Pietre preziose e gioielli: guida alla scelta per il regalo perfetto
Il mondo della gioielleria è tanto eclettico quanto variegato ed è chiaro che, quando si regala un oggetto prezioso ad una persona, si dimostra un affetto ed un interesse tale da giustificare una spesa non esattamente accessibile e, talvolta, anche particolarmente esosa. Regalare un gioiello, del resto, può essere qualcosa di particolarmente sentito e personale […]
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PODCAST. Gerusalemme, polizia israeliana circonda campo profughi di Shuafat dopo uccisione soldatessa
di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 10 ottobre 2022 – Sale la tensione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dopo l’uccisione tra venerdì e sabato notte di quattro adolescenti palestinesi da parte dell’esercito israeliano e di una soldatessa colpita da un palestinese del campo profughi di Shuafat.
Gli ultimi sviluppi da Michele Giorgio a Gerusalemme.
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ANALISI. Iran. In strada contro morali anacronistiche
di Assopace
Pagine Esteri, 10 ottobre 2022 – La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti* per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
La spontanea protesta contro morali anacronistiche
Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo. Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.
La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.
Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.
Le sfide
Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.
A morte il dittatore
Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).
Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.
La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?
La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.
Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.
In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari” (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati». Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.
Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.
Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.
Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.
Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.
Mahsa Amini
Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.
Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».
Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.
Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York. Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.
L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.
Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».
Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).
Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.
Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.
Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto. Pagine Esteri
*Giornalista, esperta di Iran
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Legami
Le decisioni arriveranno il 20-21 ottobre, data del Consiglio europeo. Ma la decisione più importante è già stata presa da mesi, fissando una unità politica europea che solo Orban prova a mettere in dubbio. Senza neanche lontanamente riuscirci.
L’unità sulla risposta alla criminale invasione russa è già un fatto, fissata nelle sanzioni, negli aiuti (anche militari) agli ucraini e nella decisione tedesca di considerare North Stream 2 morto prima di nascere. Ieri è stata ribadita e rafforzata. Ci si capisce nulla, se non si parte da questo presupposto. Da qui al 20 il problema non è trovare l’unità, ma il consolidarla con altri passi. Come diversi ne sono stati fatti, dal 24 febbraio, e se ne faranno. Ciascun passo, ciascuna riconferma dell’unità, crea legàmi.
L’Unione europea è un poderoso acquirente di gas. Fin qui, essendo economicamente conveniente (ricordiamolo, altrimenti si sembra scemi) si è preferito che ciascun Paese si regoli per conto proprio nell’acquistare, salvo sottostare a regole comuni che favoriscono il consumatore, nel vendere e distribuire.
Difatti il prezzo del gas scendeva. La pioggia di telefonate che ricevevamo, con offerte sempre più vantaggiose, non era dovuta alla generosità, ma alla sana cupidigia, di cui il consumatore si giovava. La situazione è cambiata ed è ora conveniente cambiare musica.
Delle cose sono state già fatte, anche se l’informazione caciarona non agevola nel diffonderle: si è già fissata una soglia al di sopra della quale si tagliano i profitti delle società energetiche; si è stabilito un prelievo di solidarietà; si marcia verso l’acquirente unico (come per i vaccini). Ciascuna di queste cose comporta legàmi.
Difatti taluni (l’Olanda) li considera eccessivi. Saranno più stretti con il tetto al prezzo del gas, foss’anche come banda d’oscillazione. Saranno strettissimi con un eventuale fondo comune. Chi lamenta ritardi, chi frigna per la poca Europa, si ricordi che quei legàmi generano i vincoli contro cui ieri faceva dissennate campagne.
I sovranisti italocentrici (come i francocentrici, germanocentrici e via centrando) e i falsi europeisti perdenti hanno in comune la convinzione che quei legàmi siano una camicia di forza e le istituzioni europee una specie di istitutrice severa (meglio se tedesca, nella loro turpe fantasia). Balle. Non ci sono dictat, moniti, gelo. C’è il vincolo della realtà: un fondo comune ha delle regole, che puoi non accettare, ma che poi devi rispettare.
I veri difensori dell’interesse nazionale sono quanti capiscono che l’Ue siamo noi e non esiste un “noi” estraneo all’Ue. I pericolosi danneggiatori dell’interesse nazionale sono quanti non hanno il coraggio di spiegare cosa è necessario fare, quindi preferiscono dire: “lo chiede l’Europa”.
Spostano l’accento e al posto dei legàmi condivisi preferiscono chiedere: lègami, che altrimenti scivolo. Sostituiscono i legacci alla convenienza, sol perché raccontarono che si sarebbero battuti contro quello che favorisce il nostro mondo produttivo e la crescita economica. Si fanno legare per non dovere onorare le castronerie piagnucolose e vittimiste con cui lisciarono il pelo ai nazionalismi e all’assistenzialismo amante e produttore di povertà.
Per questo, a destra e sinistra, si sente sempre il bisogno di dire: l’Europa è divisa. E si osa ripeterlo mentre viviamo la più clamorosa dimostrazione di unità politica, di fronte a una guerra. Mai successo prima. Certo che se ne soffre e certo che il dolore non è uniforme, neanche all’interno di un solo Paese, quindi i bisogni sono diversi. Questo è il lavoro necessario, da Praga al 20.
Quel castello è noto per la “defenestrazione”. 1618, una questione religiosa (e non solo): presero i rappresentanti dell’imperatore e li frullarono dalla finestra. Ancora oggi c’è una storiella popolare: non morirono, perché sotto c’era una montagna di sterco. L’Unità europea, in quel castello, defenestri chi riporta la guerra nella nostra Europa e il Mondo alle porte dell’inferno.
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Meloni e il delicato risiko delle nomine
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, entrambi usciti malconci dalle urne, ogni giorno alzano il prezzo e l’asticella. Presidenza del Senato a La Russa, alla Camera Riccardo Molinari. Per il governo, cinque ministri a Forza Italia e altrettanti alla Lega. Solo che non tutti i ministeri sono uguali
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Meloni e la stupidità di due europeiste (sulla carta)
Ursula von der Leyen e Laurence Boone dell'Europa non hanno capito niente, e hanno affermato due inesattezze e stupidità. Con questi due atti sconsiderati, il fosso sia tra l’UE e i partiti italiani e francesi, sia tra la Francia e l’Italia, si allarga a dismisura, e lascia spazio alle fantasie anti-europeiste, che sempre più marcatamente caratterizzano questa fase della politica italiana, della signora Giorgia Meloni
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Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.
L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili
In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.
Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.
Gas e petrolio: la sorpresa Africa
Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.
Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.
Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.
La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.
Addio lotta al cambiamento climatico
È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.
Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.
Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.
Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.
Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse
I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.
Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.
Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue
Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.
Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.
Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.
Proteste contro la Shell in Sudafrica
Combustibili fossili: opportunità o condanna?
Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.
Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI:
agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…
theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…
eccoclimate.org/wp-content/upl…
iea.org/news/global-energy-cri…
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ITS Academy, registrato alla Corte dei Conti il riparto dei fondi stanziati agli Istituti Tecnologici Superiori per l’anno scolastico 2022/2023.
Info ▶️ miur.gov.
Undicesimo comandamento: tu non violerai i confini altrui
Articolo ad uso di chi ama comprendere i problemi della pace e della guerra, senza i quali invocare la pace è come chiedere ad Alex DeLarge di rispettare gli scrittori e le loro mogli.
Per capire esattamente quale sia uno dei tanti problemi della guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina, oltre ai devastanti costi umani per ucraini, russi e cittadini di paesi terzi, dobbiamo tornare ai fondamentali del diritto internazionale costituito dopo il 1945.
Con l’istituzione delle Nazioni Unite le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, compresa l’Unione Sovietica, predecessore della Russia, stabilirono due suoi principi fondamentali: il rifiuto della guerra di aggressione, neanche nella forma dell’attacco preventivo difensivo, e l’illegalità dell’uso della forza per modificare i confini internazionali.
L’articolo 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite dice: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”
Il divieto si estende anche alla minaccia della violenza per conseguire scopi incompatibili con le Nazioni Unite che, ricordiamo, sono la pace, la sicurezza di ogni membro e un sistema internazionale fondato sul diritto e la giustizia.
Unica deroga a questo divieto assoluto è il diritto di autotutela, individuale o collettivo, riconosciuto ad ogni membro dell’ONU dall’articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.”
Questi principi sono stati assorbiti anche dalla nostra Carta Costituzionale che all’articolo 11 afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Si trattava di una prospettiva rivoluzionaria, impensabile fino a quel momento, che andava contro millenni di violenza legittima da parte di uno Stato contro un altro. Dal 1945 si cambia: annettere uno Stato, mutilarlo, spartirlo, non è più legalmente consentito.
E il bello è che il sistema ha funzionato.
Sento già proteste di incredulità. E le guerre che hanno devastato il mondo? Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, le minacce della Cina a Taiwan, gli scontri tra India e Pakistan? È innegabile che la violenza abbia continuato a infestare il mondo, eppure, il numero delle guerre, la loro intensità e il numero delle vittime sono costantemente diminuiti. L’ultima guerra tra grandi potenze è stata quella di Corea, in cui si fronteggiarono direttamente soldati degli Stati Uniti e della Cina Popolare.
Gran parte dei conflitti armati dal 1945 ad oggi sono state guerre civili, mentre quelle fra stati hanno avuto scopi limitati, senza pretesa di distruggere l’avversario o di modificarne i confini internazionalmente riconosciuti. I confini dell’America Latina sono immutati da un secolo. Quelli dell’Africa non sono stati modificati se non per la secessione di Sud Sudan ed Eritrea. Anche in Asia i confini sono quasi immutati, con la drammatica eccezione dell’ancora fluida situazione tra l’India e i paesi limitrofi, Cina e Pakistan. L’unica drammatica eccezione sono le guerre arabo-israeliane che si ponevano l’obiettivo di cancellare lo Stato israeliano. È vero inoltre che molti dei conflitti sono scaturiti dalla pretesa di alcuni Stati di imporre un regime politico ad un altro, come frequentemente accaduto in America Latina da parte degli Stati Uniti, in contravvenzione con i principi dello Statuto dell’ONU.
Tuttavia, nel 2008 qualcosa è cambiato.
La guerra lampo del gigante russo contro la Georgia si è conclusa con la mutilazione del territorio dell’Abkhazia, a cui è seguita nel 2014 l’occupazione illegale della Crimea, con referendum privi di ogni minima legittimità e trasparenza. Per la prima volta dal 1945 uno Stato si arrogava il diritto di impossessarsi con la forza di un territorio altrui, senza neppure tentare la strada dell’accordo, qualcosa che neppure l’URSS aveva osato fare, pur non avendo mai esitato ad usare le maniere forti con vicini e vassalli.
L’attacco del 24 febbraio della Russia contro l’Ucraina e l’annessione illegale alla Russia di quattro province ucraine, avvenuta il 30 settembre. rappresentano gravissime violazioni del diritto internazionale sotto tre punti: uso della forza per risolvere una controversia internazionale; tentativo di eliminare l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano; modifica unilaterale dei confini internazionalmente riconosciuti.
Ciò che è cambiato è il fatto che la Russia tenti nuovamente di legittimare l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Di nuovo, nessuno nega gli arbitrii e le violenze commesse da tutte le grandi potenze, dietro pretesti spesso risibili e comunque illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Ma nessuno prima di Putin si era spinto finora a cancellare con un tratto di cingolati i principii cardini della sicurezza collettiva.
La paura è la prima fonte di instabilità. Paura delle piccole potenze verso le grandi. Paura che genera la ricerca di protettori e scatena il riarmo. Non abbiamo bisogno di tutto questo. Ove i principi di rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni venissero cancellati, si aprirebbe un periodo di forte instabilità, in cui anche l’Europa finirebbe per essere investita. Non dimentichiamo, infatti, che alcuni confini internazionali, pensiamo al Kosovo, non sono ancora pienamente riconosciuti.
Quindi, di nuovo, fermare la Russia non è solo nell’interesse delle democrazie occidentali, ma di tutto il mondo, per evitare di ritornare all’infinita serie di lutti da cui nessuno esce mai vincitore.
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Undicesimo comandamento: tu non violerai i confini altrui
Articolo ad uso di chi ama comprendere i problemi della pace e della guerra, senza i quali invocare la pace è come chiedere ad Alex DeLarge di rispettare gli scrittori e le loro mogli.
Per capire esattamente quale sia uno dei tanti problemi della guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina, oltre ai devastanti costi umani per ucraini, russi e cittadini di paesi terzi, dobbiamo tornare ai fondamentali del diritto internazionale costituito dopo il 1945.
Con l’istituzione delle Nazioni Unite le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, compresa l’Unione Sovietica, predecessore della Russia, stabilirono due suoi principi fondamentali: il rifiuto della guerra di aggressione, neanche nella forma dell’attacco preventivo difensivo, e l’illegalità dell’uso della forza per modificare i confini internazionali.
L’articolo 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite dice: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”
Il divieto si estende anche alla minaccia della violenza per conseguire scopi incompatibili con le Nazioni Unite che, ricordiamo, sono la pace, la sicurezza di ogni membro e un sistema internazionale fondato sul diritto e la giustizia.
Unica deroga a questo divieto assoluto è il diritto di autotutela, individuale o collettivo, riconosciuto ad ogni membro dell’ONU dall’articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.”
Questi principi sono stati assorbiti anche dalla nostra Carta Costituzionale che all’articolo 11 afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Si trattava di una prospettiva rivoluzionaria, impensabile fino a quel momento, che andava contro millenni di violenza legittima da parte di uno Stato contro un altro. Dal 1945 si cambia: annettere uno Stato, mutilarlo, spartirlo, non è più legalmente consentito.
E il bello è che il sistema ha funzionato.
Sento già proteste di incredulità. E le guerre che hanno devastato il mondo? Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, le minacce della Cina a Taiwan, gli scontri tra India e Pakistan? È innegabile che la violenza abbia continuato a infestare il mondo, eppure, il numero delle guerre, la loro intensità e il numero delle vittime sono costantemente diminuiti. L’ultima guerra tra grandi potenze è stata quella di Corea, in cui si fronteggiarono direttamente soldati degli Stati Uniti e della Cina Popolare.
Gran parte dei conflitti armati dal 1945 ad oggi sono state guerre civili, mentre quelle fra stati hanno avuto scopi limitati, senza pretesa di distruggere l’avversario o di modificarne i confini internazionalmente riconosciuti. I confini dell’America Latina sono immutati da un secolo. Quelli dell’Africa non sono stati modificati se non per la secessione di Sud Sudan ed Eritrea. Anche in Asia i confini sono quasi immutati, con la drammatica eccezione dell’ancora fluida situazione tra l’India e i paesi limitrofi, Cina e Pakistan. L’unica drammatica eccezione sono le guerre arabo-israeliane che si ponevano l’obiettivo di cancellare lo Stato israeliano. È vero inoltre che molti dei conflitti sono scaturiti dalla pretesa di alcuni Stati di imporre un regime politico ad un altro, come frequentemente accaduto in America Latina da parte degli Stati Uniti, in contravvenzione con i principi dello Statuto dell’ONU.
Tuttavia, nel 2008 qualcosa è cambiato.
La guerra lampo del gigante russo contro la Georgia si è conclusa con la mutilazione del territorio dell’Abkhazia, a cui è seguita nel 2014 l’occupazione illegale della Crimea, con referendum privi di ogni minima legittimità e trasparenza. Per la prima volta dal 1945 uno Stato si arrogava il diritto di impossessarsi con la forza di un territorio altrui, senza neppure tentare la strada dell’accordo, qualcosa che neppure l’URSS aveva osato fare, pur non avendo mai esitato ad usare le maniere forti con vicini e vassalli.
L’attacco del 24 febbraio della Russia contro l’Ucraina e l’annessione illegale alla Russia di quattro province ucraine, avvenuta il 30 settembre. rappresentano gravissime violazioni del diritto internazionale sotto tre punti: uso della forza per risolvere una controversia internazionale; tentativo di eliminare l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano; modifica unilaterale dei confini internazionalmente riconosciuti.
Ciò che è cambiato è il fatto che la Russia tenti nuovamente di legittimare l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Di nuovo, nessuno nega gli arbitrii e le violenze commesse da tutte le grandi potenze, dietro pretesti spesso risibili e comunque illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Ma nessuno prima di Putin si era spinto finora a cancellare con un tratto di cingolati i principii cardini della sicurezza collettiva.
La paura è la prima fonte di instabilità. Paura delle piccole potenze verso le grandi. Paura che genera la ricerca di protettori e scatena il riarmo. Non abbiamo bisogno di tutto questo. Ove i principi di rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni venissero cancellati, si aprirebbe un periodo di forte instabilità, in cui anche l’Europa finirebbe per essere investita. Non dimentichiamo, infatti, che alcuni confini internazionali, pensiamo al Kosovo, non sono ancora pienamente riconosciuti.
Quindi, di nuovo, fermare la Russia non è solo nell’interesse delle democrazie occidentali, ma di tutto il mondo, per evitare di ritornare all’infinita serie di lutti da cui nessuno esce mai vincitore.
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Interventi e finanziamenti nel campo delle minoranze linguistiche: le Istituzioni scolastiche situate in ambiti territoriali in cui si applicano le disposizioni di tutela potranno candidarsi entro il 31 ottobre 2022.
twitter.com/fpietrosanti/statu…
https://twitter.com/fpietrosanti/status/1578418016014192640
@[url=https://mastodon.uno/users/prevenzione]Christian Bernieri[/url] Qui un meraviglioso meme sul temaTwitter
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#EFF ha saputo che un broker di dati ha venduto dati grezzi sulla posizione di singole persone alle forze dell'ordine federali, statali e locali.
Questi dati personali non vengono raccolti da ripetitori di telefoni cellulari o giganti della tecnologia come Google: sono ottenuti dal broker tramite migliaia di app diverse su app store Android e iOS come parte del più ampio mercato dei dati sulla posizione.
La società, Fog Data Science, ha affermato nei materiali di marketing di avere "miliardi" di punti dati su "oltre 250 milioni" di dispositivi e che i suoi dati possono essere utilizzati per conoscere dove lavorano, vivono e si associano.
#Fog vende l'accesso a questi dati tramite un'applicazione web, chiamata Fog Reveal, che consente ai clienti di puntare e fare clic per accedere a cronologie dettagliate
eff.org/deeplinks/2022/08/insi…
Inside Fog Data Science, the Secretive Company Selling Mass Surveillance to Local Police
A data broker has been selling raw location data about individual people to federal, state, and local law enforcement agencies, EFF has learned.Electronic Frontier Foundation
Mastodon, friendica, istanze, decentralizzazione, federazione e antani prematurato? No, il fediverso è più semplice da usare che da descrivere!
Anche se negli ultimi due anni l’argomento ha guadagnato l’attenzione del grande pubblico, è quasi da un decennio che si parla di Fediverso. Francamente, a rileggere oggi gli articoli che in quel passato hanno affrontato la questione, si avverte un certo senso di soffocamento: la descrizione del fediverso infatti è quasi sempre: tecnicalizzata: si utilizzano parole strane per illustrare concetti...
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Dove va la geopolitica italiana sotto Giorgia Meloni?
Il 26 settembre è stato un grande giorno per l’Italia, in quanto ha segnato la prima vera elezione politica dalla “commissariazzazione” del 2011 della politica italiana. E per la prima volta da anni, il governo neoeletto ha una maggioranza chiara e coerente, il che suggerisce che sarà più stabile dei suoi predecessori. L’onorevole Giorgia Meloni […]
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Gas e vincoli
Perché essere realisti e riconoscere l’inviolabile vincolo dell’Unione Europea è il modo migliore di difendere i giusti interessi nazionali
A Praga, si sono incontrati i Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’Unione Europea. Prima che si inizi a parlare di fallimento ed Europa spaccata – argomenti quasi totalmente privi di senso della realtà – è bene ricordare che quello di oggi è un incontro informale.
L’appuntamento formale del Consiglio Europeo è il 20 e il 21 ottobre prossimi. Lì si conta e si spera di portare a casa delle decisioni. Per capire quali decisioni saranno, quali possono essere utili e quali scenari si aprono bisogna tenere presenti due cose.
La prima: tutto ciò deriva dalla straordinaria unità e determinazione dimostrata dall’Unione Europea dinnanzi alla criminale aggressione russa all’Ucraina, non dalle spaccature. È bene ricordare che, assieme al primo pacchetto di sanzioni varato dall’Unione Europea, si decise anche – per voce e mano tedesca – di chiudere per sempre il capitolo di Nord Stream 2.
Questo è costato alla Germania sia in termini economici, sia in termini di forza strategica, perché i Paesi più colpiti non possono che essere i Paesi più industrializzati. La Germania è la prima potenza industriale d’Europa e l’Italia la seconda. La nostra energia dipende più di quella della Germania dal gas, ma la parte del gas che prendono i tedeschi è prevalentemente russa.
I tedeschi sono stati fino ad ora un hub continentale del gas, proprio perché erano lì le terminazioni dei gasdotti russi. Noi potremmo esserlo nel Mediterraneo, perché abbiamo già gasdotti che arrivano via mare e ne avremo di più un domani.
È questo il contesto dell’unità, in cui, inevitabilmente e giustamente, ci sono anche interessi da contemperare. Tuttavia, sostenere che nessuno ha voluto l’unità oppure che non si è mediato fra gli interessi è una corbelleria.
La seconda cosa è che un po’ con l’atteggiamento piagnucoloso dalle nostre parti si sostiene che l’Europa non stia facendo granché e si chiede di mettere il tetto al gas. A parte che c’è già, perché, forse è sfuggito, ma sopra una determinata cifra di prezzo le compagnie che vendono devono essere tassate. Quindi c’è già un vincolo interno.
Si va verso l’acquirente unico, che è più rilevante e più importante del tetto del gas. Il tetto del gas sarà comunque transitorio. Secondo me, ci arriveremo, ma sarà comunque transitorio. Invece, l’acquirente unico può diventare permanente e questo influirà molto di più sul prezzo del gas in condizioni normali, perché noi torneremo alle condizioni normali. Entro il 24, saremo totalmente affrancati dal gas che proviene dalla Russia.
Ad ogni modo, ci si ricordi anche che l’Unione Europea esiste e ogni volta che si prendono e si chiedono delle integrazioni e degli aiuti si contraggono dei vincoli e dei legami. Non si può pensare di essere dentro un alveo nel quale arrivano i soldi, ci sono le difese monetarie, c’è un mercato unico che è per noi il 60% delle nostre esportazioni, ma non ci sono doveri. Più chiedo che l’Unione provveda più sto trasferendo sovranità. Questo deve essere chiaro subito, perché, altrimenti, questo è un Paese che continua ad essere schizofrenico: ossia a chiedere la soluzione all’Europa, per poi dire che si è concesso troppo.
Questo è un atteggiamento molto sciocco: essere realisti, stare con i piedi per terra e riconoscere l’inviolabile vincolo dell’Unione Europea è il modo migliore, più saggio e più razionale di difendere i giusti interessi nazionali.
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NOPEC: come mettere sotto accusa Arabia Saudita e compagni
Cos'è, come funziona, quali i pro e i contro della legislazione che potrebbe citare in giudizio i produttori petroliferi dell'OPEC. Di mezzo le relazioni Stati Uniti - Arabia Saudita che potrebbero essere totalmente sconvolte
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Russia: tra mobilitazione parziale e rischio atomico
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) La guerra d’invasione del 24 febbraio del 2022 da parte della Russia in Ucraina doveva essere una guerra […]
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Se tutto è sociale, niente è sociale: falso, se valutiamo l’impatto!
Ci sono delle parole che si ripetono come se fossero un mantra: una di queste è ‘sociale’. Infatti, l’aggettivo o il concetto di ‘sociale’ non si nega a nessuno. Però per non banalizzare bisogna valutare e misurare, altrimenti si rischia il ‘bla, bla’ narrativo e non si verifica la ricaduta reale. I tecnici potrebbero dire: […]
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Masochismo
Si stia attenti a non danneggiarci da soli. Il masochismo può essere affascinante se un soggetto singolo gode con il dolore e la sottomissione. È escluso che sia una vocazione collettiva. I fatti prevalgano sulle chiacchiere, che cercando scuse sembrano scontare fallimenti: non ci sono ritardi italiani negli adempimenti previsti dal Pnrr. Non è un’opinione, ma un fatto, visto che già due controlli sono stati superati e i relativi soldi incassati.
Il governo in carica sostiene che non ci siano ritardi neanche per il prossimo controllo, che è stato fatto quanto dovuto e quel che resta da fare è programmato per le prossime settimane. Su questo si possono avere opinioni diverse, ma i denunciatori di inadempimenti sarebbero fessi più che masochisti.
Primo, perché la gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento sono non solo parte della vecchia maggioranza, ma hanno ministri all’interno del governo, sicché sostenerne l’incapacità e la scorrettezza è come denunciarsi corresponsabili. Secondo, perché il partito che guiderà il prossimo governo è stato all’opposizione e non può essere chiamato alla corresponsabilità, ma ove sostenesse che l’Italia sta mancando ai propri doveri non farebbe che affondare sé stesso e il governo che deve ancora nascere. Più che masochismo sarebbe autodistruzione.
Non prendiamoci in giro e veniamo al dunque: i vincitori delle elezioni hanno sostenuto che il Pnrr dovesse essere rivisto e si sono opposti ad alcune delle riforme in quello previste; nel corso della campagna elettorale e nei giorni successivi al voto gli oppositori di ieri hanno adottato un encomiabile approccio in continuità; la sfida, per loro, consiste nel tradurre in realismo di governo quel che dissero per raccogliere consensi. Partire affermando che la colpa è degli altri è come ammettere di avere raccontato balle.
L’agenzia Fitch ha corretto e peggiorato il suo giudizio sul debito del Regno Unito, portando a negativa la previsione. Sono bastati gli svarioni governativi, ideologizzati e privi di senso della realtà, per metterli nei guai. Il giudizio di Moody’s, altra agenzia, sul debito italiano era già negativo, perché ci troviamo a un gradino dalla spazzatura.
Lo è rimasto anche durante il governo Draghi (perché riguarda il debito, non la simpatia). Ora fa sapere che l’eventuale abbandono delle riforme (le riforme, mica solo le spese, come qui avvertimmo) previste dal Pnrr porterebbe a un declassamento. Vale a dire nel bidone della spazzatura. Questa è la posta in gioco. Per noi altissima.
I governi si giudicano dai fatti e quello Meloni non è ancora nato, sicché bocciarlo o promuoverlo oggi sarebbe non un giudizio, ma un pregiudizio. Ma tocca a chi governerà spiegare se intenderà, sul terreno delle riforme come ha già positivamente fatto su quello della politica estera e dello scostamento di bilancio, agire in continuità con il governo esistente o con i propri slogan d’opposizione. In ogni caso avrà agito legittimamente, ma altrettanto legittimamente gli operatori di mercato trarranno le loro conclusioni.
Per l’Italia sono preziosi non solo i soldi, ma anche i cambiamenti che il Pnrr prevede. Perderne anche una sola parte significa affossare un’occasione storica. Continuare quel lavoro significa rendere un servizio al Paese, ma anche allontanarsi da diverse delle cose che si dissero, compresa la necessaria ratifica del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Tanto più quando si lambisce la spazzatura.
Il pericolo non è che si torni a distribuire olio di ricino, ma che se ne ottengano gli effetti senza sorbirlo. L’interesse dell’Italia è che il governo Meloni riesca ad essere governo e non riscatto identitario di una fu minoranza. Taluni camerati di ieri grideranno al tradimento, noi considereremmo appropriato il richiamato patriottismo. Il masochismo no, può piacere a uno, auguri, ma non all’Italia intera.
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Si fa presto a dire OPEC. Una storia da conoscere
I «collegamenti inestricabili tra l'OPEC e gli Stati Uniti», e per estensione l'Occidente, come «i solidi legami economici e geopolitici tra i due confermino che le due parti sono sposate in un matrimonio indissolubile a lungo termine». Il perchè dei prezzi, i meccanismi che regolano il funzionamento e il rapporto con l'Occidente
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NATO: la priorità dell’Ucraina dovrebbe essere quella delle armi, non dell’adesione accelerata
A seguito della falsa annessione del 30 settembre da parte del Presidente russo Vladimir Putin di quattro regioni ucraine parzialmente occupate, il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha ufficialmente chiesto l’adesione accelerata alla NATO. Il desiderio del leader ucraino è comprensibile, ma il suo tempismo è discutibile. Zelenskyy dovrebbe invece continuare a fare pressioni sui membri […]
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Ucraina: la Slovacchia vuole che la Russia vinca
Nonostante l'acceso dibattito sulla metodologia utilizzata nell'indagine, gli esperti non sono scioccati dal sondaggio secondo il quale molti slovacchi desiderano la vittoria russa in Ucraina
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Fallimento M5s, il Reddito di cittadinanza ha distrutto il valore del lavoro
Il fallimento dell’impostazione del Reddito di Cittadinanza è nei numeri
Meno del 2% dei beneficiari, infatti, ha avuto un primo contratto di lavoro. Un’inezia se paragonata agli alti costi sostenuti ogni anno per finanziare la misura, 6 miliardi di euro, la cui ideazione è stata concepita intorno a due capisaldi del pensiero politico del Movimento Cinque Stelle: le politiche distributive a sostegno dei bonus (tema sul quale hanno trovato anche la convergenza del Pd durante la fase di governo giallo-rossa) e la demonizzazione del privato, incarnata in questo caso dalla scelta sbagliata di escludere dall’intermediazione le Agenzie per il Lavoro.
Che questa impostazione del Reddito avrebbe ottenuto risultati fallimentari, per usare un eufemismo, era fin troppo chiaro dalla sua impostazione generale, che affidava un ruolo significativo a strutture burocratiche come i Centri per l’Impiego, il cui contributo per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro in Italia raggiunge un modesto 4%.
Anche i navigator, il cui compito era quello di aiutare i beneficiari del Reddito a trovare un’occupazione, hanno fallito nel loro obiettivo perché spesso si è trattato di figure professionali orientate alla conoscenza della psicologia del lavoro, ma con scarsa attitudine e frequentazione del mercato, delle imprese e del sistema industriale. Il fallimento della misura, inoltre, è nell’evidente cambiamento di prospettiva e di percezione che lo stesso Conte ha provato a dare del Reddito durante la campagna elettorale. Il Reddito è servito per sostenere gli indigenti, si è detto, ed ha svolto un ruolo significativo come strumento di calmieratore sociale.
Il Reddito, insomma, per stessa ammissione di chi l’ha immaginato, non ha creato occupazione, ma ha svolto un diverso ruolo sociale, che oggi però il Paese non può più sostenere. Almeno con queste dimensioni perché, se da una parte il sostegno agli indigenti deve continuare a essere una priorità sociale del nuovo Governo, non si possono però più depauperare risorse dello Stato che non qualificano il capitale umano.
Non solo sotto il profilo delle competenze, ma anche da un punto di vista culturale, perché il danno maggiore, più profondo e subdolo che ha prodotto l’impostazione del Reddito di Cittadinanza voluta dal Movimento Cinque Stelle, è la distruzione del valore del lavoro come strumento e mezzo di riscatto e di emancipazione sociale, regalando ai nostri figli l’ennesimo alibi del lavoro che non si trova.
In Italia 2 milioni di ragazzi dai 15 ai 24 anni hanno scelto di non studiare e neppure provano a cercare un lavoro. L’emigrazione dei cervelli, la crisi economica e oggi il Reddito di Cittadinanza, sono diventati un ulteriore alibi per continuare a proteggere i nostri figli, destinandoli così alla paralisi e all’emarginazione.
Stefano Cianciotta su Il Tempo
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Ponte sullo Stretto: il mostro è riemerso in campagna elettorale (RETTIFICA)
RETTIFICA ALL’ARTICOLO PUBBLICATO IL 19 SETTEMBRE 2022
Nel prendere atto della missiva del legale del dott. Fortunato Vincenzo, da me citato nell’articolo sul Ponte sullo Stretto pubblicato da Pagine Ester il 19 settembre 2022, esprimo il mio sincero rammarico per quanto contestatomi. Tengo a sottolineare che nell’articolo il dottor Fortunato non è oggetto di alcun commento diffamatorio ma gli viene solo erroneamente attribuito l’incarico di “commissario liquidatore” della Società Stretto di Messina, incarico pubblico-governativo. Mi duole tantissimo di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma è del tutto evidente che non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore.
Ho provveduto ad eliminare dall’articolo sopracitato il riferimento agli incarichi del professionista erroneamente citato e ho accolto la richiesta di rettifica.
Ringraziando per l’attenzione
Antonio Mazzeo
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Borsa: canapa, chiusura negativa per Canada e USA
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono entrambe al ribasso. Una vera e propria altalena nelle ultime settimane di settembre ed in questa di apertura di ottobre 2022. I motivi permangono e sono grandemente correlati con l’andamento prolungato della guerra […]
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USA: fondi governativi in prodotti di canapa per combattere il cambiamento climatico
Il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha reso noto l’elenco dei 3,5 miliardi di dollari di sovvenzioni per i prodotti di base “Climate Smart Commodities“, tra i quali figurano due importanti progetti sulla canapa, uno dei quali è incentrato sulla canapa “intelligente” ovvero la cattura selezionata del carbonio, secondo quanto riportato da Lancaster Farming. Il […]
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LIBRI. “Rifqa” ci accompagna nella realtà palestinese
di Rania Hammad –
Pagine Esteri, 7 ottobre 2022 – Il noto attivista, giornalista e poeta Mohammed El-Kurd, ospite in Italia al Festival di Internazionale a Ferrara e in tour in Italia, ha presentato il suo libro esordiente “Rifqa” alla “Libreria Giufa’ Caffè” nel quartiere romano di San Lorenzo dove è stato accolto con grande entusiasmo da un vasto pubblico insieme alla giornalista italiana Paola Caridi.
Il suo libro, in vetta alle classifiche Amazon in Medioriente, è stato appena pubblicato dalla Fandango in italiano con la traduzione di Emanuele Bero.
Mohammed El-Kurd è corrispondente dalla Palestina occupata per The Nation ed è stato inserito dal Time, insieme a sua sorella Muna El-Kurd, nella lista delle 100 persone più influenti del 2021, perché ha fornito uno sguardo autentico e incisivo sulla vita sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e sul suo quartiere Sheikh Jarrah, al centro di una campagna di pulizia etnica, espansione illegale di insediamenti e demolizione di case di palestinesi.
Mohammed El-Kurd ha contribuito attraverso il suo attivismo sulle piattaforme dei social media al cambiamento della retorica riguardo al conflitto israelo-palestinese, esponendo in maniera nuova ed efficace, attenta e scrupolosa, la quotidianità della vita sotto occupazione militare israeliana in Palestina.
Perché il titolo Rifqa?
Rifqa è una parola che vuol dire accompagnare qualcuno, accompagnarlo nel suo viaggio, è il nome di mia nonna, morta a 103 anni e che ha subito e visto una Nakba dietro l’altra. Se fosse stata viva ora, ne avrebbe vista un’altra ancora. La Nakba è l’espulsione dei palestinesi, è una tragedia in corso, ed è una tragedia ad opera d’uomo. Questo libro è un tributo a mia mamma, mia nonna, le mie zie, alle donne e alle persone che mi hanno insegnato cosa vuol dire la resistenza. C’è una frase che viene usata spesso, anche da me purtroppo, perché sono un giornalista, ed è, “donne e bambini”, donne e bambini uccisi e donne e bambini feriti, non è una bella frase questa e per due motivi. Non è bella perché fa pensare che gli uomini palestinesi non abbiano importanza, che siano combattenti o passanti non sono importanti, mentre invece sono importanti, importa, perché nessuno dovrebbe morire. Il secondo motivo è che toglie alle donne la loro agenzia, le infantilizza, toglie alle donne la possibilità di essere resistenti e combattenti per la libertà. Storicamente le donne palestinesi sono sempre state in prima linea, come quando è stato assassinato Nizar Banat, le donne erano alle manifestazioni e venivano aggredite dalla polizia dell’Autorità palestinese. Le donne c’erano. La realtà è che ci sono tutti questi segmenti, e che tutti i segmenti della società palestinese subiscono gli effetti della misogina, il sessismo, la povertà, e il capitalismo. Quindi volevo scrivere un libro che dimostrasse che tutti i segmenti della società palestinese sono importanti.
Sheikh Jarrah è solo uno dei quartieri e luoghi in cui il diritto alla città viene negato per i palestinesi, ma cosa rende Sheihk Jarrah speciale?
Ciò che rende Sheihk Jarrah speciale non è solo che è centrale alla città di Gerusalemme, ma che per gli ultimi 49 anni è stato il microcosmo del colonialismo di insediamento in Palestina. La Nakba, l’espulsione forzata dei palestinesi non è solo una storia che mia nonna mi ha raccontato di un qualcosa che è avvenuto molto molto tempo fa, ma una realtà che io, mio padre, i miei fratelli e i nostri vicini, i nostri cari e compagni di classe, viviamo nei nostri cortili, nelle nostre strade, nei nostri quartieri. Vediamo gruppi e gruppi di coloni israeliani, molti dei quali vengono da Brooklyn, New York che arrivano e rivendicano la nostra terra dicendo che gli appartiene per decreto divino e dicendoci che solo perché appartengono a una certa religione, e per i loro credi di migliaia di anni fa, la città dove io, mio padre, mia nonna e la nonna di mia nonna sono nati, non è più la nostra.
Sheikh Jarrah è speciale anche se non è un caso speciale, è uno dei tanti quartieri sotto minaccia dalle espulsioni forzate e pulizia etnica, penso a Silwan e Masafer Yatta, a tante altre comunità che stanno subendo le stesse cose, ma Sheikh Jarrah è una delle comunità che ha rifiutato la pulizia etnica, lo ha fatto usando i termini giusti, chiamando queste azioni con i loro nomi, perché c’è una specie di sanificazione del linguaggio, chiamiamo questi atti, sfratti, come se non avessimo pagato l’affitto, come se ci fosse qualche altro proprietario, mentre in realtà sono solo espulsioni.
È incredibile, come un solo quartiere, con il sostegno di centinaia di migliaia nelle strade, è capace di reclamare il suo diritto alla cittadinanza per dire che nonostante le leggi, le corti, i giudici, l’esercito, i coloni stessi, e le pistole, noi non ci muoviamo da qui. E questo è qualcosa che non ha bisogno di poesia per essere catturato e raccontato, è già poetico in sé.
Sei riconosciuto e stimato a livello internazionale e sei ormai un giornalista apprezzato, hai incontrato per caso delle sfide o delle difficoltà?
Molti a livello di censura, e poi spesso mi sento tirare in direzioni opposte dagli altri, e poi c’è la sfida della responsabilità di parlare per tutta una nazione. Questo mi crea qualche problema, perché da una parte siamo poco rappresentati e quindi chiunque abbia un minimo di visibilità deve per forza delle cose acquisire una educazione politica e deve parlare, e deve poter parlare per la nazione. Ma allo stesso tempo, credo che gli artisti e gli scrittori, debbano avere libertà di espressione, dovrebbero avere la possibilità di esprimere differenze di opinione, e che non rispecchiano necessariamente le espressioni del pubblico. Queste sono alcune delle sfide a cui penso costantemente. Detto ciò, penso che qualunque sfida o difficoltà io riscontri negli Stati Uniti o in Europa non sono nulla di fronte a ciò che i palestinesi subiscono sul terreno, e non lo dico cosi per essere umile, ma perché mi aiuta a ricordarmi che nonostante le difficolta che incontro, è sempre una fortuna per me avere accesso e privilegio e poter parlare in questi forum.
Che differenze ci sono tra il tuo attivismo in Palestina e quello che porti avanti in Nord America o in Europa?
In Palestina non ci serve parlare di ciò che tutti viviamo e sappiamo, chi vive vicino al checkpoint di Qalandiya ad esempio pratica un attivismo che collega le lotte sociali a quelle politiche, si lotta per stabilire il sentimento culturale che tutti dobbiamo essere liberati, liberi dalla occupazione.
In nord America, si tratta di affrontare l’A B C del conflitto, cercare di spiegare e informare un pubblico che è stato disinformato per decenni, spiegare lo squilibrio di potere, chi è il villano nella storia, chi sono le persone che stanno lottando e per cosa stanno lottando, e perché è importante. Parlo di questo molto, ma ciò che è simile in queste due lotte è che lo facciamo mettendo al centro di tutto, la nostra dignità. In Palestina diciamo a tutti che meritiamo di vivere liberi e con dignità, e anche in Usa e in Europa diciamo che i palestinesi meritano di vivere con dignità.
Il Nord America è un grande continente e dunque se vado a parlare in Arizona o in Atlanta, ad esempio, parlo della collaborazione tra la polizia americana e la polizia israeliana, mentre se sono a New York parlo della ADL (Lega Antidiffamazione) e quanto sia potente. Quindi è molto importante comunicare il giusto messaggio a ogni pubblico, perché vogliamo che la gente si organizzi a livello locale.
Quanto è importante l’estetica nella cultura palestinese? L’estetica è cambiata tra la vecchia generazione e quella nuova? C’è un nuovo registro?
Per me personalmente la prerogativa era avere un buon messaggio politico, una didattica solida, informare chi non sa, ma era soprattutto importante scrivere un bel libro, una bella poesia. Quindi non solo l’idea di condividere la storia palestinese, ma scrivere un buon libro, che sia di valore nel suo genere, e non che si focalizzi e affidi al fatto che si parli di una storia straziante, ma che usi il linguaggio veramente bene. Che possa toccare il lettore in molti modi, che abbia umorismo e ironia, che abbia molti dettagli specifici e che umanizzi i soggetti. Spesso non si umanizzano nella poesia, diciamo che uno ha perso un braccio, oppure che uno è in prigione, ma non è in questo modo che si umanizzano. Si umanizzano dando loro caratteri complessi. Se provano rabbia, bisogna mostrare e raccontare la rabbia, se sono dispettosi, si mostrano e descrivono dispettosi. Li umanizziamo descrivendo le loro emozioni. Se un soggetto sputa ad un soldato ad esempio, lo metti, perché quello definisce il personaggio. Se uno odia la guerra, ma vuole resistere, ma non sa come, allora si include, è in questa maniera che si umanizza il personaggio. La qualità è importante, non è importante solo raccontare la tua storia.
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Nell’appuntamento di oggi conosceremo insieme un’altra linea di investimento del #PNRR.
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Ucraina: l’offerta di Zelensky alla NATO cade piatta
La reazione alla sua richiesta di adesione accelerata è stata attenuata, esponendo i limiti del coinvolgimento militare dell'Occidente in questa guerra. L'unica via d'uscita è la diplomazia e un accordo negoziato. Una via d'uscita che è stata complicata da un'altra dichiarazione di Zelensky, con la quale ha invocato un decreto che vieta i negoziati con Putin
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New US Executive Order unlikely to satisfy EU law
È improbabile che il nuovo ordine esecutivo degli Stati Uniti soddisfi il diritto dell'UE Oggi il governo degli Stati Uniti ha pubblicato un ordine esecutivo che limiterebbe la sorveglianza degli Stati Uniti. Questa è una prima dichiarazione di noyb.
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Letta che insegue Veltroni: la funzione turistica del PD.
"Il PD si interessa alle classi popolari e alle realtà impoverite con lo stesso atteggiamento sussiegoso dei turisti agiati, provenienti da qualche ricca città europea o americana, che si recano in un paese del terzo mondo e guardano con compassione la condizione dei suoi abitanti che, poveri loro!, non godono delle libertà e del benessere occidentale.
Veltroni e Letta esprimono del resto la visione del mondo di gente che vive nei centri storici e che finge di non sapere che spesso la povertà, l’ingiustizia e il degrado sono presenti nelle periferie delle loro stesse città. In qualità di dirigenti politici non possono guardare a queste condizioni di disagio perché la loro fortuna si fonda esattamente su questa ipocrisia.
Letta, Veltroni, Renzi e tanti altri che hanno fatto la storia del PD non avrebbero avuto alcun successo politico se non avessero promosso quelle politiche che hanno generato la questione sociale oggi presente in Italia.
La loro salita al potere è dipesa dal sostegno di forze economiche e finanziarie che hanno chiesto in cambio leggi in favore della precarietà nel lavoro, privatizzazione dei servizi, disfacimento della scuola pubblica, sostegno all’impresa e tanti altri provvedimenti che hanno prodotto le attuali ingiustizie."
kulturjam.it/politica-e-attual…
Letta che insegue Veltroni: la funzione turistica del PD - Kulturjam
Con le ultime parole di Letta e di Veltroni si scorge come il PD si interessi alle classi popolari e alle realtà impoverite con lo stesso atteggiamento sussiegoso dei turisti agiati in vacanza in qualche località del terzo mondo.Paolo Desogus (Kulturjam)
Russia: chi è e cosa pensa l’estrema destra
All'estrema destra di Putin, chiedono sempre più una mobilitazione totale, bombardamenti a tappeto delle città ucraine e persino l'uso di armi nucleari. Capire chi sono questi ultranazionalisti e cosa rappresentano è essenziale se vogliamo decifrare la strategia di guerra del Cremlino
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