LibSpace con Giuseppe Benedetto – Analisi dei risultati elettorali
TRIPOLI DEL LIBANO. La povertà nella “città dei miliardari” provoca una migrazione letale
Di Timour Azhari e Laila Bassam – Reuters
Pagine Esteri, 27 settembre 2022 – Nella città da cui provengono i politici più ricchi del Libano, i residenti più poveri piangono ancora una volta i loro morti. Tra loro, Mustafa Misto, un tassista della città di Tripoli, e i suoi tre bambini piccoli, i cui corpi sono stati trovati giovedì al largo delle coste siriane dopo aver lasciato il Libano su una nave di migranti che trasportava più di 100 persone.
Il ministro dei trasporti libanese Ali Hamie ha detto alla Reuters che 95 persone sono morte nell’incidente, inclusi 24 bambini e 31 donne. È il viaggio più letale mai partito dal Libano dove la disperazione costringe sempre più persone a tentare la via del mare su barche sovraffollate per cercare una vita migliore in Europa.
Prima di intraprendere lo sfortunato viaggio, Misto si era indebitato pesantemente, vendendo la sua macchina e l’oro di sua madre per sfamare la sua famiglia. Malgrado ciò non poteva permettersi cose semplici, come il formaggio per i panini dei suoi figli, raccontano parenti e vicini.
“Tutti sanno che potrebbero morire, eppure dicono: Forse riuscirò ad arrivare da qualche parte, c’è una speranza”, dice Rawan El Maneh, 24 anni, un cugino di Misto. “Sono andati… non per morire bensì per trasformare le loro vite. Ora sono in una vita nuova. Spero che sia molto meglio di questa qui”.
La tragedia della migrazione ha messo in evidenza l’aumento della povertà nel nord del Libano, a Tripoli in particolare, che sta spingendo sempre più persone a fare scelte disperate, tre anni dopo il devastante crollo finanziario del Paese. Ha anche messo a fuoco le forti disuguaglianze che sono particolarmente acute nel nord: Tripoli è la patria di numerosi politici ultraricchi ma ha goduto molto poco in termini di sviluppo e investimenti.
Mentre molti dei leader settari libanesi investono nelle loro comunità per guadagnare sostegno politico, gli abitanti di Tripoli affermano che la loro città è stata trascurata nonostante la ricchezza dei suoi personaggi politici. Nei giorni scorsi le persone in lutto, riunite per rendere omaggio alle vittime del naufragio nel quartiere povero di Bab al-Ramel di Tripoli, hanno manifestato con rabbia contro i politici della città, tra cui Najib Mikati, il primo ministro e magnate miliardario del Libano. “Siamo in un paese in cui i politici succhiano soldi, parlano soltanto e non hanno alcun riguardo per ciò di cui le persone hanno bisogno”, protesta El Maneh.
Tripoli, la seconda città del Libano con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti, era già la più povera prima che il paese precipitasse nella crisi finanziaria, risultato di decenni di corruzione e malgoverno. Mohanad Hage Ali del Carnegie Middle East Center spiega che Tripoli non ha visto grandi investimenti nello sviluppo dalla guerra civile del 1975-90 nonostante l’ascesa politica dei ricchi uomini d’affari della città. “Ciò riflette la crescente disuguaglianza e disparità di reddito nel paese”, afferma.
foto di Dominic Chavez/World Bank
MILIARDARI E POVERTÀ
Mikati ha fatto gran parte della sua fortuna nelle telecomunicazioni ed è stato classificato da Forbes come il quarto uomo più ricco del mondo arabo nel 2022. Attraverso il suo ufficio, ha detto alla Reuters di essere stato il “più grande sostenitore dello sviluppo socio-economico di Tripoli” per più di 40 anni, attraverso le sue fondazioni di beneficenza. Ha anche detto di comprendere “l’agonia che sta attraversando il popolo libanese in generale e Tripoli in particolare”, a causa della crisi. La villa di Mikati sul mare alla periferia della città è stata un punto di raccolta durante le proteste degli ultimi anni contro la corruzione del governo e la disperazione economica. Un pubblico ministero nell’ottobre 2019 ha accusato il premier di arricchimento illecito per essersi appropriato di fondi di un programma di prestiti sovvenzionati per le case destinate alle famiglie povere. Accuse che Mikati ha negato. Secondo il suo ufficio si tratta di accuse “motivate politicamente allo scopo di rovinare la reputazione del premier”. Un altro giudice ha archiviato il caso all’inizio di quest’anno.
PROBLEMI DELLA REGIONE
Riflettendo lo scollamento tra gli abitanti di Tripoli e i politici locali e la convinzione che nulla cambierà, solo tre persone su 10 in città hanno votato alle elezioni parlamentari di maggio. Il nord è stata una delle regioni più travagliate del Libano dalla fine della guerra civile. La città e le aree circostanti sono state terreno fertile di reclutamento per giovani jihadisti sunniti. Più recentemente, Tripoli è stata un punto focale del peggioramento della situazione legato al collasso finanziario libanese, tanto che il ministro dell’interno Bassam Mawlawi ha annunciato un piano di sicurezza dopo una ondata di crimini e violenze in quella zona.
Diverse dozzine di persone che erano sulla nave dei migranti (affondata) provenivano dal vasto campo profughi palestinese di Nahr al-Bared. C’erano anche molti siriani, di cui circa 1 milione vive in Libano. La crisi economica ha portato la povertà alle stelle, con l’80% della popolazione di circa 6,5 milioni ridotta in miseria, secondo le Nazioni unite. Il governo ha fatto poco per affrontare la crisi che la Banca Mondiale ritiene “orchestrata” dall’élite attraverso la sua presa sfruttatrice sulle risorse del paese.
Altri avevano tentato il viaggio in mare la scorsa settimana: Cipro ha salvato 477 persone a bordo di due navi che avevano lasciato il Libano. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati riferisce che 3.460 persone hanno lasciato o tentato di lasciare il Libano via mare quest’anno, più del doppio rispetto all’intero 2021.
Tra coloro che sono morti sulla barca che trasportava Misto c’erano anche una donna e i suoi quattro figli della regione settentrionale di Akkar. Il padre è uno dei pochi sopravvissuti. Per il sindaco Yahya Rifai la crisi in atto è la peggiore della guerra civile. “Non so cosa che non va in questi politici…Dovranno rispondere di tutto questo”, ha avvertito. Pagine Esteri
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Materasso in memory foam: caratteristiche e vantaggi
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Schiavi a Zanzibar: Tre Testimonianze Ottocentesche
Il Mercato degli Schiavi a Zanzibar raggiunse il massimo sviluppo nel XVIII e nella seconda metà del XIX secolo. Schiavismo Islamico ed Europeo Lo studio dello schiavismo e delle sue ramificazioni storiche è di estremo interesse.Continue reading
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Mosca: sconcerto per la liberazione dei capi del Reggimento Azov
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 27 settembre 2022 – Proprio mentre Vladimir Putin decretava la mobilitazione generale parziale nel tentativo di rafforzare il dispositivo bellico finora dispiegato in Ucraina, tra Mosca e Kiev andava in scena il più massiccio scambio di prigionieri finora realizzato.
Lo scambio ha colto di sorpresa tutti, a partire dalle opinioni pubbliche russa e ucraina, e ha provocato malumori e polemiche a Mosca e nelle repubbliche del Donbass.
215 contro 56
Il Cremlino è riuscito a irritare sia le correnti antifasciste e di sinistra, che evidentemente avevano creduto che il proposito di “denazificare” il paese invaso giustificasse la cosiddetta “operazione militare speciale”, sia quelle di destra e ultranazionaliste, per non parlare dei settori della società russa che tolleravano la guerra pensando però che sarebbero bastati i militari di professione a combatterla.
A provocare l’ira di molti russi è stata la decisione di liberare una gran quantità di combattenti del famigerato Reggimento Azov, la milizia di estrema destra che dal 2014 massacra la popolazione del Donbass in nome di un’Ucraina derussificata e ideologicamente omogenea.
In cambio della liberazione di 108 tra dirigenti e miliziani del Reggimento Azov, arresisi il 20 maggio al termine di un lunghissimo e sanguinoso assedio all’acciaieria Azovstal di Mariupol all’interno della quale si erano asserragliati, e di altri 107 tra soldati di altri reparti, guardie di frontiera, poliziotti, marinai, doganieri, medici e civili, il Cremlino ha ottenuto la “restituzione” del miliardario Viktor Medvedchuk e di 55 tra soldati e ufficiali.
Parata del Reggimento Azov
L’oligarca amico di Putin
L’evidente sproporzione nello scambio – 215 contro 56 – dà l’idea del peso che Putin attribuisce al miliardario ed ex leader del partito “Piattaforma di Opposizione – Per la vita”, la principale formazione di minoranza nel parlamento ucraino la cui attività è stata sospesa d’autorità dal governo di Kiev perché considerato la longa manus di Mosca. Messo agli arresti domiciliari nel 2021 per tradimento e poi accusato di aver pianificato un colpo di stato per instaurare un governo filorusso a Kiev, nell’aprile scorso l’oligarca aveva tentato di fuggire in Bulgaria travestito da soldato ma era stato nuovamente arrestato.
Medvedchuk è molto vicino a Vladimir Putin: Daryna, la figlia avuta con Oksana Marchenko – celebre conduttrice della tv ucraina sposata nel 2003 – è stata battezzata a San Pietroburgo potendo contare su due padrini del calibro del presidente russo e di Svetlana Medvedeva, moglie dell’attuale primo ministro russo Dmitrji Medvedev.
Possibile, ci si chiede, che la liberazione di Medvedchuk – che tra l’altro non è neanche cittadino russo – giustifichi un colpo così grave alla retorica della “denazificazione dell’Ucraina”, che almeno nei primi mesi del conflitto ha costituito il principale obiettivo dichiarato del Cremlino, insieme alla messa in sicurezza delle comunità russofone del Donbass martoriate da 8 anni di attacchi e bombardamenti da parte di Kiev e in particolare dei battaglioni punitivi – l’Azov, l’Ajdar, il Donbass – frutto della militarizzazione delle varie organizzazioni dell’estrema destra ucraina?
Durante tutti i conflitti avvengono degli scambi di prigionieri, e quello in corso in Ucraina non fa ovviamente eccezione.
Denis Pushilin, il leader della Repubblica Popolare di Donetsk che presto verrà annessa alla Federazione Russa dopo un referendum quanto meno discutibile (in barba al diritto all’autodeterminazione dei popoli che le varie potenze, al di qua e al di là dell’ex cortina di ferro, continuano a strumentalizzare per sostenere i propri interessi) difende l’operato del Cremlino. «Con i miei occhi ho visto come durante il processo di Minsk più di 1.000 dei nostri ragazzi sono stati liberati con l’aiuto di Viktor Medvedchuk che non sarebbero sopravvissuti altrimenti» ha spiegato Pushilin, sottolineando il fecondo ruolo di negoziatore dell’oligarca, in un video pubblicato dall’agenzia di stampa RIA Novosti.
Ma quelli concessi – e in così gran numero – a Kiev non sono prigionieri qualsiasi, sono gli odiatissimi componenti del Reggimento Azov, per scovare i quali i soldati delle milizie del Donbass e dell’esercito russo facevano spogliare gli uomini in fuga da Mariupol alla ricerca di tatuaggi raffiguranti svastiche, rune e altri simboli neonazisti.
Già a fine giugno i russi avevano, in un precedente scambio di prigionieri, liberato 95 combattenti dell’Azovstal, compresi 43 membri dell’Azov.
Il magnate Viktor Mevdevchuk
Kiev canta vittoriaMa stavolta, tra quelli che hanno recuperato la libertà ci sono il capo del distaccamento della Azov a Mariupol, Denys Prokopenko, il suo vice Svyatoslav Palamar, il comandante ad interim della 36ima brigata dei Marines Serhiy Vlynskyi, il comandante della 12esima brigata della Guardia nazionale, Denys Shleha e infine il comandante della compagnia che dirigeva la difesa delle acciaierie, Oleh Khomenko.
I cinque dovranno astenersi dal partecipare al conflitto e saranno obbligati a risiedere in Turchia “fino alla fine della guerra”, recita l’accordo mediato da Recep Tayyip Erdogan, ma la vittoria simbolica ottenuta dal presidente ucraino Zelenskyi è consistente e si somma ai risultati della controffensiva di Kiev che ha strappato a Mosca migliaia di chilometri di territori occupati.
L’ex comandante del Reggimento Azov e leader del partito di estrema destra “Corpo Nazionale”, che di fatto è un’emanazione dell’unità militare, Andrey Biletsky, sui social ha rivendicato la vittoria: «Ho appena parlato al telefono con Radish, Kalina, tutti hanno uno spirito combattivo e sono persino desiderosi di combattere. Un’altra conferma che Azov è di acciaio. Adesso i ragazzi sono già liberi, ma in un Paese terzo. Rimarranno lì per un po’, ma la cosa principale è già accaduta: sono liberi e vivi».
In libertà anche dieci mercenari stranieri
Come se non bastasse, lo scambio ha portato anche alla liberazione di dieci combattenti stranieri inquadrati nelle forze ucraine: cinque britannici, due statunitensi, un marocchino, un croato e uno svedese. Grazie alla mediazione del principe saudita Mohammed bin Salman, i mercenari sono stati trasferiti a Riad e da qui rimpatriati nei paesi d’origine.
Fra i cinque britannici rilasciati anche Aiden Aslin, catturato a Mariupol ad aprile, e Shaun Pinner; entrambi, insieme al marocchino Brahim Saadoun, erano stati già condannati a morte a giugno da un tribunale della Repubblica Popolare di Donetsk. Ancora all’inizio della settimana scorsa Denis Pushilin aveva avvisato che la fucilazione dei condannati alla pena capitale, per l’applicazione della quale si era personalmente speso, sarebbe stata imminente ma segreta. Segno che Pushilin era probabilmente all’oscuro della trattativa e dell’imminente liberazione dei mercenari che pure erano sotto la sua custodia; le decisioni importanti, non è un mistero, si prendono a Mosca.
Le critiche al Cremlino
E così, mentre in Ucraina si festeggia, sui canali telegram russi e persino su alcuni media ufficiali le critiche e le accuse nei confronti del Cremlino emergono apertamente da parte di chi ha visto improvvisamente sfumare la Norimberga promessa da Putin a carico dell’estrema destra ucraina, che le autorità di Mosca hanno inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e che accusano di aver organizzato l’attentato costato la vita alla figlia di Alexander Dugin, ideologo dello sciovinismo grande-russo.
Tra i più duri il leader ceceno Ramzan Kadyrov – i suoi miliziani hanno dato un contributo fondamentale alla presa di Mariupol e all’assedio dell’Azovstal – secondo il quale «i criminali terroristi non dovrebbero essere scambiati con i soldati». D’ora in poi, ha avvisato Kadyrov dopo aver espresso il suo malumore per non essere stato consultato sullo scambio, le sue milizie «trarranno le proprio conclusioni e non faranno prigionieri i fascisti».
Igor Girkin “Strelkov”, una delle voci più influenti dell’ultranazionalismo russo e tra i primi leader delle repubbliche autoproclamate del Donbass (prima di essere messo da parte da Mosca) ha parlato di «fallimento totale», di una iniziativa «più grave di un crimine, peggiore di un errore, una grande stupidaggine».
Margarita Simonovna Simonyan, direttrice del canale russo d’informazione RT, si è lamentata della mancanza di cerimonie per il ritorno in patria dei prigionieri russi: «Perché i comandanti dell’Azov sono stati liberati? Spero che ne sia valsa la pena» ha scritto sul suo canale Telegram.
«Peggiore della liberazione di nazisti e mercenari può essere solo la nomina di Medvedchuk a qualche incarico nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk o nei territori liberati» ha invece commentato Alexander Diukov, storico e membro della Commissione Presidenziale russa sulle relazioni interetniche.
Il leader ceceno Kadyrov
Il ruolo di Abramovich, di Erdogan e di bin Salman
Ha generato inquietudine, in Russia, anche il ruolo di un altro oligarca, questa volta russo, Roman Abramovich, che si è personalmente speso per la liberazione dei dieci foreign fighters, e in particolare di quelli britannici. Secondo alcune indiscrezioni circolate nei giorni successivi allo scambio, Abramovich era addirittura sull’aereo che li ha trasportati in Arabia Saudita.
Sul fronte internazionale, poi, emerge la competizione tra Erdogan e bin Salman nel ruolo di pontieri tra Russia e Ucraina. Il leader turco ha saputo, dopo mesi di stallo nelle trattative tra Kiev e Mosca, ottenere un nuovo successo personale dopo aver negoziato a luglio lo sblocco delle navi cariche di grano ancorate nei porti dell’Ucraina meridionale. La vicenda dello scambio ha però visto anche l’emergere dell’Arabia Saudita come mediatore credibile tra i due contendenti. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
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Paesi arabi: l’opinione pubblica sfida l’immagine che i leader amano proiettare
I sondaggi rivelano atteggiamenti contraddittori tra i giovani arabi nei confronti della religione, del rifiuto dell'Islam moderato e dei legami diplomatici formali con Israele. I riformatori autocratici sembrano essere molto più avanti di segmenti significativi della loro popolazione
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Sai cos'è un DAE? Hai mai partecipato ad un corso di primo soccorso?
Continua a seguirci per saperne di più! Ci vediamo il 29 settembre.
Ucraina: dopo i referendum, l’annessione che sarà
Il referendum in corso nelle repubbliche del Donbass e nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia potrebbero aprire una nuova e più pericolosa fase della guerra. Le modalità, il significato e il costo dell'annessione
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Guerra ucraina: i referendum del Putin ‘raccoglitore di terre russe’
Le annessioni hanno lo scopo di costringere l'Ucraina ad abbandonare la sua campagna di liberazione in corso, a desistere da tali sforzi in futuro e dissuadere i partner occidentali dell'Ucraina dal sostenere gli attuali e futuri tentativi ucraini di riconquistare questi territori con la forza
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Stiamo spingendo il Sud del mondo nelle braccia della Cina
Pechino è in lizza per il ruolo di leadership tra questi Paesi e si sta facendo strada. Washington è abbastanza agile da apportare modifiche alla sua politica estera, e più in generale alla sua visione del mondo e della storia?
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Sui roghi notturni delle donne persiane ed altre storie.
Mentre in Italia aspettiamo – trepidanti o fatalistici, secondo la parte – che il centenario del fascismo al governo si incarni; dall’Iran giungono immagini che assomigliano alla classica boccata d’aria. Non mi fraintendere lettrice, lettore, nessun parallelismo, nessuno scongiuro, nessun facile confronto. Spero sempre che all’avvento di una destra al governo, con la prima donna presidente del consiglio in Italia, non corrisponda nulla che assomigli al becero e retrivo patriarcato che tentiamo faticosamente, tutti, di lasciarci alle spalle. Ma certo, che bello vedere le donne persiane mandare al rogo i loro odiosissimi veli in dispregio alla legge coranica!
Abbandono il sentiero delle scivolose questioni interne e mi concentro su quel documento visivo che spero presto diventi storico oltre che virale.
Nel palazzo in cui tengo studio assieme a mia moglie ‘avvocata’, incrocio ogni mattina decine di fieri uomini africani che vanno al lavoro; profumatissimi e diffidenti, non ti danno mai il saluto per primi e quando lo ricambiano lo fanno con una specie di risposta masticata tra i denti. Sono i migranti di prima generazione, come noi nel nord Italia, nell’America, nell’Australia, nel Belgio o nella Germania di un novecento troppo presto dimenticato. Anche allora tutti si abbassava lo sguardo se si incrociava una donna ‘emancipata’ che andava a lavoro, e fioccavano dalle labbra commenti lussuriosi, ludibri.
Qualche tempo fa ho avuto in aula una ragazza nordafricana; fra triennio e biennio ha seguito le mie lezioni dai diciotto ai ventitre anni circa. Era fiera, caparbia, orgogliosa e portava fieramente, caparbiamente, orgogliosamente il velo. Mentre mi parlava dall’altra parte della cattedra, mi sono chiesto più volte cosa la spingesse a condividere nell’Italia contemporanea un’usanza così inattuale e
arcaica. Cosa la spingesse a farsi interprete di un maschilismo e un patriarcato talmente ovvio ai miei occhi ma talmente granitico nelle sue convinzioni giovanili.
Anche qui, cara lettrice, caro lettore, non mi fraintendere.
Sono uno scettico e sospendo sempre ogni forma di giudizio, un poco per non entrare troppo dentro la vita delle persone, ma anche per non dare l’impressione di un moralità del tutto estranea alle mie convinzioni.
La guardavo e da scettico, completamente laico e amorale, a mio modo la rispettavo. Non che non avessi il diritto anche solo accademico di porre la fatidica domanda: “chi te lo fa fare?”.
Insegno Storia della moda e avrei potuto farne motivo di un genuino interesse culturale e didattico da condividere con il resto della classe. Ma davvero la mia educazione non mi consente facili giudizi. La ragazza ha continuato così, per la sua strada, indisturbata e senza alcun commento.
Entro il 1377-80, la bottega in cui opera il “Maestro del compagno del Falconiere” completava il soffitto ligneo di Palazzo Chiaramonte (oggi Steri) a Palermo, con splendide storie dipinte.
In alcuni episodi del ciclo decorativo la vita della città panormita pulsa al punto da apparire estremamente attuale. In uno dei lacunari una donna interamente velata addita se stessa come a dire: “Eccomi qui, io sono quella“. Nell’altra mano sgrana un rosario. Del suo viso ci concede solo gli occhi, il resto del corpo è gelosamente imbozzolato nelle vesti.
Quale distanza separa quella donna saracena nella Palermo del tardo Trecento dalla mia fiera allieva?
Cosa separa la mia fiera allieva dalle donne iraniane che giusto ieri, finalmente, davano fuoco ai veli?
Davvero non saprei, ma come uomo del XXI secolo che attende ancora la piena parità dei diritti di genere (di tutti i generi) e la piena integrazione delle genti migranti (di tutte le genti migranti), non me ne vogliano la misteriosa palermitana del 1377-80 né la mia brava e gentile allieva, di gran lunga preferisco i roghi notturni delle donne persiane.
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Il governo spaziale sfiducia Vittorio Colao e la Francia investe 9 miliardi
Piove. «Governo ladro!» Ma veramente le improponibili manchevolezze di un governo possono entrare anche nel merito della tempesta tropicale che in questi giorni colpisce la Florida e che sta trattenendo la nuova missione lunare a Terra? Non esageriamo! Questa volta, degli obiettivi prefissati, la verifica della nuova procedura che riduce le probabilità di perdite dei […]
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 "Principali dati della scuola - Avvio anno scolastico 2022/2023", pubblicato l'approfondimento statistico sulla scuola statale
🔸 Decreto direttoria…
Dopo il voto
Le lezioni politiche restituiscono un vincitore e molti sconfitti…
Le elezioni politiche restituiscono un vincitore e molti sconfitti.
La prima cosa da osservare è che, come previsto, i voti alle formazioni, a vario titolo, populiste sono la maggioranza. Questo è un punto rilevantissimo, perché il pericolo per un sistema democratico non viene dalla vittoria della destra o della sinistra, ma dalla sconfitta della politica.
Secondo punto: non c’è dubbio che il vincitore sia Fratelli d’Italia e chi ha diretto il partito, cioè Giorgia Meloni. Su questo non c’è alcun dubbio. I dati si assesteranno, ma, insomma, sono abbondantemente sopra il 25% e navigano verso il 26%.
Non dimentichiamoci, però, che nel 2014 il Partito Democratico di Renzi ottenne più del 40% dei voti. Nel 2018 il MoVimento 5 Stelle ottenne più del 32% dei voti. Nel 2019 la Lega ottenne alle europee più del 34% dei voti.
Dunque, il tema, come dimostrano questi numeri, non è solo quanti voti si prendono, ma per quanto tempo si riescono a conservare e per fare che cosa.
Questo è il problema che oggi si trova di fronte la maggioranza, che è una maggioranza assoluta sia alla Camera, sia al Senato. Quindi se c’è una cosa sicura è che farà un governo e che il governo sarà guidato da Giorgia Meloni.
Inoltre, Fratelli d’Italia da sola ha più voti di Forza Italia e la Lega sommati, significativamente più voti. Questo nel caso in cui andassero d’accordo su tutto non sarebbe un problema, ma, in realtà, invece, un problema lo sarà, perché gli sconfitti dovranno in qualche modo farsi valere.
Del resto, già in queste ore, Berlusconi dice che Forza Italia è determinante ed è vero. Le elezioni le vince Fratelli d’Italia, che ha un risultato superiore a quello di chiunque altro, ma non ha la maggioranza né alla camera né al Senato, se non con i suoi alleati, i quali, nel corso di tutta la campagna elettorale, su molte cose importanti, hanno detto il contrario di quello che diceva Fratelli d’Italia.
Per concludere: cosa ci aspetta? Beh vedo che Crosetto, esponente importante di Fratelli d’Italia, dice che per la manovra economica serve che Draghi dia una mano. Draghi darà sicuramente una mano, non a questo o a quel partito, ma all’Italia.
Abbiamo bisogno tutti di stabilità, ma questo significa che molte delle parole d’ordine della lunga ascesa devono essere smentite. E del resto se il principale, nonché pressoché unico partito di opposizione nella legislatura appena conclusosi, vincitore delle successive elezioni, dice che Draghi deve darci una mano – lo stesso Draghi a cui fece opposizione – mi pare che il cammino verso la smentita di quel che si è sostenuto è già cominciato.
A sinistra perdono perché si sono persi e devono praticamente ricominciare da zero.
L'articolo Dopo il voto proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Sturarsi
Esito del voto
Cominciamo dai risultati elettorali, che constateremo domenica notte e saranno evidenti al successivo sorgere del sole. Cominciamo con il capire come andranno le elezioni, quali dati saranno più rilevanti, per poi provare a immaginarne le conseguenze.
Una volta fatto questo esercizio, potremo andare a votare. Indro Montanelli, nel 1976, suggerì di farlo turandosi il naso, in modo da dare il consenso alla Dc ed evitare il sorpasso da parte del Pci. Ora sarà meglio sturarsi il naso, aprire gli occhi e tendere le orecchie.
Dalle urne uscirà una maggioranza assoluta, ma diversa da quella di cui tutti ragionano. Non avrà una marca di destra (che già si sente ed è data vincente) o di sinistra (che già si sente ed è data perdente), ma del tutto diversa: sarà populista.
Le forze in vario modo riconducibili al populismo, all’essere contro, saranno prevalenti. Per capire il dopo, però, sono decisive due osservazioni:
- quelle forze non sono solo divise, ma contrapposte e si alimentano dell’essere contro anche verso chi è più a loro assimilabile;
- il loro successo è dissonante rispetto a quello che gli stessi elettori affermano di sentire.
Tanto per fare un esempio, la grande maggioranza dei sondati riconosce a due sole figure una fiducia che supera la sfiducia: Mattarella e Draghi. Tutti gli altri leader hanno i loro tifosi, ma la sfiducia supera nettamente la fiducia. Eppure Mattarella e Draghi sono quanto di più lontano si possa immaginare dal populismo.
Come è possibile, allora? Capita perché il giudizio sui fatti si separa dalla faziosità politica e perché il consenso a quelle due figure istituzionali è a sua volta una dimostrazione di sfiducia nella politica. Che, però, non genera forze nuove e degne di fiducia, bensì la faziosità delle sfiducie contrapposte.
A sinistra perdono perché si sono persi, ma anche la destra ha perso grande parte di sé perché gli uni e gli altri non hanno avuto né forza intellettuale né coraggio politico di contrastare il populismo, provando solo a succhiarne la ruota. Una furbizia ottusa che ha svuotato di politica la politica.
Ma siccome la realtà esiste e i problemi non si lasciano imbambolare dalla parlantina, ancora una volta la conseguenza del voto sarà portare ad un bivio: o si resta coerenti con quel che si è raccontato, nel qual caso o non si riuscirà a governare o si danneggeranno seriamente gli interessi italiani; oppure si apre la danza del trasformismo, che da qualche legislatura e specie in quella che ora si chiude è stata un’orgia.
Se la destra avrà la maggioranza assoluta degli eletti non potrà che formare il governo e non potrà che guidarlo chi ha moltiplicato i propri voti: Giorgia Meloni. Il potere è un grande collante, ma anche un potente solvente. Le altre due forze della destra, Lega e Forza Italia, erano prima dominanti e ora sono soccombenti. Vivranno travagli interni, specie la Lega, ma poi scaricheranno le contraddizioni sul governo.
A sinistra il Partito democratico dovrà scegliere se spaccarsi o riconsegnarsi ai 5 Stelle. Se tornare a elaborare politica o puntare all’ennesima rivincita che si rivelerà l’ennesima riperdita.
Ma la politica non vive in un pianeta suo, è comunque espressione dell’elettorato. E il risultato di domenica parlerà chiaro: troppi non capiscono o non apprezzano la forza della democrazia parlamentare e la generazione di ricchezza che ci deriva dalla collocazione occidentale e dall’integrazione europea.
Troppi pensano siano cose scontate, acquisite per sempre e, quindi, che si possano detestare senza pagare il prezzo. Troppi credono che si possa sempre scaricare tutto su un futuro con sempre meno italiani. Troppi chiedono un governo forte e avversano la forza del governo. E non è un problema solo italiano, è il diffuso derivato del benessere goduto e non conquistato. E questa storia non si chiude domenica, ma ricomincia lunedì.
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La vittoria di Giorgia Meloni entusiasma l’intera destra neofascista europea
della redazione
Pagine Esteri, 26 settembre 2022 – Esulta la destra in Europa, non solo quella estrema, per la vittoria straripante di Giorgia Meloni e del suo partito alle legislative italiane. Solo Benito Mussolini e il partito fascista, al quale, senza poterlo affermare pubblicamente, si richiama Fratelli d’Italia, era riuscito cento anni fa ad infondere tanto entusiasmo nella destra del Vecchio Continente. Gli applausi più scroscianti arrivano dalla Francia. Secondo Jordan Bardella, tra i principali dirigenti del Ressemblement National, il partito di Marine Le Pen, “Gli italiani hanno dato una lezione di umiltà all’Ue” di fronte alle presunte minacce della Presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen. “Nessuna minaccia – scrive Bardella in un tweet – può fermare la democrazia: i popoli europei alzano la testa e stanno prendendo in mano il loro destino!”.
Felice anche Eric Zemmour, ex giornalista di Le Figaro e leader del partito nazionalista francese Reconquete: “Dalla Svezia all’Italia stiamo vivendo la seconda coalizione di destra vittoriosa in Europa il cui cemento è la questione di identità. Rivolgo tutte le mie congratulazioni alla signora Meloni ed esprimo la mia gioia per il popolo italiano. Un popolo orgoglioso e libero che si rifiuta di morire”. Secondo Zemmour la vittoria della Meloni sarà di buon auspicio per le ambizioni del suo partito e della destra estrema francese.
Sulla stessa linea Vox, il partito neofascista spagnolo al quale Giorgia Meloni ha fatto spesso gli auguri e i complimenti. “Milioni di europei ripongono le loro speranze sull’Italia. Giorgia Meloni ha indicato la strada per un’Europa orgogliosa, libera e di nazioni sovrane, capaci di cooperare per la sicurezza e la prosperità”, ha scritto su Twitter il leader di Vox, Santiago Abascal. Altrettanto entusiasta Afd, partito della destra estrema tedesca con simpatie per il passato nazista. “Congratulazioni all’intera alleanza di centrodestra – scrive sui social Beatrix von Storch, vice leader di Afd. “Insieme agli amici Matteo Salvini e Giorgia Meloni – aggiunge – si può costruire un forte governo di destra. Svezia al nord, Italia al sud: i governi di sinistra sono quelli di ieri”.
Da segnalare la felicità espressa del premier polacco, un ultraconservatore, Mateusz Morawiecki – “Congratulazioni Giorgia Meloni!” – e l’applauso dei neofascisti ungheresi alla leader di Fratelli d’Italia e ai suoi compagni di coalizione. “Complimenti Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi. In questi tempi difficili, abbiamo bisogno più che mai di amici che condividano una visione e un approccio comune alle sfide dell’Europa”, esorta su Twitter Balazs Orban, consigliere del leader ungherese Viktor Orban, il riferimento più importante per l’attuazione di politiche neofasciste e razziste in Europa. Pagine Esteri
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Profughi palestinesi in Libano, 74 anni di diritti negati
di Michele Giorgio* –
(le foto scattate nei campi di Sabra, Shatila, Beddawi, Nahr al Bared sono di Michele Giorgio)
Pagine Esteri, 26 settembre 2022 – Ali Hamdan osserva la figlia Nabila che muove veloce il plettro tra le corde dell’oud. Le note sono quelle di un motivo della tradizione palestinese, della zona di Giaffa da dove il suo bisnonno giunse a Beirut da profugo, assieme ad altre migliaia di civili, nel 1948. Nabila studia da poco lo strumento ma già mostra del talento e Ali non nasconde l’orgoglio di padre. E così la madre, Reem, con il viso segnato dalla stanchezza e dalla povertà. Vivere nel campo profughi di Shatila fa invecchiare prima. Ci si sveglia ogni mattina pensando a come procurarsi qualche dollaro per sopravvivere, un’impresa ancora più ardua da qualche anno viste le condizioni economiche disastrose in cui è precipitato il Libano. «Ho imparato queste poche cose, non so suonare altro», ammette Nabila arrossendo. L’applauso dei genitori e degli ospiti stranieri la rincuora. La ragazza dà uno sguardo alla nonna che giace nel letto accanto a lei, silenziosa e con gli occhi chiusi. È malata, non riesce più a camminare.
«Dovrei farla ricoverare ma l’ospedale costa troppo. Non abbiamo l’assistenza sanitaria in Libano. L’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi, ndr) può coprire solo una piccola parte delle spese e a noi palestinesi non è permesso lavorare fuori dal campo», ci dice Ali. Fino a un paio d’anni fa Ali faceva il pasticciere. «Riuscivamo a tirare avanti senza tanti affanni, poi il proprietario ha dato il negozio a un profugo siriano e ho perduto il lavoro» racconta. «Parecchi dei palestinesi che hanno proprietà a Shatila» aggiunge «hanno scelto di affittare la loro bottega, è una entrata mensile sicura perché i siriani ricevono i sussidi dell’Onu e sono giunti qui con i loro risparmi. Per la stessa ragione, tanti palestinesi hanno affittato le loro case».
È una contesa tra profughi di guerre del passato e più recenti, da cui quelli palestinesi comunque escono in parte perdenti. Da un lato incassano piccole rendite che permettono di sopravvivere, dall’altro ingoiano amaro perché dopo decenni trascorsi in Libano restano fuori dal mercato ufficiale del lavoro e devono fare i conti con la perenne ostilità di una larga parte della popolazione libanese e delle forze politiche locali. Non che i siriani siano trattati con rispetto ma almeno possono muoversi con maggiore libertà e trovare occupazioni a nero in vari settori. E, comunque, agli occhi dei libanesi un giorno torneranno nel loro paese. I palestinesi invece, con Israele che nega loro il diritto al ritorno, sono guardati con grande diffidenza. Restano ospiti sgraditi da tenere segregati nei loro 12 campi ufficiali che non possono espandersi.
«Sono ormai quattro le generazioni di palestinesi in questo paese, per loro però non è cambiato nulla in questi decenni» ci conferma Sari Hanafi, docente di sociologia e attivista dei diritti dei palestinesi in Libano, che incontriamo all’Università americana di Beirut. «Le discriminazioni – dice Hanafi – sono evidenti e, purtroppo, ritenute legittime da tanti libanesi. Pesa anche il passato, la sanguinosa guerra civile libanese che ha visto i palestinesi far parte di uno degli schieramenti contrapposti, quello delle forze progressiste musulmane e druse. I libanesi a parole dicono di aver elaborato, digerita e dimenticata per sempre la guerra civile ma la realtà è ben diversa. E i palestinesi pagano ancora il loro conto».
Durante le campagne elettorali – inclusa quella per le legislative dello scorso marzo – il tema dei profughi, palestinesi e siriani, da rimandare a casa è sempre prioritario. Non pochi candidati agitano lo spettro della «naturalizzazione» dei profughi palestinesi che, se realizzata, porterebbe la comunità musulmana sunnita a crescere di centinaia di migliaia di individui, alterando gli equilibri settari che paralizzano il Libano. Numeri che tuttavia non hanno riscontro nella realtà. Nel 2017, un censimento del governo libanese contava 174.000 palestinesi in Libano, ben sotto gli oltre 400mila profughi registrati dall’Unrwa. Nei 74 anni trascorsi dalla Nakba e dall’espulsione dalla loro terra, tanti palestinesi hanno abbandonato il Libano cercando di rifarsi una vita altrove. In particolare dopo il 1982 quando l’Olp di Yasser Arafat fu costretta ad uscire dal paese invaso dall’esercito israeliano e anche a causa del massacro di migliaia di profughi a Sabra e Shatila compiuto dai Falangisti. «In questi ultimi anni – spiega Sari Hanafi – alcuni ministri libanesi hanno provato ad eliminare le restrizioni che impediscono ai palestinesi di svolgere decine di lavori e varie professioni ma sono tutti naufragati». Nel 2019 il ministro del lavoro Camille Abousleiman ha ribadito che i palestinesi sono stranieri in Libano nonostante la loro presenza di lunga data.
Un palestinese in Libano non può acquistare proprietà e pur laureandosi in una università libanese può svolgere la sua professione solo all’interno del campo in cui risiede. Ogni anno le autorità di Beirut concedono o rinnovano decine di migliaia di permessi di lavoro a persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e da altri paesi arabi. Solo poche centinaia sono offerte ai palestinesi. Il tasso di disoccupazione ufficiale nei campi è del 18% ma tra i giovani di età compresa tra 20 e 29 anni è del 28,5%. E comunque i lavori sono sempre a basso reddito. I più coraggiosi lavorano a nero fuori dal campo, sfidando i controlli delle autorità, facendo le pulizie nei palazzi dei libanesi ricchi o i muratori nei cantieri.
«I profughi palestinesi» commenta Kassem Aina, direttore dell’associazione Beit Atfal al Sumud «non smetteranno mai di chiedere di tornare nella terra di Palestina, perché solo in un loro Stato indipendente potranno vivere una vita libera e dignitosa». Pagine Esteri
*Questo reportage è stato pubblicato il 25 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto
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IRAN. Mahsa Amini, 60 dimostranti uccisi dalla polizia ma la protesta non si placa
di Valeria Cagnazzo, con aggiornamenti delle agenzie di stampa
Pagine Esteri, 26 settembre 2022 – Non si sono fermate le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in stato di fermo, il 16 settembre scorso. Migliaia di iraniani da giorni scendono per le strade contro colui che definiscono il “dittatore”, ossia la Guida Suprema l’ayatollah Khamenei, e il presidente Ebrahim Raisi, considerati i veri responsabili del decesso della ventiduenne, che era stata arrestata dalla “polizia morale” (la polizia incaricata di far rispettare i doveri della religione) del Paese. Sono state occupate le università di Tehran, Karaj, Yazd e Tabriz e le donne hanno continuato a tagliarsi i capelli e a bruciare i propri veli in pubblico.La repressione del governo iraniano prosegue intanto violenta. Secondo gli attivisti, sarebbero almeno 60 gli uccisi dalla polizia durante le manifestazioni. Uccisa anche Hadith Najafi, la ragazza simbolo dei cortei. Secondo la giornalista Masih Alinejad, la giovane attivgiaa ed è stata uccisa da sei proiettili nella città di Karaj. Tra i morti ci sono anche alcuni agenti di polizia e della milizia pro-governativa Basij.
Mahsa Amini
Centinaia gli iraniani arrestati durante le proteste. 17 i giornalisti finiti in manette. Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, sarebbe stato prelevato dalla sua casa Majid Tavakoli, attivista per i diritti umani che aveva partecipato alle proteste per la morte di Amini. La stessa sorte sembra essere spettata a un altro attivista, Hossein Ronaghi, freelance per il Washington Post: dopo aver registrato un’intervista sarebbe stato raggiunto da agenti della sicurezza.
A sostegno del presidente Raisi, che a proposito delle notti di proteste che stanno infiammando l’Iran giovedì scorso aveva dichiarato che nessun “atto di caos” sarebbe stato “tollerato” nel Paese. Venerdì e nei giorni successivi hanno sfilato decine di migliaia di donne e sostenitori del presidente. Nei loro slogan si chiede che i manifestanti scesi in strada per Mahsa Amini siano “giustiziati”: secondo i manifestanti pro-Raisi, nelle folle ci sarebbero agenti segreti americani infiltrati nel Paese con l’obiettivo di destabilizzarlo.
Intanto, nonostante le restrizioni che vengono applicate in queste ore alla navigazione su internet nel Paese, le immagini mostrano un Paese infiammato dalla rabbia delle donne, che malgrado gli arresti urlano da sette giorni “Morte al dittatore” e “Morte alla repubblica iraniana”.
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STORIA. La Palestina nell’età elisabettiana: la Gran Bretagna espierà finalmente i suoi peccati?
di Ilan Pappé*
(traduzione di Romana Rubeo)
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Mentre milioni di persone in Gran Bretagna e nel resto del mondo cantano le lodi della defunta Regina portandola ad esempio di moderazione, tatto e buon senso, le vittime del regime di colonizzazione e i “sudditi di second’ordine” in Gran Bretagna hanno una visione ben più complessa dei suoi settant’anni di regno.
Certo, la Regina non è stata la principale responsabile delle politiche attuate in questi decenni, ma a livello simbolico, ogni decisione è stata presa sotto l’egida di Sua Maestà, nel bene e nel male. Pertanto, è indubbio che un’era stia volgendo al termine e questo è sempre un buon momento per riflettere e stilare bilanci. Vorrei soffermarmi ad analizzare, in particolare, la politica britannica nei confronti della Palestina durante questi anni e le inevitabili conseguenze.
Il regno della Regina Elisabetta è iniziato dopo la Nakba. Pertanto, la vergognosa condotta britannica, che ha di fatto affrancato la pulizia etnica dei palestinesi nel 1948 ad opera di Israele, è riconducibile al periodo in cui suo padre era sovrano del Regno Unito. Elisabetta è ascesa al trono nel momento in cui il Partito Conservatore si stava riprendendo da una clamorosa e inaspettata sconfitta alle elezioni del 1945. I Laburisti erano al governo della Gran Bretagna durante il periodo della Nakba, la cui responsabilità ricade, dunque, anche su di loro.
Quando i Conservatori tornarono al governo, prima con Winston Churchill e poi con Anthony Eden, il governo di Sua Maestà scrisse un altro capitolo vergognoso nelle relazioni con la Palestina e il mondo arabo. La Gran Bretagna collaborò con Francia e Israele nel tentativo di rovesciare Gamal Abdul Nasser, sostenendo l’intransigente rifiuto israeliano a consentire il ritorno dei profughi palestinesi. Un rifiuto seguito dall’ordine di sparare a vista contro i profughi palestinesi che cercavano di recuperare i raccolti, i capi di bestiame e quant’altro fosse rimasto dopo il saccheggio israeliano delle campagne palestinesi nel 1948.
Il Partito Laburista, nel periodo compreso tra la Nakba e la Naksa (la guerra del giugno 1967), fu quasi sempre all’opposizione. Restò comunque il più fedele alleato di Israele, a livelli inimmaginabili persino oggi. Tale alleanza era siglata anche dal Consiglio dell’Unione Sindacale, che, insieme ad altri organismi socialisti, chiuse un occhio sulle sofferenze inflitte alla popolazione araba a partire dal 1948. Il governo militare israeliano si fondava su regolamenti di emergenza redatti durante il periodo del colonialismo britannico, che hanno generato, tra le tante atrocità, il massacro di Kafr Qassem nel 1956, preceduto dal massacro del villaggio di Qibya e seguito da quello del villaggio di Samu’.
A quei giorni, risale la fondazione di un nuovo gruppo, The Labour Friends of Israel (Gli Amici Laburisti di Israele), che divenne un pilastro della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Nel Paese c’era già la massiccia presenza di una ben affermata lobby filo-sionista, sin dal 1900, anno in cui il Quarto Congresso Sionista si riunì a Londra. In quell’occasione, si diede avvio alla costruzione di una potente lobby, che portò alla Dichiarazione di Balfour e dunque all’impegno formale da parte della Gran Bretagna di consegnare la Palestina al movimento sionista, a discapito della popolazione nativa palestinese.
È proprio in quel periodo che si avviano due processi che si riveleranno cruciali per creare uno scudo di immunità intorno a Israele, tale da consentire a Tel Aviv di proseguire nelle sue politiche di colonizzazione e sottrazione di terre in Palestina fino ai giorni nostri, nel silenzio della comunità internazionale.
Il primo è consistito nel reclutare rispettose istituzioni nate con lo scopo di difendere gli interessi della comunità anglo-ebraica alla causa sionista prima, e israeliana poi. La più importante tra queste era il Board of Deputies, nato come parlamento degli ebrei britannici e trasformato in ambasciata israeliana. Il secondo processo ha visto l’associazione tra una brillante carriera politica all’interno del Partito Laburista e l’appartenenza si Labour Friends of Israel. Essere un amico di Israele, in parole povere, avrebbe assicurato di fare strada all’interno del partito.
Il panorama politico elisabettiano cambiò nel 1967, quando divenne più complicato vendere al pubblico britannico il mito del mini-impero israeliano che, come un povero Davide, si batteva contro l’arabo Golia. Il 1967 vide un cambiamento sostanziale in tutti i partiti politici, anche in risposta al riemergere del movimento di liberazione palestinese. La spinta di solidarietà nei confronti dei palestinesi influenzò inevitabilmente le forze politiche.
Due politici britannici, uno laburista e uno conservatore, incarnano questo cambiamento di mentalità. Non sempre per una genuina spinta solidale, che pure era presente, ma anche perché capivano che un sostegno incondizionato a Israele avrebbe avuto un impatto negativo sull’immagine della Gran Bretagna nel mondo arabo.
Il primo era il Ministro degli Esteri laburista George Brown, il secondo il Ministro degli Esteri conservatore, Alex Douglass Home. Entrambi sono stati descritti dalla lobby con appellativi che sarebbero stati poi riservati al leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Il peccato originale di questi politici è stato quello di avere il coraggio di assumere una posizione equilibrata sulla questione palestinese, immediatamente bollata da Israele e dalla sua lobby come antisemita.
Brown chiese alle Nazioni Unite il ritiro totale di Israele dai Territori Occupati nel 1967 e accese i riflettori sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi. Douglass Home, in un celebre discorso ad Harrogate nel 1970, si spinse oltre, collocando la questione palestinese al centro del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano”. Sicuramente, le loro proposte erano distanti anni luce da ciò che sarebbe stato necessario per portare pace e giustizia alla Palestina storica, ma sicuramente le loro posizioni avrebbero potuto indirizzare il dibattito nella giusta direzione.
Più incisiva, negli anni successivi al 1967, è stata la campagna di solidarietà istituita dai nostri amici Ghada Karmi, Christopher Mayhew e Michael Adams, per citare solo alcuni tra coloro che aderirono, e che erano coinvolti nella politica britannica nelle tre formazioni principali: il partito laburista, quello conservatore e quello liberale.
Insieme agli ebrei antisionisti britannici ed ex israeliani, unitamente alla comunità palestinese in Gran Bretagna, hanno avuto il merito di sfidare una lobby potentissima, che aveva aggiunto alla struttura già esistente una folta schiera di nuovi gruppi, tra cui il Conservative Friends of Israel, il più potente a livello europeo. Oggi, l’80% dei parlamentari conservatori è membro di questa organizzazione.
Tony Blair
Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che Brown e Douglass Home non abbiano minimamente influito sulla politica britannica per quanto concerne la questione palestinese. In questo senso, ad avere un ruolo determinante sono stati i primi ministri, per lo più del Partito Laburista, come Harold Wilson, Tony Blair e Gordon Brown. Furono tutti premiati dal Jewish National Fund, che decise di piantare una pineta europea sulle rovine di tre villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, in segno di gratitudine verso i politici britannici filo-israeliani.
I tre erano, per certi versi, dei cristiani sionisti, che hanno lasciato carta bianca a Israele tra gli anni ‘70 e il 2010, periodo in cui l’ebraicizzazione della Cisgiordania e il progetto della Grande Gerusalemme, unitamente alle brutali aggressioni ai danni della Striscia di Gaza, hanno caratterizzato la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
La Gran Bretagna si è distinta per essere stata il membro meno filo-palestinese all’interno dell’Unione Europea, prima dell’aggiunta dei nuovi membri in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica. Ha sempre seguito la linea della disonesta intermediazione statunitense nel cosiddetto processo di pace, continuando a fornire a Israele armi e sostegno diplomatico, in un mondo in cui le sue ex colonie cercavano di imporre un’agenda di decolonizzazione che includeva anche la liberazione della Palestina.
*Questo articolo è apparso in esclusiva in lingua inglese sul Palestine Chronicle
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NABLUS. Analisti: gli scontri in città possibile preludio di una rivolta contro l’Anp
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 21 settembre 2022 – Con il presidente palestinese Abu Mazen a New York per il discorso che domani farà all’Assemblea annuale dell’Onu, e il suo premier, Mohammed Shttayeh, in Gran Bretagna per i funerali della regina Elisabetta, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ritrova in queste ore ad affrontare a Nablus la protesta popolare più ampia dallo scorso anno, quando agenti dei servizi di sicurezza pestarono duramente un dissidente, Nizar Banat, spirato dopo qualche ore in ospedale. Secondo alcuni analisti la protesta potrebbe essere il preludio di una rivolta ampia contro l’Anp alla quale la popolazione palestinese chiede da anni di interrompere la collaborazione di sicurezza con Israele. A inizio settembre i comandi militari israeliani avevano accusato l’Anp di “non fare abbastanza per combattere il terrorismo”.
A scatenare le proteste è stata lunedì notte l’operazione ordinata dal capo dell’intelligence Majd Faraj per arrestare due combattenti di Hamas, tra cui il 30enne Musab Ashtayah, conosciuto come un comandante locale delle brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato del movimento islamico. All’incursione delle forze speciali dell’Anp sono seguiti scontri violenti e intensi scambi di raffiche di mitra tra giovani armati e agenti di polizia. Un colpo ha ucciso un passante, Firas Yaish di 53 anni. La sua morte ha accresciuto la rabbia della popolazione che ieri, per ore, ha preso di mira con sassi e bottiglie i veicoli blindati delle forze di sicurezza. «Uomini armati hanno aperto il fuoco verso il comando della polizia di Nablus quando gli agenti hanno iniziato a sparare indiscriminatamente: un proiettile lo ha colpito e ucciso (Yaish) davanti alla sua abitazione», ha raccontato ad Al Jazeera il giornalista di Hazem Nasser. Un altro palestinese Anas Abdelfattah, studente dell’Università An Najah, è stato ferito da un proiettile allo stomaco ed è in condizioni critiche.
Per tutto il giorno Nablus è apparsa in molti dei suoi quartieri come una città fantasma con le strade completamente deserte mentre in altri, soprattutto intorno alla città vecchia, avvenivano scontri duri tra manifestanti e poliziotti antisommossa dell’Anp. Il comune ha chiuso a causa dei colpi sparati contro il suo edificio e la An-Najah National University ha detto ai suoi studenti che le lezioni si sarebbero tenute da remoto. Colpi sono stati sparati anche contro gli studi di Radio Hayat, politicamente vicina all’Anp, durante il suo programma mattutino costringendo la conduttrice in onda in quel momento a interrompere la programmazione.
Oltre a un morto si contano almeno 30 feriti. L’Anp è stata accusata dai manifestanti di aver piazzato sui tetti alcuni cecchini.
Nelle scorse ore sarebbe stato raggiunto un accordo per mettere fine agli scontri. L’Anp si sarebbe impegnata a rilasciare entro breve i due arrestati. Su tratta però di una notizia non ufficiale e al momento la situazione resta molto tesa.
Contro l’Anp si sono schierati tutti i gruppi armati di Nablus e Jenin. Dozzine di combattenti sono scesi in strada e hanno sparato in aria lunghe raffiche di armi automatiche. Dura la condanna di Hamas: «Mentre il nemico (Israele) continua le sue uccisioni e gli arresti, l’Anp insiste con il coordinamento della sicurezza e l’oppressione del nostro popolo, la persecuzione e l’arresto dei combattenti». Il gruppo armato «Fossa dei leoni» ha avvertito che «nessun agente delle forze di sicurezza dell’Anp sarà autorizzato a operare nella città di Nablus» se Ashtayah non sarà rilasciato.
L’arresto del comandante militare di Hamas a Nablus è avvenuto mentre proseguono le incursioni notturne dell’esercito israeliano in Cisgiordania, in particolare nelle città di Jenin e Nablus dove la resistenza armata palestinese si è fatta più organizzata negli ultimi tempi. Pagine Esteri
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Elezioni 2022: decisamente storiche con il trionfo di Meloni
Per la prima volta nella storia d’Italia una donna varcherà la soglia di palazzo Chigi e presiederà il Governo: Giorgia Meloni, una donna di destra, alla guida di un governo di destra-centro. Sconfitti PD e Lega. Conte e Berlusconi hanno tenuto. Vivacchiano Calenda e Renzi. L’edificio Italia è comunque destinato a restare nel disegno dei suoi muri maestri
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6 Months of "agreement in principle", EU-US agreement in fact still missing
6 mesi di "accordo di principio", l'accordo UE-USA di fatto ancora non c'è 6 mesi fa, la Presidente della Commissione europea von der Leyen e il Presidente degli Stati Uniti Biden hanno annunciato un accordo "di principio" sui trasferimenti di dati tra l'UE e gli Stati Uniti. Ad oggi, non c'è ancora un accordo.
Elezioni 2022: ora fare gli interessi e soddisfare i bisogni del Paese
Il nuovo Governo qualunque esso sia, faccia ciò che nessun Governo della Repubblica ha mai fatto: vada avanti, non ricominci a discutere tutto ciò che è stato fatto solo per soddisfare qualche marginale interesse particolare o per partito preso
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Texas Hold’em: cosa è e come ci si gioca
Il poker. Senza dubbio, fra tutti i giochi di carte che esistono al mondo, e in generale fra tutte le attività ricreative che hanno avuto un ruolo nella storia dell’uomo, il poker è fra le più importanti. In particolare nella sua versione denominata “Texas hold’em”, rimanda ad una mistica tutta Americana fatta di far west, […]
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Russia: referendum in Ucraina, la NATO condanna
1. Condanniamo con la massima fermezza il progetto di tenere i cosiddetti ‘referendum’ sull’adesione alla Federazione Russa nelle regioni ucraine in parte controllate dall’esercito russo. Come l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riaffermato nella sua risoluzione ‘Aggressione contro l’Ucraina’ adottata il 2 marzo 2022, nessuna acquisizione territoriale risultante dalla minaccia o dall’uso della forza sarà […]
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Investimenti online: il futuro del trading passa per le app?
Nel mondo dinamico di oggi, poter chiudere un investimento o controllare la propria posizione economica anche mentre ci si trova fuori casa è diventato ormai la norma per molti. Nonostante la maggior parte delle piattaforme di trading abbia un’interfaccia per PC desktop, il supporto su dispositivo mobile sta diventando sempre più una realtà e va […]
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Elezioni politiche 2022: hackerare le elezioni
Come saprà chi ci segue sui nostri social, a proposito di queste elezioni abbiamo preso posizione solo in due occasioni: la presentazione della Lista Referendum e Democrazia, una delle più interessanti iniziative di denuncia dell’attuale legge elettorale che pone impedimenti immensi a qualsiasi forza politica non già presente in Parlamento e che addirittura impedisce le coalizioni tra forze che...
Il rapporto delle Nazioni Unite avverte del genocidio in stile Ruanda in Etiopia
L’Africa e il mondo stanno assistendo a un genocidio nella regione del Tigray in Etiopia simile a quello in Ruanda nel 1994, hanno avvertito gli investigatori delle Nazioni Unite e gli osservatori locali e regionali.
I gruppi affermano che le forze di difesa nazionale etiopi (ENDF), le forze di difesa dell’Eritrea (EDF) e le milizie alleate (fano) da un lato e le forze del Tigrino hanno separatamente commesso atrocità contro i civili che violano i diritti umani internazionali, le popolazioni del diritto umanitario e penale, con i tigriani che sopportano il peso degli attacchi.
Un rapporto della Commissione internazionale degli esperti sui diritti umani delle Nazioni Unite sull’Etiopia, pubblicato giovedì all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, rivela che sono state commesse violazioni dei diritti da quando sono scoppiati i combattimenti nel Tigray nel novembre 2020.
Report Nazioni Unite: Etiopia, report ONU sui crimini di guerra e violazione dei diritti umani in Tigray
“Il rapporto conclude che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che dal 3 novembre 2020 in Etiopia siano state commesse violazioni, come esecuzioni extragiudiziali, stupri, violenze sessuali e fame della popolazione civile come metodo di guerra”, afferma il rapporto.
“La Commissione trova ragionevoli motivi per ritenere che, in diversi casi, queste violazioni equivalgano a crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.
Il continuo blocco della regione del Tigray da parte dell’ENDF, che ha bloccato l’accesso a servizi essenziali come cibo, assistenza sanitaria, telefono, banche e assistenza umanitaria limitata, e il bombardamento di terreni agricoli hanno lasciato più di 20 milioni di persone bisognose di assistenza e protezione, hanno detto gli inquirenti.
La commissione delle Nazioni Unite era convinta che il blocco fosse deliberato e che la negazione di cibo e assistenza sanitaria alla popolazione del Tigray viola il divieto di utilizzare la fame dei civili come metodo di guerra, nonché l’obbligo di ciascuna parte in conflitto consentire e facilitare la consegna di aiuti umanitari imparziali.
Betty Murungi, presidente delle Nazioni Unite della Commissione etiope, descrive la crisi umanitaria nel Tigray come “scioccante, sia in termini di portata che di durata”.
“La diffusa negazione e ostruzione dell’accesso ai servizi di base, al cibo, all’assistenza sanitaria e all’assistenza umanitaria sta avendo un impatto devastante sulla popolazione civile e abbiamo ragionevoli motivi per ritenere che rappresenti un crimine contro l’umanità”, ha affermato.
Nel tentativo di scoprire cosa sta succedendo nel Tigray, una regione chiusa ai media locali e internazionali dall’inizio della guerra, Nation.Africa giovedì ha ospitato una discussione su Twitter Space con ricercatori, attivisti per i diritti umani, media ed esperti di sicurezza sul sfide che l’Etiopia deve affrontare.
Dato che la guerra è ripresa il 24 agosto dopo cinque mesi di tregua umanitaria, la maggior parte degli oratori ha convenuto che il mondo non conosce l’esatta sofferenza del popolo del Tigray.
“Quello che il mondo sta ascoltando è fondamentalmente dal lato del governo, che espone solo ciò che crede li favorisca. Non si sa molto della guerra nel Tigray”, ha affermato Basha Desta, un attivista per i diritti umani del Tigray.
Milizie locali
“Per due anni, il popolo ha vissuto un’intensa guerra condotta contro di loro dal governo federale, dall’esercito eritreo e dalle milizie locali di Amhara. Il popolo del Tigray sta combattendo per difendere se stesso e la propria sopravvivenza, a cui ha diritto”.
Secondo Meaza Gebremedhin, ricercatrice e sostenitrice indipendente dei diritti umani, il governo federale sotto il primo ministro Ahmed Abiy ha inizialmente consentito ai giornalisti internazionali di entrare nel Tigray, per poi cacciarli fuori dopo aver denunciato diffuse violazioni dei diritti umani.
“Il governo ha intimidito i media locali e internazionali insistendo sul fatto che la regione del Tigray è una zona di guerra e non possono garantire la loro sicurezza. Quello a cui stiamo assistendo è un genocidio intenzionale, in cui l’Eritreo si è unito al governo federale nel tentativo di sterminare il popolo del Tigray”.
Ha aggiunto: “Ora vogliono invadere tutte le parti del Tigray e stanno usando i droni per attaccare persino ospedali e asili nido oltre al discorso di odio che si sta diffondendo contro la gente del Tigray, comprese le stazioni televisive nazionali”.
Approfondimento: Etiopia, ennesimo attacco aereo dopo report ONU che denuncia il governo di crimini contro l’umanità in Tigray.
Ha sostenuto che il governo ha utilizzato la tregua umanitaria di cinque mesi per riorganizzarsi.
Mentre quelli del Tigray, come il signor Desta, insistono sul fatto che il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) è un partito politico che non ha capacità militari, quelli che sostengono il governo federale hanno sostenuto che il TPLF è un’organizzazione criminale che ha innescato la guerra attaccando l’ENDF nel comando settentrionale il 4 novembre 2020.
“Definire TPLF un’organizzazione criminale e vile non equivale a incitamento all’odio, perché TPLF non è il popolo del Tigray, che sono le nostre sorelle e fratelli”, ha affermato MIMI, un cittadino etiope.
L’Eritrea è rientrata in guerra dopo essersi presumibilmente ritirata l’anno scorso, ma gli esperti affermano che le sue forze non hanno mai effettivamente lasciato la regione del Tigray.
Approfondimento: Etiopia, coinvolgimento dell’Eritrea nel nuovo fronte di guerra in Tigray
Ci sono domande sui reali interessi di Asmara nella guerra civile etiope. Alcuni analisti ritengono che il presidente eritreo Isaias Afwerki stia approfittando della situazione per vendicarsi del suo acerrimo nemico, il TPLF, che lo ha frustrato durante i due anni di guerra con l’Etiopia tra il 1998 e il 2000 sulla città di confine di Badme.
Quando il dottor Abiy ha fatto pace con l’Eritrea dopo essere salito al potere nel 2018, molti dei Tigrini hanno visto questo come un segnale inquietante, ha affermato William Davidson, ricercatore senior sull’Etiopia per l’International Crisis Group.
“Il presidente Afwerki ha visto questa come una buona opportunità per [prendersi] vendetta contro il TPLF. Quello che stiamo vedendo è che il nazionalismo del Tigray non può coesistere con il nazionalismo eritreo. Molti nel Tigray vedono l’Eritrea come la vera minaccia e il potere dietro il dottor Abiy”, ha detto.
La presenza delle truppe eritree in Etiopia serve solo a complicare le cose e ad infiammare una situazione già tragica, ha dichiarato Mike Hammer, inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, in un briefing sui media digitali il 20 settembre.
Approfondimento: Briefing online dell’inviato speciale degli USA Mike Hammer per il Corno d’Africa [Trascrizione]
Nonostante la pubblicazione del rapporto della Commissione delle Nazioni Unite, ha affermato Davidson, il governo etiope è molto resistente a qualsiasi indagine o processo giudiziario, dato che il governo ha attuato un regime di assedio e ha usato la fame come arma.
“Non ci sarà alcuna forma di cooperazione, anche se il governo ha dichiarato di aver detto che coopererà con indagini indipendenti”, ha affermato.
“Stiamo assistendo a parole su cui si basa il concetto di responsabilità, che si estende anche all’amministrazione regionale del Tigray, anch’essa accusata dalla commissione di aver commesso atrocità. L’unica speranza è che l’agenzia delle Nazioni Unite torni con l’intenzione di trovare qualcuno da incolpare”.
Il dottor Abiy ha istituito una task force interministeriale per indagare sulle accuse di crimini contro l’umanità.
Ha anche istituito una Commissione di dialogo nazionale per risolvere la “differenza di opinioni e disaccordi tra vari leader politici e di opinione, e anche segmenti della società in Etiopia sulle questioni nazionali più fondamentali … attraverso un dialogo pubblico inclusivo e ampio che genera consenso nazionale” .
Tuttavia, gli investigatori delle Nazioni Unite e i relatori del forum Nation Twitter Space hanno concordato sul fatto che i passi compiuti dall’amministrazione di Addis Abeba sembrano essere semplici “esercitazioni di pubbliche relazioni”, con la squadra delle Nazioni Unite che non regge nella loro composizione e nell’esecuzione dei loro mandati.
Sulla commissione interministeriale, gli inquirenti hanno affermato: “La Commissione non è stata in grado di corroborare il numero di interviste, procedimenti giudiziari, processi e condanne; né che siano in corso le misure di riparazione nei confronti delle vittime.
“Il progetto di nuova politica di giustizia di transizione, sebbene un’iniziativa potenzialmente importante, non è pubblico né è stato condiviso con la Commissione. La Commissione non è stata inoltre in grado di confermare che sia in corso la formazione degli investigatori o del personale militare”.
Il team ha riscontrato che il processo di giustizia di transizione, che dovrebbe essere trasparente e aperto al pubblico, è opaco.
Nel suo rapporto, la Commissione ha affermato: “L’IMTF non ha incluso informazioni critiche sulla trasparenza nella presentazione del suo lavoro, come informazioni sulle etnie e sui generi degli intervistati o delle persone condannate; le modalità con cui ottiene informazioni preliminari sugli eventi in Tigray; e come sta ottenendo informazioni dalle vittime e dai testimoni che hanno lasciato il Paese”.
Il dottor Muliro Nasongo, docente di relazioni internazionali e sicurezza presso l’Università tecnica del Kenya, ha affermato che il continuo conflitto in Etiopia fa presagire male per la stabilità del Corno d’Africa.
Ha osservato che l’Etiopia non è un qualsiasi altro paese africano in quanto ospita le sedi di organismi regionali e continentali, inclusa l’Unione africana.
Se l’Etiopia si disintegra in piccoli stati, ha detto, avrebbe un effetto domino su paesi che sono stati federali come la Somalia.
In secondo luogo, potrebbe esacerbare il problema dei rifugiati nella regione e vedere un aumento di reati transnazionali come il riciclaggio di denaro e il traffico di esseri umani e di droga che alimenta il terrorismo.
“Si sperava che la stabilità in Etiopia e Kenya avrebbe consolidato la Somalia e il Sud Sudan perché Khartoum è già fragile. L’instabilità in Etiopia contribuirà all’estremismo violento che contribuisce al terrorismo”, ha affermato.
La principale preoccupazione del dottor Nasongo è che la regione affronti la questione degli interessi regionali delle potenze globali che cercano risorse in Africa, dato che l’Etiopia è uno degli epicentri.
Dice che gli Stati Uniti, la Cina e i paesi del Medio Oriente hanno una mano in quello che sta succedendo in Etiopia.
“Sebbene potremmo trattare l’Etiopia con i guanti bianchi perché è un importante alleato nella guerra contro il terrorismo, c’è la sfida che la maggior parte dei paesi africani soffre, perché per gli attori globali, lo stato e la stabilità del paese sono più importanti più di ogni altra cosa, quindi altri aspetti come le violazioni dei diritti umani potrebbero essere trascurati”, ha affermato il dottor Nasongo.
FONTE: nation.africa/africa/news/un-r…
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IRAN. Mahsa Amini, 36 dimostranti uccisi dalla polizia ma la protesta non si placa
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 24 settembre 2022 – Non si sono fermate le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in stato di fermo, il 16 settembre scorso. Migliaia di iraniani da giorni sfilano per le strade contro il “dittatore”, l’ayatollah Khamenei, e il premier Ebrahim Raisi, considerati i veri responsabili del decesso della ventiduenne, che era stata arrestata dalla “polizia morale” del Paese. Sono state occupate le università di Tehran, Karaj, Yazd e Tabriz e le donne hanno continuato a tagliarsi i capelli e a bruciare i propri veli in pubblico.La repressione del governo iraniano prosegue intanto violenta. Secondo gli attivisti, sarebbero almeno 36 i civili uccisi dalla polizia durante le manifestazioni di questa settimana.
Mahsa Amini
Secondo Human Right Iran, oltre 60 iraniani sarebbero stati arrestati durante le proteste soltanto nella sera del 21 settembre. Molto peggio è andata per i manifestanti nelle regioni curde, dove, secondo quanto riferito dal Kurdistan Human Rights Network al Guardian si sarebbero superati i 530 arresti tra i manifestanti.
Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, sarebbe stato prelevato dalla sua casa Majid Tavakoli, attivista per i diritti umani che aveva partecipato alle proteste per la morte di Amini. La stessa sorte sembra essere spettata a un altro attivista, Hossein Ronaghi, freelance per il Washington Post: dopo aver registrato un’intervista in cui appariva nervoso, sarebbe stato raggiunto dagli agenti iraniani. Anche Nilufar Hamedi, la giornalista iraniana che tra i primi aveva coperto il caso di Mahsa Amini e aveva attirato l’attenzione dei media mentre la ragazza era ancora in coma, è stata arrestata in queste ore: l’annuncio è stato dato dalla sua agenzia stampa, lo Slargh daily, sui social.
A sostegno del presidente Raisi, che a proposito delle notti di proteste che stanno infiammando l’Iran giovedì scorso aveva dichiarato che nessun “atto di caos” sarebbe stato “tollerato” nel Paese, nella serata di venerdì hanno sfilato sostenitori filo-governativi. Nei loro slogan, si chiede che i manifestanti scesi in strada per Mahsa Amini siano “giustiziati”: secondo i manifestanti pro-Raisi, nelle folle ci sarebbero sionisti e agenti segreti americani infiltrati nel Paese con l’obiettivo di destabilizzarlo.
L’Unione Europea, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti hanno fermamente condannato la morte di Mahsa Amini, per la quale Raisi continua a promettere un’indagine interna. Intanto, nonostante le restrizioni che vengono applicate in queste ore alla navigazione su internet nel Paese, le immagini mostrano un Paese infiammato dalla rabbia delle donne, che malgrado gli arresti urlano da sette giorni “Morte al dittatore” e “Morte alla repubblica iraniana”.
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LIBANO/SIRIA. 77 i migranti morti nel naufragio davanti Tartous. Tra di essi anche palestinesi
della redazione con notizie di agenzie
(foto-fermo immagine da un video su Twitter)
Pagine Esteri, 23 settembre 2022 – Sale con il passare delle ore il bilancio di vittime della nave di migranti libanesi, siriani e palestinesi che si è capovolta vicino alla città costiera siriana di Tartous. Le ultime notizie riferiscono di almeno 77 morti e la Siria ha confermato che ci sono 20 sopravvissuti in cura all’ospedale di Tartous. Si tratta della più grave tragedia della migrazione libanese. Lo scorso aprile una trentina di migranti morirono in un naufragio causato dalla guardia costiera del paese dei cedri.
L’imbarcazione aveva lasciato la regione settentrionale libanese di Minyeh con a bordo tra 120 e 150 persone, tra i quali più di 40 bambini, nessuno dei quali è sopravvissuto ha comunicato il ministro dei trasporti libanese Ali Hamiye. Il direttore generale dei porti siriani, Samer Qubrusli, ha aggiunto che le operazioni di ricerca sono ancora in corso nonostante le cattive condizioni del mare a causa di forti venti. Da segnalare che Cipro aveva mobilitato squadre di ricerca lunedì e martedì scorsi quando nel giro di poche ore due navi che trasportavano migranti dal Libano avevano lanciato segnali di soccorso: 300 migranti erano in una imbarcazione, 177 nell’altra. In quei casi, tutti quelli a bordo sono stati salvati.
La giornalista di Al Jazeera, Zeina Khodr, ha fatto visita a una delle famiglie dei dispersi. Una donna le ha spiegato che suo padre intendeva andare in Europa a causa dell’attuale grave crisi economica che affligge il Libano e che ha impoverito gran parte della popolazione. Secondo un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite nel settembre 2021, tre quarti della popolazione libanese vive al di sotto della soglia di povertà.
Decine di persone sulla barca provenivano dal campo per rifugiati palestinesi di Nahr al-Bared vicino a Tripoli, ha detto all’agenzia Reuters Mahmoud Abu Heid, un residente del campo. Le condizioni di vita già difficili per i profughi palestinesi sono peggiorate a causa della crisi economica che ha devastato il Libano negli ultimi tre anni.
Negli ultimi mesi migliaia di persone – per lo più libanesi, siriani e palestinesi – hanno lasciato il paese dei cedri su zattere nel tentativo di trovare un lavoro e migliori opportunità nei paesi europei. Il numero di persone che hanno lasciato o tentato di lasciare il Libano via mare è quasi raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020 ed è aumentato di oltre il 70% nel 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, riferisce l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Pagine Esteri
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Elezioni 2022. Finalmente un giorno di silenzio
Brevi chiose su una campagna elettorale di un Paese che è ubicato nella Patagonia dei partiti rispetto al ruolo di una grave guerra che è in atto invece in Europa. Lo scontro è stato non tanto sulle soluzioni quanto sugli anatemi
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Philipp Holzer
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