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Brexit, il primo innesco dell’agonia economica del Regno Unito


Il governo Truss ha annunciato il ritiro del suo programma di mini-shock fiscale, ma ugualmente, e molto anche grazie a Brexit, stanno aumentando le probabilità di una recessione nei prossimi mesi

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Giustizia: Ercole Incalza, ‘il fatto non sussiste’ per 17 volte


Come canta l’intramontabile Vasco Rossi, “c’è qualcosa che non va / in questo cielo / c’è qualcuno / che non sa /più che ore sono…”. Ercole Incalza e’ un manager di lunga, sperimentata esperienza, tra l’altro alto ex dirigente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; incappato in disavventure giudiziarie, per ben diciassette volte e’ assolto. Ermes Antonucci […]

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"Come la Terra, Urano e Nettuno sono mondi blu. Nettuno, sul cui globo color del mare corrono nubi bianche, a un occhio distratto sembrerebbe perfino uno specchio del nostro pianeta. L’azzurro di questi pianeti però non è quello di un oceano, ma è la tinta delle tracce di metano all’interno di un’atmosfera gelida di idrogeno ed elio. A quasi 3 e 4,5 miliardi di km dal Sole, rispettivamente, le atmosfere di Urano e Nettuno oscillano tra i 220 e 230 gradi sotto zero: i pianeti più freddi del Sistema Solare."

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Concessioni ai casinò: il ruolo di ADM nella regolamentazione del settore


In Italia e in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, il settore del gioco d’azzardo è regolamentato. In Italia, l’organismo più importante nel settore è l’ADM, ovvero l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, che ha inglobato l’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato). L’ADM svolge un ruolo fondamentale nel mondo del gioco d’azzardo, che comprende […]

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Russia – USA: perché Elon Musk ha ragione


Musk ha ragione sul fatto che se le cose in Ucraina continuano lungo il loro corso attuale, gli Stati Uniti e la Russia sono diretti verso una collisione. L'approccio dell'America a questa tragica guerra in Ucraina richiede un adeguamento urgente, se non creativo

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Ten years after the start of the Malian crisis, political and security instability in the Sahel have changed in scale and nature, and spilled over across national frontiers.



AFGHANISTAN. Le donne in strada contro i talebani e per l’Iran


I Talebani hanno dimostrato di odiare in maniera particolare le manifestazioni guidate e composte per la maggior parte da donne. Hanno chiuso le studentesse nelle università e sbarrato le porte dei dormitori, picchiato le dimostranti e distrutto i cellula

di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 –

Donne, studentesse, giovani, hazare.

Le vittime dell’attentato che il 30 settembre in Afghanistan ha ucciso 53 persone sono quasi tutte ragazze tra i 18 e i 24 anni. Nell’istituto scolastico colpito, a Kabul, studiavano all’incirca 400 tra maschi e femmine, accuratamente separati in sezioni con aule e ingressi divisi. L’attentatore è entrato nella sezione femminile, dove si stava svolgendo una simulazione dell’esame di ammissione all’università e lì ha fatto strage.

Da quando sono ritornati al potere lo scorso anno, i Talebani hanno vietato alle ragazze di frequentare la scuola secondaria dopo il sesto anno, hanno obbligato le donne ad utilizzare il velo, interdetto lo svolgimento da parte loro di molti lavori del settore pubblico e fatto divieto di percorrere più di 70 chilometri senza l’accompagnamento di un parente maschio.

Ma le università, seppur divise per sessi, possono ancora essere frequentate dalle donne. E questo era il sogno e la speranza delle giovani studentesse uccise nell’attentato.

Sono seguite proteste in varie città dell’Afghanistan, di donne soprattutto, con qualche uomo al loro fianco.

More and more brave women coming out in Afghanistan as well as Iran t.co/NSGszs9W7o

— christinalamb (@christinalamb) October 3, 2022

I Talebani hanno dimostrato di odiare in maniera particolare le manifestazioni guidate e composte per la maggior parte da donne: hanno tentato di impedire la partecipazione ai cortei, sbarrando le uscite delle università (come la Balkh University a Mazar-i-Sharif) e chiudendo i giovani nei propri dormitori. Numerosi video pubblicati sui social riprendono ragazze nel tentativo di abbattere porte o di uscire dalle finestre.

Ma non basta questo a spiegare la limitata partecipazione ai cortei, ben lontani da rappresentare quella immensa fiumana necessaria per operare una pressione che sia percettibile al governo talebano. La cui risposta è stata come sempre molto dura: le autorità giustificano gli spari in aria, le violenze e la repressione con ragioni di ordine pubblico e di sicurezza. Le manifestanti sono regolarmente aggredite e sempre più spesso le forze armate distruggono dispositivi elettronici e smarphone, unica camera e unico microfono in grado di documentare. Nulla, però, in confronto alla repressione in Iran, dove le autorità hanno fatto uso di armi da guerra per disperdere le folle, sono state uccise almeno 154 persone e arrestate a centinaia. Tutto questo ha indebolito le proteste ma non è riuscito a spegnerle: stanno nascendo in questi giorni a Teheran ma non solo nuove forme di protesta, cortei improvvisati di automobili, canzoni di rabbia dalle finestre dei quartieri.

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Donne Afghane in protesta il 13 agosto 2022

La posizione ufficiale dei Talebani è che le manifestazioni tenutesi nelle diverse città dell’Afghanistan non sono state correttamente comunicate alle autorità preposte. La realtà è che gli spazi in cui i talebani consentirebbero lo svolgersi di tali manifestazioni sono lontani dai centri delle città, piccoli e isolati. Senza contare che anche le manifestazioni tenutesi con regolare comunicazione sono state attaccate dalle forze di sicurezza governative.

Ciò che sta accadendo in Iran, le proteste successive all’uccisione di Mahsa Amini, ha innescato una importante scintilla, che ha riportato nelle piazze, cosa che era già accaduta nella prima metà di agosto, alcune decine, forse un centinaio di donne, prima ancora dell’attentato terroristico. Lo scorso 29 settembre sono arrivate a manifestare sotto l’ambasciata iraniana a Kabul, in solidarietà con le dimostranti iraniane, prima di essere disperse dai talebani.

Brave women of #Afghanistan continue to protest against the strict Taliban rule on the streets of Kabul pic.twitter.com/D4uzrGqvmH

— Oliver Marsden (@OliverGMarsden) August 13, 2022

Le proteste degli ultimi giorni chiedono sicurezza per la comunità Hazara, sciita, obiettivo di attacchi e attentati ad opera dell’Islamic State Khorasan, conosciuto come gruppo ISIS-K, sunnita. Ma domandano anche la riapertura delle scuole femminili chiuse dai talebani e il ripristino dell’accesso ai settori dell’istruzione e a tutti i campi lavorativi.

Purtroppo, però, l’attentato potrebbe in parte aver raggiunto il suo scopo: molte famiglie decideranno, per paura, di impedire alle proprie figlie a sostenere l’esame di accesso universitario, obbligandole così a terminare di colpo il percorso di studi.

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Oggi è la Giornata Mondiale degli insegnanti.

Questo il messaggio del Ministro Patrizio Bianchi: “Nella Giornata mondiale degli Insegnanti voglio ringraziare tutti i nostri docenti, che, in quest'epoca digitale, sono sempre di più persone di riferim…



Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali


La crisi ucraina ha rilanciato in Africa la caccia ai combustibili fossili per sostituire quelli provenienti dalla Russia. Al prossimo vertice mondiale sul clima i paesi africani difenderanno il diritto allo sfruttamento delle proprie risorse contro il do

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.

L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili

In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.

Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.

Gas e petrolio: la sorpresa Africa

Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.

Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.

Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.

La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.

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Addio lotta al cambiamento climatico

È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.

Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.

Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.

Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.

Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse

I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.

Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.

Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue

Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.

Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.

Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.

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Proteste contro la Shell in Sudafrica

Combustibili fossili: opportunità o condanna?

Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.

Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri

2912008* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI:

agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…

theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…

eccoclimate.org/wp-content/upl…

iea.org/news/global-energy-cri…

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La storia di Rayan. «Ucciso dallo spavento quando i soldati sono entrati in casa»


« Mio nipote ha urlato impaurito quando ha visto i soldati israeliani, poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più» ha raccontato lo zio gli ultimi istanti di vita del bambino palestines

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – «Quando Yasser, il papà di Rayan, ha aperto la porta di casa e i soldati (israeliani) sono entrati, c’è stato un forte trambusto. Il bambino forse temeva di essere arrestato perché i militari cercavano i ragazzi della scuola che avevano lanciato sassi alle auto israeliane. Rayan ha urlato impaurito poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più». Questo è il racconto che Mohammed Suleiman ha fatto della morte di suo nipote Rayan Suleiman, 7 anni, «ucciso dallo spavento» ieri a Taqua, il villaggio a qualche chilometro a Betlemme dove i militari hanno fatto irruzione in diverse case alla ricerca dei ragazzi della scuola elementare «Al-Khansa» che poco prima avevano preso di mira con lanci di pietre i coloni israeliani che transitano in macchina da quelle parti. Una morte per infarto – i medici dell’ospedale di Beit Jala hanno fatto il possibile per salvare la vita di Rayan – che ha generato grossa impressione nella Cisgiordania occupata dove la tensione, la rabbia e la frustrazione hanno toccato a livelli mai raggiunti in questi ultimi anni a causa delle incursioni israeliane, quasi quotidiane, in particolare a Jenin e Nablus.

L’esercito israeliano ha confermato che un ufficiale ha interrogato il padre di Rayan, così come molti altri genitori palestinesi sul presunto coinvolgimento dei loro figli nel lancio di sassi. Ma sostiene che non ci sono stati incidenti durante le indagini e che le truppe non hanno impiegato alcuna misura antisommossa, come i gas lacrimogeni, e che non esisterebbe «alcun collegamento tra la morte del bambino e i controlli nell’area». Testimoni palestinesi però insistono che i soldati si sono lanciati all’inseguimento dei ragazzi della scuola di Taqua tanto che all’inizio si era diffusa la voce che Rayan fosse morto cadendo da alcuni metri di altezza mentre cercava di fuggire.

Per i palestinesi il bambino è il 159esimo «martire» dall’inizio dell’anno in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Morti, molti dei quali combattenti armati, che in gran parte si concentrano negli ultimi sei mesi, da quando Israele ha lanciato in Cisgiordania l’operazione militare «Break the wave» in reazione agli attentati della scorsa primavera compiuti da palestinesi giunti da Jenin che hanno causato 18 morti a Tel Aviv e altre città israeliane. L’operazione si è intensificata negli ultimi mesi e alcuni la vedono in qualche modo collegata alla campagna di immagine del premier Yair Lapid per le elezioni legislative del primo novembre, così come quella di inizio agosto a Gaza contro il Jihad islami (49 morti palestinesi, tra cui 17 bambini).

Ad aggravare il clima generale sono anche le condizioni del prigioniero politico Nasser Abu Hamid, del campo di Al-Amari (Ramallah), ammalato di cancro e al quale i medici danno pochi giorni di vita ma che non è stato ancora scarcerato. In prigione resta anche l’avvocato per i diritti umani Salah Hamouri che ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione senza accusa da parte di Israele. Hamouri fu arrestato il 7 marzo a Kufr Aqab e da allora è rimasto in detenzione amministrativa, ossia senza accuse e un processo, che può essere rinnovata a tempo indeterminato. L’avvocato è tra i 30 prigionieri politici palestinesi in carcere senza processo che domenica hanno iniziato un digiuno in segno di protesta.

Intanto la visione di Israele non come Stato ebraico ma come «Stato di tutti i suoi cittadini» è costata la squalifica al partito arabo Balad/Tajammo, escluso ieri dalle votazioni del primo novembre dalla Commissione elettorale centrale. La squalifica era stata richiesta dal Likud dell’ex premier Netanyahu ma è stata sostenuta anche dal ministro della difesa Benny Gantz. Il leader di Balad/Tajammo, Sami Abu Shahadeh, ha annunciato che presenterà ricorso contro la decisione che potrebbe essere ribaltata dalla Corte suprema nei prossimi giorni. Nessun problema invece per le formazioni di estrema destra Sionismo religioso e Otzma Yehudit che pure non pochi israeliani accusano di razzismo.

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GAZA. Boxe contro l’assedio. Il pugilato come occasione di riscatto ed emancipazione


Un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato sotto la guida tecnica di Osama Ayoub, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello. L

testo e foto di Daniele Napolitano

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – La Striscia di Gaza è lunga 347km quadrati e con i suoi 2 milioni di abitanti, ha la densità abitativa più alta al mondo. Può contare su poche ore di elettricità al giorno, ha enormi problemi ambientali, scarsa acqua potabile. Secondo le Nazioni unite dal 2020 è una “terra invivibile”. Senza dimenticare le conseguenze che hanno causato, oltre a migliaia di morti e feriti, le ampie offensive militari lanciate da Israele dal 2008 allo scorso agosto.

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Ed è in questo contesto che un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato allestita con sacchi e corde di fortuna.

Capitanate da Osama Ayoub, giovane tecnico locale, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello, le ragazze sognano di poter competere con atlete di altri paesi, cosa che non è concessa visto lo stato di occupazione che Gaza subisce.

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Boxe contro L’assedio è un progetto di scambio e condivisione sportiva nato nel 2018, che utilizza lo sport come strumento di miglioramento e riscatto personale e sociale, ma anche come modo per arrivare oltre il muro di Gaza, il carcere a cielo aperto più grande al mondo.

Grazie a questo progetto, in 4 anni, abbiamo costruito diverse occasioni di scambio con gli atleti e le atlete romane e palestinesi, consegnato decine di guanti e attrezzatura, aperto una piccola palestra di pugilato e molto altro ancora.

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Nonostante lo stop dovuto alla pandemia, In questi lunghi mesi siamo rimasti in contatto con la federazione di pugilato palestinese, ma soprattutto con Coach Osama, che ogni giorno allena un gruppo di ragazze giovanissime all’interno della piccola palestra popolare che abbiamo aperto con lui.

Il pugilato come occasione di riscatto, strumento di condivisione ed emancipazione, che è soprattutto un modo per raccontare una Gaza diversa da quella che la vede soccombere sotto le macerie, una Gaza che vuole rimanere viva, che lotta grazie allo sport, linguaggio universale che da sempre unisce e supera barriere.

Le foto sono realizzate nel periodo tra il 9 e il 15 settembre 2022.

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Ponte sullo Stretto: il mostro è riemerso in campagna elettorale (RETTIFICA)


ANTONIO MAZZEO: Mi duole di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore. L'artico

RETTIFICA ALL’ARTICOLO PUBBLICATO IL 19 SETTEMBRE 2022

Nel prendere atto della missiva del legale del dott. Fortunato Vincenzo, da me citato nell’articolo sul Ponte sullo Stretto pubblicato da Pagine Esteri, esprimo il mio sincero rammarico per quanto contestatomi. Tengo a sottolineare che nell’articolo il dottor Fortunato non è oggetto di alcun commento diffamatorio ma gli viene solo erroneamente attribuito l’incarico di “commissario liquidatore” della Società Stretto di Messina, incarico pubblico-governativo. Mi duole tantissimo di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma è del tutto evidente che non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore.

Ho provveduto ad eliminare dall’articolo sopracitato il riferimento agli incarichi del professionista erroneamente citato e ho accolgo richiesta di rettifica.

Ringraziando per l’attenzione

Antonio Mazzeo

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Il tigroso Letta a Congresso


Possibile che a questi geni della sconfitta non sia venuto in mente che l’unico modo per salvare il PD è fare idee, avere idee, discutere di idee, confrontare e confrontarsi sulle idee?!

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Fr.#10 / k e y w o r d s


Nel frammento di oggi: Keywords warrants e geofencing / Partnership tra UN e Google per la censura / Selezione dei migliori interventi della Privacy Week 2022 / Meme e citazione del giorno.

Parole chiave


La scorsa settimana, durante una causa relativa a un’indagine su un caso di violenza sessuale, sono stati diffusi in udienza alcuni documenti che accidentalmente hanno mostrato un nuovo tipo di mandato delle forze dell’ordine: il “keywords warrant”, o “reverse search warrant”.

Il keyword warrant consiste in questo: nell’ambito di un’indagine le forze dell’ordine possono chiedere a Google (o altri motori di ricerca) di fornire dati identificativi di tutti gli utenti che nei giorni precedenti al reato hanno cercato sul motore di ricerca parole chiave come il nome della vittima, il suo indirizzo, il nome dei familiari, e altre parole che possano indicare un qualche tipo di connessione.

Insieme ai dati relativi alle query il motore di ricerca può fornire anche ulteriori informazioni, come gli indirizzi IP delle persone, i loro account Google e perfino i CookieID - quel codice univoco che identifica un utente nel network di advertising di Google.

Ad oggi risultano pubblici solo altri due casi di utilizzo di questo tipo di mandato, uno nel 2020 e un altro nel 2017, rispettivamente per indagini su un incendio doloso e una truffa.

La particolarità del keyword warrant è che ribalta i normali principi di funzionamento della giustizia. Se le forze dell’ordine volessero ottenere dati relativi a una specifica persona sospettata di aver commesso un reato, dovrebbero prima ottenere l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Viceversa, con questo tipo di mandato possono ottenere i dati di chiunque abbia fatto un certo tipo di ricerca in un determinato momento - aggirando così le tutele giuridiche delle persone coinvolte.

Oltretutto, il keyword warrant si presta bene per diventare uno strumento di sorveglianza e censura politica di massa, che sotto il cappello della lotta al terrorismo (ampissimo, specie negli Stati Uniti) e agli “estremismi” può trovare terreno molto fertile in questo periodo.

Ricorda: tutto ciò che scrivi sarà usato contro di te.

Privacy Chronicles si sostiene solo grazie agli abbonamenti dei lettori. Se ti piace quello che scrivo e vuoi sostenere il mio lavoro, considera l’abbonamento! Sono circa €3 al mese. Oppure, scrivimi per una donazione in Bitcoin! 😀

Un’attività simile al keyword warrant è il geofence warrant. Il geofence warrant segue la stessa logica del keywords warrant, ma ha a che fare con i dati di localizzazione invece che con le parole chiave ricercate. Le autorità possono chiedere a Google di consegnare dati identificativi e di localizzazione di chiunque abbia transitato in una specifica zona in un determinato periodo di tempo, attraverso i dati raccolti con Google Maps.

Al contrario del keyword warrant questa è un’attività molto usata dalle autorità statunitensi. Secondo un recente rapporto di Google il geofence warrant rappresenta circa 1/4 di tutte le richieste ricevute ogni anno dal gigante della Big tech.

I risultati in entrambi i casi sono gli stessi: una grande operazione di pesca a strascico che rischia di intrappolare nella rete delle indagini persone innocenti che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato; o che hanno cercato la parola sbagliata la momento sbagliato.

Censura delle ricerche e scienza…


Sempre sulla falsa riga del tema delle ricerche sui motori di ricerca, ieri il noto sito ZeroHedge ha pubblicato una notizia in cui si riportano alcune dichiarazioni di Melissa Fleming, UN’s Under-Secretary-General for Global Communications fatte durante un’intervista, proprio sul tema delle ricerche sui motori come Google.

Trascrivo qui l’intervista:

“We partnered with Google […] for example if you Google “climate change”, at the top fo your search you’ll get all kinds of UN resources. When we started this partnership we were shocked to see that we were getting incredibly distorted information right at the top…so we’re becoming much more proactive…We own the science, and we think that the world should know it, and the platforms themselves also do.”

Le piattaforme sono da tempo chiamate a confermare la narrativa prevalente in materia di tanti temi scientifici (e non), censurando i risultati che in qualche modo deviano dall’opinione prevalente. Il nostro mondo e la nostra percezione non si fonda più su ciò che è oggettivo, ma su ciò che è politicamente conveniente. Abbiamo sostituito la realtà con l’opinione, in balia di un pugno di persone che possono modificare la nostra percezione del mondo in tempo reale.

Un breve recap della Privacy Week 2022


La Privacy Week è giunta alla conclusione, dopo cinque giorni intensi, con centinaia di speaker e dozzine di interventi fantastici e occasioni di networking.

2909250www.privacyweek.it

Molti di voi hanno scoperto la Privacy Week quest’anno, grazie al salto di qualità comunicativa e organizzativa che siamo riusciti a fare dopo il primo esperimento dello scorso anno. Spero che il prossimo anno si riesca a migliorare ancora questo evento che vorrebbe davvero diventare il punto di riferimento per parlare di privacy, cybersecurity e nuove tecnologie.

Chi non ha potuto partecipare a Milano o seguire lo streaming in diretta non deve preoccuparsi! Tutti gli eventi sono disponibili on-demand sul sito.

Visto però che sono così tanti, ho pensato di fare una selezione di quelli che mi sono piaciuti di più (ma sono davvero tutti interessanti, sfogliate il catalogo):

Privacy Chronicles si sostiene solo grazie agli abbonamenti dei lettori. Se ti piace quello che scrivo e vuoi sostenere il mio lavoro, considera l’abbonamento! Sono circa €3 al mese. Oppure, scrivimi per una donazione in Bitcoin! 😀

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Meme del giorno


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Citazione del giorno


The right to agree with others is not a problem in any society; it is the right to disagree that is crucial

- Ayn Rand


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Nazionalizzare la produzione dei semiconduttori è un’ambizione scheggiata


Le interruzioni causate dalla pandemia di COVID-19 hanno limitato la fornitura e aumentato il costo dei semiconduttori. Uno degli impatti più evidenti della carenza di chip è stato sul settore automobilistico. Il ripristino di una parvenza di normalità all’interno della catena di approvvigionamento dei semiconduttori, come risultato di questa e di carenze simili, è passato […]

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Ucraina: l’unità europea è essenziale mentre Putin si prepara a fare dell’inverno un’arma


Il Presidente russo Vladimir Putin ha recentemente intensificato la sua invasione dell’Ucraina annettendo ufficialmente quattro regioni ucraine parzialmente occupate. Nel suo discorso di accompagnamento a queste annessioni, Putin ha chiarito che vede la guerra in corso come una lotta esistenziale con l’Occidente collettivo per plasmare il futuro del mondo intero. Per ora sta perdendo. Le […]

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Come posso rinnovare in una recessione economica?


Non è più un segreto per nessuno che stiamo vivendo in tempi economicamente difficili e la maggior parte delle persone si stanno preparando per una recessione economica. Quando i tempi sono stretti, le spese di viaggio e di svago sono di solito le prime ad andare nel bilancio familiare. Questo ha spinto un nuovo tipo di […]

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Continuità


Il nuovo governo è di là da venire. Si è quasi esaurita l’ondata delle analisi e dei commenti sui voti espressi, mentre il gioco del totoministri lascia il tempo che trova. Sarebbe già molto se avessero notizie affidabili i diretti interessati. L’elemento

Il nuovo governo è di là da venire. Si è quasi esaurita l’ondata delle analisi e dei commenti sui voti espressi, mentre il gioco del totoministri lascia il tempo che trova. Sarebbe già molto se avessero notizie affidabili i diretti interessati. L’elemento che sembra essere più importante e permanente, però, è la voglia di continuità. Per la composizione dell’esecutivo e il passaggio delle consegne c’è tempo, ma i segnali di continuità si colgono nel merito delle intenzioni. Ed è un fatto positivo, oltre che, malauguratamente, non consueto.

Si può sempre credere che certe parole siano strumentali e che chi le pronuncia sia un bugiardo, ma sarebbe quasi diabolico. Perché ci sono aspetti su cui il futuro capo dell’esecutivo s’era già pronunciata in campagna elettorale, restando poi ferma su quelle posizioni. Prima di tutto la politica estera e la condanna senza tentennamenti dell’invasione russa. Ma anche sul fronte interno sembra prevalere il desiderio di continuità. Ad esempio a proposito del caro bollette.

Se si ragiona di una disponibilità di ulteriori 25 miliardi, che si aggiungerebbero ai 66 già mobilitati, vuol dire che si pensa di utilizzare i 10 miliardi già accantonati dal governo Draghi, più i 10 che derivano dall’aumento del gettito fiscale (uno degli effetti della crescita dei prezzi), con i 5 raccolti tassando gli extraprofitti delle società fornitrici d’energia. Ovvero non solo ci si muove in continuità, ma la si osserva sul punto più rilevante e con maggiori conseguenze positive: niente scostamento di bilancio. Non è una novità, per Fratelli d’Italia, ma è pur sempre l’opposto di quel che reclamava la Lega. Se i rapporti di forza e la saggezza indurranno ad attenersi alla prima e non alla seconda condotta, sarà solo che un bene.

Potrà sembrare strano che tanta continuità sia garantita dalla vittoria degli oppositori del precedente governo, ma è una stranezza più politicista che relativa alle questioni concrete. Il governo Draghi ha totalizzato due anni di forte crescita economica, riuscendo a far scendere debito e deficit. Non avrebbe senso che chi raccoglie il testimone voglia rompere la continuità, perché oltre che al Paese porterebbe problemi e sfortuna a chi si appresta a governare.

A questo si aggiunga un’ulteriore questione, che non riguarda affatto solo l’Italia e neanche solo gli europei (si pensi a quel che successe negli Stati Uniti e sta succedendo in Brasile): vincere le elezioni legittima la maggioranza parlamentare e comporta il diritto-dovere di governare, ma è pericoloso dimenticarsi di non essere maggioranza nel Paese o che gli elettori sono divisi in due. Trump vinse con meno voti popolari di Clinton, averlo ignorato non gli ha giovato.

Biden ha ereditato non solo un Paese spaccato, ma con un accenno di guerra civile al debutto, sarebbe sciocco se non ne tenesse conto. Il primo turno Brasiliano racconta un paese diviso e in cui nessuno degli sfidanti raccoglie più della metà. Il democrazia non si passa il bastone del comando (che proprio non c’è), ma la guida del governo e del legiferare.

Una maggioranza parlamentare ha la possibilità di fare quel che promise, ma anche la responsabilità di non trasformare il proprio essere minoranza nel Paese in un elemento che ne incrudelisca gli scontri, radicalizzandoli. Perché per riuscire a governare il consenso dovrà continuare a costruirlo, provvedimento dopo provvedimento.

Da questo punto di vista la postura della continuità, che fin qui si mantiene, è dimostrazione di saggezza. Anche perché c’è una questione che non è di politica estera e neanche interna, ma le condiziona entrambe: l’essere parte dell’Unione europea. È il punto su cui i vincitori delle elezioni italiane sono più indeboliti da quel che dissero, fecero e votarono. La continuità è un buon approccio per superare tare che nuocerebbero all’Italia, ma anche a chi oggi ha vinto e s’appresta a governarla.

La Ragione

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Dopo una settimana di panico sui mercati, Liz Truss fa marcia indietro. Basterà aver ritirato il piano di tagli alle tasse a salvare il suo governo? Quella del governo di Liz Truss sulle tasse è “un’umiliante marcia indietro”: è un fuoco di fila quel…


Berlino è stufaVendite record (e sold out) di stufe elettriche. Preoccupati per una possibile crisi energetica invernale, i tedeschi fanno incetta di stufette, registrando un aumento delle vendite del 76% rispetto al 2021.


Iran: la ‘non rivoluzione’ nella battaglia per il dopo-Khamenei


Già iniziati negoziati ad alto livello e lotte per la successione. Mancano alternative politiche praticabili. L'opposizione è debole, frammentata, irrilevante. Lo scenario più probabile è che l'IRGC, con l'appoggio di Khamenei, schiacci gli oppositori che sono nelle piazze, e poi prepari il terreno per un successore del leader supremo

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🔍 #PNRRIstruzione, quanto ne sai?
Prosegue la nostra rubrica per conoscere meglio le misure dedicate alla #scuola.
Oggi vi parliamo degli investimenti previsti per migliorare l’offerta formativa nella fascia 0-6 anni.


Economia al tempo della guerra in Ucraina: chi guadagna e chi perde


La drammatica guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ha generato uno scontro che non si esaurisce sul campo bellico, ma si allarga ad un confronto globale più ampio sul piano geopolitico e su quello degli equilibri finanziari che creano differenti condizioni di vantaggi e svantaggi ai diversi Paesi. Proviamo ad analizzarli. La guerra segue il […]

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GUAM 2.0: il libero scambio può far rivivere il blocco regionale dimenticato?


Qualcosa si muove attorno al vecchio blocco, ma è presto per dire se l'area di libero scambio può decollare in tempi brevi. Certo è che una zona di libero scambio non solo aiuterebbe gli Stati membri della GUAM, ma aiuterebbe anche l'organizzazione GUAM a convalidarne l'esistenza

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Il principe bin Salman e il suo frenetico ‘fare’


Impegnato su più scacchieri diplomatici, religiosi ed economici, con successi variabili, il principe ereditario saudita prova ripulire la sua immagine e insieme costruire il futuro del Paese

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È ripartita oggi da Gragnano (Napoli), alla presenza del Ministro Patrizio Bianchi e del Capo della Polizia Lamberto Giannini, “Una vita da social”, la campagna educativa itinerante realizzata dal nostro Ministero insieme alla Polizia di Stato nell’a…


Libano e Israele, la pace del gas


Dopo più di un decennio di colloqui, una proposta degli Stati Uniti per risolvere una controversia sul giacimento di gas Qana ha guadagnato elogi dai leader di Beirut e Tel Aviv

L'articolo Libano e Israele, la pace del gas proviene da L'Indro.



Gli etruschi protagonisti al Salone del turismo archeologico


Ora che è calato il sipario sull’8ª edizione di ‘Tourisma-il Salone dell’Archeologia e del Turismo culturale’ organizzato da Archeologia Viva (Giunti editore) al Palazzo dei Congressi di Firenze dal 30 settembre al 2 ottobre, già si può tracciare un primo bilancio di questa manifestazione, la più importante d’Europa in questo settore, che vedeva grandi protagonisti gli etruschi, […]

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Se NON vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi – Agenda 2030: istruzioni per il futuro


3. SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (ottobre – novembre) – AGENDA 2030: istruzioni per il futuro L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Si tratta di un proget

3. SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (ottobre – novembre) – AGENDA 2030: istruzioni per il futuro


L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Si tratta di un progetto che mira alla prosperità del pianeta e dei suoi abitanti.

Il laboratorio intende pertanto diventare occasione di analisi e confronto dei 17 obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile da raggiungere entro il 2030 di cui l’agenda è composta.

Si sottolinea in particolar modo che con il presente laboratorio si intende promuovere l’accesso alle facoltà universitarie di indirizzo STEM da parte delle studentesse.

Docenti incaricati dalla Fondazione Luigi Einaudi:

Prof. Giuseppe Tringali, Presidente dell’Ordine dei Chimici e dei Fisici della Provincia di Siracusa e componente del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.

Avv. Michele Gerace, Presidente dell’Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l’Occupazione; Ideatore di “Costituzionalmente: il coraggio di pensare con la propria testa” (è in corso la XII edizione, la IV e la V edizione hanno ricevuto l’adesione del Presidente della Repubblica che ha conferito la Sua Medaglia di Rappresentanza), della “Scuola sulla Complessità” (è in corso la IV edizione), del Bar Europa e dell’omonima rubrica radiofonica al Rock Night Show su Radio Godot (è in corso la VI stagione); Responsabile del progetto “La Fondazione Luigi Einaudi per la Scuola”.

Avv. Gianmarco Bovenzi, Responsabile dei progetti ELF della Fondazione Luigi Einaudi, è un professionista del diritto dalla formazione internazionale con precedente esperienza professionale presso lo United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention.

Docente incaricato dal Liceo Lucio Piccolo:

Prof. Antonio Smiriglia

PON Legalità 2014 – 2020: Progetto “NO MORE NEET – Sperimentazione di percorsi integrati di carattere educativo, formativo e di socializzazione per i ragazzi volti a combattere la povertà e a promuovere l’inclusione sociale e la legalità.

Approfondisci progetto “Se NON vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”

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LIBANO. Profughi siriani, Beirut accelera per rimandarli subito a casa


Negli ultimi tre anni si è aggravata l'ostilità dei libanesi verso i siriani presenti nel paese. Prevale l’idea che i profughi assorbano risorse destinate alla popolazione libanese impoverita dalla crisi economica e, per questo, si chiede a gran voce il r

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. «Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna», ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. «Non abbiamo bisogno questi stranieri», aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, «vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione». Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano.

A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. «Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri» ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel «tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera». Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. «La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti». Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. «Noi garantiamo l’assistenza primaria – ci spiega – ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose». Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, «le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi».

Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato.

Questo quadro è peggiorato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che «Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese».

I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ​​da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di «piene condizioni di sicurezza» in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari – spesso con l’aiuto di parenti all’estero – da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Pagine Esteri

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Grazie, Nonni. E lunga vita


C’è una scena incantevole che ricorre assai spesso nei nostri ritrovi familiari, la si coglie quando siamo a tavola, a casa dei nonni o a casa nostra quando li invitiamo. Ci guardiamo e conversiamo. Esistono, però, modi e toni diversi. C’è il figlio che h

C’è una scena incantevole che ricorre assai spesso nei nostri ritrovi familiari, la si coglie quando siamo a tavola, a casa dei nonni o a casa nostra quando li invitiamo.

Ci guardiamo e conversiamo. Esistono, però, modi e toni diversi. C’è il figlio che ha tenuto in serbo un discorso difficile e complicato. Approfitta dell’aria di festa che si crea intorno, si sente caricato e così parte pian pianino con piccole e impercettibili insidie all’indirizzo di padre e madre fino a togliere il tappo alla propria malcelata intensione – perché così poi finisce – di colpire a fondo papà e mamma con i discorsi che lui sa, e che sono quelli che fanno male.

Intanto si registra un diverso guardare. Lo attivano e lo coltivano i nipotini. Appena fiutata l’aria, disseminano come mine piccole distrazioni. E vanno intorno con lo sguardo su chi comincia ad alzare i toni e su chi li subisce. I loro, sono sguardi di una tenerezza profonda. Con quegli sguardi vorrebbero sollevarli dal crinale in cui stanno (i nonni) per precipitare e con quegli sguardi li avvolgono e li proteggono perché non si facciano male.

Dicono che i nonni sono gli angeli custodi, in terra, dei nostri piccoli. Forse è il caso di aggiungere anche altro: i nipoti sono gli angeli custodi dei nonni. Che i nonni custodiscano i nipoti lo dicono gli adulti avveduti. Più difficile è riconoscere che i nipoti riescano a custodire i nonni. Quando scopriremo questa realtà, avremo fatto tombola perché quel giorno riusciremo finalmente ad invertire la marcia del nostro rapporto figli e padri. Perché è questo rapportarsi il vero problema da affrontare e risolvere.

Se i figli non conoscono o non hanno riflettuto abbastanza sulla vita dei loro padri, o se non hanno riflettuto a dovere sulla propria identità e sul proprio cammino di vita, difficilmente potranno stabilire con i loro padri rapporti sensati e pacifici, oltre che pacificatori. Fino a quando i padri vengono tenuti sotto processo con le accuse più strampalate perché i loro percorsi non sono stati mai letti e contestualizzati nella storia che fu, la conflittualità resterà permanente. Prendiamo ad esempio un figlio che ha studiato e un padre semianalfabeta. Il figlio fa lo spaccone e detesta il padre che è rimasto indietro. Non tiene conto, però, che un padre semianalfabeta insieme a mille altri del suo stesso rango ha avuto l’ingegno e la lungimiranza di mandare il pargoletto a scuola e anche all’università. Poteva non sostenerlo, mentre invece l’ha incoraggiato e pure vezzeggiato. Eppure, ancora si lamenta e rimprovera al genitore perché, al contempo, non l’ha fatto anche ricco. E se pure, l’ha fatto ricco, non è riuscito a farlo straricco. Probabilmente questo figlio deve ancora chiarire a sé stesso qual è il suo compito nella vita.

E poi, un figlio che ne sa – o quando mai si è interrogato – riguardo alla condizione esistenziale di suo padre che invecchia? Sa, per caso, che cosa significa non poter più lavorare, lui che si è sentito forte e valido fino a quando a provvedere ai bisogni suoi e della famiglia sono servite le sue mani? Forse ancora non lo sa, non l’ha neanche immaginato. O sa che cosa significa finire infermo o – come oggi si dice – allettato? Goffredo Parise ha scritto che quel padre “sente vergogna”, Ferdinando Camon “prova vergogna”.

E questo solo per dire dell’incomprensione di cui soffrono i nostri padri, nonni dei nostri figli. E questo solo per non aprire quell’altra pagina, quella degli errori (li dovremmo chiamare orrori), rappresentati da una malasanità che mortifica quotidianamente i nostri anziani, li spersonalizza, li guarda come mangia-farmaci a tradimento, dimenticando che sono stati loro a mettere in piedi un sistema che voleva essere sollievo per tutti e si mostra invece ingrato ai meno abbienti. E poi c’è l’altro gradino, quello che scende nel profondo dell’abisso. Sono gli anziani bancomat. E gli altri ancora: quelli lasciati a terra con la testa sanguinante perché il bancomat ha fatto scivolare 20 e non 50 euro come richiesto da un (si fa per dire) famigliare che ha solo avvertito il profumo di soldi bagnati col sudore della fronte degli altri.

Vivano a lungo i nostri nonni e continuino a custodire i nostri figli. Lo fanno gratis come gratis sono custoditi dai nipoti. E non solo con lo sguardo. Con cuore bambino.

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PODCAST: Guerra Ucraina-Russia. Stop the war now: asilo per gli obiettori dei due paesi


Non solo in Russia, anche in Ucraina migliaia di cittadini rifiutano il servizio militare e la guerra subendo pesanti ritorsioni da parte del governo e dei gruppi nazionalisti. Chiedono il ricorso immediato alla diplomazia. Ne abbiamo parlato con il nostr

Pagine Esteri, 4 ottobre 2022 – Molto si sa della repressione delle proteste in Russia contro la guerra di Putin e il recente richiamo dei riservisti.

Ma anche migliaia di ucraini contestano la linea esclusivamente militarista di Zelensky.

Ce ne parla il giornalista e nostro collaboratore Antonio Mazzeo parte la scorsa settimana della carovana per Kiev organizzata da un “Ponte per” per chiedere la fine della guerra e l’asilo politico per gli obiettori di coscienza russi, ucraini e bielorussi.
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Pirates: Common charger a win for users and the environment


Today, Members of the European Parliament approved the outcome of the trilogue negotiations on the Common Charger directive. A strong position of the European Parliament warrants that in addition to mobile …

Today, Members of the European Parliament approved the outcome of the trilogue negotiations on the Common Charger directive. A strong position of the European Parliament warrants that in addition to mobile phones, the USB Type-C cable will become the common charging port for other small and medium-sized portable electronic devices by autumn 2024, and by spring 2026 for larger ones, as well.

MEP Marcel Kolaja, Member of the responsible Committee on Internal Market and Consumer Protection (IMCO) and Quaestor of the European Parliament, comments:

“I am pleased that the European Parliament managed to extend the list of devices that will be able to be charged with the same charger. Not only will this greatly simplify the everyday life of consumers, but also, for example, traveling. Nobody wants to carry five different chargers with them. In addition, this will help protecting the environment, since discarded chargers account for 11,000 tons of e-waste a year in the European Union.

“Further, today’s vote obliges the European Commission to continuously assess the possibility of including other product categories. The directive will be revised for the first time three years after its entry into force and then every five years, taking into account technological progress, consumer convenience and the environment.”

MEP Patrick Breyer from the German Pirate Party comments:

„The EU common charger is an important first step towards electronics that are tailored to the needs of users rather than industry profits. But with a right to repair and the fight against planned obsolescence, many more steps must follow. We Pirates want users to be in control over the technology we use in our daily lives. We need a right to modify and repair devices on our own!”

patrick-breyer.de/en/pirates-c…



Etiopia – 6 milioni messi a tacere: un’interruzione di Internet di due anni in Tigray


Mentre i combattimenti infuriano nella regione del Tigray in Etiopia, dilaniata dalla guerra, uno dei più lunghi arresti delle telecomunicazioni al mondo sta ostacolando le…

Mentre i combattimenti infuriano nella regione del Tigray in Etiopia, dilaniata dalla guerra, uno dei più lunghi arresti delle telecomunicazioni al mondo sta ostacolando le consegne di aiuti, danneggiando gli affari e tenendo separate le famiglie.

  • Chiusura nella regione etiope tra le più lunghe al mondo
  • Il blackout ostacola le consegne di aiuti, rovina le attività
  • Le autorità affermano che le chiusure aiutano a frenare la violenza

Era appena stata incoronata campionessa del mondo , ma la maratoneta etiope Gotytom Gebreslase è scoppiata in lacrime quando gli è stato chiesto se la sua famiglia stesse festeggiando la sua vittoria a casa nel Tigray dilaniato dalla guerra.

“Non parlo con i miei genitori da mesi”, ha detto, asciugandosi gli occhi mentre parlava a una conferenza stampa durante i Campionati mondiali di atletica leggera a Eugene, nello stato nord-occidentale dell’Oregon, negli Stati Uniti, a luglio.

“Vorrei che mio padre e mia madre potessero celebrare il mio successo come lo sono gli altri etiopi”.


Pochi sono stati risparmiati dagli effetti della chiusura di quasi due anni di Internet e telefono nella regione del Tigray settentrionale dell’Etiopia, che è stata interrotta da quando sono scoppiati i combattimenti tra i ribelli del Tigray e le forze governative nel novembre 2020.

Il conflitto è ripreso il mese scorso dopo una tregua umanitaria durata mesi, che ha deluso le speranze di ripristino delle comunicazioni.

Anche il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus, originario del Tigray, ha affermato di non essere stato in grado di raggiungere i suoi parenti a casa, né di inviare loro denaro.

“Non so nemmeno chi è morto o chi è vivo” ha detto il Dr. Tedros in una recente conferenza stampa a Londra.

Mentre i combattimenti continuano nel Tigray e altrove in Etiopia, il governo del primo ministro Abiy Ahmed afferma che le chiusure sono necessarie per frenare la violenza, ma i critici accusano le autorità di utilizzare Internet come arma di guerra.

“L’accesso alle comunicazioni e ad altri servizi di base, e soprattutto l’assistenza umanitaria, è esplicitamente utilizzato come merce di scambio dal governo etiope”, ha affermato Goitom Gebreluel, analista politico specializzato in affari del Corno d’Africa.

“È usato come leva sia contro il Tigray che contro la comunità internazionale”.


Telefoni satellitari e stampa


In tutto il mondo, le interruzioni di Internet sono diventate più sofisticate, durano più a lungo, danneggiano le persone e l’economia e prendono di mira i gruppi vulnerabili in tutto il mondo, secondo il gruppo per i diritti digitali Access Now.

L’anno scorso ha registrato circa 182 interruzioni di Internet in 34 paesi, rispetto alle 159 interruzioni in 29 nazioni dell’anno precedente.

In Etiopia , sporadici blackout di Internet e telefonici sono stati usati come “un’arma per controllare e censurare le informazioni”, ha affermato il gruppo, rendendo difficile per giornalisti e attivisti documentare presunti crimini contro i diritti e fornire aiuti.

Nella capitale regionale del Tigray, Mekelle, soluzioni di emergenza come i telefoni satellitari sono diventati uno strumento vitale per le operazioni delle agenzie umanitarie.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) gestisce anche un servizio di telefonia satellitare per i residenti locali, dando loro un modo per inviare un messaggio ai propri cari.

Finora quest’anno, il CICR ha facilitato circa 116.000 telefonate e messaggi orali “tra membri della famiglia separati da conflitti e violenze”, ha affermato la portavoce Alyona Synenko.

Con quasi la metà dei sei milioni di persone della regione che hanno un grave bisogno di cibo , la chiusura e i blocchi stradali hanno ostacolato le consegne di aiuti umanitari, secondo il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.

La mancanza di reti di telefonia mobile ha anche “paralizzato sia l’emergenza che i normali sistemi di monitoraggio sanitario”, ha affermato un portavoce dell’OMS in un commento inviato via e-mail.

L’unico modo per comunicare è “tramite relazioni cartacee che devono essere consegnate a mano. Tutti gli incontri devono tenersi di persona”.

Funzionari del governo accusano i ribelli di danneggiare deliberatamente le reti di telecomunicazioni, mentre i rappresentanti del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) affermano che l’amministrazione di Abiy non vuole ripristinare i servizi tagliati.

Un portavoce di Abiy ha affermato che non c’era un “pulsante o interruttore di accensione e spegnimento singolo” per il ripristino di Internet.

Non c’era un “pulsante o interruttore di accensione e spegnimento singolo” per il ripristino di Internet.


“Le disposizioni di sicurezza e amministrative all’interno della regione del Tigray devono essere autorizzate… per facilitare i lavori di riparazione tecnica”, ha detto il portavoce ai giornalisti il ​​mese scorso.

Il consigliere del TPLF Fesseha Tessema lo ha contestato.

“La questione è politica, poiché Addis Abeba non vuole revocare l’assedio e ripristinare i servizi”, ha detto alla Thomson Reuters Foundation.
Un membro del personale della Croce Rossa Internazionale (CICR) osserva un residente che parla alla famiglia su un telefono satellitare nel Tigray, in Etiopia. Comitato Internazionale della Croce Rossa/Dispensa tramite Thomson Reuters FoundationUn membro del personale della Croce Rossa Internazionale (CICR) osserva un residente che parla alla famiglia su un telefono satellitare nel Tigray, in Etiopia. Comitato Internazionale della Croce Rossa/Dispensa tramite Thomson Reuters Foundation

“Lo lasciano a Dio”


Quando il popolare cantante e attivista Oromo Hachalu Hundessa è stato ucciso nel giugno 2020 in un sobborgo della capitale, Addis Abeba, il governo ha staccato la spina da Internet dell’intero paese mentre rivolte e omicidi si diffondevano in Oromia e ad Addis Abeba.

Secondo NetBlocks, una società di monitoraggio di Internet, una repressione della polizia ha provocato centinaia di morti e un’interruzione di Internet durata 23 giorni è costata all’economia più di 100 milioni di dollari.

Frehiwot Tamiru, amministratore delegato dell’unico fornitore di telecomunicazioni – Ethio Telecom, di proprietà del governo, ha affermato che la chiusura a livello nazionale è necessaria per impedire che Internet venga utilizzato dai criminali per “uccidere e sfollare, creare caos e distruggere il paese”.

I gruppi per i diritti umani hanno anche criticato il governo etiope per la chiusura dei social media e dei servizi di messaggistica tra cui Facebook e WhatsApp nell’ultimo anno.

Le autorità etiopi non hanno commentato queste chiusure, ma hanno affermato l’anno scorso che stavano sviluppando una piattaforma di social media interna per “sostituire” Facebook, Twitter e WhatsApp.

Molti comuni etiopi lamentano le frequenti interruzioni della loro vita quotidiana.

Come ogni quindicenne, a Tolessa piaceva cercare i risultati di calcio online e inviare messaggi ai suoi amici sul telefono, fino a quando le frequenti interruzioni di Internet nella sua città natale a Oromia lo rendevano quasi impossibile.

Con l’intensificarsi della guerra tra le forze etiopi e i ribelli dell’Esercito di liberazione di Oromo nel 2019 e nel 2020, i residenti hanno usato i loro telefoni quando potevano per avvisarsi a vicenda dell’avvicinarsi dei combattimenti, fino alla chiusura della banda larga e di Internet mobile.

“Ora è tutto un azzardo – lo lasciano a Dio”, ha detto Tolessa, che ha chiesto di usare uno pseudonimo per proteggere la sua identità.

Temendo per la sua incolumità, la famiglia di Tolessa lo ha mandato a vivere con i parenti ad Addis Abeba a circa 300 km (185 miglia) di distanza, dove ora va a scuola e spera di diventare ingegnere. È una lotta per rimanere in contatto.

“Posso contattare solo alcuni parenti per telefono, la maggior parte di loro non è online da mesi”, ha detto.

In Tigray, Eyassu Gebreanenia, 24 anni, residente a Mekelle, ha affermato di essere in grado di collegarsi online una o due volte al mese, utilizzando il Wi-Fi presso l’ufficio di un’organizzazione no profit internazionale in cui lavora il suo amico.

La città era un tempo il vivace centro degli affari della regione, ma Gebreanenia ha detto che ospedali, hotel e ristoranti sono chiusi e le persone che un tempo possedevano attività fiorenti ora lottano per sfamare le loro famiglie.

“È come se avessero riportato indietro l’orologio di 30 anni”, ha detto in una e-mail. “Le persone stanno soffrendo, ma potresti non saperlo perché siamo tagliati fuori dal mondo. È piuttosto deprimente”.

(Segnalazione di Zecharias Zelalem. Montaggio di Rina Chandran e Helen Popper.)


FONTE: context.news/digital-rights/si…


tommasin.org/blog/2022-10-04/e…



LIBANO. Profughi siriani, Beirut accelera per rimandarli subito a casa


Negli ultimi tre anni si è aggravata l'ostilità dei libanesi verso i siriani presenti nel paese. Prevale l’idea che i profughi assorbano risorse destinate alla popolazione libanese impoverita dalla crisi economica e, per questo, si chiede a gran voce il r

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. «Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna», ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. «Non abbiamo bisogno questi stranieri», aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, «vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione». Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano.

A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. «Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri» ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel «tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera». Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. «La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti». Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. «Noi garantiamo l’assistenza primaria – ci spiega – ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose». Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, «le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi».

Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato.

Questo quadro è peggiorato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che «Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese».

I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ​​da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di «piene condizioni di sicurezza» in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari – spesso con l’aiuto di parenti all’estero – da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Pagine Esteri

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Israele uccide quattro palestinesi. La Cisgiordania ora è una polveriera


Nell'ultimo raid lanciato ieri nel campo profughi di Jenin, l'esercito israeliano ha preso di mira tre palestinesi. Un quarto giovane, armato, è stato ucciso in strada da un cecchino. Vacilla l'Anp di Abu Mazen sotto accusa per la cooperazione di sicurezz

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Un bambino palestinese di 7 anni, Ryan Suleiman, è morto durante un raid di soldati israeliani nella sua abitazione a Taqua (Betlemme). Il bambino si è accasciato al suolo ed è spirato per arresto cardiaco. In precedenza il ministero della sanità palestinese aveva riferito che era caduto dall’alto durante un inseguimento da parte dell’esercito israeliano.

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di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 29 settembre 2022 – Nel giorno dell’inizio, 22 anni fa, della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha lanciato nel campo profughi di Jenin una delle sue operazioni più profonde e devastanti di questi ultimi mesi. Un attacco, in cui sono morti quattro palestinesi e oltre quaranta sono rimasti feriti, che rischia di far divampare un incendio nel nord della Cisgiordania dove in queste ore dominano rabbia e desiderio di rappresaglia. E anche di far vacillare ulteriormente l’Autorità Nazionale (Anp) di Abu Mazen schiacciata tra la pressione militare di Israele e le proteste della popolazione palestinese che chiede la fine della collaborazione di sicurezza con le forze di occupazione. Ciò mentre il pugno di ferro che Israele ha deciso di usare la scorsa primavera – dopo gli attentati in cui sono state uccise 18 persone a Tel Aviv, Bnei Brak, Hedera e Bersheeva – sta avendo il risultato contrario rispetto a quello che il governo e i comandi militari israeliani affermano di voler ottenere. Dopo circa 100 palestinesi uccisi in raid militari ormai quotidiani, dozzine di feriti e oltre 1500 arresti, non diminuiscono anzi si moltiplicano spari e attacchi contro le postazioni dell’esercito e gli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata da 55 anni.

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Le incursioni militari a Jenin, Nablus – le roccaforti della militanza armata – e altre città cisgiordane avvengono sempre di più spesso durante le ore di luce e non più solo di notte. Ieri le forze israeliane hanno circondato la casa della famiglia di Raad Hazem, responsabile dell’attentato di aprile a Tel Aviv in cui rimasero uccisi tre israeliani, e sparando un missile anticarro contro di essa hanno ucciso suo fratello e altri due palestinesi: Abed Hazem, Mohammed Abu Naaseh e Mohammed Alona. Il quarto ucciso, Ahmed Alawneh, è stato colpito alla testa da un cecchino mentre combatteva in strada. Una foto diffusa da palestinesi sui social mostra uno dei cadaveri all’interno della casa annerita dall’esplosione su cui soldati israeliani avrebbero scritto la parola «Fine». Almeno 44 persone sono rimaste ferite durante gli scambi di raffiche di mitra andati avanti per oltre un’ora. Due dei feriti sono stati colpiti al petto e ieri sera erano in condizioni disperate. Testimoni hanno raccontato di scene che non si vedevano dalla seconda Intifada.

«Non esiteremo né saremo dissuasi ad agire contro chiunque tenti di colpire i cittadini israeliani o le nostre forze di sicurezza», ha commentato il primo ministro Yair Lapid. Ma il raid ha creato una situazione esplosiva. Tutti i partiti e movimenti palestinesi, incluso Fatah di Abu Mazen, hanno proclamato un «giorno d’ira» e uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono scoppiati scontri un po’ ovunque tra soldati e dimostranti. I palestinesi inoltre denunciano un attacco di coloni. Più l’esercito israeliano lancia i suoi raid, più le immagini degli uccisi girano su Tik Tok e altri social e più si ingrossano i ranghi della Fossa dei Leoni, il gruppo armato guidato fino a due mesi fa da Ibrahim Nabulsi ucciso a Nablus, considerato un eroe della resistenza palestinese.

Trema l’Anp che Israele ormai non considera più un «partner per la sicurezza» ma soltanto una autorità amministrativa incaricata di fornire servizi alla popolazione palestinese. Nabil Abu Rudeina, il portavoce di Abu Mazen, ha accusato Israele di non rispettare la vita dei palestinesi «e di compromettere la sicurezza e la stabilità con la sua politica». Ha aggiunto che «Israele chiede calma e stabilità mentre pratica tutte le forme di escalation, uccisione e distruzione». Le parole non bastano più alla popolazione palestinese che vede nei rapporti dell’Anp con Israele il punto di debolezza della leadership di Abu Mazen, priva ormai di consenso e credibilità.

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Putin e il nucleare ‘tattico’: la via verso l’inferno


Cos'è il nucleare tattico e che significa 'tattico'; la capacità distruttiva, la sostanziale inutilità sul campo di battaglia; da cosa Putin può essere frenato nell'utilizzo

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