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Come posso rinnovare in una recessione economica?


Non è più un segreto per nessuno che stiamo vivendo in tempi economicamente difficili e la maggior parte delle persone si stanno preparando per una recessione economica. Quando i tempi sono stretti, le spese di viaggio e di svago sono di solito le prime ad andare nel bilancio familiare. Questo ha spinto un nuovo tipo di […]

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Continuità


Il nuovo governo è di là da venire. Si è quasi esaurita l’ondata delle analisi e dei commenti sui voti espressi, mentre il gioco del totoministri lascia il tempo che trova. Sarebbe già molto se avessero notizie affidabili i diretti interessati. L’elemento

Il nuovo governo è di là da venire. Si è quasi esaurita l’ondata delle analisi e dei commenti sui voti espressi, mentre il gioco del totoministri lascia il tempo che trova. Sarebbe già molto se avessero notizie affidabili i diretti interessati. L’elemento che sembra essere più importante e permanente, però, è la voglia di continuità. Per la composizione dell’esecutivo e il passaggio delle consegne c’è tempo, ma i segnali di continuità si colgono nel merito delle intenzioni. Ed è un fatto positivo, oltre che, malauguratamente, non consueto.

Si può sempre credere che certe parole siano strumentali e che chi le pronuncia sia un bugiardo, ma sarebbe quasi diabolico. Perché ci sono aspetti su cui il futuro capo dell’esecutivo s’era già pronunciata in campagna elettorale, restando poi ferma su quelle posizioni. Prima di tutto la politica estera e la condanna senza tentennamenti dell’invasione russa. Ma anche sul fronte interno sembra prevalere il desiderio di continuità. Ad esempio a proposito del caro bollette.

Se si ragiona di una disponibilità di ulteriori 25 miliardi, che si aggiungerebbero ai 66 già mobilitati, vuol dire che si pensa di utilizzare i 10 miliardi già accantonati dal governo Draghi, più i 10 che derivano dall’aumento del gettito fiscale (uno degli effetti della crescita dei prezzi), con i 5 raccolti tassando gli extraprofitti delle società fornitrici d’energia. Ovvero non solo ci si muove in continuità, ma la si osserva sul punto più rilevante e con maggiori conseguenze positive: niente scostamento di bilancio. Non è una novità, per Fratelli d’Italia, ma è pur sempre l’opposto di quel che reclamava la Lega. Se i rapporti di forza e la saggezza indurranno ad attenersi alla prima e non alla seconda condotta, sarà solo che un bene.

Potrà sembrare strano che tanta continuità sia garantita dalla vittoria degli oppositori del precedente governo, ma è una stranezza più politicista che relativa alle questioni concrete. Il governo Draghi ha totalizzato due anni di forte crescita economica, riuscendo a far scendere debito e deficit. Non avrebbe senso che chi raccoglie il testimone voglia rompere la continuità, perché oltre che al Paese porterebbe problemi e sfortuna a chi si appresta a governare.

A questo si aggiunga un’ulteriore questione, che non riguarda affatto solo l’Italia e neanche solo gli europei (si pensi a quel che successe negli Stati Uniti e sta succedendo in Brasile): vincere le elezioni legittima la maggioranza parlamentare e comporta il diritto-dovere di governare, ma è pericoloso dimenticarsi di non essere maggioranza nel Paese o che gli elettori sono divisi in due. Trump vinse con meno voti popolari di Clinton, averlo ignorato non gli ha giovato.

Biden ha ereditato non solo un Paese spaccato, ma con un accenno di guerra civile al debutto, sarebbe sciocco se non ne tenesse conto. Il primo turno Brasiliano racconta un paese diviso e in cui nessuno degli sfidanti raccoglie più della metà. Il democrazia non si passa il bastone del comando (che proprio non c’è), ma la guida del governo e del legiferare.

Una maggioranza parlamentare ha la possibilità di fare quel che promise, ma anche la responsabilità di non trasformare il proprio essere minoranza nel Paese in un elemento che ne incrudelisca gli scontri, radicalizzandoli. Perché per riuscire a governare il consenso dovrà continuare a costruirlo, provvedimento dopo provvedimento.

Da questo punto di vista la postura della continuità, che fin qui si mantiene, è dimostrazione di saggezza. Anche perché c’è una questione che non è di politica estera e neanche interna, ma le condiziona entrambe: l’essere parte dell’Unione europea. È il punto su cui i vincitori delle elezioni italiane sono più indeboliti da quel che dissero, fecero e votarono. La continuità è un buon approccio per superare tare che nuocerebbero all’Italia, ma anche a chi oggi ha vinto e s’appresta a governarla.

La Ragione

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Dopo una settimana di panico sui mercati, Liz Truss fa marcia indietro. Basterà aver ritirato il piano di tagli alle tasse a salvare il suo governo? Quella del governo di Liz Truss sulle tasse è “un’umiliante marcia indietro”: è un fuoco di fila quel…


Berlino è stufaVendite record (e sold out) di stufe elettriche. Preoccupati per una possibile crisi energetica invernale, i tedeschi fanno incetta di stufette, registrando un aumento delle vendite del 76% rispetto al 2021.


Iran: la ‘non rivoluzione’ nella battaglia per il dopo-Khamenei


Già iniziati negoziati ad alto livello e lotte per la successione. Mancano alternative politiche praticabili. L'opposizione è debole, frammentata, irrilevante. Lo scenario più probabile è che l'IRGC, con l'appoggio di Khamenei, schiacci gli oppositori che sono nelle piazze, e poi prepari il terreno per un successore del leader supremo

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🔍 #PNRRIstruzione, quanto ne sai?
Prosegue la nostra rubrica per conoscere meglio le misure dedicate alla #scuola.
Oggi vi parliamo degli investimenti previsti per migliorare l’offerta formativa nella fascia 0-6 anni.


Economia al tempo della guerra in Ucraina: chi guadagna e chi perde


La drammatica guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ha generato uno scontro che non si esaurisce sul campo bellico, ma si allarga ad un confronto globale più ampio sul piano geopolitico e su quello degli equilibri finanziari che creano differenti condizioni di vantaggi e svantaggi ai diversi Paesi. Proviamo ad analizzarli. La guerra segue il […]

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GUAM 2.0: il libero scambio può far rivivere il blocco regionale dimenticato?


Qualcosa si muove attorno al vecchio blocco, ma è presto per dire se l'area di libero scambio può decollare in tempi brevi. Certo è che una zona di libero scambio non solo aiuterebbe gli Stati membri della GUAM, ma aiuterebbe anche l'organizzazione GUAM a convalidarne l'esistenza

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Il principe bin Salman e il suo frenetico ‘fare’


Impegnato su più scacchieri diplomatici, religiosi ed economici, con successi variabili, il principe ereditario saudita prova ripulire la sua immagine e insieme costruire il futuro del Paese

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È ripartita oggi da Gragnano (Napoli), alla presenza del Ministro Patrizio Bianchi e del Capo della Polizia Lamberto Giannini, “Una vita da social”, la campagna educativa itinerante realizzata dal nostro Ministero insieme alla Polizia di Stato nell’a…


Libano e Israele, la pace del gas


Dopo più di un decennio di colloqui, una proposta degli Stati Uniti per risolvere una controversia sul giacimento di gas Qana ha guadagnato elogi dai leader di Beirut e Tel Aviv

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Gli etruschi protagonisti al Salone del turismo archeologico


Ora che è calato il sipario sull’8ª edizione di ‘Tourisma-il Salone dell’Archeologia e del Turismo culturale’ organizzato da Archeologia Viva (Giunti editore) al Palazzo dei Congressi di Firenze dal 30 settembre al 2 ottobre, già si può tracciare un primo bilancio di questa manifestazione, la più importante d’Europa in questo settore, che vedeva grandi protagonisti gli etruschi, […]

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Se NON vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi – Agenda 2030: istruzioni per il futuro


3. SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (ottobre – novembre) – AGENDA 2030: istruzioni per il futuro L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Si tratta di un proget

3. SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (ottobre – novembre) – AGENDA 2030: istruzioni per il futuro


L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Si tratta di un progetto che mira alla prosperità del pianeta e dei suoi abitanti.

Il laboratorio intende pertanto diventare occasione di analisi e confronto dei 17 obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile da raggiungere entro il 2030 di cui l’agenda è composta.

Si sottolinea in particolar modo che con il presente laboratorio si intende promuovere l’accesso alle facoltà universitarie di indirizzo STEM da parte delle studentesse.

Docenti incaricati dalla Fondazione Luigi Einaudi:

Prof. Giuseppe Tringali, Presidente dell’Ordine dei Chimici e dei Fisici della Provincia di Siracusa e componente del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.

Avv. Michele Gerace, Presidente dell’Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l’Occupazione; Ideatore di “Costituzionalmente: il coraggio di pensare con la propria testa” (è in corso la XII edizione, la IV e la V edizione hanno ricevuto l’adesione del Presidente della Repubblica che ha conferito la Sua Medaglia di Rappresentanza), della “Scuola sulla Complessità” (è in corso la IV edizione), del Bar Europa e dell’omonima rubrica radiofonica al Rock Night Show su Radio Godot (è in corso la VI stagione); Responsabile del progetto “La Fondazione Luigi Einaudi per la Scuola”.

Avv. Gianmarco Bovenzi, Responsabile dei progetti ELF della Fondazione Luigi Einaudi, è un professionista del diritto dalla formazione internazionale con precedente esperienza professionale presso lo United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention.

Docente incaricato dal Liceo Lucio Piccolo:

Prof. Antonio Smiriglia

PON Legalità 2014 – 2020: Progetto “NO MORE NEET – Sperimentazione di percorsi integrati di carattere educativo, formativo e di socializzazione per i ragazzi volti a combattere la povertà e a promuovere l’inclusione sociale e la legalità.

Approfondisci progetto “Se NON vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”

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LIBANO. Profughi siriani, Beirut accelera per rimandarli subito a casa


Negli ultimi tre anni si è aggravata l'ostilità dei libanesi verso i siriani presenti nel paese. Prevale l’idea che i profughi assorbano risorse destinate alla popolazione libanese impoverita dalla crisi economica e, per questo, si chiede a gran voce il r

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. «Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna», ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. «Non abbiamo bisogno questi stranieri», aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, «vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione». Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano.

A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. «Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri» ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel «tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera». Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. «La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti». Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. «Noi garantiamo l’assistenza primaria – ci spiega – ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose». Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, «le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi».

Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato.

Questo quadro è peggiorato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che «Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese».

I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ​​da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di «piene condizioni di sicurezza» in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari – spesso con l’aiuto di parenti all’estero – da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Pagine Esteri

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Grazie, Nonni. E lunga vita


C’è una scena incantevole che ricorre assai spesso nei nostri ritrovi familiari, la si coglie quando siamo a tavola, a casa dei nonni o a casa nostra quando li invitiamo. Ci guardiamo e conversiamo. Esistono, però, modi e toni diversi. C’è il figlio che h

C’è una scena incantevole che ricorre assai spesso nei nostri ritrovi familiari, la si coglie quando siamo a tavola, a casa dei nonni o a casa nostra quando li invitiamo.

Ci guardiamo e conversiamo. Esistono, però, modi e toni diversi. C’è il figlio che ha tenuto in serbo un discorso difficile e complicato. Approfitta dell’aria di festa che si crea intorno, si sente caricato e così parte pian pianino con piccole e impercettibili insidie all’indirizzo di padre e madre fino a togliere il tappo alla propria malcelata intensione – perché così poi finisce – di colpire a fondo papà e mamma con i discorsi che lui sa, e che sono quelli che fanno male.

Intanto si registra un diverso guardare. Lo attivano e lo coltivano i nipotini. Appena fiutata l’aria, disseminano come mine piccole distrazioni. E vanno intorno con lo sguardo su chi comincia ad alzare i toni e su chi li subisce. I loro, sono sguardi di una tenerezza profonda. Con quegli sguardi vorrebbero sollevarli dal crinale in cui stanno (i nonni) per precipitare e con quegli sguardi li avvolgono e li proteggono perché non si facciano male.

Dicono che i nonni sono gli angeli custodi, in terra, dei nostri piccoli. Forse è il caso di aggiungere anche altro: i nipoti sono gli angeli custodi dei nonni. Che i nonni custodiscano i nipoti lo dicono gli adulti avveduti. Più difficile è riconoscere che i nipoti riescano a custodire i nonni. Quando scopriremo questa realtà, avremo fatto tombola perché quel giorno riusciremo finalmente ad invertire la marcia del nostro rapporto figli e padri. Perché è questo rapportarsi il vero problema da affrontare e risolvere.

Se i figli non conoscono o non hanno riflettuto abbastanza sulla vita dei loro padri, o se non hanno riflettuto a dovere sulla propria identità e sul proprio cammino di vita, difficilmente potranno stabilire con i loro padri rapporti sensati e pacifici, oltre che pacificatori. Fino a quando i padri vengono tenuti sotto processo con le accuse più strampalate perché i loro percorsi non sono stati mai letti e contestualizzati nella storia che fu, la conflittualità resterà permanente. Prendiamo ad esempio un figlio che ha studiato e un padre semianalfabeta. Il figlio fa lo spaccone e detesta il padre che è rimasto indietro. Non tiene conto, però, che un padre semianalfabeta insieme a mille altri del suo stesso rango ha avuto l’ingegno e la lungimiranza di mandare il pargoletto a scuola e anche all’università. Poteva non sostenerlo, mentre invece l’ha incoraggiato e pure vezzeggiato. Eppure, ancora si lamenta e rimprovera al genitore perché, al contempo, non l’ha fatto anche ricco. E se pure, l’ha fatto ricco, non è riuscito a farlo straricco. Probabilmente questo figlio deve ancora chiarire a sé stesso qual è il suo compito nella vita.

E poi, un figlio che ne sa – o quando mai si è interrogato – riguardo alla condizione esistenziale di suo padre che invecchia? Sa, per caso, che cosa significa non poter più lavorare, lui che si è sentito forte e valido fino a quando a provvedere ai bisogni suoi e della famiglia sono servite le sue mani? Forse ancora non lo sa, non l’ha neanche immaginato. O sa che cosa significa finire infermo o – come oggi si dice – allettato? Goffredo Parise ha scritto che quel padre “sente vergogna”, Ferdinando Camon “prova vergogna”.

E questo solo per dire dell’incomprensione di cui soffrono i nostri padri, nonni dei nostri figli. E questo solo per non aprire quell’altra pagina, quella degli errori (li dovremmo chiamare orrori), rappresentati da una malasanità che mortifica quotidianamente i nostri anziani, li spersonalizza, li guarda come mangia-farmaci a tradimento, dimenticando che sono stati loro a mettere in piedi un sistema che voleva essere sollievo per tutti e si mostra invece ingrato ai meno abbienti. E poi c’è l’altro gradino, quello che scende nel profondo dell’abisso. Sono gli anziani bancomat. E gli altri ancora: quelli lasciati a terra con la testa sanguinante perché il bancomat ha fatto scivolare 20 e non 50 euro come richiesto da un (si fa per dire) famigliare che ha solo avvertito il profumo di soldi bagnati col sudore della fronte degli altri.

Vivano a lungo i nostri nonni e continuino a custodire i nostri figli. Lo fanno gratis come gratis sono custoditi dai nipoti. E non solo con lo sguardo. Con cuore bambino.

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PODCAST: Guerra Ucraina-Russia. Stop the war now: asilo per gli obiettori dei due paesi


Non solo in Russia, anche in Ucraina migliaia di cittadini rifiutano il servizio militare e la guerra subendo pesanti ritorsioni da parte del governo e dei gruppi nazionalisti. Chiedono il ricorso immediato alla diplomazia. Ne abbiamo parlato con il nostr

Pagine Esteri, 4 ottobre 2022 – Molto si sa della repressione delle proteste in Russia contro la guerra di Putin e il recente richiamo dei riservisti.

Ma anche migliaia di ucraini contestano la linea esclusivamente militarista di Zelensky.

Ce ne parla il giornalista e nostro collaboratore Antonio Mazzeo parte la scorsa settimana della carovana per Kiev organizzata da un “Ponte per” per chiedere la fine della guerra e l’asilo politico per gli obiettori di coscienza russi, ucraini e bielorussi.
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Pirates: Common charger a win for users and the environment


Today, Members of the European Parliament approved the outcome of the trilogue negotiations on the Common Charger directive. A strong position of the European Parliament warrants that in addition to mobile …

Today, Members of the European Parliament approved the outcome of the trilogue negotiations on the Common Charger directive. A strong position of the European Parliament warrants that in addition to mobile phones, the USB Type-C cable will become the common charging port for other small and medium-sized portable electronic devices by autumn 2024, and by spring 2026 for larger ones, as well.

MEP Marcel Kolaja, Member of the responsible Committee on Internal Market and Consumer Protection (IMCO) and Quaestor of the European Parliament, comments:

“I am pleased that the European Parliament managed to extend the list of devices that will be able to be charged with the same charger. Not only will this greatly simplify the everyday life of consumers, but also, for example, traveling. Nobody wants to carry five different chargers with them. In addition, this will help protecting the environment, since discarded chargers account for 11,000 tons of e-waste a year in the European Union.

“Further, today’s vote obliges the European Commission to continuously assess the possibility of including other product categories. The directive will be revised for the first time three years after its entry into force and then every five years, taking into account technological progress, consumer convenience and the environment.”

MEP Patrick Breyer from the German Pirate Party comments:

„The EU common charger is an important first step towards electronics that are tailored to the needs of users rather than industry profits. But with a right to repair and the fight against planned obsolescence, many more steps must follow. We Pirates want users to be in control over the technology we use in our daily lives. We need a right to modify and repair devices on our own!”

patrick-breyer.de/en/pirates-c…



Etiopia – 6 milioni messi a tacere: un’interruzione di Internet di due anni in Tigray


Mentre i combattimenti infuriano nella regione del Tigray in Etiopia, dilaniata dalla guerra, uno dei più lunghi arresti delle telecomunicazioni al mondo sta ostacolando le…

Mentre i combattimenti infuriano nella regione del Tigray in Etiopia, dilaniata dalla guerra, uno dei più lunghi arresti delle telecomunicazioni al mondo sta ostacolando le consegne di aiuti, danneggiando gli affari e tenendo separate le famiglie.

  • Chiusura nella regione etiope tra le più lunghe al mondo
  • Il blackout ostacola le consegne di aiuti, rovina le attività
  • Le autorità affermano che le chiusure aiutano a frenare la violenza

Era appena stata incoronata campionessa del mondo , ma la maratoneta etiope Gotytom Gebreslase è scoppiata in lacrime quando gli è stato chiesto se la sua famiglia stesse festeggiando la sua vittoria a casa nel Tigray dilaniato dalla guerra.

“Non parlo con i miei genitori da mesi”, ha detto, asciugandosi gli occhi mentre parlava a una conferenza stampa durante i Campionati mondiali di atletica leggera a Eugene, nello stato nord-occidentale dell’Oregon, negli Stati Uniti, a luglio.

“Vorrei che mio padre e mia madre potessero celebrare il mio successo come lo sono gli altri etiopi”.


Pochi sono stati risparmiati dagli effetti della chiusura di quasi due anni di Internet e telefono nella regione del Tigray settentrionale dell’Etiopia, che è stata interrotta da quando sono scoppiati i combattimenti tra i ribelli del Tigray e le forze governative nel novembre 2020.

Il conflitto è ripreso il mese scorso dopo una tregua umanitaria durata mesi, che ha deluso le speranze di ripristino delle comunicazioni.

Anche il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus, originario del Tigray, ha affermato di non essere stato in grado di raggiungere i suoi parenti a casa, né di inviare loro denaro.

“Non so nemmeno chi è morto o chi è vivo” ha detto il Dr. Tedros in una recente conferenza stampa a Londra.

Mentre i combattimenti continuano nel Tigray e altrove in Etiopia, il governo del primo ministro Abiy Ahmed afferma che le chiusure sono necessarie per frenare la violenza, ma i critici accusano le autorità di utilizzare Internet come arma di guerra.

“L’accesso alle comunicazioni e ad altri servizi di base, e soprattutto l’assistenza umanitaria, è esplicitamente utilizzato come merce di scambio dal governo etiope”, ha affermato Goitom Gebreluel, analista politico specializzato in affari del Corno d’Africa.

“È usato come leva sia contro il Tigray che contro la comunità internazionale”.


Telefoni satellitari e stampa


In tutto il mondo, le interruzioni di Internet sono diventate più sofisticate, durano più a lungo, danneggiano le persone e l’economia e prendono di mira i gruppi vulnerabili in tutto il mondo, secondo il gruppo per i diritti digitali Access Now.

L’anno scorso ha registrato circa 182 interruzioni di Internet in 34 paesi, rispetto alle 159 interruzioni in 29 nazioni dell’anno precedente.

In Etiopia , sporadici blackout di Internet e telefonici sono stati usati come “un’arma per controllare e censurare le informazioni”, ha affermato il gruppo, rendendo difficile per giornalisti e attivisti documentare presunti crimini contro i diritti e fornire aiuti.

Nella capitale regionale del Tigray, Mekelle, soluzioni di emergenza come i telefoni satellitari sono diventati uno strumento vitale per le operazioni delle agenzie umanitarie.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) gestisce anche un servizio di telefonia satellitare per i residenti locali, dando loro un modo per inviare un messaggio ai propri cari.

Finora quest’anno, il CICR ha facilitato circa 116.000 telefonate e messaggi orali “tra membri della famiglia separati da conflitti e violenze”, ha affermato la portavoce Alyona Synenko.

Con quasi la metà dei sei milioni di persone della regione che hanno un grave bisogno di cibo , la chiusura e i blocchi stradali hanno ostacolato le consegne di aiuti umanitari, secondo il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.

La mancanza di reti di telefonia mobile ha anche “paralizzato sia l’emergenza che i normali sistemi di monitoraggio sanitario”, ha affermato un portavoce dell’OMS in un commento inviato via e-mail.

L’unico modo per comunicare è “tramite relazioni cartacee che devono essere consegnate a mano. Tutti gli incontri devono tenersi di persona”.

Funzionari del governo accusano i ribelli di danneggiare deliberatamente le reti di telecomunicazioni, mentre i rappresentanti del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) affermano che l’amministrazione di Abiy non vuole ripristinare i servizi tagliati.

Un portavoce di Abiy ha affermato che non c’era un “pulsante o interruttore di accensione e spegnimento singolo” per il ripristino di Internet.

Non c’era un “pulsante o interruttore di accensione e spegnimento singolo” per il ripristino di Internet.


“Le disposizioni di sicurezza e amministrative all’interno della regione del Tigray devono essere autorizzate… per facilitare i lavori di riparazione tecnica”, ha detto il portavoce ai giornalisti il ​​mese scorso.

Il consigliere del TPLF Fesseha Tessema lo ha contestato.

“La questione è politica, poiché Addis Abeba non vuole revocare l’assedio e ripristinare i servizi”, ha detto alla Thomson Reuters Foundation.
Un membro del personale della Croce Rossa Internazionale (CICR) osserva un residente che parla alla famiglia su un telefono satellitare nel Tigray, in Etiopia. Comitato Internazionale della Croce Rossa/Dispensa tramite Thomson Reuters FoundationUn membro del personale della Croce Rossa Internazionale (CICR) osserva un residente che parla alla famiglia su un telefono satellitare nel Tigray, in Etiopia. Comitato Internazionale della Croce Rossa/Dispensa tramite Thomson Reuters Foundation

“Lo lasciano a Dio”


Quando il popolare cantante e attivista Oromo Hachalu Hundessa è stato ucciso nel giugno 2020 in un sobborgo della capitale, Addis Abeba, il governo ha staccato la spina da Internet dell’intero paese mentre rivolte e omicidi si diffondevano in Oromia e ad Addis Abeba.

Secondo NetBlocks, una società di monitoraggio di Internet, una repressione della polizia ha provocato centinaia di morti e un’interruzione di Internet durata 23 giorni è costata all’economia più di 100 milioni di dollari.

Frehiwot Tamiru, amministratore delegato dell’unico fornitore di telecomunicazioni – Ethio Telecom, di proprietà del governo, ha affermato che la chiusura a livello nazionale è necessaria per impedire che Internet venga utilizzato dai criminali per “uccidere e sfollare, creare caos e distruggere il paese”.

I gruppi per i diritti umani hanno anche criticato il governo etiope per la chiusura dei social media e dei servizi di messaggistica tra cui Facebook e WhatsApp nell’ultimo anno.

Le autorità etiopi non hanno commentato queste chiusure, ma hanno affermato l’anno scorso che stavano sviluppando una piattaforma di social media interna per “sostituire” Facebook, Twitter e WhatsApp.

Molti comuni etiopi lamentano le frequenti interruzioni della loro vita quotidiana.

Come ogni quindicenne, a Tolessa piaceva cercare i risultati di calcio online e inviare messaggi ai suoi amici sul telefono, fino a quando le frequenti interruzioni di Internet nella sua città natale a Oromia lo rendevano quasi impossibile.

Con l’intensificarsi della guerra tra le forze etiopi e i ribelli dell’Esercito di liberazione di Oromo nel 2019 e nel 2020, i residenti hanno usato i loro telefoni quando potevano per avvisarsi a vicenda dell’avvicinarsi dei combattimenti, fino alla chiusura della banda larga e di Internet mobile.

“Ora è tutto un azzardo – lo lasciano a Dio”, ha detto Tolessa, che ha chiesto di usare uno pseudonimo per proteggere la sua identità.

Temendo per la sua incolumità, la famiglia di Tolessa lo ha mandato a vivere con i parenti ad Addis Abeba a circa 300 km (185 miglia) di distanza, dove ora va a scuola e spera di diventare ingegnere. È una lotta per rimanere in contatto.

“Posso contattare solo alcuni parenti per telefono, la maggior parte di loro non è online da mesi”, ha detto.

In Tigray, Eyassu Gebreanenia, 24 anni, residente a Mekelle, ha affermato di essere in grado di collegarsi online una o due volte al mese, utilizzando il Wi-Fi presso l’ufficio di un’organizzazione no profit internazionale in cui lavora il suo amico.

La città era un tempo il vivace centro degli affari della regione, ma Gebreanenia ha detto che ospedali, hotel e ristoranti sono chiusi e le persone che un tempo possedevano attività fiorenti ora lottano per sfamare le loro famiglie.

“È come se avessero riportato indietro l’orologio di 30 anni”, ha detto in una e-mail. “Le persone stanno soffrendo, ma potresti non saperlo perché siamo tagliati fuori dal mondo. È piuttosto deprimente”.

(Segnalazione di Zecharias Zelalem. Montaggio di Rina Chandran e Helen Popper.)


FONTE: context.news/digital-rights/si…


tommasin.org/blog/2022-10-04/e…



LIBANO. Profughi siriani, Beirut accelera per rimandarli subito a casa


Negli ultimi tre anni si è aggravata l'ostilità dei libanesi verso i siriani presenti nel paese. Prevale l’idea che i profughi assorbano risorse destinate alla popolazione libanese impoverita dalla crisi economica e, per questo, si chiede a gran voce il r

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. «Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna», ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. «Non abbiamo bisogno questi stranieri», aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, «vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione». Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano.

A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. «Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri» ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel «tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera». Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. «La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti». Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. «Noi garantiamo l’assistenza primaria – ci spiega – ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose». Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, «le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi».

Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato.

Questo quadro è peggiorato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che «Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese».

I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ​​da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di «piene condizioni di sicurezza» in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari – spesso con l’aiuto di parenti all’estero – da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Pagine Esteri

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Israele uccide quattro palestinesi. La Cisgiordania ora è una polveriera


Nell'ultimo raid lanciato ieri nel campo profughi di Jenin, l'esercito israeliano ha preso di mira tre palestinesi. Un quarto giovane, armato, è stato ucciso in strada da un cecchino. Vacilla l'Anp di Abu Mazen sotto accusa per la cooperazione di sicurezz

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Un bambino palestinese di 7 anni, Ryan Suleiman, è morto durante un raid di soldati israeliani nella sua abitazione a Taqua (Betlemme). Il bambino si è accasciato al suolo ed è spirato per arresto cardiaco. In precedenza il ministero della sanità palestinese aveva riferito che era caduto dall’alto durante un inseguimento da parte dell’esercito israeliano.

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di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 29 settembre 2022 – Nel giorno dell’inizio, 22 anni fa, della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha lanciato nel campo profughi di Jenin una delle sue operazioni più profonde e devastanti di questi ultimi mesi. Un attacco, in cui sono morti quattro palestinesi e oltre quaranta sono rimasti feriti, che rischia di far divampare un incendio nel nord della Cisgiordania dove in queste ore dominano rabbia e desiderio di rappresaglia. E anche di far vacillare ulteriormente l’Autorità Nazionale (Anp) di Abu Mazen schiacciata tra la pressione militare di Israele e le proteste della popolazione palestinese che chiede la fine della collaborazione di sicurezza con le forze di occupazione. Ciò mentre il pugno di ferro che Israele ha deciso di usare la scorsa primavera – dopo gli attentati in cui sono state uccise 18 persone a Tel Aviv, Bnei Brak, Hedera e Bersheeva – sta avendo il risultato contrario rispetto a quello che il governo e i comandi militari israeliani affermano di voler ottenere. Dopo circa 100 palestinesi uccisi in raid militari ormai quotidiani, dozzine di feriti e oltre 1500 arresti, non diminuiscono anzi si moltiplicano spari e attacchi contro le postazioni dell’esercito e gli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata da 55 anni.

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Le incursioni militari a Jenin, Nablus – le roccaforti della militanza armata – e altre città cisgiordane avvengono sempre di più spesso durante le ore di luce e non più solo di notte. Ieri le forze israeliane hanno circondato la casa della famiglia di Raad Hazem, responsabile dell’attentato di aprile a Tel Aviv in cui rimasero uccisi tre israeliani, e sparando un missile anticarro contro di essa hanno ucciso suo fratello e altri due palestinesi: Abed Hazem, Mohammed Abu Naaseh e Mohammed Alona. Il quarto ucciso, Ahmed Alawneh, è stato colpito alla testa da un cecchino mentre combatteva in strada. Una foto diffusa da palestinesi sui social mostra uno dei cadaveri all’interno della casa annerita dall’esplosione su cui soldati israeliani avrebbero scritto la parola «Fine». Almeno 44 persone sono rimaste ferite durante gli scambi di raffiche di mitra andati avanti per oltre un’ora. Due dei feriti sono stati colpiti al petto e ieri sera erano in condizioni disperate. Testimoni hanno raccontato di scene che non si vedevano dalla seconda Intifada.

«Non esiteremo né saremo dissuasi ad agire contro chiunque tenti di colpire i cittadini israeliani o le nostre forze di sicurezza», ha commentato il primo ministro Yair Lapid. Ma il raid ha creato una situazione esplosiva. Tutti i partiti e movimenti palestinesi, incluso Fatah di Abu Mazen, hanno proclamato un «giorno d’ira» e uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono scoppiati scontri un po’ ovunque tra soldati e dimostranti. I palestinesi inoltre denunciano un attacco di coloni. Più l’esercito israeliano lancia i suoi raid, più le immagini degli uccisi girano su Tik Tok e altri social e più si ingrossano i ranghi della Fossa dei Leoni, il gruppo armato guidato fino a due mesi fa da Ibrahim Nabulsi ucciso a Nablus, considerato un eroe della resistenza palestinese.

Trema l’Anp che Israele ormai non considera più un «partner per la sicurezza» ma soltanto una autorità amministrativa incaricata di fornire servizi alla popolazione palestinese. Nabil Abu Rudeina, il portavoce di Abu Mazen, ha accusato Israele di non rispettare la vita dei palestinesi «e di compromettere la sicurezza e la stabilità con la sua politica». Ha aggiunto che «Israele chiede calma e stabilità mentre pratica tutte le forme di escalation, uccisione e distruzione». Le parole non bastano più alla popolazione palestinese che vede nei rapporti dell’Anp con Israele il punto di debolezza della leadership di Abu Mazen, priva ormai di consenso e credibilità.

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Putin e il nucleare ‘tattico’: la via verso l’inferno


Cos'è il nucleare tattico e che significa 'tattico'; la capacità distruttiva, la sostanziale inutilità sul campo di battaglia; da cosa Putin può essere frenato nell'utilizzo

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Lula e Bolsonaro al ballottaggio il 30 ottobre. I conservatori vincono al Congresso e al Senato. Alla fine sarà un ballottaggio, il prossimo 30 ottobre, a decidere chi sarà il nuovo presidente del Brasile tra Jair Bolsonaro e Luiz Inacio Lula da Silv…


Di coup in coup Nuovo colpo di stato in Burkina Faso. Il tenente colonnello Damiba, che lo scorso gennaio aveva deposto il presidente eletto Roch Kabore, è stato a sua volta deposto in un colpo di stato iniziato venerdì e, dopo due giorni di tensione…


Gli europei dei Paesi NATO abbracciano la difesa degli Stati Uniti


L’opinione pubblica nella maggior parte dei Paesi membri della NATO prevede un forte calo dell’influenza esercitata dagli Stati Uniti negli affari globali nei prossimi cinque anni e ha poco o nessun interesse per il confronto con la Cina su Taiwan. Lo afferma il Transatlantic Trends 2022, un rapporto dettagliato su un nuovo sondaggio pubblicato venerdì […]

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Elezioni politiche 2022: vincitori e vinti


“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) I contorni numerici del voto alle politiche del 2022 sono chiari ma il modo di presentarli e soprattutto […]

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A 60 anni dalla crisi dei missili di Cuba, sei lezioni per il controllo del nucleare


Sessant'anni dopo, la crisi dei missili cubani rimane un momento cruciale nel controllo degli armamenti nucleari. Oggi sostenere quel successo richiederà un'altra esplosione di immaginazione strategica e uno sforzo incessante nei decenni a venire

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PODCAST. Brasile. Lula è avanti ma Bolsonaro e la destra sono in gioco


Presidenziali. Contro tutti i sondaggi il contestato, a dir poco, presidente uscente è riuscito ad accorciare in modo significativo lo svantaggio dal leader della sinistra grazie a misure populiste approvate di recente e al sostegno dei numerosi cristiani

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 3 ottobre 2022 – Il ballottaggio a fine mese deciderà chi sarà il presidente del Brasile.

Il progressista Lula che vuole riportare il paese sulla strada della democrazia o il contestato Bolsonaro autore di politiche considerate da molti un attacco alla legalità ma sostenuto ancora dalla classe media, dalla piccola imprenditoria e dalla influente comunità cristiana evangelica.

A spiegarci l’esito del voto d 2 ottobre è Pasquale Pugliese, un operatore economico italiano da diversi anni residente in Brasile e un osservatore della realtà politica e sociale del paese.

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YEMEN. Tregua non prolungata, il paese scivola verso la guerra


E' caduto nel vuoto l’appello lanciato il 30 settembre dall'inviato speciale dell'Onu Hans Grundberg per il prolungamento del cessate il fuoco. Ribelli Houthi e Coalizione a guida saudita sul punto di riprendere le ostilità. Sullo sfondo c'è una crisi uma

di Michele Giorgio –

Pagine esteri, 3 ottobre 2022 – Scaduta ieri la tregua e rifiutata la proposta aggiornata dell’Onu presentata alle parti belligeranti per una sua proroga, lo Yemen rischia di precipitare di nuovo in un conflitto aperto tra i ribelli sciiti Houthi (Ansrallah), sostenuti dall’Iran, e le forze governative o meglio la Coalizione a guida saudita intervenuta in Yemen nel 2015 e responsabile di pesanti bombardamenti aerei che hanno causato migliaia di vittime. L’esecutivo dei ribelli che controllano la capitale Sanaa, ha giustificato la mancata estensione del cessate il fuoco con il “vicolo cieco” in cui erano entrate le trattative provocato, afferma, dalla riluttanza di Riyadh e dei suoi alleati a revocare il blocco sul paese e alleviare la grave crisi umanitaria. “Durante i sei mesi della tregua, non abbiamo visto alcuna serietà nell’affrontare il fascicolo umanitario come una priorità urgente” aveva avvertito il 1° ottobre un rappresentante del team negoziale degli Houthi lasciando presagire la fine dell’intesa che nei mesi scorsi aveva permesso, almeno in parte, di affrontare la crisi umanitaria che colpisce milioni di yemeniti. Secondo i ribelli nelle 24 ore precedenti la scadenza della tregua, la Coalizione ha commesso 122 violazioni dell’accordo con attacchi aerei su Marib, Al-Jawf, Hajjah, Saada e altre aree.

A nulla è servito l’appello lanciato il 30 settembre dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen Hans Grundberg per il prolungamento della tregua affinché il paese eviti di “scivolare di nuovo in guerra”. Grundberg si è detto rammaricato per il mancato accordo tra le parti e ha esortato il governo riconosciuto a livello internazionale e le milizie Houthi a “mantenere la calma” e ad astenersi da azioni provocatorie che potrebbero innescare un’escalation. Analoghe preoccupazioni sono state espresse dalle altre agenzie dell’Onu e internazionali che operano nel paese per alleviare una crisi umanitaria di proporzioni eccezionali. Nei mesi scorsi l’Onu aveva chiesto per lo Yemen donazioni internazionali paragonabili per entità solo quelle necessarie per assistere la popolazione afghana.

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Tutto lascia immaginare una ripresa piena del conflitto che ha fatto molte decine di migliaia di morti e gettato nella fame e nelle malattie milioni di yemeniti. I ribelli in questi ultimi mesi hanno più volte denunciato quello che definiscono il “furto” delle risorse petrolifere nazionali da parte dell’Arabia saudita che, aggiungono, ammontano a circa un miliardo di dollari. Riyadh e i suoi alleati invece affermano di aiutare il governo yemenita riconosciuto ad esportare il greggio e ad impedire che a farlo siano i ribelli. Il capo del Consiglio politico supremo Houthi, Mahdi al-Mashat, ha lanciato un monito alle compagnie petrolifere internazionali operanti nel paese, invitandole a “smetterla di saccheggiare la ricchezza sovrana dello Yemen”. O, ha minacciato, “dovranno assumersi la piena responsabilità delle loro decisioni”. Si tratta del secondo avvertimento nel giro di poche ore. Il 1° ottobre il leader Houthi, Abdel Malik al Houthi, aveva sollecitato la revoca immediata del blocco dello Yemen attuato dall’Arabia saudita (e gli Usa). E qualche ora fa il portavoce militare degli Houthi, Yahya Sarea, ha rincarato la dose affermando che “fino a quando i Paesi aggressori, Usa e Arabia saudita, non si impegneranno in una tregua che dia al popolo yemenita il diritto di sfruttare la propria ricchezza petrolifera” le forze di Ansrallah “saranno in grado di privare sauditi ed emiratini delle loro risorse”. Un riferimento palese a prossimi attacchi di droni e al lancio di missili verso il territorio saudita e quello degli Emirati. Pagine Esteri

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In Saudi Arabia, a slow, gradual power transfer process has just started. This emerges from recent appointments consolidating the next generation of the Saudi ruling class, and also from a series of diplomatic steps through which the Saudi crown prin…


#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.

🔸 #PNRR, firmato decreto per la valorizzazione del personale docente

🔸 Scuola, il Ministro Bianchi incontra i Presidenti delle Consulte provin…



Regno Unito – Cina: l’ideologia di Truss vince sul pragmatismo e l’interesse nazionale


La politica cinese del Regno Unito si è allontanata dall'approccio tipicamente pragmatico e sfumato adottato dalla fine degli anni '90. Spostamento accelerato del baricentro del discorso politico britannico sulla Cina verso quello degli Stati Uniti e dell'Australia

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Annessioni russe in Ucraina: la vittoria di Potemkin di Vladimir Putin


La campagna ucraina ha offerto a Putin un successo immediato. Ma ottenuto a costo di insuccessi duraturi. I suoi successi tattici e le sua sconfitte strategiche sono essenziali per comprendere il nuovo corso della politica russa per il prossimo decennio e i rischi che ciò comporta per l'Unione europea

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Le tute spaziali di Valentina Sumini presentati al Maxxi di Roma


A che servono le cattedrali? Non a soddisfare le funzioni primarie dell’umanità. Ma dal passato abbiamo imparato che senza quelle testimonianze di esaltazione, la storia non sarebbe stata raccontata. Ed è questo il sentimento che si prova varcando le porte del museo nazionale delle arti Maxxi a Roma e visitando Technoscape, la grande mostra che […]

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Antonio Massarutto – Privati dell’acqua


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Oggi, #3ottobre, in occasione della Giornata della memoria e dell’accoglienza, alle 15.45 su Rai 3 e RaiPlay andrà in onda, in prima visione assoluta, il film di animazione “Nel mare ci sono i coccodrilli”.


YEMEN. Tregua non prolungata, il paese scivola verso la guerra


E' caduto nel vuoto l’appello lanciato il 30 settembre dall'inviato speciale dell'Onu Hans Grundberg per il prolungamento del cessate il fuoco. Ribelli Houthi e Coalizione a guida saudita sul punto di riprendere le ostilità. Sullo sfondo c'è una crisi uma

di Michele Giorgio –

Pagine esteri, 3 ottobre 2022 – Scaduta ieri la tregua e rifiutata la proposta aggiornata dell’Onu presentata alle parti belligeranti per una sua proroga, lo Yemen rischia di precipitare di nuovo in un conflitto aperto tra i ribelli sciiti Houthi (Ansrallah), sostenuti dall’Iran, e le forze governative o meglio la Coalizione a guida saudita intervenuta in Yemen nel 2015 e responsabile di pesanti bombardamenti aerei che hanno causato migliaia di vittime. L’esecutivo dei ribelli che controllano la capitale Sanaa, ha giustificato la mancata estensione del cessate il fuoco con il “vicolo cieco” in cui erano entrate le trattative provocato, afferma, dalla riluttanza di Riyadh e dei suoi alleati a revocare il blocco sul paese e alleviare la grave crisi umanitaria. “Durante i sei mesi della tregua, non abbiamo visto alcuna serietà nell’affrontare il fascicolo umanitario come una priorità urgente” aveva avvertito il 1° ottobre un rappresentante del team negoziale degli Houthi lasciando presagire la fine dell’intesa che nei mesi scorsi aveva permesso, almeno in parte, di affrontare la crisi umanitaria che colpisce milioni di yemeniti. Secondo i ribelli nelle 24 ore precedenti la scadenza della tregua, la Coalizione ha commesso 122 violazioni dell’accordo con attacchi aerei su Marib, Al-Jawf, Hajjah, Saada e altre aree.

A nulla è servito l’appello lanciato il 30 settembre dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen Hans Grundberg per il prolungamento della tregua affinché il paese eviti di “scivolare di nuovo in guerra”. Grundberg si è detto rammaricato per il mancato accordo tra le parti e ha esortato il governo riconosciuto a livello internazionale e le milizie Houthi a “mantenere la calma” e ad astenersi da azioni provocatorie che potrebbero innescare un’escalation. Analoghe preoccupazioni sono state espresse dalle altre agenzie dell’Onu e internazionali che operano nel paese per alleviare una crisi umanitaria di proporzioni eccezionali. Nei mesi scorsi l’Onu aveva chiesto per lo Yemen donazioni internazionali paragonabili per entità solo quelle necessarie per assistere la popolazione afghana.

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Tutto lascia immaginare una ripresa piena del conflitto che ha fatto molte decine di migliaia di morti e gettato nella fame e nelle malattie milioni di yemeniti. I ribelli in questi ultimi mesi hanno più volte denunciato quello che definiscono il “furto” delle risorse petrolifere nazionali da parte dell’Arabia saudita che, aggiungono, ammontano a circa un miliardo di dollari. Riyadh e i suoi alleati invece affermano di aiutare il governo yemenita riconosciuto ad esportare il greggio e ad impedire che a farlo siano i ribelli. Il capo del Consiglio politico supremo Houthi, Mahdi al-Mashat, ha lanciato un monito alle compagnie petrolifere internazionali operanti nel paese, invitandole a “smetterla di saccheggiare la ricchezza sovrana dello Yemen”. O, ha minacciato, “dovranno assumersi la piena responsabilità delle loro decisioni”. Si tratta del secondo avvertimento nel giro di poche ore. Il 1° ottobre il leader Houthi, Abdel Malik al Houthi, aveva sollecitato la revoca immediata del blocco dello Yemen attuato dall’Arabia saudita (e gli Usa). E qualche ora fa il portavoce militare degli Houthi, Yahya Sarea, ha rincarato la dose affermando che “fino a quando i Paesi aggressori, Usa e Arabia saudita, non si impegneranno in una tregua che dia al popolo yemenita il diritto di sfruttare la propria ricchezza petrolifera” le forze di Ansrallah “saranno in grado di privare sauditi ed emiratini delle loro risorse”. Un riferimento palese a prossimi attacchi di droni e al lancio di missili verso il territorio saudita e quello degli Emirati. Pagine Esteri

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ARCHEOLOGIA. Gerusalemme. Al Santo Sepolcro riemerge storia millenaria


Procede il restauro del pavimento della Basilica gestiti dalla Custodia francescana di Terra Santa, dall’architetto palestinese Osama Hamdan, dall’archeologa Carla Benelli e da un gruppo di esperti dell’Università La Sapienza di Roma. Riscoperta la sezion

di Nello del Gatto*

Pagine Esteri, 28 settembre, 2022 – Inaugurati lo scorso 14 marzo alla presenza delle comunità religiose cristiane, responsabili dello Status Quo del Santo Sepolcro, procedono i lavori di restauro del pavimento della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Rappresentano la continuazione di quelli realizzati all’edicola della Tomba di Cristo circa sei anni fa a guida del Patriarcato Greco-Ortodosso in nome delle altre confessioni cristiane. Quegli attuali, sono gestiti dalla Custodia di Terra Santa, la speciale provincia francescana che rappresenta la chiesa latina, coordinata nel progetto dall’architetto palestinese Osama Hamdan e dall’archeologa dell’Associazione ProTerra Sancta Carla Benelli. La Custodia si sta avvalendo della cooperazione di un gruppo di esperti dell’Università La Sapienza di Roma. “Abbiamo iniziato dalla Rotonda – ha spiegato il direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Giorgio Piras – la parte più importante della Basilica, dove si trova l’edicola che secondo la tradizione è costruita sul luogo esatto della sepoltura di Cristo. Sono già emerse tracce di fasi molto antiche: sono stati rinvenuti resti delle fondazioni e dei muri della Basilica costantiniana, e abbiamo scoperto che chi l’ha edificata nel IV secolo ha prima livellato il terreno con pietre di risulta. Sono emersi frammenti di ceramica e di decorazioni risalenti presumibilmente alla stessa epoca. In seguito, dateremo i reperti pezzo per pezzo, perché i romani utilizzavano spesso materiale di risulta per costruire e questo potrebbe riservare qualche sorpresa”.

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Il progetto, che prevede opere di restauro o sostituzione delle piastrelle danneggiate del pavimento nella parte nord della rotonda e scavi della sua area sotterranea, sotto i sette archi e davanti alla Sacra Edicola, dovrebbe essere completato, secondo il programma, entro ventisei mesi ed è finanziato da sponsor e anche da singoli donatori.

La superficie è stata suddivisa in dodici parti e il cantiere procede a blocchi di 100 metri quadrati per volta per non ostacolare le funzioni religiose delle tre comunità e le visite dei pellegrini “La cooperazione tra le tre comunità è la cosa più importante di questo progetto – ha affermato padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa – mostra al mondo intero che è possibile tra cristiani di diverse Chiese e comunità avere un rapporto fraterno e collaborare”.

Il team della Sapienza ha scoperto strati rocciosi della cava di pietra utilizzata per la costruzione originaria della Chiesa. Questi strati, secondo Francesca Romana Stasolla, direttrice dei lavori del sito “hanno differenze di altezza causate da tagli profondi e irregolari, che scendono anche molto in profondità, come si vede in altre aree della basilica. L’operato del cantiere costantiniano – ha aggiunto la Stasolla – aveva come esigenza primaria quella di colmare tali dislivelli per creare un piano unitario ed omogeneo per la realizzazione delle strutture della chiesa e dei suoi annessi. È stato fatto con riempimenti progressivi, utilizzando strati di terreno per drenare l’acqua e livellare le zone più profonde”. Nella rotonda, gli archeologi hanno poi anche portato alla luce un tunnel che era stato in parte già scavato in precedenti ricerche, che si ritiene sia fondamentale per capire e spiegare l’intero sistema di deflusso dell’acqua dell’edificio.

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Da maggio gli archeologi stanno scavando 24 ore su 24 nel sito. “Il lavoro si svolge a ciclo continuo, giorno e notte, e la lavorazione dei materiali prodotti avviene in tempo reale tra Gerusalemme e Roma, dove lavora il resto del team”, ha concluso la Satolla. I primi mesi di lavoro sono stati tra l’altro caratterizzati da una importante scoperta archeologica. I ricercatori, scavando nella chiesa del Santo Sepolcro, hanno infatti riscoperto la sezione principale dell’altare maggiore medievale che si trovava all’apice della chiesa dell’era crociata. Si tratta di una lastra di pietra di 2,5 x 1,5 metri. Poche settimane fa, durante un sopralluogo volto appunto a verificare l’andamento e lo svolgimento dei lavori, gli esperti hanno spiegato nel dettaglio i loro metodi di lavoro; in particolare sono state mostrati campioni di lastre vecchie e lastre nuove, che saranno installate in sostituzione delle lastre danneggiate, evidenziando come la sostituzione tiene conto dello spessore delle lastre, del loro colore etc. Sono state anche spiegate le modalità di assemblaggio.

“Gerusalemme e la stessa Basilica del Santo Sepolcro – ha dichiarato ancora Piras – sono nodi di complesse tensioni politico-religiose. È una situazione che può generare stress, specie nei più giovani: dottorandi, assegnisti e studenti poco più che ventenni con cui condividiamo questa esperienza straordinaria. Ecco perché nel team ci sono persino alcuni psicologi. Il grosso del team in realtà è però composto da archeologi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, affiancati da tecnici di geologia e ingegneri statici. Il restauro delle pietre del pavimento, invece, sarà realizzato dalla Venaria Reale di Torino con criteri rigorosamente conservativi: le pietre non più utilizzabili saranno sostituite con materiale locale”. Pagine Esteri

*Nello del Gatto è corrispondente estero, autore e conduttore per Radio 3 Rai. Dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria si è dedicato agli esteri, occupandosi di diritti civili. Ha trascorsi sei anni in India come corrispondente dell’ANSA e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo. Dal 2019 è a Gerusalemme.

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