Il nuovo accordo di sicurezza Giappone-Australia
L’incontro del 22 ottobre tra il primo ministro giapponese Kishida Fumio e il primo ministro australiano Anthony Albanese a Perth ha fatto notizia soprattutto grazie al saluto tipicamente australiano in attesa del primo ministro giapponese, un abbraccio con un koala e un servizio fotografico con i giubbotti verdi abbinati. Dietro gli animali da coccolare e lo […]
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Il raggruppamento di unità russe in Bielorussia continua a crescere
Dall’inizio della campagna di ‘mobilitazione parziale’ in Russia, in Bielorussia sono iniziati processi che hanno creato un maggiore potenziale di escalation armata in questa direzione, in particolare nell’Ucraina settentrionale. In quanto tale, il 14 ottobre, secondo il ministro degli Esteri bielorusso Vladimir Makei, la Bielorussia ha iniziato a introdurre un regime di operazioni antiterrorismo (CTO) […]
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Ricostruire il ruolo della Cina nella sicurezza regionale asiatica
Oggi la possibilità di consolidare un’architettura regionale inclusiva per una sicurezza globale nell’Asia del Pacifico è diventata quasi inconcepibile. Questo perché la tensione Cina-USA in corso sembra aver escluso tale opzione. Gli Stati Uniti sono stati impegnati a consolidare le loro vecchie alleanze militari ea metterne insieme di nuove nella regione per competere e contenere […]
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Ho iniziato a leggere le specifiche di ActivityPub, il protocollo del Fediverso.
Oltre ad essere di indubbio interesse, mi sono state subito simpatiche perché, pur essendo un documento molto tecnico, non mancano di umorismo che le rende meno noiose. Inoltre hanno una bella introduzione ad alto livello, che agevola molto la comprensione.
Ma soprattutto perché negli esempi compaiono Alyssa e Ben. Altro che Alice e Bob!
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Attenti al commercio
La sua fluidità e la vigilanza sui rischi che comporta è oggi l’aspetto più importante della politica estera europea
Il dilemma del commercio Laissez faire, laissez passer è la famosa frase, attribuita all’economista francese del XVIII secolo de Gournay, che riassume il principio secondo il quale il governo non deve intromettersi nell’attività economica di imprese ed individui. Il laissez-faire è diventato nel linguaggio corrente a il sinonimo del liberismo economico, ma il suo corollario è altrettanto importante perché senza far passare alle merci i confini geografici l’attività produttiva diventa zoppa.
Lunedì 31 ottobre si sono riuniti a Praga i ministri del commercio estero dell’Unione Europea alla presenza della collega americana Katherine Tai e in questo incontro sono venuti al pettine tre nodi fondamentali. Il primo e più pressante: come comportarsi con gli Stati-canaglia oltre ad infliggergli sanzioni sempre più pesanti?
Secondo quesito: cosa fare con i paesi alleati o comunque non ostili che adottano misure protezionistiche?
Terzo dilemma: accettare sempre i soldi per investimenti da parte di chi gode di vantaggi ingiustificati in termini di sussidi o persegue fini politici?
La domanda iniziale parte da un presupposto: le sanzioni economiche sono dannose sia per chi le infligge che per chi le subisce. I sovranisti fanno oggi questa strabiliante scoperta per cercare di diminuire la pressione sulla Russia putiniana, ma che il commercio dia vantaggi ad entrambi le parti è noto da secoli, e lo hanno ben spiegato Hume, Smith e Ricardo. È importante capire cosa si vuole raggiungere con un embargo e gli obiettivi sono molteplici: condanna morale, infliggere danni allo Stato trasgressore più di quelli che si subiscono (e per ora questo aspetto funziona), scoraggiare ulteriori aggressioni. L’insegnamento è che non ci si deve rendere dipendenti per beni essenziali da paesi ostili o instabili.
La seconda questione aveva un punto concreto, gli incentivi alle vetture elettriche decise dall’amministrazione Biden con una misura altamente protezionistica secondo la quale i benefici sono diretti solo alle auto costruite su suolo americano (anche se con componenti straniere). La risposta giusta sono misure di rappresaglia? No: ci sono organismi internazionali come il Wto per risolvere queste controversie ed in ogni caso tenere le frontiere aperte è comunque un vantaggio anche se altri le chiudono. Insegnamento: bisogna spingere sui trattati di libero scambio (ad esempio, la vittoria di Lula – che non è certo un liberale- sembra di buon auspicio per l’entrata in vigore di quello Europa-Mercosur e bisogna evitare che sia la Francia ad opporsi) e inserire in essi clausole che proibiscano o sanzionino come in Europa gli aiuti di Stato.
Il terzo problema è rappresentato in questi giorni dalla querelle nata in Germania per la cessione del 24,9% di un’importante banchina del porto di Amburgo ad un’azienda pubblica cinese che sta facendo incetta di porti europei e dal travaglio della raffineria di Priolo vicino Siracusa.
L’impianto è di proprietà della società russa Lukoil, raffina il 20% del petrolio consumato in Italia e oggi importa solo quello russo (perché nessuna banca concedeva più credito e garanzie vista la proprietà) che a partire da inizio dicembre cadrà sotto l’embargo europeo. La raffineria rischia di chiudere con pesanti ricadute occupazionali. In Germania un simile problema con un impianto di proprietà della russa Rosneft è stato risolto con un commissariamento e congelamento delle quote della società moscovita. In Italia si vedrà.
Insegnamento: l’Europa deve necessariamente muoversi in modo coordinato per risolvere i problemi creati dagli investimenti russi e per evitare un domani di trovarsi immobilizzata da legami economici con una molto più economicamente potente Cina, soprattutto nel campo delle infrastrutture e delle industrie strategiche. Attualmente la normativa Golden Power concede fin troppi poteri al governo per bloccare acquisizioni anche in settori non realmente strategici da parte di imprese nazionali, europee ed occidentali. Se si vuole prevenire la penetrazione economica da parte di paesi che possono mettere a rischio la sicurezza nazionale diventa assolutamente necessario liberalizzare il mercato dei capitali quando tale rischio non c’è.
In conclusione, il commercio internazionale, la sua fluidità e la vigilanza sui rischi che comporta è oggi l’aspetto più importante della politica estera europea: è bene se ne renda conto anche il governo italiano.
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Al via l’edizione 2022 della Scuola di Liberalismo di Messina: mercoledì 16 novembre la conferenza stampa di presentazione.
Mercoledì 16 novembre, alle ore 10.30, presso la Sala Senato dell’Università di Messina, si terrà la conferenza stampa di presentazione dell’edizione 2022 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo.
Alla presenza del Magnifico Rettore, prof. Salvatore Cuzzocrea, e del Vicario, prof. Giovanni Moschella, il Direttore Generale della Scuola, prof. Pippo Rao, e il Direttore Scientifico, prof. Giuseppe Gembillo, presenteranno la dodicesima edizione messinese del corso dedicato agli autori più rappresentativi del pensiero liberale ed alle loro opere.
Parteciperanno all’incontro con la stampa: Enzo Palumbo (Membro della Commissione Giustizia della Fondazione Luigi Einaudi), Edoardo Milio (Responsabile Relazioni istituzionali), Gabriella Sorti (Responsabile del Comitato di Segreteria), Francesco Sarà (Responsabile Comunicazione), Paolo Cicciari (Rappresentante degli
studenti) ed i membri del Comitato organizzatore (Fulvio Arena, Enrico Bivona, Daniela Cucè Cafeo, Angelica Esposito, Giovanni Marino, Giuseppe Scibilia e Gianni Toscano). Saranno presenti anche i Presidenti degli Ordini professionali che hanno concesso il loro patrocinio: Architetti, Avvocati, Ingegneri, Medici e Notai.
Messina, 09/11/2022
Pippo RAO
Direttore Generale Scuola di Liberalismo di Messina
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Eritrea, Qual è il Prossimo Passo nella guerra in Tigray?
La presenza meditativa e calcolatrice del presidente Isaias incombe sull’attuale accordo di pace tra il governo etiope e il Tigray. Già nel 2018 è stato la forza trainante nel tracciare la guerra in Tigray, ma cosa sta pianificando adesso?
Certo, nessuno può esserne certo, ma possiamo leggere i segni.
Tanto per cominciare, ci sono notizie credibili secondo cui le forze eritree sono ancora all’offensiva nel Tigray.
L’ex presidente della Mekelle University ha twittato proprio ieri:
Le forze eritree sono impegnate in una massiccia campagna di saccheggio, uccisione e distruzione, inclusa la distruzione di terreni coltivati e l’incendio di erbe accatastate in molte aree del Tigray. Ciò sta accadendo dopo che una settimana a Pretoria è stata firmata una cessazione permanente delle ostilità
Come ha affermato questa mattina il rispettato analista Rashid Abdi :
L’Eritrea non si oppone a Pretoria. Ha aiutato a progettarlo. Abiy non avrebbe stipulato un patto con il Tigray senza il consenso di Afewerki. Abbiamo esagerato con il ruolo di spoiler dell’Eritrea. Asmara è il vincitore strategico del Tigray. Ha eviscerato il TPLF, diventando lo stato profondo dell’Etiopia.
Che presa ha Isaias su Abiy?
Per affermare l’ovvio: è altamente improbabile che il Tigray avrebbe lottato così duramente per resistere alle ripetute offensive che ha subìto se solo avesse affrontato le truppe etiopi. Ma i Tigrini stavano combattendo le forze di tre nazioni (Etiopia, Eritrea e Somalia) così come la milizia di diverse regioni etiopi.
Questa è stata un’operazione che Abiy e Isaias hanno iniziato a pianificare già nel 2018, dopo che Abiy è volato ad Asmara e le due nazioni si sono riconciliate. Questa è stata seguita da una serie di incontri e discussioni, culminate in visite dei due leader alle rispettive basi militari più importanti, il tutto prima dello scoppio della guerra del novembre 2020 con il Tigray.
Quindi Abiy ha un enorme debito con Isaias, ma questo va ben oltre la gratitudine.
Il presidente Isaias ha alcune carte chiave nella manica. Il più importante è il numero di truppe etiopiche attualmente all’interno dell’Eritrea. Poco prima dell’inizio dell’ultimo round di combattimenti, il 24 agosto 2022, ci sono state segnalazioni di trasferimenti su larga scala di forze etiopi in Eritrea. Hanno continuato a combattere al fianco degli eritrei mentre attaccavano lungo il confine settentrionale del Tigray e verso ovest da Shire.
Dagli alleati agli ostaggi
La domanda ora è: che ne sarà delle forze etiopi all’interno dell’Eritrea?
Per vedere cosa potrebbe svilupparsi, dobbiamo guardare al destino dei 5.000 soldati somali inviati in Eritrea per “addestramento”, solo per essere coinvolti nella guerra nel Tigray.
Nel luglio di quest’anno il neoeletto presidente della Somalia, Hassan Sheikh Mohamud, ha visitato Asmara. Andò persino a vedere i suoi stessi soldati.
Nonostante i suoi migliori sforzi, il presidente Hassan Sheikh non è stato in grado di ottenere la loro libertà. Erano diventati ostaggi, pedine nel gioco a lungo termine del presidente Isaias. Il leader somalo dovrebbe volare di nuovo in Eritrea la prossima settimana per cercare di farli rilasciare ancora una volta.
Quale sarà il destino degli etiopi in Eritrea?
Non possiamo esserne certi, ma c’è una goccia nel vento.
Si sostiene che a circa 300 autisti etiopi, che avrebbero dovuto trasportare le truppe etiopi a casa, è stato detto di andarsene, ma sono stati costretti ad abbandonare i loro autobus all’interno dell’Eritrea. Alcuni sono stati fermati a Tessenei, mentre trasportavano truppe etiopiche e soldati feriti a Gondar.
Questo suggerisce che le forze etiopi subiranno la stessa sorte ai somali – intrappolati come ostaggi all’interno dell’Eritrea – per assicurarsi che il primo ministro Abiy faccia ciò che il presidente Isaias vuole da lui? Solo il tempo lo dirà.
FONTE: eritreahub.org/what-is-eritrea…
Cybersecurity: EU bans anonymous Internet sites
The EU Parliament today approved the directive to increase cyber security (“NIS 2”) by a large majority. According to it, the registration of internet domain names shall in the future require the correct identification of the owner in the Whois database (Article 28). The obligation to register the identity explicitly also applies to “privacy” and “proxy” registration services and resellers (Article 6). Public authorities and private individuals wil have access in case of “legitimate interest”. “Whois privacy” services for proxy registration of domains thus become illegal, threatening the safety of activists and whistleblowers.
Pirate Party Member of the European Parliament Patrick Breyer, shadow rapporteur in the opinion-giving Civil Liberties Committee, explains:
“If the operators of leak sites like Wikileaks were to be listed by name in the future, they risk long prison sentences for publishing US war crimes, just like Julian Assange. The Catalonian independence referendum also had to be organised via anonymously registered websites because of the threat of imprisonment in Spain.This government-dictated identification requirement is unique in the world and breaks with international principles of internet governance. It will be gratefully adopted by regimes in Russia, Iran, China etc. and will have dire consequences for courageous human rights and democracy activists.
Mandatory identification endangers website operators because only online anonymity effectively protects against data theft and loss, stalking and identity theft, doxxing and ‘death lists’. The right to anonymity online is particularly indispensable for women, children, minorities and vulnerable persons, victims of abuse and stalking, for example. Whistleblowers and press informants, political activists and people in need of counselling, fall silent without the protection of anonymity. Only anonymity prevents the persecution and discrimination of courageous people in need of help and ensures the free exchange of sometimes vital information.
We Pirates fully support the parts of the directive that will increase network security. But making identification mandatory for domain holders has nothing to do with network security.”
Breyer’s group had requested a separate vote on the identification requirement, but this was rejected by the parliamentary majority.
The Directive will still need to be implemented by the EU member states.
Annex: Article 28
Article 28 Database of domain name registration data
- For the purpose of contributing to the security, stability and resilience of the DNS, Member States shall require TLD name registries and entities providing domain name registration services to collect and maintain accurate and complete domain name registration data in a dedicated database with due diligence in accordance with Union data protection law as regards data which are personal data.
- For the purposes of paragraph 1, Member States shall require the database of domain name registration data to contain the necessary information to identify and contact the holders of the domain names and the points of contact administering the domain names under the TLDs. Such information shall include:
- (a) the domain name;
- (b) the date of registration;
- (c) the registrant’s name, contact email address and telephone number;
- (d) the contact email address and telephone number of the point of contact administering the domain name in the event that they are different from those of the registrant.
- Member States shall require the TLD name registries and the entities providing domain name registration services to have policies and procedures, including verification procedures, in place to ensure that the databases referred to in paragraph 1 include accurate and complete information. Member States shall require such policies and procedures to be made publicly available.
- Member States shall require the TLD name registries and the entities providing domain name registration services to make publicly available, without undue delay after the registration of a domain name, the domain name registration data which are not personal data.
- Member States shall require the TLD name registries and the entities providing domain name registration services to provide access to specific domain name registration data upon lawful and duly substantiated requests by legitimate access seekers, in accordance with Union data protection law. Member States shall require the TLD name registries and the entities providing domain name registration services to reply without undue delay and in any event within 72 hours of receipt of any requests for access. Member States shall require policies and procedures with regard to the disclosure of such data to be made publicly available.
- Compliance with the obligations laid down in paragraphs 1 to 5 shall not result in a duplication of collecting domain name registration data. To that end, Member States shall require TLD name registries and entities providing domain name registration services to cooperate with each other.
Perché non esiste un’’alleanza Cina-Russia’
La visita a Pechino del cancelliere tedesco Olaf Scholz questa settimana ha prodotto risultati diplomatici modesti ma reali. Il leader cinese Xi Jinping ha rilasciato una forte dichiarazione in cui avverte tutti i paesi di non usare o minacciare di usare armi nucleari, qualcosa che può essere letto soprattutto come un avvertimento a Mosca di […]
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La comunità internazionale deve prepararsi per una Russia post-Putin
Nove mesi sono sufficienti per far nascere un essere umano, ma a quanto pare non bastano perché il Presidente russo Vladimir Putin si renda conto della follia della sua guerra contro l’Ucraina. Invece, sta diventando sempre più chiaro che nessun accordo significativo sarà possibile finché Putin rimarrà al potere. La comunità internazionale deve quindi cercare […]
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Etiopia, Chi può Fidarsi dell’Accordo di Pace?
Mentre molti hanno celebrato l’accordo di cessate il fuoco, alcuni importanti gruppi tigrini lo vedono come una resa.
Dopo due anni di guerra devastante, il 2 novembre il governo federale etiope e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) hanno firmato uno storico accordo di cessate il fuoco. L’accordo, firmato a Pretoria a seguito di colloqui mediati dall’Unione Africana, è sorprendentemente completo.
Secondo i suoi termini, il TPLF accetterà un ritorno al precedente ordine costituzionale, inclusa l’autorità federale nel Tigray. Una nuova amministrazione provvisoria governerà la regione fino alle elezioni. E il TPLF disarmerà completamente entro 30 giorni, riconoscendo che l’Etiopia ha “una sola forza di difesa”.L’accordo di pace fa sperare che due anni di guerra devastante nella regione del Tigray in Etiopia potrebbero volgere al termine, ma le vere sfide si trovano davanti. Credito: Rod Waddington.
In cambio, il governo federale ha accettato di migliorare la rappresentanza del Tigray nelle istituzioni federali, compreso il parlamento. Accelererà gli aiuti umanitari nella regione, dove oltre 13 milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare. Faciliterà il ritorno delle comunità sfollate. E ripristinerà i servizi essenziali, alcuni dei quali bloccati dallo scoppio del conflitto.
Entrambe le parti hanno anche convenuto di porre fine alla “propaganda ostile, retorica e incitamento all’odio” e di stabilire una nuova “politica di giustizia di transizione” per garantire responsabilità, risarcimento per le vittime e riconciliazione.
Reazioni miste
I leader regionali e internazionali hanno ampiamente elogiato l’accordo, con il principale mediatore dell’UA Olusegun Obasanjo che lo ha definito “l’inizio di una nuova alba per l’Etiopia”. Il governo federale è stato altrettanto positivo, con il primo ministro Abiy Ahmed che ha detto a folle esultanti che l’Etiopia aveva ottenuto “il 100%” di ciò che voleva.
Alcuni gruppi, tuttavia, sono stati meno soddisfatti. Diversi gruppi dominanti del Tigrino hanno risposto con incredulità e negazione, vedendo l’accordo come una resa. La Global Society of Tigrayan Scholars & Professionals (GSTS), ad esempio, ha affermato che l’esercito etiope non può garantire la sicurezza e ha respinto il disarmo delle forze di difesa del Tigray (TDF). La rete ha anche criticato l’accordo di cessate il fuoco per non aver invitato le forze dell’Eritrea a partire e ha lamentato la mancanza di una tempistica chiara per facilitare gli aiuti, ripristinare i servizi e rimpatriare gli sfollati.
Alcuni gruppi Amhara, anch’essi coinvolti in conflitti, sono stati altrettanto critici e delusi per non essere stati inclusi nei colloqui. La milizia fanese ha denunciato l’accordo di adesione all’attuale costituzione , che vede marginalizzare gli interessi di Amhara. Nel frattempo, un politico dell’opposizione National Movement of Amhara (NAMA) si è lamentato del fatto che l’accordo non riconosce la pretesa di Amhara su due aree – Welkait e Raya – che sono fortemente contese con il Tigray.
Sfide in arrivo
La combinazione di reazioni indica sia l’enorme potenziale che le sfide che l’Etiopia deve affrontare.
Da un lato, l’opportunità di una pace duratura creata dall’accordo di pace è stata difficile da immaginare per gran parte degli ultimi due anni. Dallo scoppio della guerra, centinaia di migliaia di persone sono state uccise e milioni di sfollati. Ci sono state accuse di crimini di guerra e uso della violenza sessuale come arma di guerra da entrambe le parti. La società etiope si è polarizzata in un aumento di pericolosa retorica. In questo contesto, qualsiasi accordo che possa porre fine alle ostilità è uno sviluppo positivo.
Inoltre, è rassicurante che i mediatori riconoscano che il duro lavoro deve ancora venire. Obasanjo ha sottolineato che “questo momento non è la fine del processo di pace, ma l’inizio di esso”. Uhuru Kenyatta, un altro dei mediatori, ha avvertito che “il diavolo sarà nell’attuazione”.
D’altra parte, molte delle critiche all’accordo di pace sono valide e indicano sfide difficili da affrontare. È vero che l’accordo manca di un calendario chiaro per la fornitura di aiuti umanitari disperatamente necessari e il ripristino dei servizi. Molti dei disaccordi più controversi e intrattabili – come le aree contese in cui sia Tigray che Amhara accusano l’altra parte di pulizia etnica – rimangono irrisolti, con l’accordo che dice solo che saranno risolti secondo la costituzione. E la promessa di disarmare i combattenti del TPLF entro 30 giorni sembra molto ambiziosa.
È difficile immaginare come i soldati del Tigray si sentiranno sicuri di deporre le armi quando si ritiene che i soldati eritrei, intervenuti a sostegno del governo federale, siano ancora presenti nella regione, ma non sono menzionati nell’accordo di pace. Allo stesso modo è difficile vedere come riposeranno la loro fiducia nell’esercito etiope, che è stato accusato di innumerevoli crimini di guerra contro le loro forze negli ultimi due anni, per essere il loro garante della sicurezza. L’accordo apre la strada alle forze federali per entrare nella capitale del Tigrino Mekelle e prendere il controllo di tutti gli aeroporti, autostrade e strutture federali. Inoltre, il disarmo e il reinserimento in genere richiedono mesi, se non anni.
In effetti, la fiducia sarà il fattore più difficile da ricostruire in futuro, a molti livelli. Per due anni, i funzionari etiopi – incluso il primo ministro Abiy – hanno parlato del TPLF e dei Tigray come di un cancro e di un’erbaccia. L’incitamento all’odio etnico ei crimini ispirati dall’odio sono aumentati vertiginosamente, con la società etiope sempre più divisa . Ed entrambe le parti hanno negato la colpevolezza nei diffusi crimini di guerra nonostante le prove.
In questo contesto, il reinserimento dei combattenti del TPLF nell’esercito nazionale e l’idea di riconciliazione e giustizia di transizione saranno lotte in salita. Così sarà anche la riconciliazione di altri conflitti correlati in Etiopia, come in Oromia, che non sono menzionati nell’accordo.
I cannoni non sono ancora taciuti nel Tigray. I firmatari dell’accordo, che lascia molto non detto, ne stanno ancora discutendo i dettagli e l’attuazione. Molto si basa sulla buona volontà dell’UA e di altri organismi internazionali per garantire che l’accordo sia rispettato. Ma qualsiasi passo anche solo provvisorio verso la pace dopo due anni strazianti è un passo nella giusta direzione.
Autore: Mohamed Kheir Omer, è un ricercatore e scrittore afro-norvegese con sede a Oslo, in Norvegia. È un ex membro del Fronte di Liberazione Eritreo (ELF).
FONTE: africanarguments.org/2022/11/w…
Scuola e merito: lo studio è un mestiere faticoso
Lo ricordava anche Antonio Gramsci: studiare «è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza».
L’unica cosa che nella vita si può ottenere senza fatica è la vincita al superenalotto. Tuttavia, a parte che si tratta di un evento più unico che raro, anche in questo caso un piccolo sforzo va fatto: per vincere è necessario giocare. Dunque, se la fortuna aiuta gli audaci, non si capisce perché si sia immaginato di poter combinare qualcosa di buono senza mettere in conto di lavorare e di meritare il progresso individuale, familiare, sociale.
Forse, in tanti, in troppi hanno sognato di poter vincere al superenalotto ottenendo il massimo con il minimo. Ecco perché ha fatto benissimo Angelo Panebianco a sottolineare che in troppi in Italia non hanno voluto scuole di qualità cioè scuole che «premino lo studio» ossia «la fatica di imparare» perché «senza fatica non si impara mai nulla» (Corriere della Sera, 31 ottobre).
Così è accaduto che quando, con il nuovo governo in carica, si è associata la scuola al merito – per ora solo nominalmente – si è addirittura gridato allo scandalo sostenendo che il merito crea diseguaglianza. Dimenticando due cose fondamentali: 1) l’articolo 34 della Costituzione che dice che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»; 2) che a pagare le conseguenze di una svalutazione del lavoro meritevole sono i più deboli che per migliorare hanno una sola via: la serietà degli studi.
Insomma, studiare è un lavoro e, anzi, il primo lavoro che i giovani devono imparare a fare per affrontare vita e società. Non a caso Antonio Gramsci insisteva in un suo scritto, da poco ripubblicato (Anche lo studio è un mestiere, Edizioni di Comunità), che «occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». Altrimenti non resta che il superenalotto.
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Riccastri
L’intento di non disturbare chi vuole lavorare, proclamato in Parlamento dalla presidente del Consiglio, era da accogliersi con soddisfazione. Poi con qualche precauzione. Ora, viste le cose che si dicono sul fronte fiscale, anche con preoccupazione. Non vorremmo fare i conti con la delusione.
Se un Paese vuole vedere crescere la ricchezza deve incoraggiare, o quanto meno non scoraggiare, chi s’impegna a lavorare di più. Questi ultimi, se non sono tutti cavalli Gondrano (Fattoria degli animali), lavorano di più per avere di più. Il ricercatore sente vicina la scoperta e rinuncia a dormire; il contadino vuole ampliare l’orto e rinuncia alla pausa; il professore vede che i suoi studenti si appassionano e non li molla neanche a ricreazione e così via, ciascuno nel proprio lavora per il collettivo. Ciascuno mosso da smithiano egoismo, che sia per la gloria o per la grana.
Il sistema fiscale coadiuva l’incoraggiamento evitando il taglieggiamento. Nella nostra Costituzione è iscritto il sano principio della progressività, significa: chi più guadagna più contribuisce. Per evitare che divenga un modo per scoraggiare il lavoro e il guadagno, producendo miseria anziché ricchezza, la progressività funziona in modo che: fino al livello x non si paga niente; fino a y (detratto x) si paga tot; fino a z (detratto x e y) si paga di più e così via. La maggiore tassazione si riferisce, quindi, non al totale del reddito, ma alla parte che supera gli scaglioni con più basse aliquote. La falsa flat tax scassa tutto, produce evasione fiscale e crea ingiustizia, sicché disturba. E manco poco.
Ci sarebbero i contribuenti onesti, di cui sarà bene non dimenticarsi. Si dividono in due partiti: gli onestamente fessi e i fessamente onesti. I primi ritengono sia giusto essere onesti. I secondi non riescono ad essere disonesti. Pagano. E siamo in 5 milioni, su quasi 60 di residenti, a contribuire più di quel che (mediamente) costiamo.
Vi ho già detto che siamo fessi, ma accessoriamente onesti. Però è fastidioso essere indicati come i riccastri da punire. La destra fiscale somiglia davvero tanto alla sinistra radicale, quelli per cui anche i ricchi, se onesti, devono piangere. Spiego.
Negli allegati alla nota di aggiornamento di economia e finanza, roba del governo, giustamente non la chiamano flat tax, ma con il suo nome: regime forfettario per autonomi fino a 65mila euro. Che pagano il 15%. Vorrei ricordare che un dipendente paga il 23% fino a 15mila; il 25 fino a 28mila; il 35 fino a 50mila e il 43% oltre. Lo pagano tutti i fessi onesti, anche se non dipendenti, anche se autonomi sopra la soglia. Nel regime forfettario si rinuncia alle detrazioni: 15% sugli incassi e finiamola lì. Ma se superi i 65mila, torni alle aliquote Irpef.
Ora vogliono portare la soglia a 85mila. Ma non funziona come l’Irpef e così impostata crea povertà o evasione. Come dimostrano gli stessi conti del governo, visto che l’evasione Iva è molto scesa grazie alla fatturazione elettronica (andate a vedere chi era contrario), grazie a quella sono saliti i redditi e nel complesso il Tax gap, ovvero la stima di evasione è scesa. Evviva. Ma è risalita da quando s’è introdotta la falsa flat. Perché?
Facile: mi trovo vicino alla soglia, ovunque sia fissata, tanto cambia niente, dovrei emettere una fattura che mi porta oltre, delle due l’una: o non accetto il lavoro o non emetto la fattura. La prima cosa brucia ricchezza la seconda accende evasione.
Ma non basta, perché per pagare il costo di questa prodezza ora vogliono anche togliere detrazioni ai riccastri, ingordi, profittatori, accaparratori, accumulatori maniacali. Quei 5 milioni che pagano per tutti la devono finire di godere e devono soffrire, piangere, sborsare, come suggeriscono gli arrossati e piace agli anneriti.
Il che, tornando da dove partimmo, disturba. Disturba assai. Insolentisce pure. Fa sentire gli onesti fessamente fessi. E no, non è bello.
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Luisa Morgantini: “La guerra? Fra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”
di Frida Nacinovich – Sinistra sindacale*
Luisa Morgantini, quanto andrà ancora avanti questa follia? Quando Russia e Ucraina si decideranno finalmente a negoziare il cessate il fuoco?
Questa situazione è allucinante. Si diceva che questo mondo era razionale, invece è un mondo totalmente irrazionale. Impazzito. Costruire, continuare a fabbricare armi è irrazionale. Costruiamo cose per distruggere. La bomba nucleare è fatta per distruggere ogni cosa. Perchè siamo arrivati a questo punto è difficile dirlo, ma la risposta non possono essere altre armi. Non si può incentivare, incrementare la distruzione e la morte. Dobbiamo dire basta, come donne, come pacifiste. Mi viene a mente una frase bellissima della scrittrice tedesca Christa Wolf, messa in bocca all’amazzone: “Fra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”. Se ci siamo spinti così avanti è perché rinunciamo a pensare. Siamo di fronte alla morte dell’umanità. Non sarà l’apocalisse, ma per noi che siamo contro le guerre, contro la violenza, si intrecciano sentimenti di grande tristezza e preoccupazione”.
Specialmente nei primi mesi del conflitto russo ucraino, l’informazione ha messo l’elmetto ed è partita verso il fronte …
“Negli ultimi trent’anni, forse ancora di più, la guerra si è affermata e riproposta in tutte le sue dimensioni. Urlavamo “fuori la guerra dalla storia”, invece la guerra è rientrata prepotentemente nella storia. È pazzesco questo mondo va a rovescia. Oggi si parla di Europa per dire che non ha una linea comune, che non ha fatto una scelta politica. Non sono d’accordo.
Purtroppo l’Europa nelle sue dimensioni istituzionali, ha fatto una scelta politica ben precisa, che è quella di essere al servizio della Nato. Sono gli Stati Uniti che decidono e comandano, nelle basi militari del nostro paese ospitiamo le loro pericolosissime armi. Per anni abbiamo detto e ripetuto “via le basi americane dall’Italia”. Invece le ritroviamo ancora tutte, sempre di più”.
Dall’Europa ci si deve aspettare molto di più?
“L’Europa non è riuscita ad avere una voce autonoma. Questa è la realtà. Le istituzioni non sono state capaci di avere una propria autonomia, lo scollamento con il popolo è evidente. Dico di più, l’Europa non ha neppure cercato di prendere una strada diversa. Al contrario, è diventata sempre più guerrafondaia nelle parole dei suoi governi, a partire da quello italiano. Guerrafondaia come la presidente della Commissione europea. Abbiamo risposto alla guerra immorale scatenata da Putin con una politica di guerra. Così facendo abbiamo incentivato le distruzioni, e le morti degli ucraini e dei soldati russi. Abbiamo distribuito armi all’Ucraina invece di tentare come Europa di avere una politica diversa da quella degli Stati Uniti. Ed è una cosa incredibile, non si capisce perché dobbiamo essere al servizio della crescita a dismisura della presenza nord americana in Europa. Ricordo l’aggressione all’Iraq da parte degli Stati Uniti, anche allora con la nostra connivenza e complicità. Saddam Hussein aveva detto nel consesso arabo che, al posto del dollaro, la moneta di scambio sarebbe stato l’euro. E questa sarebbe stata una cosa importantissima. Niente da fare, l’Europa si è sempre accodata alle scelte degli Stati Uniti. Penso che lo abbia fatto con consapevolezza. Non ha mai voluto giocare un ruolo autonomo, e se l’ha fatto per un breve periodo ha assunto una posizione in qualche modo di ‘soft power’. Ma di fatto abbiamo sempre aderito a queste scelte di guerra: l’Iraq, la Libia, la Jugoslavia. Eppure avevamo un governo con Massimo D’Alema ministro degli Esteri. Credo che, in quel preciso momento, se invece di fare una dichiarazione di alleanza occidentale, con la Nato, avessimo avuto la forza e il coraggio di dire di no, noi la guerra non la facciamo, ripudiamo la guerra come dice la nostra Costituzione, sarebbe cambiato il mondo. Non so cosa sarebbe successo, forse avrebbero fatto un colpo di Stato contro di noi. Ma sicuramente ci troveremmo in una situazione completamente diversa. Perché, a partire dalle prime guerre del Golfo, per arrivare a quella in Jugoslavia, abbiamo visto crescere sempre di più la presenza degli Stati Uniti dalla nostraparte, Kosovo, Iraq, Afghanistan, sono serviti nei fatti ad accrescere la potenza statunitense”.
Sempre in prima linea contro la guerra, la ricordiamo vestita di nero ai tempi della guerra nell’ex Jugoslavia, per denunciare anche allora la follia di ogni conflitto armato.
Le guerre si fanno perché si producono le armi. E le armi devono essere sempre usate e poi cambiate, così si fanno nuovi investimenti e ci sono nuovi profitti per le aziende che realizzano armamenti. Questa guerra non è più russo-ucraina, è una guerra geopolitica. Come dicono molti studiosi, anche non di sinistra, questa è una guerra geopolitica in cui gli Stati Uniti continuano, noi tutti continuiamo a dare armi all’Ucraina per distruggere, invece di puntare fortemente su un piano negoziale. Anche le manifestazioni chiedono questo, il cessate il fuoco fuoco e puntare sui negoziati”.
All’inizio del secolo il Partito della pace fu definito dal New York Times la seconda superpotenza mondiale, ma a mani nude non è facile contrastare il Partito della guerra.
“Nel 2003 c’è stata l’ultima grandissima manifestazione per la pace. Ma secondo me in qualche modo ha segnato anche la rottura della nostra democrazia. Perché milioni e milioni di persone sono scese in piazza, non solo in Italia ma in tutto il mondo, contro la guerra, e invece la guerra l’hanno fatta lo stesso. Non si è più tenuto conto della posizione della società civile, dell’opinione pubblica. Io vedo il 2003 come un punto di non ritorno. La mia impressione è che da allora non viviamo più in un sistema democratico, ma in un sistema in cui la democrazia e la partecipazione delle persone non sono più prese in considerazione. Non soltanto rispetto alla guerra e alle pace, anche rispetto ai problemi di carattere sociale, al lavoro, ai diritti. E allora alle elezioni vanno a votare sempre meno persone. Da questo punto di vista hanno giocato un ruolo decisivo i media. La disaffezione alla politica, dovuta a un qualunquismo per cui son tutti uguali, tutti rubano, tutti sono corrotti. C’è la casta da abbattere. Il trentennio berlusconiano ha distrutto la partecipazione, ovviamente ci abbiamo messo del nostro anche noi di sinistra. Invece di essere uniti ci dividiamo in mille rivoli, prevale ancora il settarismo”.
Come ogni pacifista, ormai per trovare sintonia politica deve leggere il quotidiano dei vescovi l’Avvenire e ascoltare il pontefice?
“Leggo l’Avvenire, il Fatto quotidiano, il manifesto. E le parole giuste le usa Papa Francesco, non soltanto sulla pace e sulla guerra, anche sul lavoro, sulla produzione di armi. E forse non è un caso che questo Papa non sia nato in Italia, Germania, Polonia. In Argentina ha vissuto la dittatura dei militari, ha conosciuto le interferenze nordamericane nei sistemi dittatoriali. Questo mondo è grandissimo, grande e terribile, diceva Gramsci. Però, nello scacchiere ci sono ormai altri interlocutori, che vengono messi da una parte, come hanno fatto con Lula. Allora vedi quanto i media stiano influenzando la cultura. Come si nascondono le verità. Come ci siano due pesi e due misure nelle diverse situazioni. Pensiamo ai curdi. E io penso soprattutto alla Palestina. Se un ragazzino palestinese tira un sasso contro un carro armato è un terrorista, mentre viene invece esaltato da parte dei media occidentali l’eroismo di un ragazzino ucraino che spara. Intanto si permette a Israele di applicare l’apartheid, ammazzare tutti i giorni, rubare terra ai palestinesi, demolire le case, uccidere ragazzini. Tutto viene denunciato, i rapporti delle Nazioni Unite espongono chiaramente i fatti. Però nessuno tocca Israele”.
Occhio per occhio e il mondo sarà cieco, lo gridavano gli studenti di Berkeley ai tempi della guerra in Vietnam…
“Spero che le piazze siano piene per dire no alle guerre. Questo popolo che si schiera per la pace chiede basta guerre, basta violenza. Negoziate, cessate il fuoco, e poi vedremo cosa succede. Siamo tutti sconfitti nella follia della guerra. Abbiamo distrutto mezzo Medio Oriente, mezza Europa. Basta. Io spero, mi auguro che la gente capisca, sappia urlare il proprio ripudio della guerra, mostri una forza che possa far cambiare le linee politiche dei nostri governi. Dobbiamo disarmare questo mondo, e forse dobbiamo impegnarci di più per farlo. Contro guerre, sfruttamento, ingiustizie, diseguaglianze. Pochi giorni fa ero a un’iniziativa politica per sostenere Mimmo Lucano, contro di lui è stato intentato un processo aberrante, lo accusano di cose gravissime, anche se fortunatamente dagli atti è venuto fuori chiaramente che lui non si è mai appropriato di nulla. Al più ha commesso reati di umanità. No, non mi stancherò mai di scendere in piazza. Credo che valga comunque la pena di tener aperta questa luce, questa speranza. “Magari fossi una candela in mezzo al buio”. Vale la pena, vale sempre la pena”.
*https://www.sinistrasindacale.it/images/numero18_2022/SinistraSindacale18_2022.pdf
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Sicurezza sismica: quali sono le aree più a rischio in Italia?
L’Italia è una nazione caratterizzata dalla presenza di aree a rischio sismico di diversa entità e, unitamente alla fragilità del territorio, è possibile che si verifichino terremoti con conseguenze potenzialmente gravi per persone e insediamenti. In linea generale, l’Italia è considerata una zona sismica di rischio elevato, sia per la frequenza con la quale si […]
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INCHIESTA. Un decennio di sangue per i difensori dell’ambiente
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 9 novembre 2022 – Una vita soppressa ogni due giorni, tre a settimana, più di centocinquanta ogni anno. Le cifre fornite dal rapporto dell’ong Global Witness parlano di un’enorme, infinita strage.
Dal 2012 al 2021 l’organizzazione riporta la morte, in tutto il pianeta, di ben 1733 attivisti assassinati a causa del loro impegno nella difesa dei loro territori e delle loro comunità. I dati sugli omicidi, avverte la stessa organizzazione non governativa, rappresentano solo la punta dell’iceberg e sono sicuramente sottostimati; molti casi non vengono denunciati perché si verificano in territori dove esistono conflitti armati o restrizioni alla libertà di stampa, o a causa della complicità con le aggressioni da parte delle autorità locali quando non dei governi centrali.
«Questi numeri – scrive Vandana Shiva nell’introduzione al rapporto presentato alla fine di settembre – non diventano reali finché non si sentono alcuni dei nomi di coloro che sono morti. Marcelo Chaves Ferreira, Sidnei Floriano Da Silva, José Santos Lopez. Ognuno di loro era una persona amata dalla propria famiglia, dalla propria comunità. Jair Adán Roldán Morales, Efrén España, Eric Kibanja Bashekere. Ognuno di loro è stato considerato sacrificabile per motivi di lucro. Regilson Choc Cac, Orsa Bhima, Angelo Riva. Ognuno è stato ucciso difendendo non solo i propri luoghi preziosi, ma la salute del pianeta che tutti condividiamo».
Le vittime sono giornalisti, sindacalisti, attivisti sociali o ambientali, esponenti politici, membri delle comunità indigene, contadini, guardiaparchi. Tutti uccisi dai sicari di imprese – spesso multinazionali – voraci e senza scrupoli, oppure da coloni che per sopravvivere distruggono foreste, montagne, fiumi e laghi e tolgono di mezzo chi li difende, oppure ancora da contrabbandieri, membri di bande paramilitari o narcos. Spesso, poi, gli assassini sono agenti di polizia, militari o comunque emissari dei governi locali o nazionali.
Le vittime del 2021 per paese
Il 2021, uno degli anni peggioriTra quelli esaminati da Global Witness il 2021 è stato uno degli anni peggiori, con circa 200 morti, una media di quattro ogni settimana. Un decimo delle vittime sono donne, per lo più indigene.
A guidare la triste classifica è stato il Messico, con ben 54 vittime; dietro ci sono la Colombia con 33 e il Brasile con 26 omicidi; seguono le Filippine con 19, il Nicaragua con 15, l’India con 14, l’Hunduras e il Congo con 8.
Circa 50 delle persone uccise nel 2021 erano piccoli agricoltori, travolti dall’invadenza e dalla voracità dell’agricoltura industriale, il cosiddetto agrobusiness. Ogni anno le grandi piantagioni orientate che producono prodotti destinati all’esportazione o all’industria assorbono migliaia di chilometri quadrati di terre, spazzando via i piccoli appezzamenti a gestione familiare o comunitaria.
Un numero equivalente di vittime, spiegano gli autori del rapporto, è legato alle attività di imprese impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali – dalla deforestazione all’estrazione di minerali, gas e petrolio – oppure nella realizzazione di dighe e infrastrutture di vario genere.
Un decennio di sangueCome già appare evidente dai numeri del 2021, la maggior parte degli omicidi di difensori dell’ecosistema si concentra in America Latina, quasi il 70% del totale. Il 39% delle persone assassinate appartenevano alle comunità indigene (che pure rappresentano meno del 5% della popolazione mondiale).
A guidare la “lista nera” degli ultimi dieci anni è il Brasile con 342 omicidi, seguito dalla Colombia con 322 vittime, dal Messico con 154 morti, dall’Honduras con 117, dal Guatemala con 80, dal Nicaragua con 57 e dal Perù con 51.
Le Filippine sono il paese asiatico che ha registrato più omicidi, ben 270, seguite dall’India con 79 vittime. In Africa, invece, il paese più pericoloso per i difensori dell’ambiente è di gran lunga la Repubblica Democratica del Congo con 70 morti – la maggior parte degli omicidi sono avvenuti nel Parco Nazionale di Virunga – seguita dal Kenya con 6.
YULI VELAZQUEZ, RAPPRESENTANTE LEGALE DELL’ORGANIZZAZIONE AMBIENTALE FEDEPESAN GUARDA LE FOTO DEI DIFENSORI ASSASSINATI, BARRANCABERMEJA, COLOMBIA. NEGRITA FILMS/GLOBAL WITNESS
Brasile, Colombia e Messico: il trangolo della morte
Più della metà degli omicidi di difensori della terra del 2021 si concentra in soli tre paesi: Brasile, Colombia e Messico.
Per il terzo anno consecutivo, Global Witness ha documentato un aumento degli attacchi letali in Messico; delle 54 vittime del 2021, la metà circa erano membri di popoli indigeni.
Due terzi degli omicidi sono avvenuti negli stati di Oaxaca e Sonora, presi di mira da imponenti progetti di sfruttamento minerario. Tra le più colpite ci sono le popolazioni Yaqui che abitano i territori meridionali del Sonora, aggredite anche dai cartelli della droga oltre che dalle imprese minerarie. Tra le vittime messicane spicca Irma Galindo Barrios, scomparsa nell’ottobre del 2021 dopo anni di minacce e campagne di diffamazione subite a causa delle sue attività in difesa delle foreste.
In Brasile l’era del presidente di estrema destra Bolsonaro ha portato ad un aumento della violenza contro i difensori dell’ambiente e in particolare contro i protettori dell’Amazzonia. «Da quando Bolsonaro è salito al potere ha incoraggiato il disboscamento e l’estrazione illegale, annullato la protezione dei diritti sulla terra degli indigeni, attaccato i gruppi di conservazione e smantellato e tagliato i budget e le risorse delle foreste e delle agenzie di protezione degli indigeni. Ciò ha portato bande criminali a invadere impunemente le aree indigene e protette» scrive Global Witness.
Nel gennaio dell’anno scorso Fernando Araujo, un membro del Movimento Sem Terra, è stato assassinato nella sua fattoria a Pau d’Arco, nello stato del Pará. Nel 2017 il contadino aveva assistito all’assalto della polizia contro la comunità di Santa Lúcia, che si saldò con la morte di dieci lavoratori rurali, ed aveva avuto un ruolo chiave nel successivo procedimento giudiziario, che però finora non ha prodotto nessuna condanna.
A febbraio, invece, un agente della polizia militare brasiliana ha ucciso Isaac Tembé, uno dei leader del popolo Tenetehara; secondo gli indigeni, il corpo di sicurezza militare funge da milizia privata al soldo degli agricoltori e degli allevatori che occupano illegalmente vaste aree del loro territorio, aprendo la strada alle grandi compagnie.
Nel giugno scorso, poi, sono stati assassinati l’indigenista Bruno Pereira e il giornalista Dom Phillips. Dopo l’ascesa al potere di Jair Bolsonaro, Pereira era stato rimosso dalla guida della Fondazione Nazionale dei Popoli Indigeni del Brasile (la Funai), “reo” di aver diretto una megaoperazione contro una delle più grandi miniere illegali del paese.
Anche in Colombia il 2021 è stato un anno drammatico, nonostante il quinto anniversario dell’accordo di pace tra il governo e le Farc. La maggior parte degli attacchi mortali hanno preso di mira attivisti, membri delle comunità indigene, contadini e leader delle comunità locali che si oppongono ai narcos e alle milizie delle grandi compagnie. La rete della società civile colombiana denominata “Programa Somos Defensores”, che documenta e denuncia gli attacchi contro i protettori dell’ambiente e delle comunità, ha ripetutamente condannato l’inerzia quando non la complicità dello Stato e in particolare della magistratura.
MANIFESTANTI INDIANI PROTESTANO A CHENNAI CONTRO IL MASSACRO DI THOOTHUKUDI
Il massacro di ThoothukudiAnche in India, come altrove, i difensori dell’ambiente sono vittime delle istituzioni e dei corpi repressivi dello stato.
L’episodio più tragico risale al 22 maggio del 2018 quando la polizia ha attaccato violentemente una manifestazione a Thoothukudi, nello stato meridionale indiano del Tamil Nadu, uccidendo 11 persone e ferendone altre 100 che protestavano contro un impianto di produzione di rame, lo Sterlite Copper, di proprietà della multinazionale “Vedanta Limited”. Gli abitanti delle comunità circostanti si opponevano al raddoppio dell’impianto, accusato di contaminare l’aria e l’acqua. Numerosi testimoni hanno riferito che i cecchini della polizia sparavano contro i manifestanti pacifici e nei giorni seguenti altre quattro persone furono uccise. Per avere la meglio sulle proteste popolari le autorità statali imposero lo stato d’emergenza e bloccarono internet a Thoothukudi per alcuni giorni. A quattro anni dalla strage nessuno dei colpevoli è stato condannato, e molti promotori della protesta hanno dovuto sopportare arresti e minacce di vario tipo.
In dieci anni pochi progressi
Negli ultimi anni, anche grazie al lavoro di ong come Global Witness e delle organizzazioni locali, si è registrato in alcuni paesi un lieve miglioramento della situazione. Ma in generale la situazione non è cambiata molto. Più si intensifica la crisi climatica, più aumenta lo scontro tra multinazionali e stati per il controllo della terra e delle risorse, e più gli attivisti e le comunità che difendono i territori e gli ecosistemi sono considerati un ostacolo da rimuovere a qualsiasi costo.
La corruzione e la connivenza tra gli interessi imprenditoriali, quelli delle bande criminali e quelli delle leadership politiche concedono agli assassini e ai loro mandanti una generalizzata impunità. I governi non si dimostrano certo zelanti al momento di individuare e condannare i colpevoli degli eccidi e degli omicidi. Il dato del Messico è eclatante: oltre il 94% delle aggressioni contro i difensori dell’ambiente e dei territori non vengono denunciate, e solo lo 0,9% del totale conduce ad una condanna. In America Latina, lo scorso anno, è entrato finalmente in vigore l’Accordo di Escazù, che impegna i governi a proteggere i difensori dell’ambiente e a favorirne l’iniziativa, ma finora gli effetti pratici della pur lodevole iniziativa sono stati poco rilevanti. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
LINK E APPROFONDIMENTI:
globalwitness.org/en/campaigns…
cambio16.com/1-733-activistas-…
ojo-publico.com/3516/defensore…
nytimes.com/es/2022/09/29/espa…
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Ucraina: rimboccarsi le maniche noi, ora, qui, sulla terra, per la pace
Due buone ragioni per 'volere' la pace. E questo è il momento di fare valere concretamente questa volontà. Quella parte dell’Europa che è davvero 'l’Europa', ha la possibilità di intervenire, spingendo ad una trattativa. La Russia è già pronta a farlo, l’Ucraina va 'convinta'
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Pericolo migrante
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Non mi occupo da tempo su questo quotidiano direttamente di migranti siano naufraghi rifugiati ‘irregolari’. Ma poiché è […]
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Cina: la dura sfida di Xi
Il 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese che si è appena concluso ha fornito un duplice chiaro intento sia al pubblico interno che a quello esterno. In primo luogo, la presa indistinguibile del presidente Xi Jinping assicurerà che l’orientamento futuro della Cina sarà plasmato dal suo dettato strategico e dalla sua filosofia, infrangendo tutte […]
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«È preoccupato che la guerra Russia-Ucraina possa degenerare in uno scambio nucleare tra Stati Uniti e Russia?
"Penso che sia una possibilità significativa ed è possibile in diversi modi. Nonostante i nostri migliori piani, potremmo trovarci in una situazione in cui non avremmo avuto intenzione di usare le armi nucleari, ma in realtà lo abbiamo fatto. Questo per me è più preoccupante di una situazione in cui avremmo intenzione di usarle. In quel caso non si sa dove si sta andando, da entrambe le parti, soprattutto quando c'è molta incertezza e nessuna delle due parti parla con l'altra, le cose possono andare molto male molto rapidamente. 60 anni fa siamo stati molto fortunati che le armi nucleari non siano state usate [durante la crisi dei missili di Cuba], ma la fortuna non è una strategia a lungo termine per la sopravvivenza nazionale e internazionale, la fortuna alla fine si esaurisce".»
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EU lawmakers and civil society call on Member States for a strong ban on biometric mass surveillance as the negotiations on the AI Act come to a close
Yesterday, several EU parliament negotiators on the AI Act from Socialists and Democrats, Greens/EFA, Renew and The Left groups gathered in the European Parliament to discuss how far the AI Act should go in banning Biometric Mass Surveillance in Europa. They were joined by 20 NGOs coming from all over the EU, representing a “Reclaim Your Face” coalition of 76 NGOs in favour of a strong ban.
The event, co-hosted by a cross-group coalition of 10 Members of the European Parliament, including co-Rapporteur Brando Benifei, ended with several commitments not to agree to an AI Act trilogue agreement which doesn’t include a ban on BMS. The speakers covered different areas which they argued ought to be in the scope of the ban: remote biometric recognition – whether for law enforcement or border control purposes – but also emotion and gender categorisation, polygraphs, behavioural analysis and crowd control. The impact of biometric mass surveillance on democracy, on fundamental rights such as the freedom of expression, and specific communities such as people on the move was highlighted. All speakers concurred about the need to ban the practise, and that this ban should take a strict and ambitious form.
The NGOs present were coming from Germany, France, Czechia, Serbia, Portugal, Greece, the Netherlands, Slovenia, Belgium, Italy and Croatia, on top of the umbrella organisation EDRi. They were accompanied by activists, artists and the association Football Supporters Europe. NGOs provided perspectives from their Member State regarding existing practices and technologies being deployed, and categorically called for a strong ban.
MEP Patrick Breyer, who moderated the event, said:
“We know of the chilling effect that monitoring anybody would have on our society. People who constantly feel watched cannot freely and courageously stand up for their rights and for a just society. This is not the diverse society I want to live in, and in which I want my child to grow up!”
Brando Benifei (S&D IMCO Rapporteur):
“In the Parliament, knowing that the Council has a very different stance, we need to be very comprehensive in the ban we propose, and include all the different aspects: public and private, ‘real time’ and ‘ex post’, etc. Today there are two different loopholes in the ‘ban’ proposed by the Commission: private spaces and ‘ex-post’ recognition are not covered, but there are also exceptions regarding some criminal investigations and prosecutions. We should – and I will do my best to – have a complete ban in the Parliament. We need to make a public case/debate of this, because people need to know what we are trying to defend against control and fake security pushed by the governments.”
Svenja Hahn (Renew IMCO shadow):
“This is a defining question of our society – what kind of society do we want to be. There is broad consensus in the EU that we do not want to go in the direction of authoritarian regimes such as China, Iran and Russia. We see that in these countries that AI is strategically used for repression, social scoring, human rights violations, against minorities, total surveillance… this is something that should be a red line for us, and I hear everyone saying that. But I see worrying things in Europe, such as governments using these technologies claiming to have good intentions, to do it for something they deem a qualified reason. But I think the line is very thin. Democracy cannot be taken for granted inside the EU. We currently have countries which are working against democratic principles inside the Union, and [AI and BMS] are powerful tools. We cannot take for granted that our democracies are forever there, and forever strong, and cannot be undermined.I will not take it for granted that [the ban on BMS] will make it in the final legislation, because it is the Member States that want these tools, to be used for what they call ‘good causes’. We are working on the Parliament’s position, but what we really need now is pressure on Member States. [To NGOs:] we will need you help in the Member States to raise the public awareness. So far it is only Germany that is actually against it [in the Council] because it is in the government agreement.”
Birgit Sippel (S&D LIBE coordinator):
“We must demand a ban on the use of biometric surveillance systems. […] Our EU centralised information systems (SIS, VIS, Eurodac and others) are initially excluded from the scope of the AI Act, and this loophole in Article 83 should be deleted.Many here say that [BMS] is not something we want for our future – but it is already happening. We cannot allow for further deploying AI systems to automate and normalise a culture of suspicion against persons. We will all fight so that the Parliament has a strong position on that. And let me be very clear: even if we could have systems without any error rates, we cannot accept them.”
An audio recording is available
The NGOs which gave presentations were, in order of appearance: European Digital Rights (EU, at 05:06), Chaos Computer Club (DE, at 11:14), Citizen D (SI, at 15:34), Bits of Freedom (NL, at 20:17), La Quadrature Du Net (FR, at 26:18).
The MEPs were, in order of appearance: Brando Benifei (33:18), Kim van Sparrentak (39:40), Svenja Hahn (43:00), Petar Vitanov (47:59), Sergey Lagodinsky (52:43), Karen Melchior (57:11), Birgit Sippel (1:00:50), Cornelia Ernst (read-out by Patrick Breyer, 1:05:36). The ECR LIBE shadow, MEP Rob Rooken, was in the audience and gave his support to an ambitious ban too (1:07:10).
patrick-breyer.de/en/eu-lawmak…
harpo_bzh reshared this.
International Forum on Digital and Democracy
Abbiamo il piacere di invitarvi alla seconda edizione di “International Forum on Digital and Democracy”, il 17 e 18 novembre 2022.
L’Associazione Copernicani, in collaborazione con Re-Imagine Europa e Fondazione Luigi Einaudi, promuove l’evento che si tiene sotto l’ombrello della Commissione Europea, dell’UNESCO, del SDSN, e del Ministero italiano degli Affari Esteri. Questa seconda edizione continuerà a indagare il modo in cui le tecnologie digitali utilizzate per fini politici possono influenzare positivamente il processo elettorale e rafforzare le istituzioni democratiche con due prospettive aggiuntive: il potere algoritmico dell’e-Government e la disinformazione online.
Porge i saluti istituzionali:
Andrea Cangini, Segretario Generale della Fondazione Luigi Einaudi
Più di quaranta relatori, tra cui:
Věra Jourová, Vice Presidente della Commissione Europea
Romano Prodi, Ex Presidente UE
Jeffrey Sachs, Analista delle politiche pubbliche
Gabriela Ramos, Vicedirettore Generale Social and Human Sciences dell’UNESCO
Organizzato come evento live e digitale, il forum garantirà l’opportunità di scambi diretti tra il pubblico e i relatori, offrendo molteplici sessioni di domande e risposte. Il “Best Paper Award”, selezionato tra i lavori presentati durante la conferenza, sarà votato dai delegati presenti alla conferenza e annunciato al termine del Forum.
Il programma dettagliato è disponibile qui.
La conferenza è un evento solo su invito, per iscriversi cliccare su questo link.
L’iscrizione assicura l’accesso a tutte le sessioni online della conferenza e l’ammissione all’evento in presenza, venerdì mattina dalle 9:00 alle 13:00 a Roma presso la Fondazione Luigi Einaudi, Via della Conciliazione 10. La diretta dell’evento sarà comunque disponibile sulla nostra pagina Facebook e sul nostro canale YouTube.
We have the pleasure to invite you to the second edition of International Forum on Digital and Democracy, on November 17th – 18th, 2022.
Associazione Copernicani together with Re-Imagine Europa and Fondazione Luigi Einaudi, promotes the event held under the umbrella of the European Commission, Unesco, SDSN, Italian Ministry of Foreign Affairs. This second edition will continue to investigate how digital technologies exploited for political purposes can positively affect electoral process and strengthen democratic institutions with two additional perspectives: the algorithmic power of eGovernment and online disinformation.
Institutional greetings of:
Andrea Cangini, General-Secretary of Fondazione Luigi Einaudi
Over forty speakers among others:
Věra Jourová, The Vice-President of the European Commission,
Romano Prodi, The former EU President
Jeffrey Sachs, Public policy analyst
Set up as a live and digital event, the forum will safeguard the opportunity of direct exchanges between the audience and speakers offering several Q&A sessions. “Best Paper Award” selected among the works presented during the conference will be voted by the delegates attending the conference and announced at the closing of the Forum.
Detailed program available here.
The conference is an invite only event, register to get your Unique Join Link.
The registration ensures the access to all online sessions of the conference and the admittance to the in-presence event on Friday morning 9:00-13:00 in Rome at Fondazione Luigi Einaudi, Via della Conciliazione 10. All the session will be available online on Facebook and YouTube.
L'articolo International Forum on Digital and Democracy proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il ritorno di ‘Bibi’ Netanyahu in Israele: ci saranno problemi?
Torna Benjamin ‘Bibi’ Netanyahu. Il capo del partito Likud è primo ministro di Israele quasi ininterrottamente da marzo 2009. Questa serie di vittorie è stata interrotta nel giugno 2021 da un’improbabile coalizione di otto partiti, uniti unicamente dal desiderio di vederlo sparito. Tuttavia, le correnti di fondo della società e della politica israeliane si sono […]
L'articolo Il ritorno di ‘Bibi’ Netanyahu in Israele: ci saranno problemi? proviene da L'Indro.
Continuità e cambiamento nell’ascesa del Brasile
Con la sola eccezione degli Stati Uniti, ogni singolo stato che ha raggiunto una posizione gerarchica di rilievo nel sistema internazionale sin dagli albori della storia ha avuto origine nel continente eurasiatico. A questo proposito, da una prospettiva a lungo termine, la creazione del Brasile come Stato nazionale è abbastanza recente. Quindi, nello scacchiere geopolitico […]
L'articolo Continuità e cambiamento nell’ascesa del Brasile proviene da L'Indro.
L’esercito USA sta operando segretamente in decine di Paesi
Un nuovo rapporto rileva che il Department of Defense utilizza programmi di 'cooperazione per la sicurezza' per 'guerre segrete'. Le forze militari statunitensi sono state impegnate in ostilità non autorizzate in molti più Paesi di quanto il Pentagono abbia rivelato al Congresso
L'articolo L’esercito USA sta operando segretamente in decine di Paesi proviene da L'Indro.
📚 Grazie a ioleggoperché, l’iniziativa nazionale dell’Associazione Italiana Editori (AIE), è possibile sostenere le biblioteche scolastiche con un semplice gesto: donare un libro!
📅 Fino al 13 novembre, nelle librerie aderenti, potrete acquistare de…
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Ergastolo ostativo: la Consulta rinvia
Per quanto andrà avanti questo giochino di passarsi l’un l’altro il cerino acceso, per non restare con le dita scottate? Perché alla fine questa ‘cosa’ dell’ergastolo ostativo è questo: un reciproco rimpallarsi chi deve decidere se sia o no compatibile con il dettato costituzionale, se i rilievi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono fondati […]
L'articolo Ergastolo ostativo: la Consulta rinvia proviene da L'Indro.
«Il liberalismo serve, perché l’Italia non è un Paese liberale» intervista ad Andrea Cangini su La Gazzetta di Parma
Lei è giornalista, è stato direttore del Resto del Carlino e di QN, poi, nella scorsa legislatura, senatore di Forza Italia. Infine, dopo la decisione di FI di togliere la fiducia a Draghi, di Azione. Ora è il nuovo segretario generale della Fondazione Einaudi. Ci può parlare del suo nuovo percorso?
Questa è la terza fase della mia vita, o, forse, la quarta, tenuto conto che fare il cronista è diverso dal fare il direttore. Eppure, c’è un filo rosso che lega tutte queste esperienze diverse. Ed è l’adesione al pensiero liberale, non come ideologia, ma come cassetta degli strumenti di pensiero, in senso einaudiano, per cercare di migliorare l’Italia, in modo pragmatico, verso una maggior efficienza ed efficacia. Per rendere questo Paese un po’ migliore.
Deluso o appagato dalla sua esperienza politica?
Non ci pensavo. Di solito un giornalista che prende la via della politica o sta per andare in pensione o sta per essere licenziato. Io come direttore del Carlino e di QN, all’epoca, tenevo i contatti con principali leader politici, faceva parte del mio lavoro giornalistico. In questo modo è arrivata la proposta di Silvio Berlusconi. Io, in principio, avevo pensato di non accettare. Ma poi, il giorno dopo, accettai. E non me ne sono pentito. Quella che è appena finita è stata la legislatura “più pazza del mondo”, nel senso che è partita con la vittoria – senza maggioranza – dei 5 Stelle ed è finita con Mario Draghi. La seconda Repubblica è finita proprio con la scorsa legislatura. Ora è iniziato un ciclo politico nuovo. La cosa anomala è che l’offerta politica è ancora quella del ciclo vecchio. Quindi ci saranno ulteriori cambiamenti. E io spero anche nell’assetto istituzionale, visto che sono ormai 40 anni che parliamo di riforme. Quindi una grande esperienza di vita. Con tanti ripensamenti. Le stesse cose viste da dentro sono diverse rispetto a come appaiono da fuori. E così, su molte cose, ho cambiato opinione.
La Fondazione è uno storico Think Tank di impronta liberale. Secondo lei perché in Italia ci sono così poche Fondazioni (a parte quelle messe in piedi per mere esigenze di finanziamento politico)?
La Fondazione Einaudi ha una storia gloriosa e festeggia quest’anno i 60 anni di vita. Fu fondata da Malagodi di cui detiene l’archivio. Abbiamo digitalizzato tutta l’Opera omnia einaudiana e stiamo per metterla online. Così chiunque potrà consultare il corpus dei testi di Einaudi anche facendo ricerche per parole chiave. E questo può essere utile alla diffusione del verbo einaudiano. Credi che mai come oggi istituzioni come la Fondazione abbiano una funzione storica. I centri che sono serviti a elaborare progetti politici, interventi governativi sul merito delle questioni sono tutti in crisi. Sono in crisi i partiti politici, i giornali non se la passano bene come un tempo, i parlamenti sono delegittimati ed esautorati dagli esecutivi; quindi, i governi e i ministri di volta in volta decidono sulla base delle emergenze senza avere una visione d’insieme, un retroterra culturale. Questo grande vuoto di analisi e conoscenze sul merito delle questioni deve essere riempito da istituzioni come la Fondazione Einaudi. Allo stesso modo la Fondazione deve avere, e spero avrà, un ruolo perché tutti si dicono liberali, ma pochi in Italia lo sono. Dobbiamo cercare di offrire al ceto politico una chiave liberale per risolvere problemi complessi. Sarebbe un “buon servizio alla Nazione”, come direbbe Giorgia Meloni.
Tra pochi giorni cominceranno le attività per celebrare i 60 anni della Fondazione. Ci può spiegare in cosa consistono?
Oltre alla messa online del corpus delle opere einaudiane, di cui abbiamo già parlato, tra il 30 di questo mese e il 1° dicembre organizzeremo una serie di importanti eventi in Senato. Verranno rappresentanti della Federazione delle fondazioni liberali europee, l’Elf, di cui la Fondazione Einaudi ha la vicepresidenza. È un network che dà forza alla nostra capacità d’analisi e ci consente di approfondire temi che ormai sono quasi tutti di dimensione almeno europea. Questo ci consente di avere interlocutori autorevoli in tutti i Paesi a cui fare riferimento per approfondimenti scientifici.
Perché l’Italia ha bisogno delle idee liberali?
Proprio perché le idee liberali ci appartengono poco. Abbiamo tante anomalie e siamo un paese tendente all’estremismo come carattere nazionale. Nella nostra storia repubblicana la cultura politica è stata egemonizzata da due filoni culturali, rispettabili entrambi ovviamente, ma che di liberale avevano poco. Intendo quello cattolico e quello socialista e poi comunista e, infine, socialdemocratico. Il pensiero liberale è sempre stato incarnato da personalità autorevolissime, ma è sempre stato minoritario, forse anche a causa della mancata riforma protestante. Ci sono radici storiche che potrebbero essere utilizzate per spiegare l’anomalia. Ma il fatto rilevante è che l’anomalia c’è e che in un mondo dove, a torto o a ragione, gli stati nazionali sono sempre più spogliati di competenze sovrane, c’è bisogno di un approccio liberale verso i problemi. Einaudi teorizzava l’Europa unita già nel 1919. Fu un precursore. Già allora sosteneva che la dimensione dello Stato sovrano era un’impostura. E oggi è vero più che mai. Quindi, da un lato il metodo liberale – il liberalismo non è un’ideologia è un metodo, un modo di affrontare i problemi – e dall’altro l’approdo europeista dovrebbero essere i due pilastri su cui qualsiasi governo oggi in Italia dovrebbe muoversi.
Liberalismo e populismo. Secondo lei è una polarizzazione più importante di quella destra-sinistra, oppure, conservatorismo-progressismo, oppure no?
L’antitesi è populismo-pluralismo. Il populismo, che può essere declinato da destra o da sinistra, è la pretesa di avere la verità in tasca. Il liberalismo è esattamente il contrario. Einaudi su questo insisteva moltissimo: serve il confronto tra idee diverse, c’è bisogno del Parlamento come luogo dove ci si parla e ci si convince, in alcuni casi, a partire da tesi contrapposte. Il vero bipolarismo, da alcuni anni, è quello tra demagogia e realismo. Esiste la demagogia di destra di cui spesso si parla, ma esiste anche la demagogia di sinistra che non è meno dannosa. È un lusso che non possiamo più permetterci, diciamo. Oltre un certo livello la demagogia rende la politica impotente. Ed è quello che è successo nell’arco della scorsa legislatura, tant’è che alla fine c’è stato bisogno di un premier tecnico. Ed è quello che rischia di succedere di nuovo se i partiti non abbandoneranno una quota significativa di propaganda e di demagogia per aderire il più possibile alla realtà. I voti possono essere interpretati come un fine o come un mezzo. Un liberale li interpreta come un mezzo per realizzare cose. Un demagogo li interpreta come un fine in sé. E quindi, alla fine, li rende inutili. Non ci fai nulla perché non li trasformi in azione politica concreta.
La cultura liberale dovrebbe avere una “vocazione maggioritaria”? O, sarebbe meglio, visto che si tratta di una tradizione importante ma che non fa il pieno di consensi, cercare di costruire alleanze con le culture affini?
Beh, sarebbe bello se la cultura liberale diventasse maggioritaria. Vivremmo in un Paese migliore, dove si dicono meno bugie e si ingannano meno gli elettori. E anche se stessi, visto che è tipico dei leader politici convincersi intimamente della giustezza di quello che gli conviene, spesso prendendo cantonate colossali. Quindi l’obiettivo di rendere la sensibilità liberale maggioritaria è un obiettivo da perseguire. Non so se è realistico, ma sono certo che se questo obiettivo fosse raggiunto vivremmo tutti in un Paese migliore.
Più specificamente – tenuto conto del voto regionale – pensa che siano possibili alleanze per battere l’attuale maggioranza di destra-centro? Oppure è meglio cercare, appunto, una maggioranza in un’ottica del Terzo Polo?
Io credo che il cosiddetto Terzo Polo faccia bene a non associarsi a carrozzoni elettorali trainati dai cavalli della demagogia. Quanto più si riuscirà a imporre a due coalizioni un po’ raffazzonate e a quel poco che le unisce un approccio realista ai problemi, tanto più si farà un buon servizio al Paese.
Risposta molto diplomatica… ma se si rimane da soli si perde con questo sistema elettorale.
Lo so, ma torno al discorso di prima. Vincere o perdere non ha un gran valore. Il punto vero o governare bene o non governare. Credo che sia più importante il passaggio preliminare, cioè creare le condizioni per un buon governo. E, perché si possa governare bene, bisogna che ci sia una cultura politica comune, una visione, delle sensibilità comuni tra alleati. Sennò vinci, ma hai il potere e non il governo. Sono due cose diverse. E non vanno confuse.
L’intervista di Paolo Ferrandi su La Gazzetta di Parma
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