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L’Europa può vincere la guerra del gas di Putin, ma deve imparare le lezioni di Nord Stream


I gasdotti Nord Stream 1 e 2 di Vladimir Putin sono morti e sepolti o ‘tot und begraben’ come dice il proverbio tedesco, ma la debacle del Nord Stream non deve essere dimenticata. Con la Russia che ora abbandona tutte le pretese e dichiara apertamente che non rinnoverà le forniture di gas all’UE fino a [...]

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Quattro punti per una vera riforma del carcere


Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia si conferma persona che presto rimpiangeremo, a prescindere da chi la sostituirà alla guida del Ministero della Giustizia. Interviene alla 46esima edizione del Forum Ambrosetti a Cernobbio, annuncia che il Governo, e lei in prima persona, si impegnano perché le riforme di sua competenza siano comunque approvate; e ricorda [...]

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Perché Vladimir Putin ha ancora un ampio sostegno in Russia


Durante le prime fasi della “operazione militare speciale” di Vladimir Putin in Ucraina, i media occidentali hanno ipotizzato che i suoi giorni come leader russo fossero contati. Mentre gli ucraini combattevano ferocemente contro le forze russe, molti commentatori hanno affermato che sanzioni occidentali senza precedenti avrebbero presto messo in ginocchio l’economia russa. Si presume che [...]

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GRAN BRETAGNA. Ong per i diritti umani a nuova premier Truss: basta attacchi ai migranti


Due organizzazioni della società civile e un sindacato hanno presentato presso l'alta corte di Londra una denuncia contro una delle politiche più controverse del governo dell'ex premier: un accordo per il trasferimento forzato in Ruanda dei richiedenti as

della redazione con testi dell’agenzia DIRE

Pagine Esteri, 7 settembre 2021 – La nuova primo ministro Liz Truss “avrebbe la possibilità di lasciarsi alle spalle le politiche divisive che hanno segnato l’amministrazione del predecessore Boris Johnson”, e invece durante la sua campagna per la leadership conservatrice “ha scommesso ancora di più sulle politiche dell’ex premier crudeli verso i più vulnerabili, tra cui profughi e rifugiati”. Sonya Sceats, direttrice esecutiva dell’organizzazione britannica di difesa dei diritti delle vittime di tortura Freedom from Torture, commenta così all’agenzia Dire l’incarico come primo ministro di Truss, affidatole dal suo partito e sugellato quest’oggi dalla Regina Elisabetta nel Castello scozzese di Balmoral.

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Elizabeth Truss

La nuova premier, 46 anni, nativa di Oxford, ministra degli Esteri durante la passata amministrazione, è stata eletta alla guida del Partito conservatore, schieramento che governa il Paese, da circa 172mila elettori iscritti alla formazione dei “tories”. Le consultazioni si sono rese necessarie dopo le dimissioni di Johnson, che ha dovuto lasciare l’incarico dopo essere sopravvissuto a un voto di sfiducia, a fronte anche delle forti critiche ricevute per aver violato le limitazioni imposte dal suo governo durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19 prendendo parte a una festa nella sede del governo nonché sua residenza, al 10 di Downing street.

Due organizzazioni della società civile e un sindacato hanno presentato presso l’alta corte di Londra una denuncia contro una delle politiche più controverse del governo dell’ex premier: un accordo per il trasferimento forzato in Ruanda dei richiedenti asilo che fanno ingresso irregolare in Gran Bretagna. L’intesa, firmata nella capitale Kigali lo scorso aprile dalla ormai ex ministra degli Interni Priti Patel – che si è dimessa ieri dopo la nomina di Truss alla guida dei conservatori – è stata annunciata in contemporanea da Johnson a Londra. Il primo volo verso il Paese africano sarebbe dovuto partire a giugno, ma è stato bloccato già sulla pista di decollo dopo un ricorso alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) presentata da uno dei passeggeri. I giudici europei hanno stabilito che il piano del governo britannico non può essere applicato finché la giustizia britannica non avrà concluso tutti i procedimenti giudiziari che sono stati presentati contro tale misura.

E’ da qui quindi, dal versante dei diritti, soprattutto quelli a rischio, che Sceats guarda al nuovo esecutivo a guida Truss che verrà annunciato nelle prossime ore. “La nuova premier potrebbe abbandonare una serie di politiche di cui il popolo britannico è veramente stufo”, premette l’attivista, che però aggiunge: “Durante la sua campagna per farsi eleggere alla guida dei tories ha scommesso ancora più fortemente su politiche che attaccano i diritti umani come l’intesa con il Ruanda, siglata all’insegna del principio ‘soldi in cambio di persone’, e poi il National security bill e il British Bill of Rights”. Le bozze di questi due ultimi provvedimenti sono al momento entrambe in fase di esame da parte della Camera dei Lord, uno dei primi passaggi dell’iter necessario per diventare leggi, così come prevede l’ordinamento britannico. Le misure sono state duramente criticate da diverse organizzazioni, in quanto accusate, fra le altre cose, di assestare duri colpi alla libertà di espressione e dei diritti umani, oltre a fornire la possibilità a Londra di sottrarsi alle sentenze della Cedu.

Freedom from Torture, che fornisce assitenza psicosociale alle vittime di tortura che ottegono asilo nel Regno Unito, fornirà un documento con diverse testimonianze a sostengo della causa presentata ieri contro il piano di Londra e Kigali. Un rapporto della ong Medical Justice Uk ha individuato almeno 14 vittime di tortura che erano state destinate al trasferimento verso il Ruanda, un Paese che le organizzazioni non considerano sicuro per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e le garanzie contro la tortura.

“Sappiamo che le misure su cui punterà Truss avranno un impatto enorme sulle comunità più vulnerabili della nostra società, logorando così quella rete di sicurezza dei diritti umani che ci rende tutti più sicuri”, constata Sceats.
L’attivista lancia quindi un appello alla politica ma ancora di più ai cittadini britannici: “In tempi di crisi economica senza precedenti, questo Paese ha bisogno di una leader sensibile e compassionevole, non di un’esponente di destra ancora più inutilmente muscolare. Sta al popolo della Gran Bretagna- scandisce ancora Sceats- chiedere al suo governo di rappresentare tutti, a prescindere dalla loro condizione economica o dalla loro provenienza”. Pagine Esteri

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Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a “Start” su Sky TG 24 il 7 settembre 2022


Il 7 settembre 2022, a partire dalle 10.30, il nostro Presidente Giuseppe Benedetto è stato ospite di Roberto Inciocchi a “Start” su Sky TG 24. L'articolo Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a “Start” su Sky TG 24 il 7 settembre 2022 proviene da Fond

Il 7 settembre 2022, a partire dalle 10.30, il nostro Presidente Giuseppe Benedetto è stato ospite di Roberto Inciocchi a “Start” su Sky TG 24.

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La musica calabrese protagonista del festival In Aspromonte a San Giorgio Morgeto il 7 e 8 settembre


Due giorni di concerti animeranno l'ultimo scorcio d'estate a San Giorgio Morgeto con il programma del festival In Aspromonte, che vuole fare emergere e rendere sempre più attrattivo il borgo calabrese, porta del Parco e legato ad una lunga storia di popo

Due giorni di concerti animeranno l’ultimo scorcio d’estate a San Giorgio Morgeto con il programma del festival In Aspromonte, che vuole fare emergere e rendere sempre più attrattivo il borgo calabrese, porta del Parco e legato ad una lunga storia di popoli, culture, arte e tradizioni.

Dopo una ricca stagione di eventi, con il cartellone di Estate Morgetia 2022 che ha riempito di presenze il centro storico sangiorgese, il 7 e 8 settembre la tradizione musicale calabrese sarà di scena sul palco allestito in Località Melia, per confermare l’attenzione dell’amministrazione comunale alla valorizzazione di una lunga storia di suoni e canti, che rappresentano il racconto della vita dei calabresi nel corso dei secoli.

Il 7 settembre sarà l’esplosiva vitalità musicale della tarantella di Ciccio Nucera a far scatenare il suo affezionato pubblico di fan con i balli tradizionali ed i suoni del tamburello e dell’organetto, che lo rendono un personaggio quasi unico nel suo genere. Un “one man show” travolgente e pieno di ritmo che, grazie alla potenza della musica, diventa anche occasione quotidiana di promozione e valorizzazione della cultura del territorio.

Una vita all’insegna della musica e della tradizione, rapito da questi suoni sin da piccolissimo nel suo paese di origine, Gallicianò, grazie ai tanti anziani che tramandavano le “passate” all’organetto e i canti tradizionali elevati a straordinari mezzi di espressione identitaria di una comunità, quella grecanica, che ancora oggi rappresenta un patrimonio da custodire e tramandare.

L’8 settembre sarà la volta del Quartetto Areasud, band protagonista di un percorso di ricerca che parte dalla musica calabrese per esplorare il mondo dei suoni mediterranei e contemporanei, partendo dalla creazione di un ponte con i suoni della vicina Sicilia. Il gruppo nasce dall’incontro tra il musicista e ricercatore calabrese Maurizio Cuzzocrea e alcuni tra i principali protagonisti della scena world ed etnica catanese, Mario Gulisano, Marco Carnemolla e Franco Barbanera. Insieme hanno costituito la base del progetto di world music “Musica lievemente tradizionale”, che è anche il titolo del recente cd della band.

Negli ultimi due anni, nonostante la pandemia, il Quartetto Areasud è stato protagonista di numerosi festival, in Italia e all’estero, tra cui Alkantara Fest, Appennino Festival e Zampognarea, in Italia, Babel Sound Festival in Ungheria e Etnosviets in Lettonia. Tra i progetti in programma nei prossimi mesi, l’esordio di due nuove produzioni dedicate al teatro, con l’attrice Preziosa Salatino, e ai canti di culla in Italia, in collaborazione con il gruppo musicale Enerbia, tra i principali interpreti della musica tradizionale del territorio delle Quattro Province.

“In Aspromonte” è realizzato dall’amministrazione comunale di San Giorgio Morgeto con il patrocinio e il contributo della Regione Calabria, sotto il marchio di Calabria Straordinaria e con la collaborazione delle associazioni Darshan, AreaSud e di Euracus srl Impresa sociale.

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Scuola e legalità, le regole della consapevolezza


La scuola è una stagione della vita. Sta all’inizio di ogni giovinezza ed età adulta. Non è da dimenticare e nessuno la dimentica. Nel bene e nel male la porta con sé fino all’ultimo dei suoi giorni. Guardarla come un male o un bene stagionale è poca cosa

Anche se le attività didattiche inizieranno il 14, già da qualche giorno la scuola ha avviato il suo cammino, e per gli insegnanti è tempo di programmazione.

Certamente troverà spazio nel corso dell’anno l’attenzione al tema della legalità in tutte le sue declinazioni. Obiettivo primario è l’educazione alla legalità, inteso come esercizio possibile e praticabile dalla scuola stessa mentre trascorre i suoi giorni tra i banchi.

La domanda che qui vorremmo porci è la seguente: quale e quanta considerazione ha la scuola di quella buona dose di legalità di cui è intrisa la sua vita? La tiene costantemente sotto la sua lente? Vive un processo di maturazione perché insegnanti e alunni la rendano sempre più trasparente? Sono segnati con matita blu gli errori perché di essi si possa far tesoro e superarli?

Per intenderci dobbiamo ricorrere a degli esempi concreti. Li attingiamo da quei racconti che sono la delizia dell’estate nei conversari degli ex compagni di classe quando in pizzeria si ritrovano per le emozionanti rimpatriate. Che cosa raccontano, sia pure con buona dose di esagerazione?

Che nella nostra classe c’era Giorgio che puntualmente apponeva la firma di suo papà sul foglietto delle giustificazioni delle assenze e che al termine degli studi il genitore si era complimentato con lui per averne fatte solo alcune, solo quelle per le malattie stagionali. Gli insegnanti, al mattino, non riuscivano a verificare di volta in volta neanche la somiglianza tra la firma originale di suo padre e quella che si trovavano sotto gli occhi e pertanto con questa furbata ci ha campato per almeno tre anni.

Giorgio, a scuola, faceva la manovra più semplice per aggirare l’ostacolo. Noi diremmo: faceva una birichinata. Siamo sicuri? O forse Giorgio imparava un mestieraccio e, dalla scuola e dalla famiglia, non si è mai sentito dire che il suo, nel suo piccolo, era un falso in atto pubblico? L’avrebbe dovuto scoprire a scuola e invece l’ha appreso solo in seguito, come quando e in che circostanze non sappiamo.

Michele racconta di aver quasi sempre copiato la versione di latino da un compagno o da un libro. Gli ha detto qualcuno che copiare non è il verbo esatto e bisogna cercarne un altro sul vocabolario? A scuola è copiare, una cosa che non si fa. Che con si fa o che non si può neanche fare perché è persino reato? Michele, quando l’ha scoperto?

L’insegnante faceva usare un manuale – vecchio, diceva, ma ottimo – e indicava anche la rivendita dove acquistarlo. Disgustare l’insegnante era difficoltoso per mille motivazioni. Gliel’ha detto mai qualcuno che esercitava un potere fuori di ogni regola decente e che si trattava di un abuso?

Fernando arriva a scuola con tutti i compiti in perfetta regola anche quando la maggior parte dei compagni non riusciva a portarli a termine. Ha mai detto che ricorreva sistematicamente all’aiuto di persone amiche e pertanto falsava la sincera denuncia dei suoi compagni di non esservi riusciti?

Per non dire poi di voti regalati, di raccomandazioni di ferro, di diplomi esistenti solo sulla carta che a giudizio degli stessi compagni di classe costituivano dei veri e propri falsi storici.

Qualcuno bada a queste cose? Oppure si lasciano correre come se nulla fosse o costituiscano solo materiale dell’infanzia che fa ragione a sé, spingendo i ragazzi in un limbo di perenne adolescenza come se l’età adulta stesse lì ad attendere sine die?

Questa mappa non è completa e né voleva esserlo perché l’esistente scolastico è ricco e plurale. E’ certo, però, che un variegato mondo è quello scolastico. Verrebbe voglia di classificarlo – e spesso si fa – come un mondo di ragazzi che si esprime e si chiude in un’età spensierata e pronta a chiudere questa parentesi della vita per poi passare in quella adulta e inventare un’età nuova.

Forse in questa considerazione c’è un abbaglio e anche un torto. La scuola è una stagione della vita. Sta all’inizio di ogni giovinezza ed età adulta. Non è da dimenticare e nessuno la dimentica. Nel bene e nel male la porta con sé fino all’ultimo dei suoi giorni. Guardarla come un male o un bene stagionale è poca cosa. Merita altro.

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Alta tensione tra Ankara e Atene. Dalla Turchia accuse agli Usa


Aumenta la tensione tra Grecia e Turchia, Erdogan minacce rappresaglie militari contro Atene. In Turchia politica e stampa accusano Washington di aizzare Atene L'articolo Alta tensione tra Ankara e Atene. Dalla Turchia accuse agli Usa proviene da Pagine

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 7 settembre 2022 – Non accenna a diminuire la tensione tra Turchia e Grecia, che negli ultimi mesi si sono rese protagoniste di una serie di atti reciprocamente ostili, di schermaglie e provocazioni.

Ai motivi storici della contrapposizione si sono sommati più recentemente i contrasti generati dalla disputa per il controllo dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale, che si sovrappongono al contenzioso generato dell’occupazione turca della parte orientale di Cipro nel 1974.

Erdogan minaccia: “La Grecia pagherà un prezzo alto”

Il 6 settembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è tornato a minacciare Atene, ricordando che Ankara prosegue con determinazione il contrasto, anche in sede Nato, nei confronti del tradizionale nemico, che pure è membro dell’Alleanza Atlantica.
Intervenendo all’aeroporto di Esenboga prima della partenza del suo tour nei Balcani che lo porterà in Bosnia-Erzegovina, Serbia e Croazia, Erdogan ha minacciato apertamente la Grecia, prefigurando l’eventualità di una repentina azione militare: «Il nostro ministero della Difesa prosegue i colloqui con il segretario generale della Nato e altri rappresentanti. Credo che le affermazioni che ho fatto nei discorsi e la scorsa settimana abbiano avuto un certo riflesso (…) Altrimenti, come dico sempre, e qui lo ripeto, possiamo arrivare all’improvviso in una notte».
La Grecia pagherà un prezzo alto se violerà nuovamente lo spazio aereo turco e continuerà a “infastidire” i caccia turchi nel Mar Egeo, ha poi detto “il sultano”. Un concetto, questo, ribadito dal Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.
Nei giorni scorsi Ankara ha denunciato che il 23 agosto alcuni dei suoi caccia F-16, che erano in missione sul Mar Egeo insieme a dei velivoli statunitensi, sono stati agganciati dal sistema di difesa S-300 in dotazione alle forze armate elleniche e dispiegato nell’isola di Creta. La Turchia ha deciso di denunciare l’episodio anche in sede Nato, e il presidente Erdogan ha più volte promesso ritorsioni contro la Grecia, ricordando l’esito – favorevole ad Ankara – di alcuni scontri bellici del passato, come la conquista della città di Smirne nel 1922 quando centinaia di migliaia di abitanti greci della costa turca dovettero riparare ad Atene e Salonicco. Proprio il 30 agosto scorso la Turchia ha celebrato in pompa magna il “Giorno della Vittoria”, in occasione del centesimo anniversario della vittoria sulla Grecia.
«Quando arriverà il momento faremo ciò che è necessario» ha tuonato il “sultano” intervenendo alla fiera dell’aeronautica Teknofest che si è tenuto nello scalo di Samsun, sul Mar Nero – durante la quale è stato presentato il prototipo di un nuovo drone da combattimento turco – promettendo che, se la Grecia non smetterà di militarizzare le isole dell’Egeo, Ankara potrebbe mettere in discussione la sovranità ellenica su quei territori, concessi ad Atene sulla base dei trattati di Losanna del 1923 e di Parigi del 1947 a condizione però che la Grecia non realizzasse installazioni militari permanenti a Lesbo, Chios, Samos e Icaria, oltre che nell’arcipelago del Dodecaneso.

Proprio nel luglio scorso il leader dei nazionalisti turchi di estrema destra Devlet Bahçeli, alleato di Erdogan, aveva mostrato una mappa della Turchia che includeva tutte le isole considerate irredente attualmente sotto il controllo ellenico.

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Il leader ultranazionalista turco Devlet Bahçeli mostra una mappa turca che include isole greche

L’Ue sostiene Atene

Da parte sua il ministro degli Esteri greco, Nikos Dendias, ha annunciato che invierà delle missive a tutti i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres e a quello della Nato Jens Stoltenberg per denunciare le dichiarazioni «senza precedenti» delle autorità turche. Il 3 settembre scorso il capo della diplomazia ellenica aveva già investito della vicenda i partner europei, l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell e l’esecutivo degli Stati Uniti. Dendias, in alcune dichiarazioni rese alla stampa, ha poi ringraziato il suo omologo Jan Lipavský, della Repubblica Ceca, per la rapida risposta del paese attualmente presidente di turno del Consiglio dell’Ue, che ha definito le dichiarazioni turche “inaccettabili” ed “estremamente inutili”.
Anche il portavoce della Commissione Europea, Peter Stano, in una nota ha affermato che le continue dichiarazioni ostili della leadership turca contro la Grecia «sollevano serie preoccupazioni e contraddicono pienamente i tanto necessari sforzi volti alla riduzione dell’escalation nel Mediterraneo orientale richiesti nelle conclusioni del Consiglio Europeo del marzo e del giugno del 2021 e del giugno 2022». Per Stano «le minacce e la retorica aggressiva sono inaccettabili e occorre porvi fine», promuovendo la comprensione reciproca e lo sviluppo di relazioni di buon vicinato. «L’Ue si aspetta che la Turchia si adoperi seriamente per allentare le tensioni in modo sostenibile nell’interesse della stabilità regionale nel Mediterraneo orientale e rispetti pienamente la sovranità e l’integrità territoriale di tutti gli Stati membri dell’Ue» ha concluso il portavoce dell’UE.

La mossa di Mitsotakis

Le autorità greche hanno affermato che non seguiranno la Turchia nella sua «oltraggiosa sfilza quotidiana» di minacce. Ma in realtà è stata una mossa dei Atene a far di nuovo precipitare i rapporti tra i due paesi che nei primi mesi del 2022 sembravano avviati verso una relativa distensione, anche se i toni nuovamente minacciosi delle dichiarazioni di Erdogan sono sicuramente da inquadrare anche nella necessità di trovare argomenti che facciano presa sull’opinione pubblica in vista delle cruciali elezioni presidenziali del giugno 2023.
Il 13 marzo, infatti, Erdogan e il premier ellenico Kyryakos Mitsotakis si erano incontrati a Istanbul. Il vertice era stato giudicato dagli osservatori come un segnale di distensione dopo la riduzione, da parte della Turchia, delle attività militari e delle missioni di ricerca di idrocarburi nelle acque contese del Mediterraneo orientale.
A rompere il presunto idillio, però, ci ha pensato a maggio la visita di Mitsotakis a Washington, nel corso della quale il primo ministro ellenico ha chiesto alla Casa Bianca e al Congresso di non consegnare i suoi caccia F-16 alla Turchia – e di rimanere ferma nello stop alla consegna di alcuni F-35, bloccati dopo la vendita del sistema antimissile russo S-400 ad Ankara – in nome del fatto che «la Nato non ha bisogno di un’altra fonte di instabilità sul fianco sud-orientale». Atene punta esplicitamente ad indebolire le capacità dell’aviazione militare turca e al tempo di stesso di potenziare la propria, dopo aver ottenuto da Parigi la vendita di un certo numero di caccia Rafale e la firma di un trattato che impegna la Francia a sostenere la Grecia in caso di attacco da parte di un altro paese. Su un altro fronte il governo greco ha aumentato la propria collaborazione militare tanto con Israele quanto con le petromonarchie sempre in funzione antiturca.

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Il premier greco interviene al Congresso di Washington

La reazione turca

La reazione turca è stata dura e immediata, con Erdogan che ha sospeso il dialogo intavolato con Atene e ha annullato la riunione, prevista a luglio, del “Consiglio di Cooperazione di alto livello” tra i due paesi, la cui ultima sessione si era tenuta nel 2016.
Da quel momento tanto il governo turco quanto i media anatolici hanno accentuato i toni nazionalistici ed anti-ellenici, accusando tra l’altro Washington di intromettersi negli affari regionali a fianco di Atene. La decisione statunitense di ridurre il proprio schieramento militare in Turchia e di aumentare il numero dei soldati e delle basi in territorio ellenico ha già suscitato preoccupazione e sdegno ad Ankara.
Ad esempio Hasan Basri Yalcin, sul quotidiano filo-governativo Sabah, accusava nei giorni scorsi gli Stati Uniti di incitare la Grecia a provocare Ankara pur non perseguendo un conflitto aperto tra i due paesi che costituirebbe un pericoloso elemento di rottura proprio in un momento in cui lo scontro con la Russia richiede un fronte comune all’interno della Nato.
Anche Mehmet Ali Guller, sul quotidiano dell’opposizione laica e nazionalista Cumhuriyet, ha analizzato il ruolo di Washington: «La strategia degli USA mira a una nuova cortina di ferro che si estenda dall’Artico al Mediterraneo orientale. Per questo vogliono che Svezia e Finlandia diventino membri della NATO e perseguono il loro potenziamento militare in Grecia. Atene vuole usare questo a proprio vantaggio (…). Gli Stati Uniti sono favorevoli a una tensione permanente tra Ankara e Atene, utilizzandola per incoraggiare il filo-americanismo in entrambi i paesi».
Da parte sua Rahmi Turan, sul quotidiano di opposizione nazionalista Sozcu, ha accusato il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) al potere di aver colpevolmente ignorato, fin qui, le ripetute violazioni della sovranità turca. «Durante i 20 anni di governo dell’Akp, la Grecia ha invaso clamorosamente 18 isole turche e un isolotto, piantando bandiere, costruendo chiese e nominando sacerdoti. (…) Cosa ha fatto il nostro governo? Niente!» ha scritto Turan. Pagine Esteri

2481638* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI:

reuters.com/world/europe/erdog…

limesonline.com/turchia-grecia…

reuters.com/world/europe/eu-vo…

aljazeera.com/features/2022/6/…

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Liz Truss, sfidando venti contrari


Il discorso inaugurale a Downing Street è stato molto lineare, l’agenda e le priorità chiarite con pragmatismo. Assieme al rilancio dell’economia e il necessario rafforzamento del sistema sanitario nazionale, la grande misura preannunciata è il tetto alle

La conservatrice Liz Truss è il cinquantaseiesimo primo ministro del Regno Unito. Boris Johnson è particolarmente soddisfatto di tale nomina e la sua erede, in precedenza ministro degli Esteri, ha elogiato BoJo definendolo un amico e uno dei più importanti primi ministri della storia. “He got Brexit done” ha infatti dichiarato riferendosi al premier uscente, ringraziandolo anche per la sua politica a favore della vaccinazione anti covid e la sua aperta difesa nei confronti dell’Ucraina dopo lo scoppio della guerra.

Tralasciando il come la si pensi sui contenuti, le posizioni della Truss sono sicuramente grintose, degne dello spirito dei Tory: fortemente a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, si fa alfiere di una nuova era di autonomia economica e commerciale britannica, in senso contrario a quelle politiche europee da lei bollate come protezioniste.

Dopo l’aggressione militare russa contro l’Ucraina, la Truss ha esortato i britannici ad arruolarsi volontari al fianco delle truppe di Zelensky, “questa è la nostra guerra (…) la peggiore in Europa in 40 anni” ha infatti dichiarato. Processerebbe Putin come a Norimberga, auspica la riconquista della Crimea. Insomma, sia ad alleati che ad oppositori, è chiaro che la nuova premier abbia idee decise e una ambizione inossidabile.

Liz Truss, 47 anni, oggi terza donna leader nella storia del Regno Unito, è stata la più giovane ministra di sempre – curiosamente condivide questo stesso primato con Giorgia Meloni che, sondaggi alla mano, pare destinata tra una ventina di giorni ad essere eletta nuova leader conservatrice d’Italia.

Qual è la ricetta del suo successo? Sicuramente la Truss ha sfruttato le innovazioni del nostro tempo. Ha infatti molta visibilità sui social dove si contraddistingue per i suoi selfie scattati nelle situazioni più improbabili. Molto noto anche lo scatto della premier su un carrarmato in tenuta militare – un tentativo di ispirazione alla unica e inimitabile Lady di Ferro.

Nonostante in famiglia fossero militanti di estrema sinistra, e anche la Truss abbia avuto un passato progressista, da anni la nuova premier in carica riconosce come sua guida politica proprio Margaret Thatcher. Dopo aver studiato al Merton College di Oxford Filosofia, Politica ed economia (il noto PPE, corso di laurea che ha formato numerosi politici e premier inglesi), ha inizialmente cominciato l’attività politica nelle file opposte ai Tory – nonostante ora le sue idee siano totalmente contrarie, anche all’epoca era riconosciuta come una politica agguerrita nonostante il suo fare spesso impacciato in pubblico.

Il discorso inaugurale a Downing Street è stato molto lineare, l’agenda e le priorità chiarite con pragmatismo. Assieme al rilancio dell’economia e il necessario rafforzamento del sistema sanitario nazionale, la grande misura preannunciata è il tetto alle bollette di gas e luce per far fronte all’imminente crisi energetica. Il programma che la Truss s’accinge a formalizzare ed attuare è in continuità con la politica della destra britannica, il focus è soprattutto sulla riduzione delle tasse, a dispetto di crisi e inflazione.

“Abbiamo davanti venti contrari globali molto forti ma so che possiamo farvi fronte”, ha dichiarato. La Truss è fiduciosa e crede vivamente che il Regno Unito ne uscirà vittorioso dalla scena. Siamo sicuramente distanti, come epoca e profondità politica, da quelle famose parole pronunciate da un altro esponente dei Tory, Sir Wiston Churchill, “we shall fight on the beaches”. I venti globali contrari stanno soffiando sull’isola. Da spettatori esterni, non possiamo che augurare alla nuova premier un sincero augurio di buon lavoro.

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Elezioni 2022: la grande speranza nell’animaccia popolare dei non votanti


Sono circa il 40% degli aventi diritto. Potrebbero decidere questa volta di votare, consapevoli che il ceto politico italiano attuale è disgustoso e va rivoltato ab imis!

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#OpenFiber e la rete che non c’è! L'editoriale bomba di @rafbarberio su @Key4biz


OPENFIBER E LA RETE CHE NON C’È. L'EDITORIALE DI RAFFAELE BARBERIO SU KEY4BIZ

!Pirati Europei

È lecito chiedersi come CDP insista nel voler affidare la partita della rete unica ad una società che non è in condizione di mantener fede ai pur limitati (rispetto all’operazione monstre della “rete unica”) impegni già assunti.

Continuano a valanga le segnalazioni di sindaci, imprese e semplici cittadini che si lamentano per il fatto di non avere disponibilità della fibra del Progetto BUL, nonostante il loro indirizzo risulti attivabile con fibra. Non riescono ad avere il servizio o se lo hanno, la connessione a loro offerta è molto scadente. Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza su una questione molto delicata di cui Infratel, da una parte, ed il nuovo governo che scaturirà dalle urne del 25 settembre, dall’altra, dovranno occuparsi con urgenza non solo per rimettere ordine, ma anche per valutare i danni creati.

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Gorbaciov – USA: un rapporto da riscrivere


Con la morte di Mikhail Gorbaciov (1931-2022) scompare l’ultimo dei grandi protagonisti della guerra fredda. Figura complessa e, per certi aspetti, enigmatica, in Russia, Gorbaciov e le sue riforme sono considerati ancora i principali responsabili della crisi politica, economia e sociale che ha colpito il Paese nel corso degli anni Novanta. In Occidente, il giudizio è, nell’insieme, più [...]

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La sicurezza del Golfo è in pericolo con e senza un accordo nucleare iraniano rianimato


Le intese e gli accordi tra tutti gli Stati regionali necessari per introdurre un accordo di sicurezza multilaterale, cambierebbero paradigma e sarebbero tettonici.

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Elezioni politiche 2022: appropriazione del cristianesimo


L'uso della religione da parte del populismo rappresenta una seria sfida per le democrazie liberali e i leader religiosi dovrebbero impegnarsi in modo critico con coloro che si appropriano delle tradizioni che rappresentano

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In Pakistan oltre 1200 vittime per le alluvioni, mentre un terzo del paese è sott’acqua. Il ministro: “I paesi ricchi paghino per i disastri causati dai cambiamenti climatici”.


Eurosovrani


Mentre Putin ricatta, subordinando le forniture di gas all’impossibile revoca delle sanzioni, sperando di piegare il mondo libero e ridurlo al rango dei suoi servitori, che anche qui operano, il cancelliere tedesco ha annunciato una spesa di ulteriori 65

Mentre Putin ricatta, subordinando le forniture di gas all’impossibile revoca delle sanzioni, sperando di piegare il mondo libero e ridurlo al rango dei suoi servitori, che anche qui operano, il cancelliere tedesco ha annunciato una spesa di ulteriori 65 miliardi, per fronteggiare il rialzo del prezzo dell’energia.

La Germania, a partire dal settembre 2021 (perché i prezzi crescono da ben prima della criminale aggressione russa all’Ucraina), ha già mobilitato 60.2 miliardi di spesa pubblica. Ma chi ha trovato e spostato più fondi pubblici, in Unione europea, siamo noi. Ad oggi la Germania ha usato l’1.7% del prodotto interno lordo, noi il 2.8 (per quasi 50 miliardi). In Francia si sono fermati all’1.8, nel Regno unito all’1.6. Contano, naturalmente, i diversi panieri energetici, ovvero le scelte passate.

A dare retta ai No Triv e alla destra di Meloni e Salvini, non estrarremmo più gas dall’Adriatico, mentre già ne estraiamo meno della metà del possibile. A dar retta ai No Tap pentastellati e a quelli di Emiliano, presidente della Regione Puglia ed esponente del Pd, non avremmo quel che ora è vitale, ovvero il gas dall’Azerbaigian. Gli errori si pagano.

Questa settimana il Consiglio dei ministri dovrebbe varare l’ulteriore pacchetto aiuti (abbiamo già scritto che “aiutarsi” sarebbe più saggio), mi aspetto che in tanto dozzinale propagandismo qualcuno guarderà le cifre assolute e indicherà la spesa tedesca come esempio. Meglio, quindi, fermare i numeri prima che se li giochino alla lotteria elettorale.

La richiesta di sfondare deficit e debito, disonestamente facendo credere che quello sia un “dare” agli italiani, sarà respinta. Ma l’argomento si riproporrà in autunno. È e sarà, oltre tutto, uno dei temi di verticale divisione nel centro destra. Abbiamo iniziato la campagna elettorale osservando che le coalizioni sono un falso, ci convinciamo che sono una truffa.

La tesi dei sovranisti da strapazzo è: se la Commissione europea manterrà i vincoli di bilancio, impedendo lo sforamento, allora si faccia carico degli aiuti sociali necessari. Una tesi che, a parte la sua falsità, descrive una specie di nuova dottrina: l’accattonaggio sovrano.

I vincoli sono sospesi, ma non si sospende la realtà. C’è e ci sarà sempre una differenza fra un Paese, la Germania, che ha un debito pubblico nell’intorno del 60% del pil e un Paese, l’Italia, che supera largamente il doppio. Per evitare che tale differenza spacchi il mercato interno europeo e la stessa moneta unica, si sono mobilitate ingenti risorse dell’Unione (vale a dire dei contribuenti di tutti) per sostenere i debiti più squilibrati. Il nostro in testa. Non bastando questo si è creato debito comune per finanziare programmi di sviluppo e il Paese più beneficato è l’Italia. Supporre di andare a dire: siamo sovrani, dateci dell’altro è, appunto, sovrano accattonaggio.

Siccome, appunto, la sola sovranità seriamente difendibile è quella europea, fatta sì di mercato interno e di regole finanziarie, ma anche di comune sentire istituzionale e di identità politica che si riflette anche nella difesa dell’Ucraina, ergo chi prova a minarla non è sovranista, ma servilista dell’imperialismo russo, siccome così stanno le cose, c’è un altro punto da affrontare. Joseph Stiglitz ha dato voce a quel che pensano molti: <<un governo di destra, in Italia, potrebbe destabilizzare l’Europa>>.

Non perché l’Ue sia di sinistra (ridicolo), ma perché certa destra italiana è antieuropea ed antioccidentale. Non è possibile, però, che a ogni elezione in Ue si parli di crisi continentale. Nelle democrazie ci sono sempre istituzioni ed equilibri intoccabili, anche se la maggioranza degli elettori volesse il contrario, per il resto: decidono gli elettori. Ma non gli elettori altrui.

Quindi, dopo una lunga integrazione economia e commerciale (che ci ha fatto guadagnare tutti), dopo il Parlamento eletto a suffragio universale, dopo la creazione di una forte istituzione federale, la Bce, dopo la partenza del debito comune e l’affermazione di una comune politica a favore dell’Ucraina, si proceda ancora sulla via delle istituzioni, giungendo al voto a maggioranza. Per essere Eurosovrani e non bulli vernacolari.

La Ragione

L'articolo Eurosovrani proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Fedeli alla lineaContinua la strategia zero covid in Cina. A fronte di 349 nuovi casi di Covid, il governo cinese ha oggi deciso di prolungare i semi lockdown in vigore per quasi 40 milioni di residenti a Chengdu e Shenzhen.


USA – Cina: ‘standard off’ sulla tecnologia 5G


La rivalità tecnologica tra Stati Uniti e Cina è diventata palese quando è scoppiata una disputa sul 5G e Huawei dopo che Washington ha designato Huawei come società soggetta a embargo nella sua “Entity List” nel maggio 2019. Al centro della controversia ci sono gli standard alla base della quinta generazione di tecnologia di rete [...]

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Brasile: il duello Bolsonaro-Lula entra nella fase finale


Il primo dibattito elettorale presidenziale dal vivo in Brasile, come ampiamente previsto, si è rivelato nient’altro che un incontro urlante tra i primi sei candidati, in particolare il Presidente Jair Bolsonaro e il principale contendente ed ex Presidente, Lula da Silva, che insieme si sono concessi un intenso scambio di accuse e contro-accuse per tutta [...]

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Crimini di guerra in Ucraina: alla ricerca di una risposta


Una carrellata sui precedenti storici mostra che perseguire penalmente i responsabili di crimini di guerra crea non pochi problemi

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Afghanistan: la parola ai talebani


Dopo un anno dal ritorno al potere in Afghanistan, parla, in questa intervista, Suhail Shaheen, portavoce internazionale del gruppo e capo del suo ufficio politico in Qatar

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USA: la riduzione del debito degli studenti di Biden è una grande decisione


Ci è stato detto che l’istruzione superiore è uno dei modi migliori per superare la povertà. Ma per molti mutuatari indebitati, è stato esattamente l’opposto. Dal 1980, il costo del college è aumentato di quasi 9 volte il tasso degli stipendi. Se sei povero e non ti unisci all’esercito, ottieni una borsa di studio completa [...]

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Oltre il mito di Lady D: il fascino e l’umanità di una donna


«Mamma sei così triste? In questa casa non c’è futuro, non c’è speranza per me»….In questo frammento di dialogo tra Lady D e il suo piccolo Harry, è racchiuso il senso dell’ultimo film dal titolo ‘Spencer’, dedicato appunto alla ‘Principessa triste’, diretto da Pablo Larrain e scritto da Steven Knight, presentato alla 78 edizione del Festival [...]

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Una sconfitta molto più pesante di quanto anche i più scettici potessero aspettarsi, che ora mette a rischio non solo il processo costituente in Cile ma anche la tenuta del governo del presidente Gabriel Boric.


Gender Pay Gap, in Italia 500 euro in meno di stipendio per le donne: l’infografica


In Europa le donne lavoratrici guadagnano il 13% in meno all’ora rispetto agli uomini, anche se retribuire di meno una donna, a parità di tempo e mansioni, è una pratica del tutto illegale. I dati parlano chiaro: il Gender Pay Gap è una realtà che grava su tutte le donne lavoratrici, condizionando le loro scelte [...]

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Lacrime di sangue (L’étrange couleur des larmes de ton corps) di Bruno Forzani e Hélène Cattet [2013]


Della coppia artistica Forzani-Cattet ero fermo al solo “Amer”, debutto sulla lunga distanza datato 2009, visto, tra l’altro, in un momento piuttosto confuso della mia vita, e quindi apprezzato meno del suo effettivo valore. Nei giorni scorsi, soffocato dalla canicola estiva, ho pensato che potessero essere maturi i tempi per una seconda possibilità, e mi sono scaricato “Lacrime di sangue”, il loro secondo lungometraggio.

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CILE. Le ragioni del no alla costituzione


La sensazione che la costituzione non fosse in grado di rappresentare posizioni non di sinistra, la manipolazione mediatica e la trasformazione del plebiscito in un voto contro il governo Boric. Per quanto partecipativo, il processo costituente e democrat

di Emanuele Profumi* –

Pagine Esteri, 6 settembre 2022 – Da Santiago del Cile. Come può accadere che un popolo voti contro una delle costituzioni più avanzate del mondo in termini di diritti umani, prospettiva ecologica e di benessere pubblico? Come può essere che oltre il 60% degli elettori e delle elettrici abbiano rifiutato di abbandonare il sistema neoliberista e lo Stato repressivo, rimandando al mittente una proposta costituzionale che li metteva profondamente in discussione? Come è possibile che la maggioranza della popolazione ha votato contro i propri interessi?

Per rispondere a queste domande servirebbe un’analisi complessa molto articolata e sottile. Impossibile da fare a pochi giorni dal voto del 4 Settembre e in un semplice articolo. È però già possibile indicare almeno un’importante ragione che ha portato quasi otto milioni di cileni a votare contro la proposta costituzionale. Grazie ad essa possiamo evitare di cadere nell’errore di pensare che ci troviamo di fronte al ritorno del pinochettismo, ossia che ci siano milioni di persone che abbiano scelto di tornare alla costituzione del 1980. O anche di pensare che questa parte della popolazione è caduta nelle trappole della manipolazione mediatica e della propaganda. Ovviamente, in parte, entrambe le realtà sono vere. Ma non costituiscono la ragione principale del voto cileno.

A darci una prima importante indicazione in tal senso, spesso sottostimata dai sostenitori dell’Apruebo, è Riccardo Lagos. L’ex presidente socialista, responsabile di una delle principali riforme della costituzione di Pinochet (ma anche di riforme sociali che approfondirono le privatizzazioni economiche portando, per esempio, milioni di studenti ad indebitarsi pesantemente) esprime un’opinione condivisa da molti: “Questa assemblea costituente ha fallito perché ha diviso il Paese: ciò che deve fare una costituzione è unire, non dividere”. Molti, infatti, sostengono che la nuova proposta è stata di parte, di sinistra. Per questo è stata più di una volta associata al governo Boric. “Il popolo cileno è, mediamente, di centro-sinistra. Quindi moderato”, afferma ancora a questo proposito Lagos in una lunga intervista sul cambiamento costituzionale rilasciata qualche settimana fa presso la sua abitazione. L’impressione generale, quindi, è stata che la nuova costituzione non rispecchi l’orientamento generale della popolazione. Non è in grado di rappresentare posizioni non di sinistra. Ciò ha portato a considerarla non tanto diversa da quella del 1980, frutto della dittatura di Pinochet e di una visione di destra. Per questo molti l’hanno considerata “la costituzione di Boric”. Trasformando così il Plebiscito, in un voto contro il suo governo.

La seconda grande ragione si può desumere, invece, da alcune opinioni raccolte durante il processo elettorale nel quartiere “Providencia” e allo Stadio nazionale di Santiago: “Non credo che la proposta sia stata fatta da persone capaci, e ciò si vede quando la si legge. Basti pensare a ciò che c’è scritto in merito all’espropriazione della terra fatta in base al giusto prezzoquale dovrebbe essere il giusto prezzo?! Non c’è scritto”, dicono Marixa e Micaela, madre e figlia, all’uscita di un seggio. “Non mi ha convinto quando si parla di pensioni e dell’Afp (sistema pensionistico cileno, ndr). Mi sembra che il testo dica che non ci sarà la possibilità di ereditare le pensioni sociali…” dice Camila, prima di votare in un seggio nel quartiere di Providencia, e giurando di aver letto la costituzione, nonostante nel testo non si faccia mai menzione di questa impossibilità.

Cosa ci dicono questi esempi?

Innanzitutto che moltissimi cileni con il loro voto hanno generato un “quid pro quo” politico. Ossia hanno usato il voto costituente per esprimere un dissenso nei confronti del governo Boric (o nei confronti dei partiti di sinistra che lo sostengono o dell’ipotetica ed improbabile instaurazione di regimi simili al Venezuela o a Cuba). Il fatto che Boric e i partiti di sinistra si siano espressi a favore della nuova proposta è senza dubbio la fonte di questo malinteso, ma non basta per spiegarlo.

In secondo luogo, che un’altra buona parte dell’elettorato del Rechazo ha espresso critiche puntuali al testo, a volte senza neanche averlo letto, che sono diventate ragioni sufficienti per rifiutare l’intero impianto costituzionale. In questo caso sono caduti nella classica fallacia logica di prendere la parte per il tutto, senza curarsi dell’irresponsabilità di votare senza cognizione di causa.

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Sicuramente la manipolazione mediatica massiccia e costante, da tempo denunciata dai padri e dalle madri della nuova proposta, ha giocato un ruolo importante, ma questo non può spiegare perché molti hanno pensato che con il voto avrebbero “sanzionato” o “rifiutato” il governo, e non solo rifiutato un nuovo ordinamento giuridico. Così come non spiega perché molti hanno preferito evitare che passasse il nuovo testo perché contrari a qualche articolo o a qualche parte particolarmente indigeribile, senza considerare che un testo costituzionale serve a fondare le basi di un nuovo ordinamento giuridico e che è sempre possibile riformarne alcune parti, o abrogarne alcuni articoli, in un secondo momento.

Alla base del risultato straordinario del “Rechazo”, quindi, deve aver giocato un fattore più profondo. L’incapacità di comprendere la valenza politica della proposta costituzionale. Di capire la funzione di una costituzione e la sua rilevanza storica. Questa difficoltà è chiaramente espressione di una profonda depoliticizzazione popolare. L’autoritarismo e il neoliberismo hanno ridotto enormemente la capacità di comprensione e di ragionamento politico della maggioranza della popolazione, e ciò è ancora valido nonostante il processo di politicizzazione in atto. Molti si sono ritrovati un testo costituzionale in mano (quando sono riusciti ad averlo) senza comprendere cosa ci fosse scritto, né il valore di doverlo leggere con attenzione prima di prendere una decisione così rilevante per il futuro dell’intero Paese.

Il processo costituente e democratico cileno, per quanto partecipativo, infatti, non ha avuto il tempo necessario per innescare un profondo processo di politicizzazione sociale, la cui richiesta è stata il sale alla base dell’Estallido Sociale del 2019. Per farlo, molto probabilmente, sarebbe stato necessario un processo costituente di almeno tre anni, per garantire una più completa e ampia partecipazione popolare, per riflettere su come proporre e valutare gli articoli da far rientrare nella nuova proposta giuridica.

Ciò ha comportato, insomma, che la cittadinanza che ha votato per il Rechazo ha generato un rifiuto anche di uno dei mandati più importanti dell’Estalllido social: quello di non scendere a patti sul superamento dello Stato autoritario e dell’economia neoliberista. Se gli eletti hanno rispettato questo mandato, generando un testo costituzionale utile per abbandonare il neoliberismo e gli abusi delle forze dell’ordine e delle forze armate, la maggioranza della popolazione non si è resa conto che la vittoria del Rechazo avrebbe generato un nuovo processo costituzionale frutto del compromesso tra le forze parlamentari di destra e di sinistra (subordinando ancora una volta le proposte della sinistra ai diktat e ai veti della destra). Ritornando così a legittimare la logica che ha impedito di cambiare il modello sociale neoliberista, imposto a partire della dittatura di Pinochet.

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D’altro canto, il grande dolore, la delusione e la disperazione che ha colto molti sostenitori dell’Apruebo davanti allo sconvolgente risultato plebiscitario, potrebbe portare molti di loro a individuare nella depoliticizzazione sociale la principale ragione della sconfitta. Così come dare un’indicazione fertile a tutti coloro che vogliono prepararsi ad abbandonare la società neoliberista e superare lo Stato repressivo. Nessuno, in questo momento, può dire se ciò avverrà. Perché politicizzare la popolazione richiede un grande sforzo, una chiara strategia politica, e attori sociali in grado di diffondere pratiche quasi “pedagogiche” capaci di informare capillarmente e di generare e condividere strumenti cognitivi, etici e politici, affinché ognuno prenda una decisione politica all’altezza dell’importanza sociale e storica del caso. Qualcosa che richiede un grande lavoro, un’enorme dedizione, e una chiarezza di intenti fuori dalla norma, e una visione del potere lontana dalla visione rivendicativa che segna i movimenti sociali. Qualcosa di molto più grande ed impegnativo di quanto è stato fatto durante il processo costituente cileno. Per il momento, però, in Cile, nessuna autocritica è stata fatta in questa direzione. E intanto la possibilità di cambiare paradigma non è più all’ordine del giorno.

__________________

*Emanuele Profumi è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista freelance. Insegna Scienze della Politica all’Università di Viterbo. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le “Inchieste politiche”) sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012).

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CAMBIAMENTO CLIMATICO. Il potenziamento militare degli USA nell’Artico pone nuovi rischi geopolitici e ambientali


Una recente proposta del Senato USA finirà per creare le condizioni per un conflitto con la Russia, generando al contempo maggiori emissioni di gas serra. L'articolo CAMBIAMENTO CLIMATICO. Il potenziamento militare degli USA nell’Artico pone nuovi rischi

della redazione

Pagine Esteri, 1 settembre 2022 – Da diversi anni, le forze armate statunitensi si preparano ad espandere la propria presenza nell’Artico. Il 3 agosto, i membri del Senato hanno espresso il proprio interesse per una maggiore presenza militare in quella regione con l’introduzione dell’Artico Commitment Act. Presentata da Lisa Murkowski (R-Alaska) e Angus King (I-Maine), la legislazione propone “una presenza per tutto l’anno della Marina e della Guardia Costiera nella regione artica”. La legislazione si concentra anche sulla concorrenza degli Stati Uniti con la Russia nella regione. La sezione 7 dell’atto richiede l’”eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica”.

L’Artico è la regione che si riscalda più velocemente rispetto al resto del mondo.

Il Piano strategico della Marina per un Artico Blu pubblicato nel gennaio dello scorso anno spiega: “Le opinioni contrastanti su come controllare nell’Artico le risorse marine e le rotte marittime sempre più frequentate, gli incidenti militari, i conflitti e le ricadute della concorrenza tra le principali potenze, hanno tutte il difetto di minacciare gli interessi e la prosperità degli Stati Uniti”.

Mentre il segretario di Stato Antony Blinken annuncia, attraverso il suo portavoce, che ci sarà un nuovo ambasciatore generale per la regione artica, gli esperti avvertono che in un momento in cui le tensioni tra Stati Uniti e Russia stanno aumentando e la minaccia dei cambiamenti climatici cresce, un accumulo di forze militare in quella parte di mondo comporta nuovi rischi geopolitici e ambientali.

La ricercatrice Gabriella Gricius spiega che un rafforzamento degli Stati Uniti previsto nel disegno di legge del Senato alimenterà l’attrito con la Russia.”Ci sono certamente conseguenze reali per la maggiore presenza militare degli Usa nell’Artico”, ha detto Gricius. “Potrebbe essere vista come una provocazione dalla Russia e comportare un aumento delle esercitazioni militari russe”, ha aggiunto. In passato il Consiglio Artico ha supervisionato la cooperazione di vari paesi e nazioni indigene riguardo i rischi geopolitici e climatici ma l’invasione russa dell’Ucraina, il consiglio ha sospeso le sue attività.

Gricius avverte che la mancanza di cooperazione nella regione è un pericolo. “L’Artico russo costituisce circa il 50 percento dell’intero Artico, il che significa che non è possibile che la Russia sia esclusa, Mosca non può essere rimossa dall’Artico e continuerà ad essere un attore chiave nella regione”, ha spiegato.

Oltre al rischio di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, un potenziamento militare statunitense nell’Artico minaccia di esacerbare il cambiamento climatico. Sebbene il Dipartimento della Difesa e vari rami delle forze armate statunitensi abbiano recentemente pubblicato piani di “adattamento climatico”, il contenuto si concentra principalmente sull’adeguamento delle operazioni, piuttosto che sulla riduzione delle emissioni. La Marina ha pubblicato a maggio un piano che è stato redatto omettendo riferimenti alle sue navi e aerei da combattimento, le due principali fonti di inquinamento delle forze armate Usa. Peraltro, gran parte dell’impatto delle emissioni militari rimane sconosciuto a causa di una scappatoia nell’accordo di Parigi sul clima che esenta i governi dal segnalare le emissioni dei loro militari.

Secondo una ricerca il 30 percento delle emissioni dei militari provengono da “installazioni”, ossia dall’uso di energia in basi e altri impianti. L’altro 70 percento è generato da “emissioni operative” o dall’uso di energia durante le attività di addestramento, missioni, trasporti e altre attività. Pertanto, l’aumento delle attività militari nell’Artico si tradurrà in un aumento inevitabile dell’inquinamento. Gli aerei in particolare contribuiscono al 70 percento delle emissioni operative.

“Nonostante la frenesia dei media per la militarizzazione e il conflitto nell’Artico, il cambiamento climatico è la minaccia più grande e pervasiva per la regione”, ha affermato Gricius. Il cambiamento climatico, dice, dovrebbe essere un’opportunità di cooperazione. “Gli Stati Uniti, in particolare, dovrebbero e possono svolgere un ruolo importante sia nel sostenere le iniziative locali in Alaska sui cambiamenti climatici sia nell’unire progetti di cooperazione tra scienziati, diplomatici e altri attori nella regione”. Pagine Esteri.

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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre


Due giorni fa la Corte Suprema di Giustizia israeliana aveva rigettato la petizione che chiedeva il suo rilascio. Il detenuto, senza processo, era in “imminente pericolo di morte” dopo oltre 170 giorni di digiuno L'articolo Khalil Awawdeh sospende lo sci

AGGIORNAMENTO ORE 22

Il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 172 giorni contro la detenzione “amministrativa” (senza processo), ha sospeso il suo digiuno dopo che le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 2 ottobre. La liberazione di Awawdeh rientrava in un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e il Jihad islami che ha posto fine a tre giorni di attacchi aerei israeliani alla Striscia di Gaza il 7 agosto e lanci di razzi verso Israele che hanno ucciso circa 50 palestinesi tra cui 17 bambini e quattro donne.

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di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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AlphaFold, come l’intelligenza artificiale rivoluziona la biologia. Di @CastigliMirella su @Agenda_Digitale


ALPHAFOLD, COME L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE RIVOLUZIONA LA BIOLOGIA

!Etica Digitale

L’AI di Alphafond ha permesso di creare un archivio digitale con 200 milioni di proteine di cui prevede la forma 3D. Non solo di strutture proteiche umane, ma anche di altri esseri viventi. Accanto alle opportunità di semplificare la ricerca scientifica, non mancano le criticità

L'articolo di Mirella Castigli su #AgendaDigitale

agendadigitale.eu/sanita/alpha…



OMICIDIO ABU AKLEH: Per Israele c’è un’ “alta possibilità” che ad ucciderla sia stato il suo esercito


Ma le autorità israeliane annunciano che nessuna indagine penale sarà condotta sull’assassinio della giornalista di Al Jazeera L'articolo OMICIDIO ABU AKLEH: Per Israele c’è un’ “alta possibilità” che ad ucciderla sia stato il suo esercito proviene da Pa

di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 05 settembre 2022 – Sono stati pubblicati nel pomeriggio di lunedìi risultati dell’inchiesta interna alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) in merito all’omicidio di Shireen Abu Akleh, la reporter di Al Jazeera morta l’11 maggio scorso a causa di un colpo d’arma da fuoco che l’ha colpita alla testa mentre documentava alcuni scontri a Jenin, in Cisgiordania, per conto del suo giornale.

Per quanto non si possa “determinare inequivocabilmente l’origine degli spari che hanno colpito la signora Abu Akleh”, si legge nel report, “c’è un’alta possibilità che la signora Abu Akleh sia stata accidentalmente colpita da colpi di arma da fuoco dell’IDF, che sono stati sparati contro sospetti identificati come uomini armati palestinesi armati, durante uno scontro a fuoco in cui sono stati esplosi colpi pericolosi, diffusi e indiscriminati contro i soldati dell’IDF”.

A condurre l’inchiesta, una task force prevalentemente costituita da comandanti dell’IDF – affiancati da “personale aggiuntivo” – che avrebbero fatto ricorso a interrogatori ai soldati presenti sul luogo dell’accaduto, ricostruzioni temporali e potenti tecnologie, non ultima l’analisi balistica in un laboratorio forense del proiettile estratto dal corpo di Abu Akleh. Il proiettile, infatti, era stato consegnato dall’Autorità Nazionale Palestinese che ne era in possesso allo Stato di Israele il 2 luglio scorso, affinché le autorità israeliane conducessero le proprie valutazioni tecniche. “Alla luce del cattivo stato fisico del proiettile”, si legge, “è difficile identificare la fonte da cui è stato sparato”.

Resta comunque, si conclude nell’indagine, l’”alta possibilità” della responsabilità dell’esercito israeliano nella morte della giornalista, uccisa mentre indossava, come i suoi colleghi, la pettorina con scritto “Press”. A dichiarare che a uccidere la reporter sia stato un soldato israeliano erano intervenute in questi mesi già diverse organizzazioni per i diritti umani, associazioni di giornalisti e numerose indagini condotte dalle Nazioni Unite. Dopo tali evidenze, la dichiarazione dell’IDF giunge non certo come un’ammissione di colpevolezza.

Nel report, infatti, si ribadisce più volte l’intento “antiterroristico” dei soldati presenti quel giorno sul campo. “E’ importante enfatizzare”, si scrive, “che durante tutto l’incidente, i proiettili dell’IDF sono stati sparati con l’intenzione di sparare ai terroristi che avevano sparato contro i soldati dell’IDF”. In conclusione, la morte della giornalista sarebbe stato un danno collaterale di un’operazione per la sicurezza israeliana.

Per questo motivo, “l’avvocato generale militare ha ritenuto che, nelle circostanze del caso, non vi sia alcun sospetto di reato che giustifichi l’apertura di un’indagine della polizia militare”. Il caso è chiuso per l’IDF, che esprime le sue condoglianze alla famiglia di Abu Akleh.

Il commento dei familiari di Abu Akleh all’indagine dell’IDF non si è fatto attendere. “Come previsto, Israele ha rifiutato di assumersi la responsabilità dell’omicidio di Shireen”, hanno dichiarato lunedì stesso, “La nostra famiglia non è sorpresa da questo risultato poiché è ovvio per chiunque che i criminali di guerra israeliani non possano indagare sui propri crimini”. Per questo, i familiari della reporter annunciano che non si fermeranno di fronte a questo “tentativo di Israele di nascondere la verità”.

La famiglia della reporter, insieme all’emittente di notizie Al Jazeera per la quale lavorava da oltre 25 anni, aveva già riferito il caso alla Corte Penale Internazionale.

Anche l’ANP ha commentato l’indagine ufficiale dell’IDF. Nabil Abu Rudeineh, portavoce del leader palestinese Mahmoud Abbas, ha bollato l’inchiesta come un “nuovo tentativo israeliano di evadere ogni responsabilità per l’omicidio”.

L’omicidio di Shireen Abu Akleh aveva scatenato forti proteste in Palestina, dove era un volto noto, una delle giornaliste di punta della tv palestinese. Severe erano state le condanne dell’opinione pubblica, colpita dall’omicidio a sangue freddo di una reporter uccisa mentre svolgeva il suo lavoro. Già prima di quest’ultima inchiesta delle autorità israeliane, tuttavia, la speranza in una sentenza che inchiodasse gli autori dell’assassinio era già stata smorzata dall’intiepidirsi dell’interesse internazionale nella faccenda. In particolare, gli Stati Uniti, che avevano inizialmente reclamato un’indagine “credibile e indipendente” sull’episodio, avevano successivamente ammorbidito la loro posizione. Anche negli USA, infatti, il proiettile era stato sottoposto a un’indagine balistica, e il 4 luglio il Dipartimento di Stato Americano aveva dichiarato l’impossibilità di “giungere a una conclusione definitiva circa l’origine della pallottola che ha ucciso la giornalista americano-palestinese”. Un responso molto simile a quanto stabilito dall’IDF il 5 settembre.

Abu Akleh sarebbe per il momento una vittima del fuoco incrociato, nonostante la sua famiglia continui a chiedere giustizia. Il suo nome, secondo il sindacato dei giornalisti palestinese, si aggiunge a quello di almeno altri 45 giornalisti uccisi a Gaza e in Cisgiordania da parte di Israele dal 2000 ad oggi. Pagine Esteri

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CISGIORDANIA. In vigore le nuove regole per gli stranieri, se sposeranno palestinesi avranno un visto ridotto


Le nuove restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi e imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all'estero pur di conservare la famigli

della redazione

Pagine Esteri, 5 settembre 2022 – Stando agli ultimi sviluppi riferiti dalla stampa locale, gli stranieri in Cisgiordania per motivi di lavoro, in visita o per attività di volontariato non dovranno più informare il ministero della difesa israeliano se hanno avviato una relazione sentimentale con un/una palestinese. Tuttavia se il rapporto instaurato porterà al matrimonio dovranno andarsene dopo 27 mesi per un periodo di almeno sei mesi. Pressioni Usa e dell’Ue, sostiene il Times of Israel, avrebbero spinto il Cogat, il dipartimento delle Forze armate responsabile per gli affari civili nei Territori palestinesi occupati, a rivedere in parte le nuove regole per gli stranieri in Cisgiordania che entrano in vigore oggi.

Erano già pronte lo scorso febbraio ma ricorsi e petizioni le hanno tenute congelate sino ad oggi. Le 97 pagine della «Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria», il nome biblico che Israele usa per la Cisgiordania palestinese, vanno ben oltre le relazioni sentimentali tra stranieri e palestinesi. Le nuove restrizioni colpiscono aziende, uomini d’affari, i programmi di aggiornamento professionale nella sanità, le organizzazioni umanitarie e tanti altri settori perché le limitazioni alla durata dei visti e alle loro estensioni consentono agli stranieri di restare in Cisgiordania solo per brevi periodi. Impongono alle università palestinesi una quota di 150 visti per gli studenti e 100 per i docenti stranieri, limiti inesistenti in quelle israeliane. Questa misura, sempre secondo la stampa israeliana, sarebbe stata eliminata. La Commissione europea si è detta «preoccupata» per le discriminazioni che le nuove procedure causeranno allo svolgimento del programma universitario Erasmus+.

Le nuove regole in ogni caso non si applicano a coloro che visitano Israele e gli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania. Ciò rende evidente la doppia legislazione che Israele applica da decenni nel territorio palestinese sotto il suo controllo. Ad esempio, un italiano che volesse lavorare in un villaggio palestinese della Cisgiordania sarà soggetto alle procedure restrittive stabilite dal Cogat, cioè le forze armate, mentre se vorrà farlo in una colonia ebraica a un paio di chilometri di distanza da quel villaggio, dovrà rispettare le disposizioni, decisamente più leggere, previste per gli stranieri che entrano o intendono risiedere in Israele.

Le regole stabiliscono inoltre che i possessori di passaporto straniero, a cominciare dai palestinesi che vivono all’estero, intenzionati a visitare la Cisgiordania (ad eccezione degli insediamenti coloniali), non potranno più ottenere il visto all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e invece dovrà farne richiesta con almeno 45 giorni di anticipo. E dovranno entrare dal valico di Allenby/King Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania, quindi dovranno atterrare ad Amman.

Per i palestinesi queste procedure si inseriscono «in un disegno ampio volto a colpire gli stranieri che fanno volontariato e cooperazione nei Territori occupati». Secondo Jessica Montell, direttrice dell’ong israeliana HaMoked, che ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana contro le restrizioni, «siamo davanti all’ingegneria demografica della società palestinese e del suo isolamento dal mondo esterno. Le nuove regole renderanno la vita difficile alle persone che intendono lavorare nelle istituzioni palestinesi, investire, insegnare e studiare».

Le restrizioni vanno ad aggravare altre limitazioni che negano in gran parte dei casi la concessione della residenza ai coniugi stranieri di palestinesi in Cisgiordania dove migliaia di persone continuano a vivere con uno status legale incerto o sono costrette a lasciare le loro famiglie. La campagna «Right to Enter» denuncia che le procedure del Cogat «imporranno a tante coppie di trasferirsi o di rimanere all’estero pur di conservare la famiglia unita».

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Sono state presentate oggi, al Ministero dell’Istruzione, le Linee guida OCSE per il riconoscimento dei crediti nei CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti).


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