il suo provvedimento sulle ong nonostante le critiche registrate a livello internazionale.
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PER APPROFONDIRE IL TEMA VI INVITIAMO A LEGGERE L’ARTICOLO CHE PAGINE ESTERI PUBBLICO’ LO SCORSO OTTOBRE DOPO LA DECISIONE PRESA DAL MINISTRO DELLA DIFESA ISRAELIANO.
della redazione
Pagine Esteri, 23 ottobre 2021 – Attacco frontale alle ong palestinesi per la tutela dei diritti umani, alcune delle quali operano da decenni e godono di ampio riconoscimento internazionale. Ieri il ministro della difesa israeliano, Benny Gantz, ha proclamato ufficialmente sei di queste ong “organizzazioni terroristiche” poiché, a suo dire, sono espressione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – un partito di sinistra, di orientamento marxista, presente con tre deputati nel Consiglio legislativo palestinese – che Israele considera un gruppo terroristico.
Spiccano i nomi di Addameer, che assiste i prigionieri politici palestinesi, e di Al-Haq, un’organizzazione che lavora da decenni con le Nazioni Unite. Nell’elenco sono incluse anche Defense for Children International-Palestine, Union of Agricultural Workers, Bisan Center for Research and Development, Union of Palestinian Women Committees. Nei mesi scorsi con la stessa motivazione era stata ugualmente descritta come una “organizzazione terroristica” anche l’associazione Samidoun che diffonde informazioni sui detenuti politici.
La dichiarazione di Gantz è volta a mettere al bando queste ong palestinesi e autorizza l’esercito a chiudere i loro uffici, a sequestrare i loro beni e ad arrestare e incarcerare il loro personale. Infine, vieta il finanziamento alle loro attività. Quest’ultimo aspetto ha una particolare importanza per i rapporti internazionali di queste ong palestinesi. Con ogni probabilità il passo del ministro israeliano spingerà varie istituzioni e ong internazionali, in particolare quelle occidentali, a cessare qualsiasi sostegno ad Addameer, al Haq e alle altre ong colpite dal provvedimento. “È un attacco sfacciato, una pericolosa escalation che minaccia di paralizzare completamente il lavoro della società civile palestinese nell’opporsi all’abuso dei diritti umani”, ha commentato Omar Shakir, responsabile di Israele e Palestina per Human Rights Watch. Anche Amnesty International ha protestato con forza e condannato la decisione di Gantz.
Addameer fornisce assistenza gratuita e consulenza legale ai prigionieri palestinesi, centinaia dei quali sono detenuti nelle carceri israeliane senza processo e senza accuse formali. Documenta anche altre violazioni e mette in evidenza i maltrattamenti dei minori palestinesi. Al-Haq, ong storica della società civile palestinese, ricerca e documenta violazioni del diritto internazionale umanitario nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Il gruppo afferma di documentare le violazioni “indipendentemente dall’identità dell’autore”.
La dichiarazione di Gantz è stata denunciata anche dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem. “E’ una mossa che caratterizza i regimi totalitari” – ha scritto B’Tselem in un comunicato – “Ma la guerra non è pace, l’ignoranza non è potere e l’attuale governo (israeliano) non è un governo di cambiamento bensì un governo di continuazione del violento regime di apartheid che è in vigore da molti anni tra il mare e il fiume Giordano. B’Tselem è solidale con i nostri colleghi palestinesi, orgoglioso del nostro lavoro congiunto con loro nel corso degli anni e continuerà a farlo”.
Una reazione è giunta anche Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che, ha dichiarato, richiederà maggiori informazioni sulla designazione di “organizzazione terroristica” per le ong palestinesi decise dal ministro Gantz. “Il governo israeliano non ci ha avvertito in anticipo”, ha precisato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “Crediamo che il rispetto dei diritti umani, le libertà fondamentali e una società civile forte siano di fondamentale importanza per una governance responsabile e reattiva”, ha aggiunto. Parole che possono essere interpretate come un raro rimprovero statunitense al governo israeliano. Pagine Esteri
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Pugno di ferro di Israele e crollo dell’Anp di Abu Mazen. La Cisgiordania in fiamme
di Michele Giorgio –
(nella foto da twitter Ibrahim Nabulsi)
Pagine Esteri, 12 agosto 2022 – Martedì, mentre nella notte una calma carica di tensione regnava lungo le linee tra Israele e Gaza, l’esercito israeliano di fatto trasformava Ibrahim Nabulsi, 26 anni, in un eroe nazionale palestinese. Quando le unità scelte dell’esercito hanno circondato il suo rifugio nella casbah di Nablus, in Cisgiordania, il giovane palestinese, ricercato da Israele, ha scelto di non arrendersi. Ha resistito, risposto al fuoco, poi ha compreso che per lui era finita. Prima di essere ucciso, è riuscito a registrare un messaggio vocale su WhatsApp e l’ha inviato alla madre, per salutarla e per spiegare la sua decisione di morire da martire e di non arrendersi. L’audio ha girato girava su tutta la rete. Quindi ha esortato i suoi compagni di lotta a resistere all’occupazione. Pochi secondi dopo i militari israeliani hanno lanciato un razzo contro l’edificio in cui si era barricato. L’esplosione ha ucciso tutti quelli che erano all’interno. Oltre a Nabulsi, sono morti altri due palestinesi, Islam Sabbouh, e un adolescente di 17 anni. Intanto sale il bilancio dei palestinesi uccisi nei giorni scorsi dai bombardamenti a Gaza è salito a 49.
Nabulsi, considerato dagli israeliani un «pericoloso terrorista», in poche ore è diventato una figura leggendaria. Sui social e i giornali palestinesi hanno ricordato le tante volte in cui era sfuggito alla cattura da parte dell’intelligence israeliana – l’ultima due settimane fa – usando rifugi diversi e gallerie sotterranee. Proprio come fece il leader palestinese Yasser Arafat nel 1967 nelle settimane successive all’occupazione israeliana della Cisgiordania prima di rifugiarsi in Giordania. E quasi trent’anni dopo un’altra primula rossa, Ahmad Tabouk, noto come il «Robin Hood» della casbah di Nablus, ricercato dagli israeliani e anche dai servizi palestinesi. Tabouk da un lato combatteva l’occupazione e dall’altro estorceva denaro alla borghesia ricca della città per distribuirlo alle famiglie povere di Nablus. Arrestato dall’Anp e riabilitato come agente di polizia, fu ucciso dall’esercito israeliano durante la seconda Intifada.
Nabulsi non è un simbolo unificante per i palestinesi come la giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso maggio – ora una strada di Ramallah porta il suo nome -, ma la sua figura mette d’accordo un po tutti. Non era del movimento islamico Hamas, non faceva parte di Fatah anche se per qualche tempo aveva militato nelle Brigate di Al Aqsa, l’ala armata del partito del presidente Abu Mazen. Di fatto collaborava con tutti e anche ciò ne aveva fatto un punto di riferimento per tanti giovani a Nablus e Jenin. «In Israele cambiano i governi ma non le politiche nei confronti dei palestinesi – commenta Nasser Abul Hadi, un giornalista cisgiordano – (Israele) usa solo la forza, non analizza i cambiamenti che avvengono nella società palestinese, sul terreno, e non bada alle conseguenze dell’occupazione militare che dura da 55 anni». I proiettili che sparano i soldati, aggiunge, «stanno creando nuovi eroi per milioni di persone stanche dell’occupazione. I giovani palestinesi non accettano di vivere in queste condizioni e non pochi fra loro si uniscono alle organizzazioni armate, specie nei campi profughi di Jenin e Nablus». Quest’anno non meno di 1.720 persone sono state arrestate, sia palestinesi che cittadini arabi di Israele. Sessantasei palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania da gennaio a giugno, rispetto agli 81 dell’intero 2021. La scorsa primavera, in attacchi armati palestinesi, 19 persone a Tel Aviv e altre città.
Sulla stampa in lingua ebraica, o parte di essa, non manca chi sottolinea che qualcosa di rilevante sta avvenendo in Cisgiordania. E non dipende solo dalla crescente influenza di Hamas in quel territorio. La leadership dell’Anp di Abu Mazen sta progressivamente perdendo il controllo. A dimostrarlo sono proprio i continui raid israeliani anche nelle aree A (il 14% della Cisgiordania) che ufficialmente ricadono sotto la piena autorità del governo palestinese. Il quotidiano Haaretz in un articolo di qualche giorno fa lasciava intendere che Tel Aviv non crede più alle possibilità dell’Anp di svolgere azioni di «antiterrorismo». Perciò preferisce lanciare raid in Cisgiordania, scontrandosi spesso con i combattenti palestinesi ed effettuando decine di arresti ogni settimana. Secondo Haaretz, le previsioni fatte dal governo israeliano su cosa accadrà il giorno dopo la morte di Abu Mazen sono già superate: il cambiamento in Cisgiordania è già avvenuto mentre l’anziano rais è ancora al potere. Pagine Esteri
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Il genocidio di Putin in Ucraina è radicato nell’impunità russa per i crimini sovietici
Nell’estate del 1941, quando il mondo esterno iniziò a venire a conoscenza degli omicidi di massa che accompagnarono l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, il Primo Ministro britannico Winston Churchill dichiarò in modo memorabile: “Siamo alla presenza di un crimine senza nome”. Questo non è più il caso. Nel 1948, le Nazioni Unite adottarono la Convenzione sul [...]
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AUDIO. La Tunisia tra la nuova costituzione e i giovani che scappano dal paese
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 18 agosto 2022 – I giovani tunisini guardano alla Germania come la nazione dove vorrebbero vivere e lavorare per costruirsi, lontano dal loro paese, un’esistenza migliore.
Pesano la crisi economica che attanaglia la Tunisia e l’autoritarismo del presidente Kais Saied che non lasciano intravedere un futuro positivo per il paese protagonista del 2011 della primavera araba.
Abbiamo intervistato Carla Pagano, esperta di cooperazione internazionale che vive e lavora a Tunisi.
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La gestione delle crypto ti sembra complicata? Prova questo
Quando si sente parlare di investimenti in criptovalute il sentimento è spesso contrastante: da una parte c’è un deciso interesse e curiosità verso quello che probabilmente sarà il futuro della finanza. Dall’altra c’è apprensione e dubbio, non solo sulle valute stesse, ma soprattutto sul modo in cui si possono gestire e ‘tradare’. Detto che come [...]
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Cina – Canada: una ‘nuova normalità’
Dopo un periodo tumultuoso, le relazioni sino-canadesi si sono stabilizzate in una ‘nuova normalità’. Nel settembre 2021, Washington ha ritirato la richiesta di estradizione per Meng Wanzhou, Chief Financial Officer di Huawei, detenuta in Canada, con conseguente rilascio. Questo è stato immediatamente seguito dal rilascio dei ‘due Michael’ canadesi detenuti con false accuse di sicurezza [...]
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