"La nozione di occupabilità viene parametrata nel contesto familiare dimenticando che la presenza in una famiglia di soggetti lavorativi con contratti a poche ore non determina l’emersione dalla povertà, i poveri ormai non sono solo gli inoccupati ma anche lavoratori precari con salari da fame e la condizione di miseria e precarietà riguarda l’intero nucleo familiare.
La nozione di occupabilità della destra è solo funzionale a tagliare il Rdc diminuendone i percettori e i mesi dell’assegno, non guarda alla sostanza del mercato del lavoro e all’assenza di politiche attive, resta indisponibile ad una nuova leva di lavori socialmente utili finanziati dallo Stato per la cura e manutenzione della persona e del territorio.
Per questo si alimentano campagne di odio contro i nuovi fannulloni (un tempo erano i dipendenti della PA oggi sono i percettori del Reddito) nell’ottica di restituire i fondi destinati agli ultimi con il Rdc ad altre fasce delle popolazioni, quelle decisamente non ascrivibili alle classi sociali meno abbienti. "
Perù: l’oligarchia rovescia il Presidente Castillo
Il 6 giugno 2021 è stato un giorno che ha scioccato molti nell’oligarchia peruviana. Pedro Castillo Terrones, un insegnante rurale mai eletto prima, ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali con poco più del 50,13% dei voti. Più di 8,8 milioni di persone hanno votato per il programma di profonde riforme sociali di Castillo […]
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Arabia Saudita – Cina: quando Xi Jinping arriva a Ryad
Gli onori e le circostanze sono importanti. Come sono molteplici gli accordi da firmare durante la visita del Presidente cinese Xi Jinping in Arabia Saudita questa settimana, il suo primo viaggio oltre l’Asia orientale e centrale in tre anni. Senza dubbio, l’accoglienza verso Xi sarà pari a quella di Donald J. Trump quando si recò in Arabia […]
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Borsa: canapa, luci e ombre sia per USA sia per Canada
Entrambe le principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, cioè Canada e USA, chiudono con luci ed ombre, in generale regna un clima depressivo e i segni sono negativi, sebbene non manchi qualche sprazzo in positivo. Tutto ciò dimostra ancora una volta quanta volatilità ci sia sulle piazze borsistiche internazionali. La Borsa […]
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Sesso libero
Le dittature sanno di non potere possedere le teste, quindi ci provano con le mutande e il sesso. Sanno che l’aspirazione alla libertà è insopprimibile e universale
La forza bruta fa cilecca con i pensieri, ma si può imporre sui costumi. Non posso impedirti di sognare, ma posso reprimere i tuoi sogni, i tuoi desideri, le tue attrazioni. E reprimendo quelli t’insegno a rinunciare alla libertà. In questo sono tutti uguali.
La persecuzione degli omosessuali, a cura del regime castrista cubano, non era la scusa per arrestare uno scrittore (Reinaldo Arenas) e distruggere le sue opere, ma un modo per insegnare a non pensarsi liberi. L’ossessione di deviati come il patriarca russo Kirill, le leggi russe contro l’omosessualità, la maniacale riaffermazione di una cosa mai esistita, ovvero la “famiglia tradizionale”, non sono modi per non farsi contagiare dalla “decadenza occidentale”, ma per insegnare a non guardare al mondo libero e castrare i desideri. L’Indonesia che condanna il sesso fuori dal matrimonio e l’Iran che assassina chi scopre una ciocca o protesta contro l’assassinio non stanno salvaguardando la purezza, ma provando a far vivere la dittatura uccidendo la libertà.
È accademica e surreale la discussione se la storia abbia una direzione di marcia e un qualche approdo designato, tanto più che noi siamo il futuro dei nostri antenati e gli antenati degli umani futuri, ma la ricerca della libertà non ha mai fine e non conosce confine. Chiunque stia lottando per la libertà, sia anche quella delle proprie mutande, è un fratello da sostenere.
Da noi, nel nostro mondo mai stato così ricco e libero, tendiamo a dimenticarlo. A dare la libertà per assodata. Taluni si sono convinti che la si difenda mettendo presidi alle declinazioni o moltiplicando i generi o condannando la parola. Troppi, nel cadere in questo grossolano errore, in quel “politicamente corretto” che è solo politicamente inconsistente, ci mettono lo zelo di ottusi patriarchi e ayatollah.
Eppure un problema si pone, al nostro mondo: si può essere liberi anche dalla natura? Sì, si può, ad esempio separando l’eros dalla procreazione. Evviva. Ma possiamo anche liberare la procreazione dall’eros? Più scivoloso. Aiutare la fertilità è un conto, bypassarla un altro. Qui si torna a principi antichi: se la mia libertà comporta l’altrui subordinazione o uso strumentale, allora non è una libertà, ma una sopraffazione. Dovremmo discuterne senza pregiudizi, occupandoci del merito e non dei tabù. Che rimangono anche nel nostro mondo libero, giacché connaturati all’umano. Negare un tabù non significa averci fatto i conti, così come usare concetti offensivi o il turpiloquio non significa opporsi al politicamente corretto. Anche perché si rischia di far confusione.
In Italia può già essere riconosciuto, nell’interesse del minore, un “genitore” dello steso sesso di quello naturale. Esempio: il primo è rimasto solo (non ci interessa qui perché), ha un figlio minore e convive con una persona dello stesso sesso, a quel punto per il minore non cambia nulla, ma se il primo finisce sotto a un treno resterebbe solo, ove non si riconoscesse la posizione dell’altro. Sentenze già in giudicato. È importante l’omogeneità in Unione europea, perché, potendomi liberamente muovere (evviva), non sia genitore in un Paese e sospettato di pedofilia in un altro, se provo a portare il bambino nella mia stessa camera d’albergo.
Sono cose da affrontarsi con concretezza e lucidità. Capita, invece, che taluno viva da noi in libertà e voglia usare gli argomenti degli invasati dominatori di mutande. L’esito è noto, da quelle parti.
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Ucraina: il ruggito dei giovani dello Shakhtar
Il gigante del calcio ucraino Shakhtar Donetsk ha sorpreso molti esperti in questa stagione registrando la migliore prestazione del club in UEFA Champions League negli ultimi anni, nonostante l’esilio in tempo di guerra e un esodo di massa di fuoriclasse. Il segreto del successo dello Shakhtar è stato affidarsi ai giovani talenti ucraini e a […]
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Quando il denaro non è più un peccato
Qualche giorno fa ho ricevuto l’invito da parte della Caritas ambrosiana di ‘dare una mano’ per prendersi cura delle fasce fragili (individui e famiglie) tramite il finanziamento del ‘Progetto bolletta sospesa’. Donare un supporto economico, evitando ‘la logica del paternalismo generoso o della filantropia ostentata che non permette”, essendo un insieme di iniziative spot, di dare […]
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LibSpace con Alessandro De Nicola
Prodotti a base di cannabis: la rilevanza del re-branding
Un marchio forte può dare alle aziende riconoscimento del nome e longevità – una considerazione chiave per le aziende di marijuana che si espandono in Stati con mercati recentemente regolamentati. Le aziende si sottopongono a rebranding per una miriade di motivi, ma farlo nel modo giusto è una sfida. La Conferenza delle Nazioni Unite sul […]
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Ucraina: pace o business ?
L’attuale e drammatica guerra in Ucraina sembra sempre di più un nodo gordiano che i contendenti – Russia da una parte ed Ucraina ed USA dall’altra uniti con i cobelligeranti dell’Unione Europea, sotto la bandiera NATO- non sembrano volere sciogliere anche se compaiono ogni tanto limitate voci di pace. Il dramma della guerra colpisce, oltre alla […]
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56º rapporto CENSIS: italiani insicuri e divisi
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Come ho detto nei giorni scorsi, il Rapporto Censis 2022 rinsalda, conferma ed accentua tendenze in atto nel paese […]
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Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti.
Info ▶️ https://www.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti. Info ▶️ https://www.Telegram
La Libertà
“Non c’è sentenza senza giustizia e non c’è giustizia in Iran.”
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Il peccato neoliberista
In qualsiasi partito, un nuovo gruppo dirigente deve cercare di affermare, assieme con se stesso, un’identità, un catalogo di proposte, alcuni simboli politici. La sinistra del Partito democratico però non è un gruppo dirigente particolarmente nuovo, si tratta solo della generazione attuale della “ditta” che a malincuore ha accettato le capriole consonantiche che l’hanno portata da Pds a Ds a Pd. Le sue proposte si riducono, in buona sostanza, a una: superare il “neoliberismo” di cui sarebbe intriso lo stesso manifesto dei valori del Pd, scritto nel 2007.
La sinistra è, non solo in Italia, sempre più “sinistra”. Essendo l’unica parte politica che viva in un rapporto osmotico coi propri intellettuali, è destinata a somigliare al racconto che essi ne fanno. Avviene anche al Pd, che pure là dove governa in modo più saldo (in Emilia-Romagna, in Toscana) è occupato a venire alle prese coi problemi del mondo anziché stupire con effetti speciali. La sua narrazione “nazionale” è tutta diversa. Perché non corrisponde al partito degli amministratori, bensì a quello dei chierici.
La sinistra è da sempre la parte politica che offre al ceto intellettuale la più straordinaria opportunità di mutazione. “I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. Generazioni d’intellettuali hanno guardato al “moro” di Treviri come in defettibile modello. Che avessero letto il primo libro del “Capitale”, o più probabilmente “Il socialismo dall’utopia alla scienza” di Engels, si inebriavano della conquista inattesa di una grande verità: aver scoperto in che direzione si muove la storia, mica poco. Ma hanno cercato di anticiparla, la storia, di forzarla sui suoi pretesi binari, sicuri che solo un’avanguardia intellettuale potesse fare avvertire al proletario il peso delle sue catene.
Da alcuni anni in qua, i chierici hanno formulato una diagnosi chiara sui guasti della sinistra: la sinistra perde perché ha smarrito il legame con la classe operaia. Sul declino del voto “di classe”, ovvero sull’attenuazione del nesso fra condizione sociale di appartenenza e preferenza politica, c’è un intenso dibattito internazionale. Rimanendo all’interno dei nostri confini, possiamo ricordare come già negli anni Novanta si osservasse un travaso verso la Lega del voto operaio al nord e come, negli anni Duemila, il voto operaio fosse già diviso grosso modo equamente fra destra e sinistra, mentre le regioni a più elevata “intensità” industriale votavano per la destra. Alle ultime elezioni è stato FdIa
primeggiare fra gli operai, seguito da Cinque stelle e Lega.
Il fenomeno dello scollamento fra classe sociale e preferenze politiche andrebbe indagato nelle sue diverse dimensioni. Qualcuno potrebbe dire che è una buona notizia: a suo modo segnala il maggior benessere raggiunto nella società tutta, grazie al quale cambiano le priorità degli elettori. Altri potrebbero biasimare la prevalenza della politica dell’identità, del dato culturale, che è poi la ragione per cui posizioni conservatrici vengono sposate da persone più umili e affezionate ai punti cardinali del passato, mentre fra gli individui a più alto reddito prevalgono orientamenti più cosmopoliti e mentalità più aperte.
L’impressione è che per i chierici la perdita del voto operaio sia un’utile scusa per aprire i rubinetti della nostalgia. Per rappresentare gli operai, che c’è di meglio che dire le cose che dicevamo, quando effettivamente votavano per noi? Per gli intellettuali, era un’epoca d’oro: quella in cui le loro parole cambiavano davvero, se non il mondo, almeno le mozioni congressuali. Per questo a quelle parole, rivedute e corrette, sono tornati, seguendo le star della sinistra internazionale (da Piketty in giù). L’enfasi sul tema delle diseguaglianze, i propositi di sabotaggio di ogni residuo di libertà contrattuale nelle relazioni industriali, l’ambientalismo, il disegno di una bellicosa politica industriale, eccetera, non sono una delle due strade che il gruppo dirigente del Pd può cogliere, in una sorta di congresso redde rationem sull’identità del partito.
Sono un sentiero che quel medesimo partito calca da anni e con piena convinzione. Anziché mettere in discussione l’effettivo gradimento dell’elettorato per queste proposte, anziché chiedersi se davvero intercettino i problemi del paese, anziché domandarsi se forse il Pd non abbia perso la sua “vocazione maggioritaria” perché è diventato assieme il partito “del governo” e del pubblico impiego, i chierici e i loro discepoli sostengono che ogni problema del partito venga da un peccato originale. L’iniziale “neoliberismo”. Ma qual è il fantasma del
neoliberismo, di cui si vorrebbe sbarazzare?
E’ vero che in Italia, per alcuni anni, è stata la sinistra a promuovere politiche di “modernizzazione”, tese ad avvicinare il paese alle altre liberaldemocrazie a economia di mercato. Ciò è avvenuto soprattutto nella legislatura del centrosinistra, 1996-2001. Le circostanze erano eccezionali. In primo luogo, il vecchio partito della sinistra italiana, il Pci, era riuscito ad abbandonare nome e simbolo senza alcuna “revisione” ideologica: ma attraverso una “svolta”, per cui si immaginava che non ci fossero nodi da sciogliere né questioni da chiarire. A ciò corrispose una accresciuta disponibilità a seguire le tendenze prevalenti altrove.
Negli Stati Uniti Clinton, in Inghilterra Blair, avevano dovuto reinventare i rispettivi partiti alla luce del successo di Reagan e Thatcher. E siccome quel successo non si poteva negare, cercarono di venirci a patti, provando per esempio a usare incentivi economici e riforme “di mercato” per far funzionare lo stato sociale, rilanciandone legittimità e immagine (pensiamo al cosiddetto welfare to work ). In Italia,
un economista cattolico di formazione keynesiana, Beniamino Andreatta, meglio di altri aveva colto il nesso perverso fra partitocrazia, corruzione e aumento incontrollato della spesa pubblica. Dal cosiddetto “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro al referendum elettorale del 1992 all’accordo Andreatta-Van Miert, gli atti politici più rilevanti e lungimiranti dell’epoca si devono ad Andreatta.
La meta era chiara: una democrazia meno esposta alla corruzione, che consentisse l’alternanza fra partiti di governo. Quando ci arriva la sinistra, presidente del consiglio è un allievo di Andreatta, Romano Prodi, e ministro del Tesoro è Carlo Azeglio Ciampi. Le privatizzazioni di Telecom, Eni ed Enel, Autostrade, il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, risalgono a quegli anni. Era “neoliberismo”? E’ un po’ difficile sostenerlo, visto che al governo con Prodi c’era Bertinotti e con D’Alema e Amato ci rimase Cossutta. Ciampi si impegnò per un rassetto della spesa pubblica ma gli interventi rimasero marginali, nel segno della lotta agli sprechi e di una migliore organizzazione. C’era, senz’ altro, una componente numericamente esigua, ma pugnace, dell’allora maggioranza che avrebbe volentieri spinto sull’acceleratore “riformista”. Parola che, fateci caso, è scomparsa dal vocabolario della sinistra contemporanea, in una sorta di damnatio memoriae.
La sinistra che non si vergogna che nella sua storia politica ci sia l’aver fiancheggiato l’Unione Sovietica anche dopo i “fatti d’Ungheria”,
si vergogna di avere privatizzato Telecom. In che cosa credevano, i riformisti? La convinzione comune di quel gruppo era, grosso modo, che in un paese come l’Italia, dove non mancano le incrostazioni corporative, “liberalizzare” fosse la condizione magari non sufficiente ma necessaria per ampliare il ventaglio delle opportunità per tutti. Per avere un’idea della consistenza dei riformisti, basti ricordare che al congresso Ds del 2001 Enrico Morando, candidatosi segretario, prese poco più del 4 per cento dei voti. Piccole forze politiche e singole personalità eminenti esercitavano però maggiore condizionamento sugli ex comunisti allora, di quanto sarebbe avvenuto dalla nascita del Pd in poi.
E’ difficile sostenere che i riformisti fossero “neoliberisti”. Diciamo che erano socialisti “colpiti dalla realtà”. Qualcuno di loro civettava di aver accettato l’economia di mercato per disperazione: la disperazione di vivere nel paese col più formidabile repertorio di fallimenti dello stato di tutto l’occidente. Altri inquadravano la loro adesione all’economia di mercato nell’ambito di una battaglia di modernizzazione e legalità: separare politica ed economia, facendo in modo che lo stato smettesse di gestire la gran parte della vita economica del paese, era necessario per diluire la corruzione degli apparati pubblici.
E’ la tesi che, senza trovare interlocutori, ha riproposto Giuliano Amato nel suo “Bentornato stato, ma” (il Mulino). Altri ancora semplicemente dovevano ammettere che a quel tanto o a quel poco di “liberismo” rimasto in occidente si doveva una produzione di ricchezza talmente straordinaria, da consentire la sopravvivenza di elefantiaci apparati statali. Teniamo da conto la pecora, proprio perché vogliamo tosarla.
Il manifesto dei valori del Pd, dovuto a una commissione presieduta da Alfredo Reichlin (non certo un neoliberista), di queste cose indubbiamente teneva conto. Ed è vero che letto oggi, e paragonato alla retorica prevalente nell’odierno Pd, sembra una traduzione da qualche think tank americano. Mirava a realizzare un “partito aperto nel mondo globalizzato”. L’idea di fondo era che “negli scenari complessi del mondo globalizzato non esistono solamente nuovi problemi, ma anche nuove opportunità”. Opportunità era una parola cruciale, da declinarsi nella cornice dello stato sociale ma in un’ottica di empowerment , di “attrezzamento” dei singoli individui. La vocazione maggioritaria si vedeva nel fare a meno di certe parole amate dai chierici, per provare un lessico che ammiccasse agli elettori degli altri.
Oggi si dice: neoliberismo, ieri si sarebbe detto: pensiero borghese. Il punto è tutto qui. Enrico Letta, che pure al canovaccio oggi dominante a sinistra ha tentato di adattarsi per come poteva un moderato per tradizione e carattere, in un dibattito se l’era fatto scappare: parlare di liberismo in Italia è un po’ difficile. E’ vero che nella legislatura del centrosinistra si privatizzò, e non poco. E’ altrettanto vero che oggi, per fare un solo esempio, il paese ha di nuovo un grande player assicurativo pubblico, com’ era l’Ina privatizzata da Amato. Che la Cassa depositi e prestiti è il burattinaio anche di aziende che erano state cedute totalmente, come Tim. Che lo stato dai servizi pubblici locali non se n’è mai andato, come non ha mai ceduto il passo alla concorrenza nella sanità, nell’educazione, nella previdenza. Che la Borsa italiana è sostanzialmente un gioco di imprese controllate dal pubblico.
Che la spesa pubblica supera, anche al netto degli interessi, il 50 per cento del pil. Che la tentazione comune, sinistra e destra, è pensare che a ogni problema debba corrispondere una legge, e di legge in legge siamo arrivati ad avere un quadro normativo talmente complicato che neppure i tecnici del diritto sanno più destreggiarsi nel groviglio. Il grande economista austriaco Ludwig von Mises identificava nel “polilogismo” una delle più durature eredità del marxismo. Marx postula che “la struttura logica della mente è diversa da classe a classe. Non esiste una logica universalmente valida.
Ciò che la mente produce non è che ideologia, cioè, nella terminologia di Marx, un insieme di idee che mascherano gli interessi egoistici della classe sociale a cui il pensatore appartiene”. Per questo la mente “borghese” degli economisti non poteva fare altro che offrire una “apologia” del sistema capitalistico. I chierici di oggi sostengono qualcosa di non troppo diverso. Con convinzione, si ritraggono da qualsiasi discussione
nel merito delle singole questioni. Ogni opinione diversa dalla loro (che si discuta di questioni di genere o della privatizzazione di Ita) è semplicemente riconducibile a un interesse: se i loro avversari non sono servi del capitalismo, sono servi del patriarcato.
Nel dibattito italiano, questo diventa la “diversità” di tempra morale che dividerebbe la sinistra dagli altri. Convinti di fare politica in nome di alcune idee, i chierici non riconoscono nell’altro una propensione simile. E non solo, ormai, non lo riconoscono alla destra: non lo riconoscono neanche a chi, a sinistra, abbia posizioni non esattamente sovrapponibili alle loro. Non lo riconoscono ai loro predecessori degli ultimi trent’ anni: i quali, faticosamente e in modo imperfetto, cercavano di fare i conti con una realtà che avevano scoperto, chi con il crollo del Muro, chi poco prima.
L’ebbrezza del maggioritario consigliava loro di fare politica con l’ambizione di sottrarre voti all’avversario. Il che costringeva a cercare di comprendere le sue ragioni. Oggi il partito dei chierici coltiva la vocazione minoritaria. Quelle degli altri non sono idee, ma interessi messi in bella copia. La politica è solo la ricerca di minoranze da liberare dal condizionamento di questo o quel padrone. Il neoliberismo come ipnosi da cui ridestare un mondo di oppressi. Vedremo quanto dura questo trip.
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Giustizia: l’’agenda Nordio‘
Basterebbe che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio mantenesse metà delle cose annunciate e promesse nel corso della sua audizione in Senato: avviare «una riforma del Codice penale», una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche, nel caso, con una «revisione della Costituzione». Basterebbe anche quella che definisce «una profonda revisione delle intercettazioni. Vigileremo in modo […]
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Il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte – Tg3
Il Presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte, Tg3, il giorno lunedì 12 dicembre dalle ore 24:00.
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Il Professor Lorenzo Infantino ha ricevuto il Premio Colletti 2022
Mercoledì 7 dicembre, all’interno del Palazzo Senatorio del Campidoglio, si è tenuta la XIII edizione del Premio Lucio Colletti, in memoria del filosofo, uomo di straordinario impegno culturale, politico e civile.
Quest’anno, tra le personalità di spicco a cui è stato consegnato l’ambito premio, c’è il Professor Lorenzo Infantino, filosofo, economista e Presidente Onorario della Fondazione Luigi Einaudi, a cui facciamo le nostre più vive congratulazioni!
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L’occasione
Se le parole di Carlo Nordio fossero state pronunciate da lui stesso, ma nella eventuale veste di ministro della giustizia di un governo di sinistra, la destra sarebbe insorta. Se la cancellazione dell’ergastolo ostativo avesse trovato posto fra i provvedimenti di un governo diverso dall’attuale, la destra avrebbe gridato allo scandalo. Lasciando da parte il tema della coerenza, quella che abbiamo di fronte è una occasione. Per la giustizia.
Quelle parole sono una novità solo per chi non abbia mai letto o ascoltato Nordio. Le ripete da anni. Afflitto da una malattia minoritaria: la coerenza aggravata da memoria. Di sicuro l’ex procuratore non è un uomo di sinistra, ma non lo è neanche di destra. È un liberale conservatore che non ha mai fatto mistero delle proprie opinioni da quando, lasciata la toga, si è sentito libero di esporle. Chi lo ha scelto come ministro le conosceva. Lo stesso Nordio, del resto, con amara ironia, ha più volte osservato che nell’Italia di oggi ancora vige il codice penale firmato da Mussolini, mentre il codice di procedura penale che porta la firma di una medaglia d’oro della resistenza, Giuliano Vassalli, è stato continuamente modificato e scassato. Lo osservava sottolineando gli aspetti illiberali del codice penale.
La separazione delle carriere o la non obbligatorietà dell’azione penale, per non dire del profluvio dissennato e improprio delle intercettazioni, sono considerati concetti scontati, ovvi in qualsiasi sistema penale accusatorio. Non esiste che l’accusatore e il giudice siano colleghi. È pura ipocrisia pensare che obbligando a perseguire tutto si eviti la scelta in capo alla procura, semmai la si priva di criteri e controlli. Le intercettazioni possono essere utili a indagare, ma depositarle e diffonderle è non solo barbarie, ma suicidio processuale, perché da sole non provano il reato. Cose ovvie. Da noi considerate bestemmie perché si è confuso il giustizialismo con la giustizia. Salvo annegare tutto nell’ipocrisia, quando non nel falso conclamato.
Anche la destra giustizialista, anche chi oggi è al governo, ragionò diversamente quando gli “inquisiti” erano amici. Mentre la sinistra, oggi, non insorge più per difetto di forze che per digerita ammissione dei tanti anni sbagliati. Il colpevolismo giustizialista non è la giustizia, ma una macchina infernale che genera professionisti dell’accusare senza l’onere di dovere dimostrare e senza la pena di dovere pagare per gli errori commessi. La sinistra c’è cascata perché si è trovata comunista, dalla parte sbagliata della storia, al partire di inchieste giudiziarie con le quali si sterminava anche la sinistra che si trovava dalla parte giusta della storia. E se la destra aveva il giustizialismo nel corredo genetico, la sinistra ha abdicato al diritto per divenire la copertura politica del corporativismo togato, ricevendone in cambio la copertura per sgomberare la strada verso il potere.
La scelta di Meloni mette la destra nelle condizioni di dovere cambiare. Non esiste, lo sappia la presidente del Consiglio, il “garantismo” in giudizio e il “giustizialismo” della pena, come ha erroneamente affermato. Posizione impossibile, perché il “garantismo” non è l’innocentismo che loro stessi praticarono con i loro amici, ma il rispetto del diritto, ergo anche la certezza della pena. La sinistra può scegliere: mugugnare malmostosa, incapace di autocritica, sperando ancora di potere ritravestirsi senza il coraggio di svestirsi, oppure riconoscere diritto e diritti e costringere la destra alla coerenza. Questa sembra la scelta di Azione, che somiglia al fare opposizione seria assai più del porsi in una sterile posizione pregiudiziale.
L’occasione è lì. A portata di mano. L’opposizione può aiutare il giustizialismo del campo largo e pentastellato o lavorare al diritto. Magari ricordando che il pessimo decreto “rave” sta all’opposto delle parole di Nordio. Questa è la scelta politica, non il sesso della segreteria.
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Il prof. Giovanni Moschella alla Scuola di Liberalismo 2022 di Messina – Gazzetta del Sud
CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 9 dicembre 2022 – Pare che i soldati israeliani, durante i raid nelle città cisgiordane, si orientino con mappe sulle quali i vari quartieri sono indicati con simboli che corrispondono ai nomi delle nazionali di calcio ai Mondiali in Qatar. In questo modo, nel caso le loro comunicazioni radio venissero ascoltate dalle formazioni combattenti palestinesi, eviterebbero di rivelare i movimenti sotto copertura delle unità speciali e, più di tutto, la posizione sugli edifici dei cecchini, lasciando così agli uomini sul terreno di avvicinarsi più agevolmente alle case dei «ricercati».
A rivelarlo, scrive un giornale online palestinese, sono state alcune di queste mappe ritrovate ieri da ragazzi a Jenin, in apparenza perse dai militari mentre si ritiravano dal campo profughi della città, al termine di una nuova sanguinosa incursione in cui sono stati uccisi due combattenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa – Atta Shalabi e Sidqi Zakarneh di Jenin – e, pare, un civile, Tariq Al Damej. Gli scontri sono andati avanti per quasi tre ore. I reparti israeliani hanno incontrato un forte fuoco di sbarramento, a conferma delle accresciute capacità di combattimento delle formazioni armate palestinesi. Il Battaglione Jenin, ad esempio, ha comunicato che i suoi membri hanno circondato e aperto un inteso fuoco contro un veicolo blindato israeliano costringendolo a fare retromarcia. La battaglia è proseguita, per molti minuti, nel rione di Al Hadaf a Jenin dove si trovavano i tre «ricercati».
Un testimone, Ghassan Al Saadi, ha descritto l’accaduto come un «inferno», con spari continui anche di mitragliatrici pesanti da parte israeliana e raffiche esplose dai palestinesi. Ha detto che i due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati colpiti con ogni probabilità da tiri di cecchini. Altri testimoni hanno raccontato di «spari israeliani contro un’ambulanza» diretta sul luogo dei combattimenti e dell’autista scampato alla morte per un soffio. Almeno dieci i feriti, secondo alcune fonti. Poi le forze israeliane, trasportate da una dozzina di automezzi blindati, sono uscite dal campo profughi con i tre arrestati e hanno abbandonato la città. Le autorità locali hanno proclamato tre giorni di lutto. In tarda mattinata migliaia di persone hanno partecipato ai funerali delle tre vittime. È di 216 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022 (i morti israeliani in attacchi armati sono una trentina).
Nel pomeriggio quel numero è salito a 217. Nei pressi di Aboud (Ramallah) gli spari di soldati israeliani hanno ucciso Diyaa al Rimawi e ferito gravemente suo cugino Hashem al Rimawi che stavano lanciando sassi e bottiglie piene di pittura contro le automobili di coloni israeliani. Altri tre palestinesi sono stati feriti. Negli ultimi giorni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro postazioni e colonie israeliane. Gruppi armati, come la Fossa dei Leoni e il Battaglione Ramallah, hanno rivendicato spari e lanci di granate verso gli insediamenti israeliani di Bet El, Halamish, Atarah, Ofra e Dolev. L’esercito israeliano ha arrestato diversi palestinesi in Cisgiordania mercoledì notte. Da segnalare l’arresto a Nablus di Ruhi Marmash, un tenente dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) considerato un fedelissimo del presidente Abu Mazen. Tra i morti e gli arrestati di questi ultimi mesi figurano non pochi membri delle forze militari dell’Anp. A conferma delle tensioni che lacerano le strutture di sicurezza governative palestinesi causate dalla cooperazione con Israele riconfermata anche di recente dai vertici politici. I servizi segreti israeliani dicono di aver arrestato un palestinese di Gaza con un permesso di lavoro che spiava in Israele per conto del movimento islamico Hamas. Pagine Esteri
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Marocco: proteste contro gli aumenti e la repressione
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 dicembre 2022 – Alcune migliaia di persone sono scese in piazza domenica a Rabat per protestare contro «l’alto costo della vita e la repressione» politica, partecipando ad una manifestazione promossa dal Fronte Sociale Marocchino (Fsm). La sigla riunisce diversi partiti politici di sinistra, organizzazioni per i diritti umani e sindacati come la Confederazione Democratica del Lavoro.
Alla marcia, la più partecipata degli ultimi mesi, hanno partecipato alcune migliaia di persone – un risultato notevole in un paese che reprime sistematicamente le libertà politiche – anche se la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale (DGSN) ha parlato di soli 1500 manifestanti. La manifestazione ha sfilato per quasi due ore nel centro della capitale marocchina, dalla porta della Medina fino a Piazza degli Alawiti, passando accanto alla sede del parlamento.
L’inflazione erode i salari, la povertà aumenta
«Il popolo vuole prezzi più bassi (…). Il popolo vuole abbattere il dispotismo e la corruzione» hanno gridato i partecipanti arrivati anche dal resto del Marocco. «Siamo venuti per protestare contro un governo che incarna il matrimonio tra denaro e potere e che sostiene il capitalismo monopolistico» ha spiegato il coordinatore nazionale dell’Fsm, Younès Ferachine.
Secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato per la pianificazione (Hcp), il Marocco è tornato «al livello di povertà e di vulnerabilità del 2014» in seguito alla pandemia di Covid-19 e all’inflazione. L’impennata dei prezzi (ad ottobre è stato rilevato un +7,1% su base annua) e in particolare l’aumento del costo dei carburanti, dei generi alimentari e dei servizi, uniti a un’eccezionale siccità, hanno inoltre frenato la crescita economia, che alla fine dell’anno dovrebbe essere pari soltanto ad un +0,8%.
Le forze sociali e politiche che hanno partecipato alla marcia hanno chiesto le dimissioni del governo denunciando che a risentire della situazione non è più solo il potere d’acquisto dei settori più poveri della popolazione, ma ormai anche quello della classe media. Il Paese soffre di disparità sociali e territoriali crescenti che costringono sempre più cittadini, soprattutto giovani, all’emigrazione.
La disparità di reddito, stimata secondo il coefficiente di Gini, è del 46,4%, ovvero al di sopra della soglia socialmente tollerabile (42%). Secondo gli stessi dati forniti dal governo di Rabat, il 20% della popolazione è in stato di povertà assoluta (con un reddito inferiore a 1,8 euro al giorno), il 40% in povertà relativa (con un reddito inferiore a 3 euro al giorno) e il 60% in condizioni di precarietà (meno di 4,5 euro al giorno).
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Il governo rivendica le sue politiche sociali
Di fronte alle proteste e all’aumento del malcontento sociale, il governo guidato dall’imprenditore Aziz Akhannouch ha più volte rivendicato quella che definisce la sua “politica sociale”, in particolare l’estensione della copertura sanitaria a oltre 10 milioni di marocchini a basso reddito. Lo scorso ottobre, il governo ha inoltre annunciato un nuovo maxi-fondo sovrano da 4 miliardi di euro creato per sostenere gli investimenti pubblici e tentare così di rilanciare l’economia del paese e contrastare la crisi.
Si tratta però di misure ritenute parziali e insufficienti da parte delle opposizioni di sinistra. In particolare i sindacati denunciano la rinuncia, da parte del governo marocchino, al varo di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche. Proposta dalle opposizioni parlamentari anche sulla base dell’appello del segretario generale dell’ONU a tassare gli “scandalosi” profitti realizzati dalle aziende del settore energetico in maniera da recuperare risorse da destinare al contrasto dell’inflazione e della povertà, alla fine il premier Akhannouch non ha inserito la misura all’interno della legge finanziaria adottata lo scorso 19 ottobre dal Consiglio dei Ministri. La rinuncia a questa e ad altre misure redistributive ha rilanciato le accuse, nei confronti dell’esecutivo, di favorire l’élite economica e di incarnare la collusione tra potere politico e mondo degli affari.
“No agli arresti dei dissidenti”
I manifestanti hanno anche lanciato slogan contro gli arresti di dissidenti, denunciando «ogni forma di repressione politica, antisindacale e contro la libertà d’espressione, mentre vengono incarcerati diversi blogger e giornalisti critici nei confronti del governo. «È una regressione inaccettabile», ha denunciato Ferachine.
Uno degli ultimi arresti ha preso di mira, a novembre, è stato l’ex ministro dei Diritti Umani Mohamed Ziane. A ottobre l’avvocato e fondatore del Partito Liberale, che attualmente ha 80 anni, aveva chiesto l’abdicazione del sovrano Mohamed VI – che risiede a Parigi e rientra in Marocco solo per alcune cerimonie – e la fine della sistematica violazione dei diritti politici e democratici. Per tutta risposta Ziane è stato prima oggetto di una feroce campagna denigratoria da parte dei media governativi e delle autorità, ed in seguito è stato condannato dalla Corte d’Appello di Rabat a tre anni di detenzione per un totale di 11 capi di accusa formulati in una denuncia del Ministero degli Interni di Rabat.
“No agli accordi con Israele”Nel corteo sono state sventolate numerose bandiere palestinesi. La marcia ha rappresentato infatti anche l’occasione per condannare la normalizzazione dei rapporti tra Rabat e lo stato di Israele, decisa nel 2020 nell’ambito degli “accordi di Abramo”. Secondo i sondaggi una gran parte della popolazione si dice contraria alla crescente collaborazione economica e militare tra il regno marocchino e Tel Aviv.L’ultimo importante passo in questo senso risale al 23 marzo scorso, quando il Ministro dell’Industria e del Commercio marocchino Ryad Mezzour e il presidente del board dei direttori dell’Israel Aerospace Industries, Amir Peretz, hanno siglato uno storico accordo di cooperazione.
Nel giugno scorso, poi, il governo di Rabat ha firmato un contratto con l’israeliana Elbit Systems per la fornitura del sistema “Alinet”, allo scopo di sviluppare le capacità del paese nel campo della guerra elettronica.
A luglio il capo di Stato maggiore dell’esercito di Israele, Aviv Kohavi, ha incontrato a Rabat l’omologo marocchino El Farouk; i due avrebbero discusso i dettagli del rafforzamento della cooperazione militare e discusso la possibilità di lanciare un’alleanza regionale volta «a frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente e in Nord Africa».
Israele ha anche fornito a Rabat la tecnologia necessaria a produrre in proprio dei droni da bombardamento, che il paese utilizza per colpire la guerriglia del Fronte Polisario, l’organizzazione che si batte per la liberazione dei territori saharawi occupati illegalmente dal Marocco.
Lo scorso 3 dicembre uno di questi droni ha colpito in pieno un fuoristrada nella zona del confine con la Mauritania, uccidendo il conducente e scatenando la reazione di Mohamed el Mokhtar Ould Abdi, governatore della provincia di Tiris-Zemmour, che si trova sulle linee di contatto con l’ex colonia spagnola occupata da Rabat. L’uccisione dei cittadini mauritani fuori dai confini nella zona cuscinetto del Sahara occidentale «non è più accettabile» ha detto il capo del governo locale. Già a settembre due cercatori d’oro mauritani erano stati uccisi nel corso di un bombardamento compiuto da un drone marocchino contro presunte postazioni del Fronte Polisario. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Giovane ucciso dall’esercito israeliano a Dheisha, 212 i palestinesi morti nel 2022
di Elisa Brunelli
Pagine Esteri, 5 dicembre 2022 – Un nastro rosso con il simbolo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina avvolge la fronte di Omar Mannaa, mentre la bandiera palestinese ne copre il corpo esanime. Solo qualche giorno prima compariva in un video mentre preparava il pane nel piccolo forno in cui lavorava, nel cuore del campo profughi di Dheisha di Betlemme. All’alba di questa mattina, 5 dicembre, è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano, operazione che si è conclusa con altri 6 feriti gravi e quattro arresti, tra cui il fratello di Omar. In tutto il territorio di Betlemme è in corso uno sciopero generale che accompagna il funerale del 22enne.
GUARDA IL VIDEO
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Si allunga così la lista dei palestinesi uccisi quest’anno dall’esercito israeliano. Secondo le statistiche del Ministero della Salute palestinese, da inizio del 2022 si contano 212 vittime, 160 nei territori della Cisgiordania e 52 nella striscia di Gaza, in seguito alla guerra dei 3 giorni dello scorso agosto. Una trentina sono invece gli israeliani uccisi nello stesso periodo, in prevalenza in attacchi armati avvenuti la scorsa primavera a Tel Aviv e in altre città.
Frequenti, raccontano dal campo di Dheisha, sono le irruzioni dell’esercito in mezzo alle case che hanno sostituito confusionariamente le prime tende del ‘48. Le testimonianze di quattro generazioni di profughi cominciano dal dramma della Nakba per ricordare i carri armati dell’Intifada fino a raccontare le esistenze e le resistenze di oggi. La strada principale che arriva al campo è disseminata dai resti dell’ultima barricata data alle fiamme. La firma di alcuni giovani residenti per provare ad impedire i raid dentro il campo profughi da parte dei mezzi dell’esercito.
“Non trovo differenza tra la mia generazione e la loro. Non possiamo fare altro che continuare a resistere. Non abbiamo più nulla da perdere”, spiega Mahmoud Ramadan, oggi portavoce del campo. A 15 anni, durante la seconda Intifada, era stato ferito gravemente dai proiettili dell’Occupazione. I blindati israeliani stavano avanzando e, allora come oggi, anche i più giovani tentavano di impedire l’ennesimo attacco al campo. Ai lanci di pietre, i militari avevano risposto con il fuoco dei proiettili. Ramadan si era salvato miracolosamente, a differenza dei suoi compagni, dopo che uno di questi ha raggiunto, recidendola, la vena safena.
L’uccisione di Omar Mannaa si colloca all’interno di una più ampia operazione che ha coinvolto diverse zone dei Territori Occupati. Sono 17 i palestinesi detenuti nelle ultime ore dall’esercito dalle aree sotto controllo dell’Autorità Palestinese, riporta l’agenzia stampa palestinese WAFA.
Nel campo profughi di Jenin è stato arrestato Yhaya Al-Saadi, figlio di Bassaam Al-Saadi, il leader militare in Cisgiordania del gruppo armato del Jihad palestinese. Nella città di Ni’lin, a ovest di Ramallah tre persone sono state arrestate dopo il saccheggio delle loro case. Perquisizioni anche nelle abitazioni di al-Bireh, che si sono concluse con l’arresto di un adolescente. Altre otto persone sono state arrestate nel distretto di Hebron.
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Addameer, l’associazione per il sostegno ai prigionieri palestinesi all’interno delle carceri e nei centri di detenzione israeliani, si contano 4.760 prigionieri politici palestinesi, tra cui 160 minori, 33 donne. 820 quelli sottoposti a “detenzione amministrativa”, senza alcuna accusa né processi a carico. Pagine Esteri
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Ben(e)detto – 9 dicembre 2022
Etiopia, le guardie hanno massacrato decine di prigionieri tigrini, dicono testimoni
Gli omicidi più letali sono avvenuti nel campo di prigionia di Mirab Abaya, dove erano detenuti soldati tigrini in carica e in pensione.
Il profumo di caffè e sigarette aleggiava nell’aria calda del pomeriggio in un campo di prigionia etiope improvvisato, hanno detto i prigionieri, mentre i soldati tigrini detenuti celebravano il giorno sacro di San Michele nel novembre 2021. Alcuni scherzavano con gli amici fuori dagli edifici di lamiera ondulata. Altri hanno pregato silenziosamente di ricongiungersi con le famiglie che non vedevano da un anno, quando è scoppiato il conflitto nella regione settentrionale del Tigray in Etiopia.
Poi sono iniziate le uccisioni
Al tramonto del giorno successivo, secondo sei sopravvissuti , circa 83 prigionieri erano morti e un altro disperso. Alcuni sono stati uccisi dalle loro guardie, altri uccisi a colpi di arma da fuoco dagli abitanti del villaggio che hanno schernito i soldati sulla loro etnia tigraya, hanno detto i prigionieri. I corpi sono stati gettati in una fossa comune vicino al cancello della prigione, secondo sette testimoni.
“Erano accatastati uno sopra l’altro come legno”, ha raccontato un detenuto che ha affermato di aver visto le conseguenze del massacro.
Il massacro nel campo vicino a Mirab Abaya, che è stato insabbiato e non è stato riportato in precedenza, è stato l’uccisione più mortale di soldati imprigionati dall’inizio della guerra, ma non l’unico
Il massacro nel campo vicino a Mirab Abaya, che è stato insabbiato e non è stato riportato in precedenza, è stato l’uccisione più mortale di soldati imprigionati dall’inizio della guerra, ma non l’unico. Le guardie hanno ucciso soldati imprigionati in almeno altri sette luoghi, secondo testimoni, che erano tra più di due dozzine di persone intervistate per questa storia. Nessuno di questi incidenti è stato segnalato in precedenza.
I morti erano tutti tigrini, membri di un gruppo etnico che ha dominato il governo e l’esercito etiope per quasi tre decenni. La situazione è cambiata dopo che Abiy Ahmed è stato nominato primo ministro dell’Etiopia, la seconda nazione più popolosa dell’Africa, nel 2018. Le relazioni tra Abiy e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) sono rapidamente crollate. La guerra è scoppiata nel 2020 dopo che i soldati tigrini dell’esercito etiope e altre forze tigrine hanno sequestrato basi militari in tutta la regione del Tigray.
Temendo ulteriori attacchi, il governo ha arrestato migliaia di soldati tigrini in servizio in altre parti del paese. Sono stati detenuti in campi di prigionia per quasi due anni senza accesso alle loro famiglie, telefoni o osservatori dei diritti umani. Altri soldati tigrini sono stati disarmati quando è scoppiata la guerra, ma hanno continuato a svolgere lavori d’ufficio. Molti di loro sono stati arrestati nel novembre 2021 mentre le forze tigrine avanzavano verso la capitale, Addis Abeba.
La maggior parte degli omicidi, compreso il massacro di Mirab Abaya, è avvenuta allora. I prigionieri hanno ipotizzato che gli attacchi potrebbero essere stati innescati dalla paura o dalla vendetta. Nessuno dei soldati uccisi era stato combattente contro gli etiopi e quindi prigioniero di guerra.
In alcune carceri, alti ufficiali militari etiopi hanno ordinato gli omicidi o erano presenti quando sono avvenuti, hanno detto i prigionieri. Altrove, i soldati imprigionati hanno affermato di continuare a essere sorvegliati – e picchiati – da coloro che hanno ucciso i loro compagni.
Sebbene ci siano pochi segni che le uccisioni siano state coordinate a livello centrale, ci sono prove di una diffusa impunità. Solo a Mirab Abaya gli agenti sono intervenuti per fermare l’uccisione.
Questi dettagli appena rivelati arrivano mentre entrambe le parti in conflitto stanno elaborando i dettagli di un cessate il fuoco, annunciato il mese scorso, che è stato accolto con sospetto tra la popolazione su una serie di questioni, tra cui se ci sarà responsabilità per crimini di guerra e altre atrocità. Il modo in cui il governo risponde alle rivelazioni sugli omicidi in carcere potrebbe suggerire come tratterà altri abusi presumibilmente commessi dalle forze di sicurezza.
I resoconti dei testimoni illuminano anche come le divisioni etniche che lacerano la società etiope stiano anche erodendo i suoi militari, un tempo ampiamente rispettati come uno dei più professionali della regione e ancora spesso invocati dai vicini dell’Etiopia per aiutare a mantenere la pace. Molte delle persone uccise nelle carceri erano tra le migliaia di soldati etiopi che hanno prestato servizio in missioni internazionali di mantenimento della pace sotto le Nazioni Unite o l’Unione Africana.
Il resoconto di questo articolo del salasso si basa su 26 interviste con prigionieri, personale medico, funzionari, residenti locali e parenti e su una revisione di immagini satellitari, post sui social media e cartelle cliniche. Due elenchi di morti sono stati forniti separatamente al Washington Post ed entrambi includevano gli stessi 83 nomi. Le identità di 16 vittime sono state verificate durante i colloqui con i detenuti. Tutti i testimoni hanno parlato a condizione di anonimato per paura di rappresaglie.
Alla domanda su questi resoconti, il colonnello Getnet Adane, un portavoce dell’esercito etiope, ha detto di essere troppo impegnato per commentare. Un portavoce del governo e la portavoce del primo ministro non hanno risposto alle richieste di commento. Il capo nominato dallo stato della Commissione etiope per i diritti umani, Daniel Bekele, ha affermato che il gruppo era a conoscenza dell’incidente e aveva indagato su di esso.
Proiettili e machete
Circa 2.000-2.500 soldati tigrini in servizio o in pensione, sia uomini che donne, erano detenuti nel nuovo campo di prigionia a circa mezz’ora di cammino a nord della città di Mirab Abaya, in un’area scarsamente popolata punteggiata da piantagioni di banane e vicino a un grande, lago infestato dai coccodrilli. Alcuni edifici erano così nuovi che non avevano nemmeno le porte. Ma il campo aveva torri di guardia e confini delimitati. Le guardie hanno detto ai prigionieri che sarebbero stati fucilati se avessero oltrepassato il limite.
A metà novembre 2021, un nuovo prigioniero – un maggiore appena sposato che lavorava nella divisione di costruzione della difesa dell’esercito – è stato gravemente ferito dalle guardie quando è uscito di notte dalla sua cella per urinare, hanno detto altri sei detenuti. È stato picchiato duramente. Alcuni hanno detto che è stato colpito allo stomaco. Le guardie in seguito hanno detto ai prigionieri che era morto mentre si recava in ospedale.
Nei giorni successivi, le tensioni hanno continuato a crescere con notizie – successivamente confermate da attivisti per i diritti – secondo cui i combattenti tigrini nella regione settentrionale dell’Amhara in Etiopia stavano uccidendo e stuprando mentre avanzavano verso la capitale.
Ma il 21 novembre, il campo di Mirab Abaya sembrava calmo, hanno detto i prigionieri. Molti si stavano crogiolando al sole del tardo pomeriggio quando tra le 16 e le 18 guardie hanno aperto il fuoco.
Un prigioniero ha detto di essere stato vicino a due donne quando sono state colpite da colpi di arma da fuoco nella toilette.
“Una donna è morta immediatamente e l’altra gridava: ‘Figlio mio, figlio mio!’ Poi hanno sparato un altro proiettile e lei è morta”, ha detto. “Loro [le guardie] volevano uccidere tutti lì”.
Una delle donne era un maggiore delle forze di terra etiopi. Aveva circa 50 anni, aveva prestato servizio come pacificatore in Sudan e aveva un figlio e una figlia, secondo il testimone. Altri detenuti hanno detto che la seconda donna aveva lavorato al Ministero della Difesa.
Un alto ufficiale del Tigray ha detto che era nella sua cella quando ha sentito degli spari. Ha infilato vestiti e cose in una borsa. Decise di scappare se poteva.
“Stavo pensando: ‘Vedrò mai i miei figli? Li vedi avere successo a scuola e avere le cose belle della vita?’ ” Egli ha detto. Se non poteva correre, avrebbe combattuto, ha detto. Lui ei suoi compagni di cella cercavano un bastone o qualsiasi altra cosa da usare come arma.
Un terzo prigioniero ha detto di aver iniziato a pregare.
Non tutte le guardie hanno preso parte all’uccisione.
Un quarto prigioniero ha descritto una guardia che ha preso posizione fuori dalle celle e ha detto agli aggressori che avrebbe sparato loro se fossero venuti a prendere i detenuti all’interno. Quella guardia piangeva, disse il prigioniero, e rimase inconsolabile per giorni. Un altro prigioniero ha detto che alcune guardie avevano cercato di disarmare gli aggressori.
Ancora un altro prigioniero ha detto che stava prendendo un caffè fuori quando sono esplosi degli spari. Come molti altri, è corso nella boscaglia circostante. I soldati etiopi hanno inseguito il suo piccolo gruppo, ha detto. Dopo aver corso più di un’ora, ha detto, hanno visto alcuni locali. I prigionieri hanno sbottato che erano stati colpiti e hanno chiesto aiuto.
“Hanno detto… ‘Ti mostreremo ciò che meriti.’ E poi ci hanno attaccato”, ha detto.
Una folla di circa 150-200 persone ha fatto a pezzi e picchiato i fuggitivi con machete, bastoni e pietre, ha ricordato.
La maggior parte è stata uccisa mentre implorava pietà, ha detto, aggiungendo che è stato ferito gravemente e lasciato per morto. Durante l’attacco, ha detto, ha visto altri prigionieri correre nel lago per sfuggire alla folla.
Altri detenuti hanno confermato che ci sono stati attacchi di machete contro coloro che sono fuggiti dalla prigione. Hanno detto che i residenti hanno urlato insulti ai fuggitivi e che gli era stato detto erroneamente che erano prigionieri di guerra e da incolpare per la morte di uomini locali nell’esercito. Due prigionieri hanno detto che gli attacchi sono continuati fino al giorno successivo.
La sparatoria nella prigione è cessata un’ora o due dopo l’inizio, quando è arrivato il colonnello Girma Ayele del comando meridionale. A quel punto, dissero i prigionieri, il campo era disseminato di corpi di morti e la terra era chiazzata di sangue. Non è stato possibile raggiungere Girma per un commento.
La divisione Dejen
Il massacro all’interno della prigione è stato commesso da circa 18 guardie, tra cui una donna, hanno detto i sei prigionieri di Mirab Abaya che sono stati intervistati. Queste guardie e poco più di un terzo delle vittime provenivano dalla stessa unità: la divisione dell’esercito Dejen, precedentemente nota come 17a divisione. È di stanza ad Addis Abeba.
Molti soldati tigrini hanno ipotizzato durante le interviste che l’attacco fosse motivato dalla vendetta. La maggior parte delle guardie che hanno ucciso provenivano dalla regione di Amhara, che le forze tigrine avevano invaso mentre si spingevano verso la capitale.
Girma ha detto ai prigionieri che queste guardie non erano sotto il suo diretto controllo ed erano state arrestate, hanno detto i detenuti. Non è stato possibile confermare lo stato delle guardie. I prigionieri non li videro mai più.
Il giorno dopo l’uccisione, un escavatore ha scavato una fossa comune appena fuori dalla torre di guardia principale al cancello d’ingresso, forse a 200 metri dalla strada, secondo i sei prigionieri.Una foto non datata del maggiore Meles Belay Gidey. (Foto di famiglia)
Tra le persone sepolte c’era il maggiore Meles Belay Gidey, un ingegnere appassionato del suo lavoro di insegnante presso il Defense Engineering College. Quando Meles prestava servizio come peacekeeper delle Nazioni Unite ad Abyei, un’area contesa tra Sudan e Sud Sudan, ha videochiamato ogni sera i suoi due figli adolescenti e la sua figliastra per parlare con loro della scuola, ha detto un parente.
Un residente locale che passava davanti al campo di prigionia il giorno successivo ha detto che i militari hanno avvertito i passanti di non fotografare la tomba.
Nella città di Mirab Abaya, i funzionari hanno utilizzato altoparlanti montati sulle auto per avvertire la popolazione locale che i fuggitivi dovevano essere uccisi. Il residente locale ha detto di aver visto tre o quattro persone aggredite vicino a un bananeto e una dozzina di corpi sanguinanti per le strade, alcuni sparsi vicino alla chiesa di San Gabriele. I soldati etiopi nelle vicinanze non sono intervenuti, ha detto.
Il residente ha anche detto di aver visto un uomo sui 25 anni picchiato da una folla. Entrambe le sue mani erano state tagliate e le sue gambe sanguinavano. L’uomo ha implorato di essere ucciso mentre veniva trascinato su e giù per la strada, ha detto il residente. Gli aggressori hanno detto all’uomo che lo avrebbero ucciso il più lentamente possibile. Alla fine, è stato trascinato al cancello del campo e fucilato. Un altro corpo veniva trascinato dietro una moto, ha detto il residente.
“Non potevo fare nulla perché temevo per la mia vita”, ha detto.
I soldati etiopi conquistano una città strategica nel Tigray durante l’esodo dei civili
I tigrini feriti sono stati portati in tre ospedali, hanno detto i sopravvissuti: l’Arba Minch General Hospital, il Soddo Christian Hospital e un altro ospedale a Soddo. Due professionisti medici dell’Arba Minch General Hospital hanno descritto un afflusso di pazienti intorno alle 21:00 del 21 novembre. Un operatore ha condiviso cartelle cliniche che mostrano che 19 pazienti sono stati ricoverati con ferite da arma da fuoco e che 15 sono stati dimessi il giorno successivo. Due sono morti in ospedale e quattro sono morti all’arrivo, hanno detto i due operatori sanitari.Il libretto delle ammissioni fornito da un operatore sanitario dell’Arba Minch General Hospital. (Ottenuto dal Washington Post)
Il registro delle ammissioni mostra un improvviso afflusso di pazienti con ferite da arma da fuoco, con date scritte utilizzando il calendario etiope. (Foto ottenuta dal Washington Post)
La maggior parte dei pazienti è stata trattenuta solo per poche ore nonostante le ferite mortali, hanno detto i due. I pazienti sono stati tenuti sotto sorveglianza della polizia, hanno detto entrambi i professionisti medici, e hanno descritto infermieri e altro personale medico che deridevano i feriti sulla loro etnia.
Uccisioni in altre carceri
Mirab Abaya non era l’unica prigione in cui venivano uccisi i soldati imprigionati. Prigionieri attuali ed ex hanno affermato nelle interviste di aver assistito alle guardie che uccidevano prigionieri nel centro di addestramento di Garbassa e nel quartier generale della 13a divisione nella città orientale di Jigjiga; nelle carceri di Wondotika e Toga vicino alla città meridionale di Hawassa; nella zona sud di Didessa; e presso il centro di formazione Bilate nel sud. Molte delle vittime avevano prestato servizio come forze di pace nelle missioni delle Nazioni Unite in Sudan, Abyei o Sud Sudan o come parte di una forza dell’Unione africana in Somalia.Gebremariam Estifanos, visto nel marzo 2019 ad Abyei. (Foto ottenuta dal Washington Post)
A Wondotika, un detenuto ha detto che le guardie hanno ucciso cinque prigionieri in una struttura che detiene centinaia di soldati che sono per lo più forze speciali o commando. Le vittime includevano Gebremariam Estifanos, un veterano di una missione di mantenimento della pace ad Abyei e di una missione dell’Unione africana in Somalia, che è stato picchiato a morte l’8 novembre 2021, alla presenza di un colonnello e tenente colonnello della 103a divisione, ha detto un prigioniero . Il più grande desiderio di Gebremariam era quello di comprare una casa alla sua famiglia e un bue a suo padre, ha detto il prigioniero. Altri due detenuti hanno confermato il resoconto, dicendo che le guardie spesso schernivano i prigionieri per l’incidente.
Entrambi hanno affermato che le guardie avevano spesso costretto i prigionieri a scavarsi la fossa, dicendo loro che presto sarebbero stati uccisi. Gli altri quattro soldati sono stati uccisi più tardi a novembre, colpiti così tante volte che i loro corpi sono stati fatti a pezzi dai proiettili, ha detto il primo prigioniero.
“Siamo picchiati e minacciati. Abbiamo servito il nostro paese con onore e dignità”, ha detto quel prigioniero. “Mi pento del mio servizio.”
Nella prigione di Toga, le guardie hanno picchiato e poi sparato a due soldati tigrini il 4 novembre, ha detto un detenuto. Un secondo prigioniero detenuto a Toga, un ex peacekeeper che ha prestato servizio in Somalia, ha confermato due omicidi. A Garbassa, due prigionieri hanno detto che sei detenuti sono stati uccisi e altri feriti così gravemente da aver perso l’uso degli arti e degli occhi.
“Ho visto i corpi trascinati fuori dalle loro stanze”, ha detto un detenuto lì.
Tre prigionieri – uno della guardia presidenziale e due dei commando di Agazi – sono stati uccisi nel luglio 2021 nel centro di addestramento di Bilate dopo che le guardie li avevano accusati di aver tentato di fuggire, ha detto un testimone precedentemente detenuto lì. Ha descritto i soldati che sparavano ai loro corpi molto tempo dopo che erano morti e che gettavano i cadaveri fuori per le iene. E in un centro di detenzione vicino a Didessa, vicino alla città di Nekemte, almeno cinque soldati sono stati uccisi e altri 30 portati via e mai più visti, ha detto un prigioniero precedentemente detenuto lì.
Si è rotto mentre elencava i nomi che riusciva a ricordare. “Mi dispiace tanto, erano miei amici”, ha detto.
Un attacco aereo su un asilo e la fine della precaria pace in Etiopia
Anche due soldati imprigionati, accusati di avere telefoni cellulari, sono stati uccisi dalle guardie in un centro di detenzione nell’Etiopia orientale tra Harar e Dire Dawa, ha detto un testimone.
I soldati tigrini imprigionati intervistati da The Post affermano che nessuno di loro ha avuto accesso al Comitato internazionale della Croce Rossa. Fino a pochi giorni fa, le loro famiglie non avevano idea di cosa ne fosse stato di loro. Alla fine di ottobre, le famiglie di alcuni soldati uccisi a Mirab Abaya sono state informate della loro morte. A diversi parenti è stato detto che i loro cari erano morti onorevolmente nell’esercizio del loro dovere. Non sono stati forniti altri dettagli.
Alcuni dei sopravvissuti al massacro di Mirab Abaya che sono ancora detenuti lì hanno detto di temere un’altra esplosione di violenza.
“Ho un libro di preghiere”, ha detto un prigioniero lì. “Ogni giorno prego Maria di rivedere la mia famiglia”.
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Etiopia, il Governo Certifica 83 Vittime del Tigray Massacrate a Mirab Abaya
Quello che segue sono le dichiarazioni di Desta Haileselassie Hagos riguardo la repressione e le uccisioni uccisioni di etiopi di etnia tigrina promosse dalle forze di sicurezza e miitari etiopi.
Il governo fascista etiope di Abiy Ahmed ha finora notificato a più di 20 familiari le 83 vittime del massacro di Mirab Abaya elencate qui sotto. Come si può vedere nel certificato di morte, ai familiari viene raccontata “le morti onorevoli” dei loro cari nel “completo del dovere”.Le forze di sicurezza governative intimidiscono i familiari delle vittime di non condividere nessuna informazione compreso il certificato di morte con nessuno, nemmeno chiedere risposte alle autorità o parlare mai della strage con nessuno dell’interno media internazionali e investigatori per i diritti umani.
Quanto bisogna essere crudeli e criminali per inventarsi questo dopo aver brutalmente massacrato più di 100 detenuti tigrini in un solo giorno?
Quando? In quale servizio?
Perché il tuo governo non ha ammesso pubblicamente l’arresto di massa dei #Tigrini che erano membri della Forza di Difesa Nazionale Etiope (#ENDF) prima che scoppiasse la guerra contro il Tigray? Perché il generale Tesfaye Ayalew non ha detto pubblicamente che l’esercito etiope è “completamente etiope” dopo la detenzione di massa dei membri tigrini dell’ENDF? ecc. sono alcune delle domande fondamentali ma importantissime che i media internazionali e le organizzazioni per i diritti umani dovrebbero porre al governo etiope.
PS: ho deliberatamente censurato i dettagli del certificato di morte allegato consegnato ad un familiare delle vittime per ovvi motivi.
washingtonpost.com/world/2022/…
FONTE: facebook.com/DestaHaileselassi…
Chat control: Mass surveillance proposal will let children down
EU Interior Ministers today discussed the proposal to automatically search all private correspondence for suspected content (so-called „chat control“). They insisted in pursuing an approach of mass surveillance. Member of the European Parliament Patrick Breyer (Pirate Party), negotiator for the Greens/EFA group, comments:
„EU governments are pursuing a mass surveillance scheme so extreme that it doesn’t exist anywhere else in the free world. The only country practising such indiscriminate searches is authoritarian China.Instead of defending our values and the fundamental rights of children, victims and anybody, governments are working behind closed doors to make the Commission’s proposal even worse. They want to censor search engines where abhorrent images need removing at their source. They want to remove the requirement of a court order for removal and blocking orders. They seek to erode the independence requirements proposed by the Commission and the transparency statistics intended to monitor the effectiveness of the scheme.
In view of the damning criticism by civil society and the institutions tasked with protecting the fundamental rights of Europeans, nobody is helping children by pursuing a regulation that will invariably fail in the European Court of Justice for violating the Charter of Fundamental Rights. What is really needed is a long overdue obligation on law enforcement authorities to delete known abuse material on the Internet, as well as Europe-wide standards for effective prevention measures, victim assistance and counseling, and timely criminal investigations.“
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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – Tanto imperiose sono le passioni umane…
Tanto imperiose sono le passioni umane ed inestinguibili l’ambizione, la sete di dominio e di ricchezza, che sempre si rinnovano gli errori trascorsi (ed ognora si seguono vie che l’esperienza ha dimostrato fallaci
da Corriere della Sera, 26 luglio 1913
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PERÙ. Castillo arrestato dopo aver sciolto il Parlamento
di Davide Matrone –
Pagine Esteri, 7 dicembre 2022 – Ore concitate in Perù quest’oggi 7 dicembre. Alle ore 12 locali, le 17 in Italia, il Presidente della Repubblica del Perù, Pedro Castillo mediante un discorso alla nazione ha annunciato, a sorpresa, una serie di misure eccezionali: scioglimento del Parlamento e convocazione di nuove elezioni per la composizione di una Nuova Carta Costituzionale entro 9 mesi. Uso dei decreti legge straordinari per governare il Paese sotto il coprifuoco che sarebbe entrato in vigore dalle 23 di questa notte. Arresto immediato per chi fosse stato trovato in possesso di armi illegali e stato d’emergenza in tutto il territorio nazionale.
Nemmeno il tempo di annunciare tali misure e il Congresso, in maggioranza in mano all’opposizione, ha denunciato un tentativo colpo di stato e ha votato con 101 voti (sui 130) a favore la sua destituzione eleggendo Dina Boluarte Presidente del Perù fino a prossime elezioni. Dina Boluarte da vicepresidente passa ad essere Presidente del Perù fino alle elezioni del prossimo 2026. Appartiene allo stesso partito dell’ex Presidente Castillo ed ha assunto vari incarichi importanti in quest’ultimo anno: già Vicepresidente del Perù, già Ministro dello Sviluppo e dell’Inclusione Sociale. Da oggi, inoltre, assumerà la Presidenza protempore della Comunità Andina.
Ho contattato il politologo Andy Phillips Zeballos per avere le prime impressioni a caldo su quello che sta succedendo a Lima in questo momento.
“Lo scioglimento delle Camere è anticostituzionale. Non c’è nessun appiglio legale che possa consentirlo in base alla congiuntura politica. Pertanto si respira incredulità e un rifiuto generalizzato, in base alle notizie che circolano in queste ore, da parte della popolazione. Nei minuti successivi all’annuncio il Parlamento ha votato una mozione di sfiducia contro il Presidente Castillo, con 101 voti. Con quest’atto è stato sfiduciato Castillo e abbiamo la prima donna Presidente della Repubblica del Perù, Dina Boluarte. Il potere giudiziaro, le Forze Armate e i mezzi di comunicazione hanno sempre appoggiato il Parlamento insieme alla coalizione di destra che dal principio ha voluto eliminare politicamente Castillo per prenderne il posto. La destra sembra riuscirci anche grazie ai pessimi consigli che riceve il già Presidente Castillo. È una sorpresa per noi che abbiamo difeso la Democrazia in questo paese. Non pensavo che facesse questo. Ci ha colto tutti di sorpresa. Ora ci tocca difendere il poco che ci resta da difendere e pensare al progetto di una nuova Costituzione”
È di pochi minuti fa la notizia della detenzione di Pedro Castillo da parte delle Forze Armate del Paese. Si trova in questo momento in una caserma di polizia di Lima con l’ex Presidente del Consiglio dei Minsitri Aníbal Torres. Il Procuratore dello Stato ha già presentato una denuncia penale contro di lui dopo le misure anticostituzionali emesse questa mattina. “La detenzione avviene in base alla facoltà e attribuzioni descritti nell’art. 5 del D.L n°1267 della Legge di Polizia Nazionale del Perù”, hanno dichiarato le autorità locali.
Dal 2016 ad oggi in Perù si sono susseguiti ben 5 presidenti della Repubblica. Sinonimo di incertezza e instabilità in uno dei paesi con i più alti indici di disuguaglianza economica e sociale.
Nel frattempo, alcune sedi diplomatiche come quella del Messico nella zona di San Isidro, sono state bloccate da centinaia di manifestanti che impediscono la possibile richiesta e l’eventuale tentativo di accesso di Pedro Castillo e famiglia come richiedenti di asilo politico. Nel vicino Ecuador, son state già potenziate misure di sicurezza alla frontiera sud del paese.
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Al Jazeera denuncia Israele alla Cpi dell’Aja: «Shireen Abu Akleh fu colpita intenzionalmente»
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 7 dicembre 2022 – Non si arrende Al Jazeera. Il network qatariota afferma di essere in possesso di nuovi elementi a sostegno della sua tesi di spari intenzionali da parte di uno o più soldati israeliani contro la sua corrispondente in Cisgiordania, la palestinese con cittadinanza statunitense Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso 11 maggio. E ieri ha denunciato lo Stato di Israele alla Corte penale internazionale dell’Aja. «L’affermazione secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa per errore in uno scontro a fuoco è completamente infondata», afferma la tv. Quest’ultimo sviluppo giunge dopo un’indagine del team legale di Al Jazeera che avrebbe fatto emergere «nuove prove basate su resoconti di testimoni oculari, l’esame di riprese video e risultati forensi». La risposta del premier israeliano uscente Yair Lapid è stata secca: «Nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell’esercito israeliano. Nessuno ci può fare la morale sul comportamento in guerra, tanto meno la rete tv Al Jazeera». Il futuro ministro della Pubblica sicurezza e leader dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir ha descritto Al Jazeera come «antisemita» e chiesto la sua espulsione.
Israele respinge l’idea che magistrati e commissioni d’inchiesta internazionali possano svolgere indagini sulle azioni del suo esercito e delle sue forze di sicurezza nei Territori palestinesi che occupa da 55 anni. Sostiene che il suo sistema giudiziario militare è in grado di giudicare in modo indipendente. Tuttavia, dati e statistiche esaminate dai centri per la difesa dei diritti umani, a cominciare dall’israeliano B’Tselem, evidenziano che solo in casi rari la magistratura militare israeliana, dopo le denunce presentate da civili palestinesi o in seguito ad offensive ed operazioni dell’esercito a Gaza e in Cisgiordania, ha chiesto l’incriminazione di soldati o agenti della guardia di frontiera (polizia). L’inchiesta, dice B’Tselem, di solito viene chiusa senza conseguenze per i militari. Si attende, ad esempio, l’esito di quella relativa a un caso della scorsa settimana. Ammar Mufleh, un palestinese di 23 anni, è stato fermato ad Huwara (Nablus) da un soldato israeliano. Un filmato mostra Mufleh tenuto per la testa dal militare. Il giovane, disarmato, sferra pugni sul braccio e sul torace del militare che a un certo estrae una pistola e gli spara contro più colpi, anche quando è a terra, uccidendolo all’istante. I palestinesi denunciano una «esecuzione a sangue freddo» simile, affermano, ad altre avvenute in questi ultimi anni in occasione di attacchi, spesso solo tentati o minacciati, all’arma bianca a soldati israeliani. Questi ultimi, aggiungono, sparerebbero intenzionalmente «per uccidere sul posto» l’aggressore. Il soldato di Huwara (un druso), intervistato da un tv israeliana, ha detto di aver aperto il fuoco perché si è sentito in pericolo di vita e perché il palestinese voleva prendergli il mitra. L’inchiesta, sostengono i palestinesi, non metterà in dubbio la sua versione.
Al Jazeera in ogni caso non intende accettare la spiegazione data da Israele dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, ossia che la giornalista sia stata colpita «accidentalmente» da tiri dei soldati. Tesi accolta nei mesi scorsi da un team di investigatori statunitensi. «Le prove presentate alla Corte dell’Aja – ha spiegato l’emittente che ha anche mandato in onda un nuovo servizio d’inchiesta sull’accaduto – ribaltano le tesi delle autorità israeliane e confermano, al di là di ogni dubbio, che non c’erano scambi di colpi d’arma da fuoco nella zona dove si trovava la giornalista se non quelli indirizzati direttamente a lei dalle Forze di occupazione israeliane». «Le evidenze mostrano – ha proseguito la tv qatariota – che questa uccisione deliberata faceva parte di una campagna più vasta per colpire e silenziarci».
L’avvocato della tv, Rodney Dixon, ha spiegato che sta lavorando per identificare chi è direttamente coinvolto nell’uccisione di Abu Akleh. Al Jazeera vuole anche una indagine della Cpi sulla distruzione, durante la guerra del maggio 2021, da parte dell’aviazione israeliana, dell’edificio con la sua sede a Gaza city. Israele la giustificò con la presunta presenza nel palazzo di combattenti di Hamas. Pagine Esteri
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