I videogiochi: dal passato fino all’epoca moderna
Il mondo dei videogiochi è in costante crescita, grazie all’evoluzione delle moderne tecnologie. I videogiochi, che siano per PC o per console, diventano sempre più complessi, a partire dalla grafica fino ad arrivare alla modalità di gioco e all’interattività. Vediamo assieme come si sono evoluti i videogiochi, quali vantaggi presentano e come in Sardegna ci […]
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Il Canada e il netto spostamento contro la Cina
Secondo quanto riferito, il leader supremo della Cina Xi Jinping ha rimproverato due volte il primo ministro canadese Justin Trudeau al recente incontro del G20 a Bali. Il primo rimprovero rifletteva l’insoddisfazione del leader cinese per il fatto che il governo Trudeau avesse recentemente accusato Pechino di interferire negli affari interni del Canada finanziando segretamente […]
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Terzo posto in Esa e due astronauti per l’Italia
Che ha portato a casa l’Italia dalla Ministeriale dello Spazio svoltasi nei giorni scorsi a Parigi? «A Parigi oggi si è imboccata la strada giusta per costruire il futuro dello spazio per la nostra Europa che deve fronteggiare anche una competizione globale molto stressante dagli altri partner internazionali» ha dichiarato il ministro Adolfo Urso appena […]
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Da oggi fino al 26 novembre torna, alla Fiera di Verona, JOB&Orienta, lo storico Salone nazionale dell’orientamento.
“A.A.A. Accogliere, accompagnare, apprendere in un mondo che cambia”, è il titolo di questa XXXI° edizione.
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LibSpace con Marta Ottaviani
Manovra, come al solito vincono gli intoccabili. Per noi c’è il bastone - Contropiano
«660mila percettori di reddito occupabili (e, chissà, forse anche i 173mila che già lavorano ma percepiscono stipendi così miseri che devono essere integrati con il RdC) vengono così segnati dal marchio dell’infamia, perché nemici della “nazione”, improduttivi, parassiti.
Bisogna dunque costringerli. E l’arma di costrizione è la fame – oltre che lo stigma. Senza alcun reddito saranno obbligati a cercare e soprattutto ad accettare qualunque lavoro, a qualunque condizione e in qualunque luogo. È una logica propria non solo del Governo Meloni, ma anche di politici come Renzi e di ampi pezzi del mondo imprenditoriale.»
Cina, Turchia e UE insidiano il primato russo in Asia Centrale (1a parte)
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 24 novembre 2022 – Nei giorni scorsi, il Tagikistan – che pure è il paese dell’Asia centrale forse più legato a Mosca – ha firmato un accordo con la Repubblica Popolare Cinese che prevede l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte “antiterrorismo” ogni due anni. L’intesa rafforza e stabilizza la cooperazione tra i due paesi in materia militare, dopo le esercitazioni congiunte già realizzate sporadicamente in passato.
Si tratta dell’ultimo segnale di un aumento dell’influenza di Pechino nelle ex repubbliche sovietiche che, per motivi storici, culturali, economici e militari, hanno a lungo rappresentato il cortile di casa di Mosca dopo lo scioglimento dell’URSS.
La penetrazione militare cinese in TagikistanNell’area la Federazione Russia gode di un primato militare ancora forte, controllando le basi di Baikonur, Sary-Shagan e Balkhash in Kazakistan, la base aerea di Kant in Kirghizistan e l’installazione di Dushambe in Tagikistan. Ma stando a voci via via confermate, già dal 2016 la Cina ha realizzato una struttura militare in un’area dell’est del Tagikistan vicina al turbolento confine con l’Afghanistan. Le autorità tagike hanno sempre negato la circostanza, ma recentemente il quotidiano locale “Asia-Plus” ha nuovamente confermato, citando fonti militari, la costruzione del sito – grazie a fondi cinesi – che avrebbe dovuto essere utilizzato esclusivamente dalle forze di Dushambe. Secondo la testata, non solo i militari di Pechino avrebbero nel frattempo iniziato a utilizzare la base nella regione di Gorno-Badakhshan, ma avrebbero realizzato in Tagikistan tre centri di comando, cinque avamposti in prossimità della frontiera e un centro di addestramento. Già nel 2020 il dipartimento della Difesa di Washington, riferendosi proprio al Tagikistan, rilevava come Pechino stesse «cercando di stabilire infrastrutture più consistenti all’estero per consentire al suo esercito di proiettarsi a più elevate distanze». Nell’ottobre del 2021, del resto, lo stesso governo di Dushambe aveva annunciato la costituzione da parte della Cina di guarnigioni fisse per le unità di intervento rapido nel villaggio di Vakhon.
L’invasione dell’Ucraina spaventa l’Asia centrale
L’espansione cinese in Asia Centrale è un processo, lento ma senza interruzioni, che risale quanto meno al 2013, con l’avvio da parte di Pechino del gigantesco progetto infrastrutturale denominato “Belt and Road Initiative” o “Nuova Via della Seta”.
L’aggressione russa dell’Ucraina e le difficoltà incontrate dalle forze armate di Mosca nel paese invaso hanno accelerato – per motivi opposti – il distanziamento delle cinque repubbliche ex sovietiche. I regimi locali temono che lo sciovinismo russo, incarnato dalla dottrina del “Russkij Mir” che guida la strategia del Cremlino, possa presto rappresentare una minaccia diretta per paesi che ospitano una quota consistente di popolazione russa o russofona. Al tempo stesso, i rovesci militari di Mosca in Ucraina orientale hanno appannato l’aura di invincibilità di cui godeva finora l’Armata Russa.
Il Kazakistan, enorme e ricchissimo paese scelto dalla Cina per lanciare la sua iniziativa egemonica verso ovest, è il paese che più si sta allontanando da Mosca.
Il Kazakistan si allontana da Mosca
A gennaio le truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza militare guidata da Mosca che include sei repubbliche ex sovietiche, salvarono il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev da una violenta ribellione. Il grosso dei 2500 soldati intervenuti a sedare nel sangue la rivolta – i morti furono alcune centinaia – apparteneva alla 45a brigata dell’esercito russo.
Ma l’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Tokayev a continuare a prendere le distanze da Mosca e a cercare nuovi partner a livello internazionale. Il presidente vuole trasformare il Kazakistan in uno dei 30 paesi più sviluppati del mondo, forte di un enorme territorio ricco di idrocarburi, carbone e uranio e quindi assai appetibile per gli investitori internazionali.
Il governo kazako non ha mai espresso né sostegno né comprensione nei confronti dell’operazione militare russa contro Kiev; inoltre, Astana non ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche del Donbass ed ha da subito implementato le sanzioni finanziarie, economiche e commerciali internazionali contro Mosca, mossa che ha irritato notevolmente il Cremlino. Alcuni media russi hanno infatti accusato Tokayev di aver addirittura inviato armi a Kiev tramite una triangolazione con Londra e Amman.
Astana ha annullato la parata del 9 maggio – il Giorno della Vittoria – per evitare ogni possibile sovrapposizione con la propaganda russa sulla “denazificazione dell’Ucraina”. Nelle ultime settimane, inoltre, il governo ha iniziato l’iter per consolidare la diffusione e l’utilizzo della lingua nazionale e limitare quelle del russo, ampiamente utilizzato nella scuola e nell’amministrazione pubblica nonché parlato da milioni di cittadini. Secondo vari osservatori, con la scusa di redistribuire in maniera razionale la forza lavoro, le autorità di Astana starebbero costringendo molti cittadini kazaki che tornano in patria dall’estero a insediarsi nelle regioni settentrionali del paese, quelle dove si concentra la popolazione di origine russa che rappresenta circa il 15% del totale.
Lo sciovinismo russo allarma AstanaD’altronde, le autorità di Astana sono state messe in allarme da alcune dichiarazioni di esponenti politici russi che hanno più volte messo in dubbio l’esistenza stessa di una nazione kazaka o che hanno fatto appello alla difesa delle popolazioni russofone del nord del paese. Tra questi il deputato comunista al parlamento cittadino di Mosca, Sergey Savostyanov, che ha suggerito di includere il Kazakistan in una «zona di smilitarizzazione e denazificazione» che protegga la sicurezza e gli interessi di Mosca. Ad agosto, poi, Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca, ha scritto sul social Vkontakte che la Federazione dovrebbe occuparsi del Kazakistan del nord definendo il vicino, con cui condivide più di 8000 km di confine, di essere uno “stato artificiale” e accusando il regime kazako di realizzare un genocidio contro la popolazione russa. L’ex presidente russo ha poi cancellato il post lamentando un hackeraggio del suo account, ma il segnale ha comunque allarmato Tokayev anche perché già nel 2014 lo stesso Putin aveva utilizzato argomentazioni simili. Nel 2020, in un intervento alla tv di stato di Mosca, il deputato russo Vyacheslav Nikonov aveva poi dichiarato: «Il Kazakistan semplicemente non esisteva, il Kazakistan settentrionale non era abitato e il Kazakistan di oggi è un grande dono della Russia e dell’Unione Sovietica».
Nelle scorse settimane Mosca e Astana sono stati protagonisti di un conflitto diplomatico: la Russia che pretendeva l’espulsione dell’ambasciatore ucraino ad Astana, colpevole di feroci dichiarazioni antirusse, e il governo kazako ha accusato la Russia di non comportarsi come un “partner strategico di pari livello”. Contemporaneamente Astana ha affermato che non riconosce l’annessione alla Russia dei territori conquistati da Mosca in Ucraina, ed ha dichiarato che le decine di migliaia di cittadini russi che arrivano nel paese per sfuggire all’arruolamento (o che temono di essere coscritti in una prossima nuova mobilitazione a sorpresa) non saranno consegnati alle autorità russe. Già a marzo il viceministro degli Esteri kazako aveva detto che il suo paese era lieto di ospitare le aziende in fuga da Mosca a causa delle sanzioni.
In questa situazione si è abilmente inserita proprio la Cina. A settembre, in visita ufficiale in Kazakistan prima di partecipare al vertice di Samarcanda (Uzbekistan) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il leader cinese Xi Jinping ha esplicitamente offerto a Tokayev il proprio supporto a difesa dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale del Kazakistan, riferendosi implicitamente proprio alle neanche troppo velate minacce russe.
Astana si rivolge alla Cina e alla Turchia
Per diminuire l’ancora consistente dipendenza del Kazakistan dalla Russia, il leader kazako persegue esplicitamente una rapida diversificazione delle esportazioni del petrolio, cercando di bypassare il territorio russo e di sottrarre quindi a Mosca un elemento di possibile, forte condizionamento. Ora quasi l’80% del petrolio esportato da Astana verso l’Europa transita nel Caspian Pipeline Consortium (CPC), di cui Mosca detiene il 31%, oltretutto dal porto russo di Novorossiysk. Mentre il CPC trasporta ogni giorno un milione di barili di greggio, attraverso la rotta alternativa nel Mar Caspio Astana ne transitano solo 100 mila barili quotidiani. Se la Russia decidesse di chiudere il CPC, Astana perderebbe il 40% dei propri introiti totali. Per aumentare in maniera consistente la quota di petrolio esportata attraverso metodi alternativi Tokayev e si è rivolto alla Turchia e all’Azerbaigian.
Per la prima volta dalla sua ascesa al potere, nei mesi scorsi Tokayev si è recato in Turchia, dove ha ottenuto da Erdoganil varo di una partnership strategica e l’impegno da parte dell’industria militare turca a produrre i propri droni in Kazakistan. Come se non bastasse, Astana ha siglato con Ankara un accordo sullo scambio di informazioni militari.
Interessato al porto di Baku – snodo internazionale utile a distribuire il proprio petrolio evitando il territorio russo – Tokayev si è congratulato con il dittatore Aliyev per aver ripristinato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconquistando la maggior parte dei territori del Nagorno-Karabakh. E questo nonostante il Kazakistan sia un alleato dell’Armenia all’interno del CSTO.
Per ampliare la propria tradizionale “politica estera multivettoriale”, Astana guarda anche ad occidente, come vedremo nella seconda parte dell’articolo. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Kick-off for EU database of public domain works and digital access to scientific works
With yesterday’s budget vote, the EU Parliament approved the funding of two pilot projects in the field of free knowledge initiated by the Pirate Party’s MEP Patrick Breyer in cooperation with civil society.
The first pilot project “Public EU directory of works in the public domain and under free licenses”, is funding a feasibility study for the creation of a database of public domain works. The development of such a database shall provide legal certainty for platforms, providers, galleries, libraries, archives and museums, as well as other non-profit organizations that work with public domain or freely licensed content.
The second project, “The Role of Copyright Laws in facilitation of distance education and research” intends to strengthen schools, universities and the cultural sector. The pilot project will assess copyright obstacles for online teaching and will focus on possible adaptions to the legal framework in order to enhance an appropriate balance of the interests of the authors and the use for educational and research purposes in the public interest. In addition, public access to culture and education shall be increased, in particular by granting licenses to libraries.
Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the Pirate Party and digital freedom fighter, comments:
“The Pirate‘s fight for free knowledge has never been as important as during the pandemic, when schools and libraries often were closed. We finally need legal certainty. Business interests must no longer stand in the way of digital learning and research. The pilot projects I have proposed are an important first step in bringing the laws into line with the needs of our digital knowledge society.”
ISRAELE. La destra estrema vuole religiosi dei due sessi separati agli eventi pubblici
di Michele Giorgio –
(nella foto i deputati di estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich/Arutz Sheva)
Pagine Esteri, 24 novembre, 2022 – Non si sa se l’attentato di ieri a Gerusalemme finirà per accelerare le trattative per la formazione del nuovo governo israeliano ma Moshe Gafni, presidente del partito dei religiosi ultraortodossi Degel HaTorah, ha incontrato il premier incaricato Benyamin Netanyahu per confermare il congelamento dei negoziati a causa del mancato accordo sulla distribuzione dei ministeri. Ma più di tutto per insistere sulla abolizione della legge che vieta la separazione tra donne e uomini negli eventi pubblici in Israele. «Una donna haredi (ultraortodossa, ndr) non andrà a un evento dove non c’è separazione tra uomini e donne. Che cosa vogliono quelli che all’improvviso parlano contro questo? Che le donne se ne stiano a casa?», ha spiegato Gafni a Channel 2 News affermando l’esistenza di una «persecuzione legale» per coloro che intendono praticare la separazione. Il nuovo governo israeliano non ha ancora visto la luce e gli alleati religiosi ed estremisti del leader della destra Netanyahu premono affinché sia rispettato subito l’impegno di imprimere una svolta conservatrice al paese, ad ogni livello, a cominciare dalla società. Non chiedono una totale separazione dei sessi ma la vogliono vedere applicata subito negli eventi culturali in cui sono coinvolti i religiosi ortodossi. Poi si vedrà.
La richiesta ha suscitato un vespaio. Condanne sono giunte dal premier uscente Yair Lapid, un laicista, e dalla leader laburista Mirav Michaeli che ha risposto ammonendo che è il governo che sta formando Netanyahu a rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma i promotori della separazione tra uomini e donne non si sono lasciati impressionare, soprattutto Bezalel Smotrich di Sionimo Religioso che dalla vittoria elettorale del primo novembre si è rivelato il più vorace degli esponenti della destra estrema religiosa, finendo talvolta per superare il suo alleato ultranazionalista, accusato di razzismo, Itamar Ben Gvir. Lunedì Smotrich ha esortato il nuovo governo ad «agire» contro le organizzazioni per i diritti umani che ha descritto come una «minaccia esistenziale per lo Stato di Israele». Parlando a una conferenza intitolata «Organizzazioni per i diritti umani gestite da Hamas», organizzata dal gruppo di attivisti di destra Ad Kan, il deputato di Sionismo Religioso ha intimato al governo entrante di prendere di mira i centri che difendono i diritti umani e ad usare contro di loro mezzi legali e di sicurezza. «Di fronte alla delegittimazione, all’incitamento, al terrorismo e alla calunnia, è ora di iniziare a rispondere» ha detto tra gli applausi dei presenti. Per Gilad Ach, presidente di Ad Kan, «Le nuove circostanze politiche sono un’ottima occasione per mettere ordine in questa vicenda. È giunto il momento per la Knesset di istituire un meccanismo di controllo per le Ong. I soldati non devono essere in prima linea senza alcuna protezione (legale) contro questi terroristi in giacca e cravatta».
Nei mesi scorsi l’esercito israeliano ha chiuso in Cisgiordania sette Ong per i diritti umani, tra cui la storica Al Haq, vincitrice di riconoscimenti internazionali, descrivendole come parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Israele però non ha prodotto prove concrete e definitive di questa presunta affiliazione. La destra però si scaglia anche contro le Ong israeliane per i diritti umani che denunciano violazioni e crimini commessi da soldati e coloni israeliani contro i civili palestinesi sotto occupazione militare. Bezalel Smotrich, non a caso, reclama il ministero della difesa per realizzare i suoi piani incendiari, non solo contro le Ong. Netanyahu starebbe facendo, secondo i media israeliani, il possibile per dirottarlo verso un altro ministero temendo un contraccolpo internazionale, in particolare dagli Stati uniti. Pagine Esteri
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Mondiali in Qatar, Hrw chiede un risarcimento per i lavoratori
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 18 novembre 2022 – Non solo proteste e articoli di stampa. Chiedono un risarcimento alla FIFA e al Qatar i lavoratori migranti, in gran parte asiatici, che con litri di sudore e la forza delle braccia hanno costruito gli stadi e le infrastrutture che ospiteranno da domenica i Mondiali. Altrettando reclamano le famiglie delle migliaia di manovali morti sul lavoro. A farsi carico di questa richiesta è Human rights watch (Hrw) che ieri ha presentato un video in cui parlano soprattutto lavoratori e tifosi del Nepal, paese dal quale sono partiti migliaia di uomini attirati in Qatar dalla possibilità di percepire un salario e mantenere le loro famiglie in patria. Ottenere quel risarcimento sarà faticoso, come il lavoro di 12 anni che è stato necessario per dotare il piccolo ma ricco regno del Qatar degli impianti sportivi che ospitano il Mondiale.
Hrw spiega che se i regnanti di Doha, dopo proteste e denunce, hanno istituito un fondo per risarcire, anche se solo una parte, delle famiglie dei morti sul lavoro e gli operai che non sono stati retribuiti dalle imprese di costruzioni, al contrario la FIFA ha ignorato i problemi legati all’organizzazione del Mondiale in un paese che pure è noto per le violazioni dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori stranieri. Eppure, sottolinea il centro per i diritti umani, la Federazione mondiale del gioco del calcio si prepara ad incassare miliardi dal torneo che prende il via il 20 novembre. «La strategia della FIFA di seppellire la testa sotto la sabbia e di guadagnare tempo, sperando che l’entusiasmo per il gioco offuschi le violazioni dei diritti umani, è destinata a fallire», prevede Rothna Begum, ricercatrice di Human Rights Watch.
Il costo in vite umane e lo sfruttamento dei lavoratori rendono unica la Coppa del Mondo 2022 in Qatar. Sarebbero almeno 6500 i morti secondo una inchiesta pubblicata all’inizio dello scorso anno dal quotidiano britannico The Guardian. Amnesty International parla addirittura di 15mila decessi tra il 2010 e il 2019. Senza dimenticare gli infortuni, gli infarti, i suicidi e le malattie sviluppate dai lavoratori una volta tornati a casa. Le autorità qatariote ne sono consapevoli e con ogni probabilità hanno raccolto molti dati in questi anni. Ma preferiscono, per motivi di immagine, parlare di poche decine di vittime. Sono convinte che lo sportwashing – di cui fanno uso un po’ tutte le petromonarchie del Golfo – e i gol che segneranno le stelle vecchie e nuove del calcio mondiale faranno dimenticare presto le polemiche che circondano da anni questa edizione della Coppa del Mondo.
Non tutti dimenticheranno. Per gli appassionati di calcio nepalesi le emozioni andranno ben oltre la gioia di guardare le partite. La realtà sportiva si intreccia con i sacrifici che hanno fatto tanti nepalesi partiti per il Qatar per guadagnare poche centinaia di dollari al mese lavorando per gran parte dell’anno in condizioni estreme. Manovali che non hanno goduto dell’aria condizionata, di cui si parla tanto, che hanno installato negli stadi di ultima generazione sorti dove prima non c’era nulla. Nel video diffuso da Hrw parla Hari, un operaio che per 14 anni ha lavorato in diversi cantieri, tra cui lo stadio Al Janoub. Hari ricorda che l’area di Lusail a Doha era vuota quando è arrivato in Qatar: ora è piena di torri. «Abbiamo costruito noi quelle torri», dice perentorio. Ricorda di aver lasciato il Nepal quando suo figlio aveva solo 6 mesi e di averlo visto solo cinque volte in 14 anni. «Mio figlio non mi ha riconosciuto quando sono tornato in Nepal la prima volta». In quei 14 anni di distanza dalla famiglia Hari invece ha visto e contribuito alla trasformazione del Qatar. Ram Pukar Sahani, un altro nepalese, dice di aver saputo non dalle autorità di Doha ma da un amico della morte di suo padre operaio in un cantiere qatariota. Non ha mai ricevuto un risarcimento perché secondo i medici è stata una «morte naturale» dovuta a una insufficienza cardiaca. La diagnosi della morte naturale è il pretesto che più di frequente il Qatar ha usato per negare il risarcimento alle famiglie dei lavoratori stranieri deceduti. Le temperature vicine ai 50 gradi in cui i manovali erano costretti a lavorare non sono state considerate valide dalle autorità per spiegare quelle «morti naturali».
Le proteste internazionali hanno spinto Doha ad avviare alcune riforme del lavoro e della kafala, il sistema di reclutamento in uso in molti paesi del Medio oriente che permette ai datori di lavoro di tenere i manovali stranieri in uno stato di semi schiavitù. Tanti però non ne hanno beneficiato. Quei lavoratori sfruttati, abusati e spesso non retribuiti, insiste Hrw, hanno diritto almeno a un risarcimento finanziario dal Qatar e dalla FIFA. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
ilmanifesto.it/mondiali-in-qat…
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"Gli interventi sulle pensioni sono stati irrisori, mentre si continua a favorire anche attraverso la tassazione i ceti più abbienti, introducendo i primi assaggi di una futura tassazione piatta. Hanno colpito il Reddito di Cittadinanza proseguendo la guerra ai poveri, già ingaggiata dai precedenti governi. Hanno ridotto gli sgravi sulle bollette per le famiglie, confermando per intero solo quelli alle imprese. "
#uncaffèconLuigiEinaudi – Auguriamoci che i liberali nuovi…
Auguriamoci che i liberali nuovi […] non abbiano a lasciare ai loro figli un paese in lotta con i debiti, con il caro della vita, con difficoltà risorgenti di accrescere imposte già gravissime
da Corriere della Sera, 3 maggio 1909
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Di PD ce ne sono due. Perchè non dividervi?
Il PD non è UN partito, e non è UNO. Il PD è ormai due partiti: una parte democristiana, un’altra parte vagamente di sinistra. Divorziare?
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Elogio del vincolo esterno (cui si è giustamente piegata Meloni)
Giorgia Meloni, e con lei il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, si sono in effetti piegati al “vincolo esterno europeo”. Ed è stato un bene per tutti, di sicuro per l’Italia. L’opinione di Andrea Cangini
Ero molto più giovane e più di oggi incline all’idealismo. Chiesi a Francesco Cossiga cosa avesse spinto la classe dirigente italiana dei primi anni Novanta ad aderire senza riserve né pubblico dibattito al Patto di Maastricht e alle conseguenti limitazioni della sovranità nazionale. “La sfiducia nel carattere degli italiani – fu la risposta, serafica, del presidente emerito della Repubblica -. Cioè la consapevolezza che la virtù contabile non ci appartiene e che, pertanto, il male minore per l’Italia fosse quello d’essere obbligata alla moralità politica e alla morigeratezza economica da un vincolo esterno. Il vincolo europeo”. Rabbrividii. Crescendo, e maturando esperienza, compresi che, per quanto amaro, quel ragionamento era fondato.
Ne abbiamo avuto la prova in queste ore. Giorgia Meloni, e con lei il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, si sono in effetti piegati al “vincolo esterno europeo”. Ed è stato un bene per tutti, di sicuro per l’Italia. Senza la necessità di ottemperare a quel “vincolo” onorando gli impegni presi, necessità ancor più evidente e conveniente in epoca di Pnrr, Dio solo sa cosa sarebbe stato della manovra economica. Una Fiera delle Velleità, un Trionfo della Demagogia: flat tax per tutti, quota 100 e dentiere per ciascuno.
Il debito pubblico sarebbe esploso e non per questo la crescita economica si sarebbe rianimata. Mercati e partner internazionali ci avrebbero bollati come inaffidabili, le solite cicale al tempo delle formiche. L’Italia si sarebbe così allegramente avviata al fallimento. E, va da sé, al conseguente commissariamento.
La manovra economica del primo governo Meloni è quello che è. Per due terzi balsamo sulle piaghe del caro energia, piaghe che tutti sanno destinate ad aggravarsi. E per il restante terzo timidi e innocui segnali politici intestabili a questo o a quel leader della maggioranza. A Matteo Salvini, sorprendentemente, più che ad altri.
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Tra ‘processo di Berlino’ e ‘Balcani aperti’
Il vertice dell’Unione europea (UE) e degli Stati dei Balcani occidentali sarà organizzato il 6 dicembre 2022 a Tirana. Il vertice è organizzato nel quadro della cooperazione strategica dell’UE con i Balcani occidentali e sarà il primo dall’invasione russa dell’Ucraina. In particolare, il 6 ottobre 2022 sono stati organizzati a Praga il primo vertice informale dell’UE […]
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Socialmente (in)utile
Indirizzare i ragazzi violenti ai lavori socialmente utili può sembrare una misura rigorosa, ma è la bancarotta del rigore. Può sembrare educativo, ma è il fallimento dell’educazione. Le dichiarazioni del ministro dell’istruzione, Valditara, sono state commentate, come al solito, avendo in mente gli schieramenti e le contrapposizioni fasulle, ma celano un problema serissimo.
Un tempo la sospensione era una misura assai temuta. Intanto perché macchiava il percorso scolastico, escludeva dalle lezioni e poteva preludere a una bocciatura. Ora non si boccia nessuno, quindi è una minaccia farlocca. Poi perché essere bocciati significava impiegare un anno in più prima di andare a lavorare, ovvero impoverirsi. Ora ti danno i soldi se non lavori. Infine perché a casa i genitori ti avrebbero severamente punito. Mentre ora stanno dalla parte del pargolo manesco e testone.
Socialmente utile sarebbe che la scuola torni a funzionare e le famiglie tornino a educare. Il resto è vaniloquio propagandistico.
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Minerali critici: competizione in accelerazione
Il petrolio piuttosto che il gas sono stati e sono al centro di scontri di poteri. Sarà così anche per i minerali critici? Ci sarà un ritorno alle dinamiche della Guerra Fredda nella concorrenza attorno a minerali critici?
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Ucraina: lo stratagemma della pace potrebbe servire alla Russia per riarmarsi
Con la Russia che ora sta chiaramente perdendo la guerra in Ucraina, Vladimir Putin sta cercando di tornare al tavolo dei negoziati. Da più di un mese, funzionari del Cremlino e delegati del regime chiedono colloqui e posizionano la riluttanza ucraina come un ostacolo al progresso verso la pace. A prima vista, questi appelli possono […]
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Asia centrale – Afghanistan: frontiere sotto stretta sorveglianza
Lontano dall'immagine del confine pericoloso che ne viene dato dai Paesi dell'Asia centrale, in particolare dal Tagikistan, quello che l'Afghanistan condivide con l'Asia centrale rimane più calmo di altri nella regione
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Perché il rapporto USA – Cina è crollato e può essere riparato?
La fine della mentalità del conflitto a somma zero tra le élite in entrambi i Paesi è essenziale per affrontare i pericoli esistenziali ed è possibile
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2022, un altro ‘anno horribilis’ per le carceri
Se si va avanti con questa drammatica cadenza, si arriverà facilmente a cento; e il 2022 sarà ricordato come l’annus horribilis del carcere. Nel momento in cui si scrive si è già toccato quasi 80 suicidi ufficiali in cella dal 1 gennaio. L’aspetto più inquietante consiste nel fatto che a togliersi la vita spesso sono […]
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Tutelare le imprese: cosa dovrà fare il nuovo Governo
Magari saranno anche consigli non richiesti però il popolo ha deciso che FdI debba essere la prima forza politica in Italia in percentuale in base al numero di votanti. Il periodo è quello che è, complicatissimo per commercianti e dipendenti. Ma questo non vuol dire che non si possa uscire alla grande. Quali dovrebbero essere […]
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I 10 satelliti più affascinanti del Sistema Solare
Un bel video del divulgatore Luca Nardi su alcuni dei molti satelliti naturali del Sistema Solare.
Bomba a Gerusalemme, morto un ragazzo israeliano. Esercito uccide 16enne palestinese
Pagine Esteri, 23 novembre 2022 – Un ragazzo israeliano ucciso e decine feriti in esplosioni nei pressi di diverse fermate dell’autobus a Gerusalemme. A meno di mezz’ora di distanza l’una dall’altra, le bombe sono esplose in maniera controllata e attivate a distanza.
Gli israeliani hanno chiuso le strade principali della città e attivato check point nella parte est e in quella ovest di Gerusalemme. Le ricerche dei sospettati sono subito cominciate, insieme a quelle di altri eventuali ordigni esplosivi.
רגע הפיצוץ הראשון ביציאה מהעיר ירושלים. pic.twitter.com/DeKYxAKfGF— סולימאן מסוודה سليمان مسودة (@SuleimanMas1) November 23, 2022
Uno studente di 16 anni, Aryeh Shtsupack, è morto in ospedale a causa delle ferite riportate per la prima delle due esplosioni, a Givat Sha’ul, poco dopo le 7 di questa mattina. La seconda, invece, alla fermata di Ramot non ha causato vittime.
Alcuni dei feriti versano in gravi condizioni. Gli attentati sono avvenuti poche ore dopo l’uccisione di un ragazzo palestinese, anche lui di 16 anni, avvenuta a Nablus, la 200^ vittima palestinese dall’inizio dell’anno, il 51° minore. Circa 30 gli israeliani uccisi nel 2022.
Gli attentati sono destinati a pesare sulla formazione del nuovo governo israeliano, con i leader di estrema destra che aumentano la pressione su Netanyahu per un esecutivo che agisca con il pugno di ferro contro le minacce “alla sicurezza di israele”.
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Gli attacchi turchi hanno ucciso 184 persone nel Kurdistan. Tra i morti 18 soldati siriani
della redazione
Pagine Esteri, 22 novembre 2022 – I sanguinosi attacchi turchi nel Kurdistan siriano e iracheno hanno causato dalla sera del 19 novembre almeno 184 morti. Lo ha affermato il ministro della difesa turco, Hulusi Akar, all’agenzia di stampa Anadolu, definendo “terroristi” i morti nei raid. Akar ha aggiunto che sono stati colpiti 89 obiettivi, inclusi rifugi, bunker, grotte, tunnel e magazzini appartenenti ai “gruppi terroristici” a Qandil e Hakurk nel nord dell’Iraq, e Kobane, Manbij, Zour Maghar, Tal Rifaat, Al Jazira e Al Malikiyah in Siria. Aree in cui si trovano postazioni sia dell’esercito regolare siriano sia delle Forze democratiche (Sdf) a maggioranza curda. L’aviazione e l’artiglieria di Ankara hanno anche martellato l’area a nord di Aleppo, nella Siria settentrionale, e una postazione militare siriana nel villaggio di Qarmough, a est di Kobane.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che l’operazione non si limiterà a “semplici raid aerei” e che chi provoca la Turchia ne pagherà le conseguenze. Da parte sua il ministro Hulusi Akar ha aggiunto “Faremo ciò che è necessario per far crollare le organizzazioni terroristiche del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e delle Unità curde di protezione del popolo (Ypg)”.
L’attacco turco è stato lanciato a circa una settimana dall’attentato che, il 13 novembre, ha colpito il centro di Istanbul provocando sei morti e 81 feriti. La Turchia ha accusato i curdi dell’attacco. Nonostante le smentite curde e l’opinione degli esperti che indicano in qualche gruppo jihadista il probabile responsabile dell’attentato, Erdogan ha colto l’occasione per prendere di nuovo di mira i curdi, suo bersaglio abituale.
Cresce nel frattempo la tensione tra Ankara e Damasco. È salito a 18 il numero di militari delle forze siriane governative uccisi durante gli attacchi lanciati dalla Turchia. In totale, il numero delle vittime provocate dai raid aerei in Siria ammonta a 37 ma il bilancio è destinato a salire per le gravi condizioni di alcuni feriti. La Russia alleata di Damasco ha inviato rinforzi militari nella periferia orientale di Aleppo. 25 veicoli e mezzi militari si sono diretti verso due basi militari nei pressi di Sarrin, nella Siria settentrionale, a sud di Kobane, e verso quella di Al Saidiyah, situata ad ovest della città di Manbij.
Intanto oggi ha preso nella capitale del Kazakhstan, Nur-Sultan, il 19mo round dei colloqui di Astana per la Siria, con la partecipazione dei rappresentanti dei tre Paesi promotori – Russia, Iran e Turchia – di due delegazioni siriane (governo e opposizione), dell’inviato dell’Onu , Geir Pedersen, e di Iraq, Libano e Giordania. Si discuterà soprattutto della situazione a livello economico, sociale e umanitario, oltre al progresso delle trattative. All’ordine del giorno ci sono anche il ritorno dei profughi siriani in Turchia, Libano e Giordania, la Commissione costituzionale e la stabilizzazione del cessate il fuoco nel nord-ovest della Siria. Pagine Esteri
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Conoscere per crescere. Conoscere per deliberare di Giuseppe Benedetto
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Conoscere per crescere. Conoscere per deliberare di Giuseppe BenedettoConoscere per deliberare è una delle più importanti massime del nostro eponimo. Non lasciarsi sfuggire l’opportunità di approfondire le inclinazioni personali, gli interessi e le skills nella scelta del proprio futuro formativo, professionale e lavorativo, è fondamentale per i giovani. “Conoscere per crescere” è il progetto ideato dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma per orientare gli studenti degli Istituti d’Istruzione Superiore Marconi di Civitavecchia e Dante Alighieri di Anagni nell’ambito dell’avviso pubblico della Regione Lazio “ORIENTARE” finanziato con il Programma Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+) 2021- 2027.
Approfondisci il progetto “Conoscere per crescere”
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"Giochi troppo!": il libro di Andrea Corinti è figlio del lockdown del 2020 ed è un invito alla riflessione su quanto il videogioco sia importante nelle nostre vite
Segnaliamo alla comunità di @Videogiochi qesto libro di @Xab :archlinux: in cui i videogiochi non vengono demonizzati ma raccontati in una chiave di lettura che, seppur scanzonata, vanta solidi studi e riferimenti alle spalle.
Seguono le interviste a tre videogiocatori molto particolari per provare a raccontare cosa sia il videogioco oggi, ipotizzando cosa potrebbe diventare domani.
Qui è possibile visitare il sito dell'autore e trovare i link per l'acquisto (purtroppo solo Amazon)
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La TAV per le merci è un business che non esiste: l'unica linea italiana chiude per inutilizzo.
"I costi di manutenzione risultavano troppo onerosi a fronte della domanda per questo tipo di servizio. La notizia è stata commentata dai No TAV come il segno dell’inutilità di queste opere, che richiedono un enorme dispendio di risorse, oltre che la devastazione del territorio, ma non risultano necessarie."
Lettera al direttore Claudio Cerasa – Il Foglio
Al direttore – Caro Carlo Calenda, caro Matteo Renzi. E’ trascorso un mese dalla nascita del governo Meloni, e l’avvio non è stato di quelli memorabili: molte concessioni alle platee di appartenenza, prime misure abborracciate e confuse, e un quotidiano conflitto intestino alla maggioranza – tra Meloni e Salvini – che non autorizza a sperare che in futuro le cose vadano meglio. Ma le opposizioni, come è evidente, non godono di migliore salute.
I Cinque stelle soffiano irresponsabilmente sul fuoco di tutti i No, ricevendo in cambio continue profferte di collaborazione da parte del Pd: una invidiabile rendita di posizione che certo non costruisce prospettive per il futuro.
Il Partito democratico è in preda alle sue imperscrutabili convulsioni precongressuali, combattuto tra gli animal spirits della componente postcomunista e la perenne vocazione dorotea delle correnti postdemocristiane.
Mentre i vostri partiti sono al momento impegnati in appuntamenti interni, che speriamo non diventino solo l’occasione per la nascita di altri apparati e nuove piccole nomenklature. Nelle aspirazioni di tanti, il progetto liberaldemocratico e riformista del Terzo polo non può che maturare attraverso un incessante slancio programmatico, innovativo e di rottura, con una leadership chiara, univoca e riconosciuta, e un continuo, strutturale apporto di competenze e professionalità esterne.
Questo non vuol dire rinunciare all’ambizione di costruire una solida struttura di partito. Ma che il partito sia uno, e si faccia al più presto, valorizzando nuove risorse sui territori e promuovendo dal basso gruppi dirigenti coesi e unitari
Questo è quanto vi chiediamo. Non c’è tempo da perdere. Non perché l’alternativa all’attuale stato di cose sia dietro l’angolo. Al contrario, è auspicabile che il paese goda di una fase di stabilità che permetta al governo scelto dagli elettori di affrontare le tante emergenze che abbiamo di fronte. Ma, allo stesso tempo, gli italiani devono sapere da subito che si sta costruendo il cantiere di un’alternativa di governo credibile e matura. Questo è il compito che spetta a voi. Non ci deludete. E sbrigatevi!
Ernesto Auci, Simona Benedettini, Giuseppe Benedetto, Umberto Contarello, Alberto De Bernardi, Biagio de Giovanni, Oscar Giannino, Paolo Macry, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Claudio Petruccioli, Sergio Scalpelli,Andrée Ruth Shammah, Chicco Testa, Claudio Velardi
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Ralf Dahrendorf Roundtable. Next Generation EU: Taking Stock
Più di un anno dopo il lancio del piano “Next Generation EU” da parte della Commissione europea, si rende necessario un nuovo “follow up” delle misure implementate finora dagli stati membri nel contesto dei rispettivi Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza: infatti, alla luce delle ingenti risorse impiegate nel fondo Next Generation EU, è giocoforza valutare la qualità e la rilevanza delle politiche domestiche. Particolare attenzione sarà data agli aspetti della digitalizzazione e della transizione ecologica.
In cooperazione con European Liberal Forum e con l’Università di Losofona (Lisbona), la Fondazione Luigi Einaudi ha organizzato una roundtable a Lisbona nella giornata del 24 novembre 2022, alla presenza, tra gli altri, di Ricardo Silvestre, Karolina Mickuté, Kristijan Kotarski, Milosz Hodun, Veronica Grembi.
Al termine dell’evento si provvederà a discutere una serie di policy recommendations volte a sottolineare le potenziali e auspicabili “best practices” di collaborazione tra i Paesi europei, anche alla luce degli esiti finora raggiunti ma non conclusi da ciascuno stato membro.
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William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (2a parte)
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 23 novembre 2022 – In The Sound and the Fury, la descrizione della situazione dei membri di una famiglia aristocratica in decadenza serve a raffigurare il declino del Sud degli Stati Uniti avvenuto a seguito della guerra di secessione americana. Faulkner scrisse infatti il romanzo per evidenziare il legame tra eventi storici traumatici e crisi esistenziali personali. In un articolo pubblicato nel 2000 sul Journal of Arabic Literature, Aida Azouqa nota che similmente la Nakba è all’origine dei problemi dei protagonisti di “Tutto ciò che vi resta”: Maryam, una donna dalla vita sentimentale tormentata – il cui ruolo nel racconto è simile a quello di Caddy in The Sound and the Fury – e il fratello sedicenne Hamid. Come numerosi romanzieri occidentali, Kanafani era stato chiaramente influenzato dal freudismo e dall’esistenzialismo; usò la tipica crisi identitaria adolescenziale per raffigurare quella nazionale dovuta alla diaspora palestinese, in questo romanzo in cui ritrae appunto un adolescente per rappresentare la nazione. I conflitti interiori ed esterni affrontati da Hamid evocano la confusione di un’epoca della Storia del popolo della Palestina; il Tempo è il grande nemico del fratello e della sorella la cui infanzia felice è ormai soltanto un ricordo del passato da quando vivono in un campo profughi lontano da Giaffa, dove abitavano in un bel quartiere residenziale moderno con la loro famiglia del ceto medio-alto. La vita infelice di Maryam, dovuta alla lontananza dalla madre, da cui avrebbe potuto ricevere buoni consigli, evitando di mettersi nei guai, conclude Azouqa, rappresenta la disgrazia subita da un’intera nazione.
D’altra parte, “Tutto ciò che vi resta” è forse il romanzo più autobiografico di Kanafani, che da bambino aveva frequentato una scuola missionaria francese a Giaffa, per volontà del padre, un avvocato e attivista nazionalista, che esercitava la professione in quella fiorente città palestinese benché fosse lontana da Acri. Quando poi nell’aprile del ’48 aveva lasciato la Palestina con la famiglia, trovando rifugio in un villaggio sulla frontiera libanese, il dodicenne Ghassan avrà avuto la sensazione che il suo mondo dell’infanzia fosse crollato. Il padre aveva scelto quel paesino come una sistemazione provvisoria, convinto di poter tornare presto a casa, ma dopo la fondazione d’Israele e il prolungarsi dell’attesa decise di trasferirsi con la famiglia a Damasco. Nella capitale siriana il giovane Ghassan dovette lavorare, passando da un mestiere all’altro, per completare l’istruzione secondaria. Nel 1953, iniziò a insegnare in una delle scuole dell’UNRWA, a conoscere direttamente la dura realtà dei campi profughi, a maturare una maggiore consapevolezza politica e il desiderio di contribuire alla causa nazionale del suo popolo. Poi da studente universitario partecipò al movimento studentesco, attivismo per cui fu espulso dall’Università di Damasco, e da qui la decisione di raggiungere la sorella e il fratello in Kuwait, dove erano emigrati come molti altri esuli palestinesi, attratti dalle opportunità di lavoro presenti nel paese petrolifero.
Dunque, l’adolescenza particolarmente difficile vissuta dallo scrittore, accompagnata da una crescente politicizzazione, è simile a quella di Hamid, il protagonista di “Tutto ciò che vi resta”, che molti esperti considerano inoltre come una sorta di ponte, essendo un romanzo che presenta temi o motivi ripresi dall’autore nella fase successiva della sua produzione letteraria, durante la quale si avvicinò maggiormente alla letteratura impegnata teorizzata da Sartre, rinunciando alla tecnica del flusso di coscienza del modello faulkneriano. Questo cambiamento è dovuto a un altro trauma collettivo, una seconda sconfitta, che portò Kanafani a voler dar voce in modo più chiaroalle istanze politiche del suo popolo.
L’arte narrativa dello scrittore fu inevitabilmente influenzata dalla Naksa (Ricaduta), la disfatta militare araba nella guerra lanciata da Israele il 5 giugno 1967, per occupare i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, le alture siriane del Golan e la Penisola del Sinai egiziana. Kanafani pubblicò, nell’anno seguente, il saggio “La letteratura palestinese della resistenza sotto occupazione, 1948-1968” 1 ; e nel 1969, il romanzo “Ritorno a Haifa” (2) . In quest’opera, l’autore descrive la situazione post-Naksa, per ricordare la Nakba e la Shoah, unendo la memoria storica delle tragedie dei due popoli. All’indomani della guerra di occupazione, le autorità israeliane effettivamente aprirono la frontiera tra Israele e i territori palestinesi appena occupati. Nel romanzo, il 30 giugno 1967, Said e la moglie Safiya partono in auto da Ramallah per andare a Haifa, dove non erano più potuti tornare dopo l’esodo di massa del 21 aprile 1948, provocato dall’aggressione compiuta dai miliziani sionisti con la complicità dei militari inglesi. Quel giorno lui e lei si trovavano per strada, l’uno lontano dall’altra, erano stati come risucchiati dalla folla di persone in fuga verso il porto durante il bombardamento, spinti su un’imbarcazione britannica e costretti a lasciare la città, senza avere avuto la possibilità di portare con sé il figlio di cinque mesi Khaldun, rimasto da solo a casa loro. È proprio nella speranza di ritrovarlo che i due protagonisti tornano a Haifa. Arrivati a destinazione, scoprono che la loro vecchia casa è abitata da una coppia di ebrei polacchi, Efrat e Miriam, divenuti i genitori adottivi di Khaldun, ora Dov, un soldato israeliano.
Kanafani riprese il modello faulkneriano, come lui stesso lo aveva rielaborato in “Uomini sotto il sole”, per creare appunto “Ritorno a Haifa”, in cui è fondamentale la retrospezione. Nel primo dei cinque capitoli del testo, Said e Safiya ricordano l’esodo coatto dalla città; e nel terzo, vengono esposti i fatti accaduti da quando Efrat e Miriam avevano lasciato Varsavia agli inizi del novembre del 1947, finché non si erano stabiliti, il 29 aprile del ’48, nella casa dei protagonisti palestinesi assenti, concessa agli stessi immigrati dall’Agenzia Ebraica a patto che adottassero il bambino ritrovato lì una settimana prima da una donna ebrea che abitava al piano superiore. La storia è narrata da un narratore esterno, e i punti di vista sono multipli in questo racconto, in cui l’autore ricostruisce e intreccia la memoria della Nakba con quella della Shoah. Il principio etico condiviso da tutti i personaggi, espresso nell’enunciato “all’ingiustizia non si pone rimedio con una nuova ingiustizia”, è il nodo centrale di un romanzo tematicamente complesso che unisce dati storici precisi riguardo al tragico conflitto tra i due popoli ad altri temi di portata universale, come l’amore genitoriale, la paternità, il patriottismo e l’idea stessa di patria. I genitori palestinesi sono gli sconfitti, i più deboli e sofferenti, eppure hanno la forza di ammettere i propri errori e le proprie debolezze, e di riconoscere perfino il dolore dell’altro. Nel romanzo, l’autore esprime una piena solidarietà con il popolo ebraico vittima delle persecuzioni naziste, rappresentato dalla coppia di ebrei polacchi appena sfuggiti all’Olocausto nel novembre del ‘47. Ma nel giugno del ’67, Efrat e Miriam rappresentano gli israeliani, i vincitori che, pur riconoscendo le sofferenze inferte ai palestinesi, trovano negli errori e nelle debolezze del popolo vinto un’autogiustificazione che li intrappola nelle loro stesse contraddizioni condensate nella figura di Khaldun/Dov. Il giovane educato all’odio, alla negazione della Nakba, chiuso nella sua crisi identitaria, è un figlio adottato/rubato/perduto, nato a Haifa pochi mesi prima che la città diventasse parte d’Israele come oltre la metà della Palestina. I genitori naturali si sentono in colpa per averlo abbandonato, pur sapendo di essere stati costretti a lasciarlo a casa da solo ancora lattante insieme alla loro terra.
Ancora una volta l’autore raffigura la relazione tra Spazio e Tempo nella Storia e la crisi identitaria di un adolescente associata a quella collettiva. Alla fine, però, Khaldun/Dov rappresenta la Nakba, un passato da dimenticare per Said e Safiya il cui figlio più giovane Khaled si è appena arruolato in un gruppo di fedayin per liberare il suo popolo. Lui è il presente e il futuro, conosce la propria identità e quella dei suoi genitori, che lo hanno cresciuto, raccontandogli la verità; quindi personifica la consapevolezza, l’autocoscienza nazionale, la rivoluzione, la salvezza della nazione. La crisi familiare non è però affatto risolta. I genitori, che hanno già perduto un figlio e non sopportano l’idea di perderne un altro, accettano con grande amarezza la decisione di Khaled di sacrificarsi per la patria. È altrettanto amara la constatazione che i due fratelli, entrambi vissuti sotto il peso di un destino crudele, potrebbero combattere l’uno contro l’altro. Solo la pace li può salvare.
In questo terzo romanzo di Kanafani, lo stile è più lineare, e il messaggio politico più esplicito, il che è tipico della letteratura palestinese della resistenza, nell’ambito della quale i sentimenti di rabbia e frustrazione vengono mitigati o addirittura soppiantati da una volontà di riscatto, alimentata dalla speranza nella possibilità di cambiare la situazione. Su “Ritorno a Haifa” si basano un omonimo film, del 1982, girato in Libano dal regista iracheno Kassem Hawal (n. 1940), e un altro, del 1995, intitolato “Il sopravvissuto”, diretto dal cineasta iraniano Seifollah Dad (1955-2009). Lo stesso romanzo ha inoltre ispirato diversi spettacoli teatrali presentati in vari paesi del mondo.
Per quanto riguarda invece “Gli ingannati”, l’adattamento di “Uomini sotto il sole”, Saleh cambiò non solo il titolo ma anche il finale dell’opera originale; nel film infatti i tre protagonisti bussano alle pareti della cisterna (3) . La loro richiesta d’aiuto rimane però inascoltata. Il regista egiziano, ideologicamente marxista, espresse così la propria rabbia nei confronti dei regimi arabi responsabili della Naksa, una seconda sconfitta che in ambito culturale stimolò da un lato l’impegno a registrare la memoria della Nakba e dall’altro una volontà di ribellarsi in generale, particolarmente spiccata nella cultura giovanile dell’epoca. In un articolo pubblicato nel 1976 sul periodico British Society for Middle Eastern Studies Bulletin, Hillary Kilpatrick ricorda che Kanafani vide il film e approvò il cambiamento del finale per il messaggio politico che veicolava; inoltre lo considerava una sorta di aggiornamento storico necessario. La passività dei protagonisti del romanzo ormai contrastava con la lotta armata che i profughi palestinesi stavano conducendo sin dagli anni ’60. Kanafani dava grande importanza all’arte, si identificava anzitutto come un artista, riteneva che lo scopo della letteratura fosse di contribuire alla trasformazione della società, ma come romanziere lui preferivaconcentrarsi sull’individuo, basandosi sulla propria esperienza personale e su quella delle persone che conosceva.
Questo atteggiamento letterario e politico dello scrittore palestinese spiega ulteriormente la sua predilezione per il modello faulkneriano. Va poi ricordato che, sempre nel 1969, Kanafani pubblicò “Umm Saad” (4) ; in questo caso, la narrazione è in prima persona, ma il narratore – che sembra essere l’autore reale – racconta la storia di un altro personaggio, una figura femminile veramente esistita. La protagonista del romanzo è una donna resiliente, una contadina sulla quarantina abituata al duro lavoro nei campi; rappresenta la resistenza palestinese e addirittura la Palestina stessa i cui figli l’avevano sempre coltivata e ora lottano per liberarla e tornare da lei. Umm Saad è la madre di tutti loro. Sembra che Kanafani abbia scritto questo romanzo dall’atmosfera fiabesca, per esporre in forma artistica le idee che aveva espresso nel già citato saggio sulla letteratura palestinese della resistenza. Nel libro dice infatti che il suo popolo aveva iniziato a lottare per liberare la patria difendendola dal colonialismo sionista sin dall’epoca del mandato britannico sulla Palestina. L’autore si concentra sui contadini palestinesi che in passato avevano sofferto per la vendita dei terreni ai coloni da parte dei latifondisti e dopo la Nakba soffrivano vivendo nei campi profughi.
In “Umm Saad”, il narratore del racconto sembra quasi un cantastorie moderno. Descrivendo la vicenda della protagonista, presenta man mano altri personaggi, di cui lei gli parla e così nasce di volta in volta una storia nella storia. Ciò spiega ancor più la frammentazione del racconto, un espediente narrativo generalmente volto anche a raffigurare la disgregazione sociale che caratterizza le società contemporanee, e di cui Kanafani si serviva per rappresentare la diaspora palestinese. Lo scrittore cercò nuove modalità artistiche per veicolare un messaggio rivoluzionario tramite questo breve romanzo, che scrisse attingendo alla letteratura popolare araba, senza però rinunciare a certe tecniche moderniste, e specialmente ai punti di vista multipli. L’autore riuscì a esprimere la propria creatività, fondendo perfettamente tradizione e modernità in “Umm Saad”, un’opera intrisa di quel tipico ottimismo che è la vera linfa della resilienza del popolo palestinese. È inoltre interessante ricordare che in un’intervista rilasciata al quotidiano kuwaitiano al-Siyāsa (La politica) durante questa seconda fase spiccatamente politicizzata della sua produzione narrativa, Kanafani dichiarò: “Per quanto mi riguarda, la politica e il romanzo sono tutt’uno e posso categoricamente affermare di essere diventato politicamente impegnato, perché sono un romanziere, e non viceversa”. Pagine Esteri
La prima parte dell’articolo di Patrizia Zanelli è a questo link:
CULTURA. William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1a parte)
pagineesteri.it/2022/11/16/in-…
NOTE
1) Kanafani scrisse questo saggio letterario per completare un altro dal titolo simile pubblicato sempre nel ’68 e che ricopre il periodo 1948-1966.
2) Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
3) Il film “Gli ingannati” (al-Makhdū‘ūn) è noto anche col titolo inglese “The Dupes”.
4) Ghassan Kanafani, Umm Saad, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.
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Qatar, i Mondiali della vergogna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 novembre 2022 – «Gli alimenti non sono freschi. Puzzano già quando arrivano, ma bisogna mangiarli (…) L’acqua da bere era molto sporca, per bere quella di qualità bisogna avere i soldi. Noi bevevamo acqua sporca… e ti vengono malattie ai reni, calcoli. Il denaro che ho guadagnato l’ho speso all’ospedale» racconta un lavoratore nepalese, reduce da un lungo periodo in Qatar, intervistato nel suo paese da “La Media Inglesa” nel documentario “Qatar: el mundial a sus pies”. «Trasportavo, da solo, 300 o 400 sacchi ogni giorno. Non potevamo mai riposare, le guardie non ce lo permettevano» racconta un altro manovale. Questo anche per 12 ore al giorno, esposti a temperature che arrivano sovente a 50°.
Sportwashing
Lavoro forzato, caldo, morti sul lavoro, maltrattamenti: i racconti dei lavoratori e delle lavoratrici straniere sono spesso una fotocopia l’uno dell’altro. E i rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani riportano in maniera unanime una situazione caratterizzata da una violazione sistematica.
Eppure, il 20 novembre nel piccolo emirato si aprirà la ventiduesima edizione della Coppa del Mondo di calcio maschile. Per quanto, dopo anni di parziali silenzi, i media di tutto il mondo stiano finalmente rivelando il contesto in cui 32 squadre si sfideranno per la conquista del più ambito dei trofei, i timidi tentativi di boicottaggiodella competizione non hanno sortito gli effetti sperati e la kermesse andrà in onda per un mese, catalizzando l’attenzione di miliardi di persone.
Un’enorme vetrina internazionale per la petromonarchia qatariota, che sull’evento ha investito – non sempre in maniera limpida e legale – miliardi di euro al fine di rendere possibile una formidabile occasione di sportwashing che accrediti Doha come potenza mondiale dello sport e non solo.
Da quando nel 2010 riuscì ad aggiudicarsi il ballottaggio contro gli Stati Uniti – 16 dei 22 grandi elettori della Fifa, nel frattempo, hanno o hanno avuto a che fare con la giustizia per vicende di corruzione – ottenendo la possibilità di ospitare la prestigiosissima competizione, il piccolo ma incredibilmente ricco Qatar ha fatto molta strada.
Con soli 3 milioni di abitanti, Doha occupa il 55esimo posto nella classifica del FMI con un Pil di 221 miliardi di dollari. Sempre secondo il Fondo Monetario, i cittadini possono contare su un reddito pro capite di quasi 83 mila dollari, il decimo più alto al mondo (in classifica è tra le Isole Caiman e Singapore). Questa grande ricchezza è in gran parte dovuta al fatto che il paese detiene il 15% delle riserve mondiali di gas naturale, terzo al mondo alle spalle di Russia e Iran.
Dal 2017 l’emirato ha dovuto subire un certo isolamento da parte dei suoi soci del Consiglio di Cooperazione del Golfo che, guidati dall’Arabia Saudita, lo hanno sottoposto ad un duro embargo commerciale, accusando la tv satellitare Al Jazeera di fomentare il terrorismo e spingere i popoli del Medio Oriente alla rivolta contro i propri regimi. Dopo che Doha si è legata a doppio filo ad Ankara in nome della comune adesione alla Fratellanza Musulmana – un contingente militare turco è incaricato della sicurezza del piccolo petrostato – Riad e soci hanno deciso di concludere l’assedio e il Qatar arriva all’appuntamento dei mondiali al massimo della sua influenza.
Per dotarsi delle infrastrutture necessarie ad ospitare i Mondiali di Calcio il Qatar ha speso l’esorbitante cifra di 229 miliardi di dollari, un valore equivalente al proprio Pil annuale.
Un sistema basato sull’apartheid
Il sistema sociale e politico della petromonarchia, governata col pugno di ferro dall’emiro Cheikh Tamim bin Hamad Al Thani (la cui dinastia regna ininterrottamente dalla metà del XIX secolo) si fonda su una netta separazione tra i cittadini autoctoni e gli immigrati, che costituiscono il 95% circa della forza lavoro complessiva, e sulla discriminazione totale di questi ultimi.
Il 79,6% della popolazione attuale del paese (alcune fonti parlano addirittura dell’85%) è costituita da immigrati provenienti dall’India (la comunità più grande con 700 mila membri), dal Bangladesh, dall’Indonesia, dal Nepal, dal Pakistan, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e da alcuni paesi africani come il Kenya.
Ovviamente sono stati centinaia di migliaia di migranti a costruire le mirabolanti infrastrutture di cui il Qatar si è dotato negli ultimi 12 anni: 7 stadi (climatizzati!), un nuovo aeroporto, una rete ferroviaria ad hoc, grattacieli, strade, autostrade, hotel e Lusail, una città costruita dal nulla nel deserto sulla costa orientale.
Prima dell’assegnazione dei Mondiali, il Qatar contava meno di un milione di abitanti. Dal 2010, attratti dal miraggio di uno stipendio – 7-800 euro – in grado di consentirgli di sfamare le proprie famiglie, milioni di lavoratori sono arrivati in Qatar da vari paesi per scoprire che le condizioni di lavoro e le retribuzioni non erano affatto quelle promesse.
La kafala
Centinaia di migliaia di immigrati – manovali, operai, vigilantes, inservienti, domestici – sono caduti nella rete della kafala, un sistema di “patrocinio” – vigente in molti paesi della Penisola Arabica e del Medio Oriente – da parte delle imprese che permette ai lavoratori stranieri di accedere al paese, ottenere il permesso di residenza temporanea e quello di lavoro. Il sistema della kafala, affermatosi negli ultimi 50 anni, assogetta i lavoratori stranieri ad una condizione semi-schiavile, privandoli dei più elementari diritti: al loro arrivo gli viene confiscato il passaporto in modo che non possano cambiare lavoro né tantomeno allontanarsi dal paese, se non dopo aver ottenuto l’approvazione del padrone. In questa condizione le aziende impongono condizioni di lavoro disumane, contando anche sul fatto che i cittadini stranieri in Qatar non possono affiliarsi ai sindacati. I reportage di numerosi media e i rapporti delle organizzazioni umanitarie internazionali hanno documentato orari di lavoro anche di 14-16 ore al giorno per retribuzioni medie di 200 euro – che spesso non vengono corrisposte affatto o lo sono con mesi di ritardo; turni di lavoro di sette giorni a settimana senza giorno di riposo; lavoratori alloggiati in tuguri sporchi e striminziti; maltrattamenti; licenziamenti e rimpatri arbitrari; aggressioni; violenze sessuali.
Nel 2020, dopo anni di pressioni e denunce e quando comunque la maggior parte delle infrastrutture per il mondiale erano state completate, il Qatar ha approvato due leggi per “umanizzare” questa moderna forma di schiavitù, permettendo in alcune condizioni ai lavoratori migranti di cambiare lavoro o di abbandonare il paese senza il consenso dell’azienda, fissando un salario minimo (circa 250 euro) e regolamentando in maniera più precisa gli orari di lavoro. La legislazione ha anche inasprito le regole per evitare l’esposizione dei lavoratori a temperature troppo elevate e teoricamente dal primo giugno al 15 settembre è vietato lavorare all’aperto.
Se applicate capillarmente, le nuove leggi potrebbero contrastare efficacamente il sistema della kafala, ma nonostante le rassicurazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (agenzia dell’Onu basata proprio a Doha) Amnesty International e Human Rights Watch continuano a documentare abusi sistematici contro i lavoratori stranieri.
I cantieri, un bagno di sangue
La realizzazione delle strabilianti infrastrutture del Mondiale è costata un vero e proprio bagno di sangue. Le autorità qatariote forniscono un bilancio di pochi morti sul lavoro certificati, ma la realtà è ben diversa. Nel febbraio del 2021 un reportage del Guardian parlò di 6500 morti considerando solo alcune delle comunità immigrate nella petromonarchia. Altre fonti azzardano addirittura cifre ancora più spaventose, come Amnesty che dal 2010 al 2019 documenta 15 mila decessi. Si tratta ovviamente di stime, non suffragate da documenti ufficiali che Doha si guarda bene dal fornire. E a chi tenta di indagare le autorità del petrostato non rendono le cose facili: nel novembre del 2021 due giornalisti norvegesi che realizzavano un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nei cantieri dei mondiali sono stati arrestati per 30 ore e tutto il girato è stato cancellato prima della loro espulsione.
Secondo il Guardian, «un documento proveniente dal servizio legale del governo qatariota raccomandava di commissionare uno studio sulle numerose morti per arresto cardiaco dei lavoratori migranti, e di varare una legge che permettesse di fare autopsie in tutti i casi di morti improvvise o inaspettate sul lavoro, ma nessuno di questi provvedimenti è stato adottato».
A queste già drammatiche cifre vanno aggiunte quelle riguardanti gli infortuni, i suicidi e le migliaia di lavoratori stranieri tornati a casa con gravi patologie sviluppate a causa delle condizioni di lavoro alle quali sono stati sottoposti.
Una monarchia assoluta fondata sulla discriminazione
Non sono solo i lavoratori stranieri a subire la violenza del sistema. La monarchia assoluta, che non ammette l’esistenza di partiti politici ed esercita una ferrea censura sulla stampa, secondo un rapporto di Human Rights Watch «applica un sistema discriminatorio di tutela maschile che nega alle donne il diritto a prendere decisioni fondamentali sulle proprie vite».
Tempo fa Nasser Al-Khater, l’amministratore delegato del Mondiale, ha minacciato nel corso di una conferenza stampa: «chiunque sventoli una bandiera del movimento LGBTIQ+ potrà essere condannato a pena tra i 7 e gli 11 anni di carcere» salvo poi affermare che in Qatar «tutti sono ben accolti, ma devono rispettare la cultura e le tradizioni del paese». Ma poi l’ambasciatore dell’evento, Khalid Salman, nel corso di un’intervista alla tv tedesca Zdf ha definito l’omosessualità «un danno psichico».
Anche tralasciando le preoccupazioni sull’impatto ambientale della kermesse calcistica qatariota (ben documentate ad esempio in questo articolo), la definizione di “mondiali della vergogna” è più che giustificata. Vergogna per le autorità del Qatar, che respingono le accuse e le denunce parlando di una campagna di calunnie contro il Qatar. Ma vergogna anche per un sistema sportivo, mediatico ed economico internazionale che nasconde la polvere sotto il tappeto in nome dell’enorme occasione di business e di legittimazione politica che il Mondiale di Calcio rappresenta. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
LINK E APPROFONDIMENTI:
amnesty.it/qatar-lavoratori-mi…
hrw.org/es/news/2021/03/29/qat…
indianexpress.com/article/expr…
theguardian.com/global-develop…
apnews.com/article/world-cup-s…
L'articolo Qatar, i Mondiali della vergogna proviene da Pagine Esteri.
I social network sono morti. Come si crea un'alternativa vera? L'articolo di di Edward Ongweso Jr su Vice
Segnaliamo a tutta la comunità de @Le Alternative questo articolo molto interessante comparso su Vice e segnalato su mastodon da @Chiara [Ainur] [Айнұр]
La "crisi di Twitter" ha infatti messo in ombra la crisi di Facebook, i suoi licenziamenti, il mancato ROI sul Metaverso, la sua irrilevanza per le elezioni di mid term e il Vietnam globale che i suoi prodotti di punta (Whatsapp e Instagram) stanno subendo da Telegram e soprattutto da TikTok.
Ma la crisi dei social è una realtà.
I cosiddetti “social media” sono pensati per consumo e pubblicità, non per le persone. Ora che stanno crollando, come si crea un’alternativa vera?
Articolo di Edward #Ongweso Jr, Trad. Di Giacomo Stefanini e Giulia Trincardi, su #Vice
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#uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve.
Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. Gli italiani vogliono fatti e non promesse.
da Corriere della Sera, 6 giugno 1919
L'articolo #uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Mondiali: ambiguità e razzismo … non solo qatarioti
Come all'epoca delle piramidi e alle latitudini europee: migranti morti in tanti, pagati poco, ma, si dice per nettarsi la coscienza, per quanto mal pagati, per loro è molto, e quando tornano a casa sono ricchi per gli standard locali
L'articolo Mondiali: ambiguità e razzismo … non solo qatarioti proviene da L'Indro.
0ut1°°k
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •@videogiochi
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in reply to 0ut1°°k • •@0ut1°°k intanto ti ringrazio perché solo grazie alla tua segnalazione mi sono accorto che non avevo scritto la chiocciola prima del nickname @Xab :archlinux: che avevo usato nel testo del messaggio friendica!
Quanto al nickname che vedi nel messaggio, ti spiego due cose che solo alcuni utenti conoscono:
1) quello che ti vedi come messaggio è in realtà il titolo di un post #Friendica. Friendica ti dà la possibilità di scrivere post con il titolo o senza titolo. Se li scrivi senza titolo gli utenti mastodon li vedranno normalmente, anche se sono più lunghi di 500 caratteri; se li scrivi con il titolo invece gli utenti mastodon vedranno "Testo del titolo + Link con il resto del messaggio"; se però da Friendica voglio aprire un nuovo post su Lemmy (una specie di Reddit) allora sarò costretto a scrivere un titolo... Ed è quello che ho fatto
2) I thread aperti su feddit.it vengono rilanciati automaticamente su Twitter. Se scrivo i nickname twitter degli utenti citati nel post, allora essi verranno menzionati anche su twitter.., Ecco perché ho scritto il nickname di Andrea in quel modo. Quando la pubblicazione su twitter sarà avvenuta, posso anche modificare il titolo inserendo il nome giusto.
@Xab
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in reply to 0ut1°°k • •(e tra qualche minuto potrete vedere le modifiche anche voi #povery microbloggerz che siete su mastodon 🤣🤣🤣)
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0ut1°°k
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •@xabacadabra questo è bullismo degli utenti friendica verso gli utenti mastodon!
Adesso segnalo il tuo messaggio al tuo amministratore... Ah no. Ora che ci penso non posso farlo, perché Friendica poverina non ha ancora un sistema per gestire le segnalazioni 😈😈😈🤣🤣🤣
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Xab
Unknown parent • • •@unruhe perché non avevo abbastanza autostima per trovarmi un editore ed era l'autoproduzione più conveniente ahimè (non ne vado fiero confesso)
Prima o poi mi piacerebbe fare la versione ebook, appena ho un po' di tempo ci ragiono anche per gestire immagini e grafici
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