Il Giappone raddoppia le spese militari
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 22 dicembre 2022 – Non è la prima volta, negli ultimi anni, che il Giappone aumenta la spesa militare e decide di rafforzare il suo esercito, contravvenendo alle imposizioni “pacifiste” dettate dagli alleati – in particolare dagli Stati Uniti – dopo la sconfitta di Tokyo nella Seconda Guerra Mondiale.
Spese militari al 2% del Pil
Questa volta, però, il governo di Fumio Kishida ha deciso l’aumento più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale delle spese per la Difesa, che passano nel 2023 da 5200 miliardi a 6500 miliardi di yen, l’equivalente di 47 miliardi di dollari.
Come se non bastasse, il boom della spesa militare aprirà la strada ad un aumento fino al 2% del Prodotto interno lordo, portandola al livello dei paesi della Nato.
Il premier punta infatti ad aumentare il bilancio della Difesa per gli anni che vanno dal 2023 al 2027 fino a 318 miliardi di dollari, con un raddoppio di fatto rispetto al quinquennio che si sta chiudendo. Poco importa che l’articolo 9 della Costituzione giapponese, analogamente a quanto previsto dall’articolo 11 della Magna Carta italiana, reciti che «Il popolo rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali».
Le opposizioni denunciano il carattere militarista della decisione e il pericolo che questa scateni un’ulteriore escalation con Pechino e Pyongyang, e sottolineano che l’aumento delle spese militari sottrae importanti risorse ad un paese già sottoposto ad una forte crisi fiscale e ad un indebitamento pubblico da record. L’approvazione dell’aumento delle spese per la Difesa è stata preceduta da una polemica interna al Partito Liberal Democratico – principale forza del governo insieme al Komeito – tra coloro che proponevano di utilizzare i titoli di stato per coprire le nuove spese e il premier che invece ha optato per un aumento delle tasse. La Legge Finanziaria include un aumento graduale della tassazione sulle imprese a partire dal 2024 e altri provvedimenti volti a reperire le necessarie risorse addizionali.
Manifestazione pacifista a Tokyo
Colpire la Cina
Il boom delle spese militari servirà a rafforzare le forze armate e a finanziare un piano di massiccio riarmo per sostenere la competizione militare nella regione dell’Indo-Pacifico. L’obiettivo del Giappone, affermano fonti del governo Kishida, è dotarsi di una forza convenzionale di deterrenza in grado di tenere testa alle ambizioni militari della Repubblica Popolare Cinese e di difendersi dalle minacce della Corea del Nord.
Tokyo intende aumentare significativamente la proiezione a lungo raggio della propria capacità militare, e a questo scopo ha deciso l’acquisto dagli Stati Uniti di alcune centinaia di Tomahawk; i missili da crociera statunitensi hanno infatti una gittata massima di 1600 km, che permetterebbe al Giappone di colpire obiettivi in territorio cinese in caso di conflitto.
L’esecutivo Kishida si è inoltre impegnato ad aumentare la gittata dei propri missili anti-nave, a sviluppare armi ipersoniche e a creare una forza speciale di auto-difesa contro i cyber-attacchi. Tokyo si è detta anche interessata a partecipare alla realizzazione dei caccia di sesta generazione Tempest, alla quale partecipano già la britannica BAE Systems e l’italiana Leonardo.
A spingere Tokyo ad adottare una politica di difesa più aggressiva, afferma il Washington Post, sarebbe stata anche l’invasione russa dell’Ucraina. «Il Giappone voleva limitare la sua spesa in materia di difesa ed evitare l’acquisto di sistemi d’arma d’attacco. Tuttavia, la situazione internazionale non ci consente di farlo» ha spiegato al quotidiano l’ex ambasciatore giapponese a Washington Ichiro Fujisaki.
Nella scia di Shinzo Abe
La realtà è che già durante il lungo governo del nazionalista Shinzo Abe, esponente della corrente più conservatrice del Partito Liberal Democratico (al governo quasi ininterrottamente dal 1955), Tokyo ha intrapreso il cammino verso una politica estera più aggressiva e militarista.
Prima del suo assassinio nel luglio scorso, Abe ha operato per centralizzare le politiche di sicurezza; ha riformato la Costituzione per affermare il cosiddetto “diritto all’autodifesa collettiva” del paese consentendo alle forze armate di intervenire in un conflitto non solo per difendere il Giappone ma anche un alleato contro un attacco esterno; infine, ha più volte aumentato gli stanziamenti per la Difesa fino a portare Tokyo al nono posto della classifica mondiale della spesa militare.
È anche vero, però, che l’invasione russa dell’Ucraina e i timori di un imminente attacco cinese a Taiwan hanno fatto aumentare il sostegno dell’opinione pubblica giapponese – tradizionalmente pacifista – al riarmo e alla creazione di un esercito forte e moderno.
All’inizio di dicembre una fonte del governo giapponese aveva già rivelato che l’esecutivo intende aumentare la presenza del proprio esercito nell’isola sudoccidentale di Okinawa “in previsione di un possibile scontro con la Cina su Taiwan». Il Ministro della Difesa Yasukazu Hamada prevede di portare a due il numero di reggimenti di fanteria di stanza sull’isola. Inoltre Tokyo prevede di triplicare le unità di difesa contro i missili balistici nelle Nansei, un arcipelago in parte contiguo a Taiwan, mentre le Forze di autodifesa aerea giapponesi sono state inviate per la prima volta nelle Filippine per partecipare a esercitazioni congiunte.
Il premier giapponese Fumio Kishida
Gli Usa plaudonoLa nuova versione della Strategia di sicurezza nazionale varata dal governo di Fumio Kishida – a lungo ministro degli Esteri nei governi di Shinzo Abe – definisce la Cina «una sfida strategica senza precedenti», allineandosi così alla visione di Washington.
Non stupisce quindi l’entusiasmo manifestato nei confronti della storica decisione da parte degli Stati Uniti, che nel paese del Sol Levante mantengono da sempre un sostanzioso contingente militare dislocato in diverse basi. Da tempo la Casa Bianca chiede a Tokyo un maggiore protagonismo militare nel Pacifico in funzione anti-cinese. L’ambasciatore di Washington a Tokyo, Rahm Emanuel, ha definito la misura «una pietra miliare epocale» nelle relazioni tra i due paesi, indispensabile per fare dell’Indo-Pacifico un «territorio libero e aperto». Per il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, «L’obiettivo del Giappone di aumentare significativamente gli investimenti nella difesa rafforzerà e modernizzerà anche l’alleanza Usa-Giappone».
Pechino: “non siamo una minaccia”Di segno opposto, ovviamente, la reazione di Pechino. Il governo cinese ha infatti denunciato che Tokyo «accusa falsamente la Repubblica Popolare Cinese di ricattare il Giappone attraverso misure economiche coercitive e di intraprendere attività militari minacciose che destano grande preoccupazione nella comunità internazionale».
L’ambasciata cinese in Giappone ha affermato che la nuova Strategia di sicurezza di Tokyo viola numerose intese raggiunte negli ultimi anni tra i due governi e alimenta le tensioni regionali invece di promuovere la stabilizzazione e la pace. «La Cina ha sempre aderito alla strada dello sviluppo pacifico, ha perseguito una politica nazionale di natura difensiva e non ha mai istigato né partecipato a una corsa agli armamenti», ha affermato la sede diplomatica di Pechino, difendendo la posizione del proprio governo su Taiwan e sulle isole Senkaku, che la Cina considera parte del proprio territorio nazionale. L’ambasciata ha infine invitato il Giappone a non giustificare il proprio riarmo con la «teoria della minaccia cinese» e a scegliere la strada del consenso politico considerando i due Paesi come «partner e non come reciproche minacce».
Ma proprio nei giorni scorso le unità navali del Giappone sono entrate in stato di allerta dopo l’individuazione di alcune unità militari cinesi, tra le quali la portaerei Liaoning, nelle acque territoriali rivendicate sia da Tokyo sia da Pechino. Secondo il Ministero della Difesa giapponese si tratterebbe della nona “incursione” cinese da novembre.
Nel tentativo di frenare le rivendicazioni di Pechino nel Mar cinese meridionale, Tokyo ha negli ultimi anni rafforzato la cooperazione diplomatica e militare con le Filippine e il Vietnam, paesi coinvolti in altrettanti contenziosi con Pechino per il controllo di alcune aree. Nei mesi scorsi, inoltre, Tokyo ha tentato di stringere i rapporti con l’Indonesia che finora ha sempre cercato di porsi come mediatrice nei conflitti regionali.
Anche la Repubblica Popolare di Corea ha reagito negativamente all’aumento record delle spese militari da parte del Giappone, definendolo un «pericoloso errore che muterà in maniera netta il contesto di sicurezza regionale». «Il Giappone sta causando una grave crisi di sicurezza nella Penisola coreana e nell’Asia orientale, adottando una nuova strategia di sicurezza che ammette a tutti gli effetti l’attacco preventivo contro Paesi terzi» afferma una nota del Ministero degli Esteri di Pyongyang. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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SONDAGGIO. Senza negoziati né diritti, i palestinesi «votano» per la lotta armata
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 17 dicembre 2022 – Scorrendo i risultati del sondaggio appena pubblicato dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr), il sociologo Khalil Shikaki non esita a parlare di un «cambiamento radicale avvenuto in pochi mesi» nell’opinione pubblica palestinese, in particolare in Cisgiordania. Il dato che più di altri balza all’occhio è quello dell’aumento netto, rispetto al sondaggio precedente, del sostegno alla lotta armata contro l’occupazione israeliana. «Il 72% dei 1.200 intervistati si è detto favorevole alla nascita di gruppi armati simili alla Fossa dei Leoni», dice Shikaki riferendosi all’organizzazione che ha la sua roccaforte nella casbah di Nablus e che riunisce militanti di diversi orientamenti politici.
Una crescita che Shikaki vede come conseguenza anche dell’escalation in Cisgiordania dove si ripetono, quasi con frequenza quotidiana, i raid dell’esercito israeliano. Il bilancio provvisorio di palestinesi uccisi nel 2022 è di 166, tra i quali donne e minori. Di pari passo, sottolinea il sociologo, «Stiamo assistendo a un calo evidente nella percentuale di coloro che appoggiano la soluzione a due Stati (Israele e Palestina), data l’assenza di negoziati diplomatici». Il sostegno a una risoluzione negoziata del conflitto è ora al 32%. Un decennio fa il supporto si attestava al 55%.
Il sondaggio ha solo rivelato in cifre ciò che è palpabile nelle strade della Cisgiordania. L’assenza di qualsiasi prospettiva di una soluzione politica all’occupazione cominciata nel 1967 e l’intensificarsi della campagna militare israeliana, sembrano aver convinto un numero crescente di palestinesi, soprattutto quelli più giovani, che l’unica opzione sia quella armata.
Nel frattempo, gran parte della popolazione perde fiducia nell’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen. L’87% degli intervistati ha detto ai ricercatori del Pcpsr che l’Anp non ha il diritto di arrestare i membri dei gruppi armati per impedire gli attacchi all’esercito israeliano. Il 79% si è anche detto contrario alla resa dei combattenti e alla consegna delle loro armi all’Anp.
L’emblema del gruppo armato di Nablus “Fossa dei Leoni”
Questi numeri assumono una rilevanza maggiore se si tiene conto che la classe media palestinese – formata in prevalenza da impiegati dell’Anp, da imprenditori e professionisti – è stata negli ultimi venti anni in buona parte contraria non solo alla lotta armata ma anche riluttante ad appoggiare una nuova Intifada popolare contro l’occupazione poiché avrebbe messo in discussione il suo status. Una posizione che, spiegano gli analisti palestinesi, è mutata di fronte alla insostenibilità dell’occupazione che dura da 55 anni.
Gli imprenditori, piccoli e grandi, solo per fare un esempio, incontrano difficoltà crescenti a operare negli stretti margini consentiti da regole e procedure imposte dall’Amministrazione Civile (Ac) israeliana, che per conto delle forze armate è responsabile della gestione della vita quotidiana di milioni di palestinesi, a eccezione delle competenze specifiche dell’Anp di Abu Mazen. L’Ac, attraverso la concessione di permessi di lavoro in Israele a 140mila manovali palestinesi, ha reso dipendente dallo Stato ebraico una quota significativa di famiglie cisgiordane, pur migliorando le loro condizioni di vita. Allo stesso tempo, non ha fatto nulla per tutte le altre.
I palestinesi, dall’operaio all’imprenditore, sono soggetti ogni giorno all’ottenimento di permessi, autorizzazioni e altro ancora dagli occupanti mentre, talvolta a poche centinaia di metri dalle loro abitazioni, i coloni israeliani godono di libertà di movimento e pieni diritti. Anche questi aspetti si riflettono nei risultati del sondaggio del Pcpsr.
E i palestinesi si attendono un peggioramento del quadro generale quando entreranno in carica i ministri, nonché leader della destra ultranazionalista, del nuovo governo israeliano. Il 61% degli intervistati pensa che l’esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu sarà più estremista, il 64% si aspetta che il prossimo governo espellerà le famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, il 68% che evacuerà con la forza i beduini palestinesi di Khan al-Ahmar e il 58% che cambierà lo status quo alla moschea Al-Aqsa. Previsioni certo non infondate. Pagine Esteri
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PODCAST. Netanyahu ha il suo governo. Domina la destra estrema, pugno di ferro con i palestinesi
di Eliana Riva
(Benyamin Netanyahu in una foto di Hudson Institute)
Pagine Esteri, 23 dicembre 2022 – Benyamin Netanyahu sebbene sia alla testa di un’alleanza che ha conquistato 64 dei 120 seggi della Knesset è stato in grado di sciogliere la riserva solo pochi minuti prima della scadenza dell’incarico ricevuto dal capo dello stato Herzog. Peraltro non ha ancora comunicato la lista dei ministri. Un segno della debolezza politica. Il premier infatti è sotto processo per corruzione e dipende dall’appoggio dei leader di Otzmah Yehudit e Sionismo religioso, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che al voto del primo novembre hanno ottenuto un successo senza precedenti e per questo hanno preteso e ottenuto ministeri importanti e poteri straordinari. La nuova maggioranza sarà composta dal Likud di Netanyahu, il partito Sionismo religioso (destra estrema), la formazione Otzmah Yehudit (erede del movimento razzista Kach), i due partiti ultraortodossi Shas e Ebraismo unito nella Torah e il piccolo ma agguerrito partito omofobo Noam. Gli analisti prevedono che farà uso del pugno di ferro con i palestinesi. Abbiamo intervistato a Gerusalemme Michele Giorgio, corrispondente del quotidiano Il Manifesto e direttore di Pagine Esteri.
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Di salari e pensioni non si campa più. Un programma di lotta - Contropiano
«La demolizione dei contratti nazionali e della scala mobile sono i perni su cui ha agito la compressione dei salari pretesa dalle imprese per “rilanciare la competitività”.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la guerra al lavoro salariato ha impoverito la classe lavoratrice e insieme a lei l’intero Paese.
Gli industriali hanno invece ricevuto e continuano a ricevere una valanga di euro, in sconti fiscali e contributivi, riduzione delle bollette, fondi e superammortamenti per investimenti industriali. Senza contare le ristrutturazioni finanziate con l’uso disinvolto degli ammortizzatori sociali.»
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#uncaffèconluigieinaudi☕ – La grande maggioranza degli uomini non pensa colla propria testa
La grande maggioranza degli uomini non pensa colla propria testa. Aderisce al pensiero ed alla volontà altrui. Ma vuole essere persuasa
da Maior et sanior pars, in “Idea”, gennaio 1945
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Ucraina – Russia: Stati Uniti non più neutrali (se lo sono mai stati)
In un articolo di ieri, scritto peraltro prima dell’incontro tra Joe Biden e Volodimyr Zelensky, ho scritto che la situazione è al limite del massimo rischio, ma specialmente, una volta di più, facevo notare, e vorrei tornarci ora, quanto le cose siano meno chiare e meno nette di quanto non sembri, ma specialmente molto più pericolose. […]
L'articolo Ucraina – Russia: Stati Uniti non più neutrali (se lo sono mai stati) proviene da L'Indro.
Sbilancio
Mi sbilancio: la legge di bilancio, come ha preso forma, è buona in tutto quello di cui nessuno parla, mentre tutti siamo stati trascinati a parlare di quel che non ha senso, o non c’è, o non c’è più.
Se quella legge, ogni anno, fosse discussa in modo ragionevole, con una procedura razionale, non solo sarebbero maggiormente emersi i suoi aspetti positivi, ma su quelli il consenso, in Parlamento, potrebbe essere più vasto. Come, del resto, Fratelli d’Italia, dall’opposizione, condivideva la linea del governo Draghi, contro imprudenti e controproducenti scostamenti di bilancio. Allora come oggi, però, il problema non era nel Parlamento tutto, ma nella maggioranza. Il voto di fiducia, che ora la destra impone e ieri detestava, che oggi la sinistra detesta e ieri imponeva, non avrebbe ragion d’essere se non servisse a fermare pezzi della maggioranza. Tanto la minoranza, ove il governo non ne condivida le proposte, è minoranza.
Sicché i dati politici sono tre. Il primo è relativo ai saldi di bilancio e al suo equilibrio complessivo, confermando la continuità con il governo precedente. Una continuità che consiste nel collaborare, non guerreggiare con le istituzioni europee e che si vedrà anche nel conseguimento degli obiettivi a scadenza ravvicinata, relativi al Pnrr. Il resto è caciara, guerra di pupazzi. Come lo era, del resto, contestare quegli equilibri quando si era all’opposizione.
Il secondo dato è relativo alle tante cose che sono entrate e uscite, o snaturate, di cui si è parlato: tutta roba propagandistica, in qualche caso masochista. La corsa a far vedere il rispetto delle “promesse” le ha in gran parte compromesse e contraddette. Per cambiare le cose occorre tempo e le persone serie non lavorano per il titolo del giorno appresso, ma per il risultato dell’anno successivo.
Il che porta al terzo dato, quello più preoccupante: le riforme sono annunciate, ma inesistenti. Ci sono casi, come la giustizia, in cui le intenzioni sono chiare, ma il tragitto no. Altri, come il fisco, in cui non è chiara né l’una né l’altra cosa, al punto che chi chiede la flat tax, quindi la fine della progressività, poi vuole correlare le multe al reddito. Altri ancora, come il reddito di cittadinanza, in cui si taglia la spesa in virtù di una riforma di cui non si vedono neanche i contorni. Intanto si promettono ancora “aiuti”, che di per loro sono solo l’incentivo a pensare la spesa pubblica come cassa cui attingere e non come strumento per riformare.
Il bilancio c’è, la politica è sbilanciata. L’opposizione è ancora traumatizzata e spaesata. I pentastellati si sono trasformati da partito governativo a oltranza in partito d’opposizione a prescindere. Di poltrona e di piazza, diciamo. Mentre il Partito democratico perde ulteriormente consensi non tanto per questo o quello “scandalo”, ma per la scandalosa assenza di iniziativa politica. Il che metterebbe la maggioranza al sicuro, se non fosse che cova problemi interni, con la Lega che prova a riprendere visibilità, spingendo l’esecutivo a commettere errori che poi comportano retromarce, mentre Forza Italia, senza più la forza elettorale per coalizzare forze minori e talora opposte, non trova il ritmo di una nuova missione. In questo modo gruppi e sottogruppi indeboliti diventano scialuppe per traghettare emendamenti che rispondono più a pressioni particolari che a interessi generali.
È così che la legge di bilancio sembra peggiore, non avendo il coraggio, la schiettezza politica e l’orgoglio di mettere in luce quel che ha di migliore.
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2023: fine dei giochi per Ucraina e NATO?
Dal 24 febbraio, quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la probabilità di una guerra nucleare è diventata una minaccia incombente difficile da ignorare. Pertanto, è nel nostro migliore interesse collettivo – leader, pensatori, attivisti e altri influencer – impegnarsi attivamente e contribuire al disinnesco o alla prevenzione di tale minaccia. E questo richiederà un certo […]
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NATO: l’articolo 5 nel prossimo decennio
La difesa collettiva è al centro della sicurezza europea. Sancito dall’articolo 5 del suo trattato istitutivo, gli alleati della NATO vedono “un attacco armato contro uno o più di loro in Europa o Nord America sarà considerato un attacco contro tutti loro”. Scritto più di settant’anni fa con in mente la minaccia di un’invasione sovietica […]
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La guerra in Ucraina vista dalla Georgia
Ho ricevuto una recente corrispondenza da un amico in Georgia (l’ex Repubblica Sovietica, non la patria dei Bulldog) che ha fatto alcune osservazioni interessanti su come i russi hanno reagito alla guerra e su come ha colpito la Georgia. L’aggressione di Putin contro le ex repubbliche sovietiche risale all’invasione russa della Georgia nel 2008. Le […]
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Il Qatar è stato solo l’inizio mentre il Medio Oriente osserva gli sport asiatici
Questo decennio e oltre potrebbe essere l’era degli sport mediorientali. Potrebbe non essere ancora arrivato, ma la Coppa del Mondo in Qatar è stata il calcio d’inizio piuttosto che il finale. Il Qatar e l’Arabia Saudita saranno i punti focali di questo decennio degli sport asiatici. Entro il 2030, l’Egitto e la Turchia potrebbero entrare […]
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L’Azerbaigian sfrutta la distrazione dell’Ucraina per avvantaggiarsi nel conflitto armeno
Il traffico attraverso il Corridoio di Lachin – l’unica via che collega la contesa regione del Nagorno-Karabakh con l’Armenia – è stato bloccato per il quinto giorno da autoproclamati attivisti ambientalisti azeri. Questa chiusura crea una potenziale crisi umanitaria per la popolazione armena del Nagorno-Karabakh, poiché è tagliata fuori dalle forniture mediche e alimentari dall’Armenia, […]
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L’invasione russa ha unito l’Ucraina
Da quando l’Ucraina ha riconquistato l’indipendenza nel 1991, la copertura occidentale del Paese ha avuto la tendenza a esagerare le differenze regionali, creando l’impressione di uno stato debole con lealtà divise. Le rappresentazioni fuorvianti dell’Ucraina come nazione divisa tra l’est filo-russo e l’ovest filo-europeo hanno avuto un profondo impatto sulle percezioni esterne, portando molti osservatori […]
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In Ucraina la Russia è “condannata a vincere”
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – La guerra in Ucraina sta per entrare nel decimo mese ma i combattimenti non sembrano affatto vicini alla conclusione.
Il fronte occidentale continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente Kiev affermando di mirare – come d’altronde ripete quotidianamente Volodymyr Zelensky – alla definitiva sconfitta della Federazione Russa e al completo ritiro delle sue truppe da tutto il territorio ucraino.
La Russia non può perdere
Ma la verità – e lo sanno bene le cancellerie dei paesi aderenti al Patto Atlantico – è che la Russia non può perdere, perché un passo falso in Ucraina potrebbe segnare la fine del potere di Vladimir Putin e gravi conseguenze per la Federazione.
Nei giorni scorsi Zelensky ha affermato che «se morisse Putin la guerra finirebbe», ma non è affatto scontato. Certo, a Mosca potrebbe prevalere la corrente pragmatica dell’establishment, cosciente dei limiti oggettivi della macchina militare e dell’economia russa e magari incline a cercare una ricomposizione con la Nato, alla quale del resto la Russia si era fortemente avvicinata a metà degli anni ’90 del secolo scorso (ai tempi della “Partnership for Peace”), prima che Washington la escludesse e iniziasse l’assedio.
Il contesto internazionale attuale, però, non sembra certo evolvere verso una ricomposizione tra i vari poli della competizione globale tra potenze e blocchi geopolitici. La sconfitta del più consistente tentativo finora intrapreso da Mosca di riprendersi un pezzo importante dello spazio territoriale e geopolitico occupato prima dall’impero russo e poi dall’Urss, costituirebbe un grave shock non solo per l’attuale dirigenza russa ma soprattutto per le correnti ancora più radicali dello scenario politico russo, nel quale nazionalismo e sciovinismo prendono sempre più piede.
In caso di fallimento, è proprio da questi ambienti radicali che dovrebbe difendersi Putin, la cui caduta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da parte della Russia nello strenuo tentativo di evitare un possibile collasso in uno scontro con la Nato sempre più diretto, per quanto per ora combattuto sul suolo ucraino. Le difficoltà di Mosca stanno già creando scompiglio negli “stan” dell’Asia Centrale, dove i vari regimi cercano di limitare la tradizionale influenza russa rafforzando le relazioni economiche e militari con la Cina, la Turchia e i paesi occidentali.
Qual è l’obiettivo di Mosca?
Non è affatto chiaro, però, cosa Putin consideri sufficiente per dichiararsi vincitore. Nelle prime settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, sembrava che la cosiddetta “operazione militare speciale” puntasse non solo alla conquista del maggior numero di territori possibile ma anche a imporre a Kiev un governo fantoccio o comunque incline ad una trattativa impari con Mosca.
Poi, fallita la presa di Kiev e la decapitazione della leadership ucraina, la strategia del Cremlino sembrava mirare a occupare quantomeno tutta l’Ucraina sud-orientale per conquistare una stabile continuità territoriale con la Crimea e assimilare la maggior parte dei territori abitati dai russofoni, appropriandosi oltretutto delle zone più ricche di risorse naturali e infrastrutture industriali.
Nelle ultime settimane, invece, la strategia di Mosca sembra essere ulteriormente mutata: ora sembra che Putin miri a tenersi almeno alcuni dei territori annessi dopo aver deciso di abbandonare Kherson e le zone sulla sponda destra del fiume Dnipro, la cui difesa sarebbe costata un prezzo eccessivo, puntando nel contempo a fiaccare l’Ucraina per obbligare la sua la leadership a trattare.
Mosca martella città e infrastrutture
A questo mirano gli incessanti e implacabili bombardamenti, con droni e missili, delle infrastrutture civili (soprattutto centrali elettriche e sistemi idrici) e delle città ucraine realizzati dalle forze russe guidate da ottobre dal generale Sergej Surovikin.
Anche se Putin ha avvisato che i bombardamenti delle infrastrutture nevralgiche ucraine continueranno “in risposta” al sabotaggio del ponte di Kerč’ da parte di Kiev, appare evidente che Mosca intende piegare la popolazione civile lasciandola al buio, al freddo e senz’acqua durante il lungo e duro inverno ucraino.
Il premier ucraino Denys Smyhal ha avvisato che se gli attacchi ai sistemi elettrici ed idrici continueranno, il Pil del paese potrebbe crollare quest’anno del 50%.
Una relativa pausa invernale dei combattimenti a terra, inoltre, è utile a Mosca anche per addestrare ed inviare al fronte forze fresche, mobilitate in autunno, e riorganizzarsi logisticamente.
Usa e Ue aumentano aiuti e forniture militari
Per tentare di impedire il collasso dell’Ucraina l’Unione Europea si è impegnata a fornire a Kiev, nel corso del 2023, un pacchetto di aiuti pari a 18 miliardi, superando il veto del governo ungherese minacciato da Bruxelles del blocco dei fondi europei.
Dopo aver a lungo tentennato, invece, Washington sembra intenzionata ad inviare alcune batterie di Patriot a Kiev per migliorare la difesa antiaerea ucraina almeno sulla capitale del paese. Fornendo i Patriot, in grado di individuare e distruggere aerei e missili nemici anche a notevole distanza (ma non i droni), gli Stati Uniti sperano di diminuire l’intensità dei bombardamenti russi e dare un po’ di respiro a Kiev.
La formazione del personale in grado di utilizzare questo scudo antiaereo, però, è una procedura che richiede mesi; Mosca teme quindi che la Nato decida di far gestire inizialmente i Patriot al proprio personale militare, il che aumenterebbe ulteriormente il grado coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica nel conflitto in corso.
Proprio nei giorni scorsi, d’altronde, il tenente generale Robert Magowan, ex comandante dei Royal Marine di Londra, ha ammesso esplicitamente che alcune unità d’élite della marina britannica hanno partecipato a missioni «ad alto rischio politico e militare» e ad «operazioni segrete» sul suolo ucraino.
Gli Usa – che in totale hanno finora fornito all’Ucraina 19,3 miliardi di aiuti militari – hanno già inviato a Kiev alcuni missili HIMARS, imponendo però agli ucraini di utilizzarli solo per colpire le forze di Mosca sul suolo del paese invaso e non oltre il confine russo.
All’inizio di dicembre, comunque, Kiev ha deciso di bombardare, con droni dell’epoca sovietica potenziati, le basi russe di Ryazan ed Engels e un impianto petrolifero vicino a Kursk, centinaia di chilometri oltre il confine. Se gli attacchi hanno avuto un innegabile effetto psicologico sia in patria sia oltreconfine, la sortita non ha certo inciso sugli equilibri bellici. Mosca ha infatti risposto con massicci bombardamenti lanciando missili di ultima generazione realizzati negli ultimi mesi nonostante l’embargo alla quale la Russia è sottoposta da parte di Usa ed Ue.
La guerra sarà lunga
Da parte sua la Nato continua a inviare segnali contraddittori. Da una parte frena, tendenzialmente, gli impeti ucraini nel timore che Mosca si convinca ad usare tutti i mezzi a sua disposizione alzando il livello dell’asticella. D’altra parte, però, l’Alleanza Atlantica non ha nessun interesse ad un cessate il fuoco che concederebbe ossigeno a Mosca e potrebbe fomentare le contraddizioni interatlantiche tra Bruxelles – fortemente penalizzata dalla polarizzazione dello scenario mondiale sia sul fronte economico che militare – e Washington e Londra – che invece se ne avvantaggiano.
La Nato sembra puntare ad un lungo conflitto nella speranza non che Kiev cacci definitivamente i russi dal proprio territorio – possibilità alquanto remota – ma che la continuazione dei combattimenti sfianchi a lungo andare la Russia causando una crisi che ridimensioni fortemente le aspirazioni geopolitiche di Mosca.
Parlando al “Consiglio per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani” Putin ha avvisato il popolo russo che la guerra in Ucraina sarà lunga e che sussiste il pericolo che si trasformi in un conflitto nucleare, anche se nessuna delle parti ammette di poter utilizzare per prima l’opzione atomica. Il presidente russo ha però vantato alcuni risultati positivi, come «l’acquisizione di nuovi territori» e il fatto che «il Mar d’Azov è diventato un mare interno della Russia».
Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ammesso che la guerra sarà lunga, insistendo sul fatto che sarà il campo di battaglia a decidere dove e quando si terranno eventuali colloqui di pace, escludendo quindi una trattativa con Mosca. Una trattativa che in realtà esiste già, per quanto dietro i riflettori, come dimostra il recente scambio tra un’atleta statunitense arrestata in Russia per traffico di stupefacenti e Viktor Bout, un ex ufficiale dell’aeronautica sovietica arrestato dagli Usa perché accusato di trafficare armi. A rivelare i contatti tra Russia e USA anche le reazioni infastidite e preoccupate di Kiev dei giorni scorsi; evidentemente gli ucraini temono un accordo tra le potenze nucleari che li bypassi.
Il Donbass sempre più martoriato
Paradossalmente, sia Putin che Stoltenberg hanno convenuto su un fatto che spesso l’informazione e la politica tendono a dimenticare: la guerra in corso non è iniziata il 24 febbraio scorso ma nel 2014, quando con il sostegno della Nato le correnti nazionaliste e scioviniste ucraine presero il potere a Kiev lanciando una “operazione militare speciale” contro le popolazioni russofone del Donbass che si opponevano al nuovo regime, a loro volta sostenute da Mosca che decise di annettersi la Crimea.
Il Donbass rimane il territorio più martoriato nei combattimenti, con le forze russe impegnate da settimane a tentare di strappare a Kiev la città di Bakhmut, strategica per l’eventuale conquista di centri come Kramatorsk, Slovjansk, Lyman e Izium.
Nelle ultime ore sembrerebbe che le forze di Mosca stiano avendo la meglio e stiano lentamente avanzando, dopo che negli ultimi due mesi non si sono registrati cambiamenti significativi della linea del fronte. Dal canto loro, le autorità dell’ormai ex Repubblica Popolare di Donetsk denunciano i più massicci bombardamenti dal 2014, che stanno riducendo le città in macerie e terrorizzando quella parte della popolazione che ha deciso di non evacuare in Russia. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Iran, lo stupro mortale
Ragazzina di 14 anni violentata e uccisa dai pasdaran, si era tolta il velo in classe come segno di protesta
TEL AVIV. Un gesto da adulta e da rivoluzionaria, togliersi il velo in classe in segno di solidarietà con le proteste che scuotono il suo Paese da oltre tre mesi, è costato la vita a una 14enne iraniana di Teheran, di nome Masooumeh. Dopo essere stata identificata attraverso le registrazioni delle telecamere di sorveglianza all’interno della scuola, l’adolescente è finita in custodia. Fino a quando, trasferita in ospedale per gravi lacerazioni vaginali, è morta. A riferirlo al New York Times è stato Hadi Ghaemi, direttore del Center for Human Rights in Iran, che ha anche espresso preoccupazione per la madre della ragazzina, scomparsa dopo aver minacciato di denunciare l’accaduto.
«L’Iran usa lo stupro per imporre la modestia alle donne», denuncia Nicholas Kristof, editorialista e vincitore di due premi Pulitzer, dalla sua rubrica sul NYT. Le Ong Human Rights Watch e Amnesty International hanno documentato, in modo indipendente, diversi casi di violenza sessuale. «Come le forze di sicurezza iraniane usano lo stupro per reprimere le proteste» è il titolo di una recente inchiesta della Cnn, contestata in cinque punti in un thread su Twitter dall’account dell’agenzia di stampa della Repubblica Islamica Irna. Espulso da una commissione delle Nazioni Unite per i diritti delle donne, il governo di Teheran ha contestato il provvedimento anche attraverso le dichiarazioni della sua vice presidente per gli Affari delle Donne e della Famiglia, Ensiyeh Khazali, che è andata al contrattacco accusando Europa e Stati Uniti di violare i diritti umani.
Ma la storia di Masooumeh ricorda altre morti tragiche di adolescenti iraniane, come la 16enne Nika Shakarami. E di altre donne, abusate e torturate mentre erano in custodia o in carcere per motivi legati alle proteste anti-regime, come la dottoressa 36enne Aida Rostami che curava clandestinamente i manifestanti. «Quanto sta avvenendo in queste settimane in Iran supera ogni limite e non può, in alcun modo, essere accantonato», è stato l’addolorato appello del presidente Sergio Mattarella in un messaggio alla conferenza degli ambasciatori alla Farnesina.
Sono giovani e giovanissime le iraniane coraggiose che si espongono in prima linea. La studiosa delle immagini nei movimenti politici, Parichehr Kazemi, ha pubblicato su The Conversation un’analisi delle fotografie delle proteste in corso nel Paese da oltre tre mesi, all’intersezione tra movimento sociale e rivoluzione. Li definisce scatti «potenti e coinvolgenti» perché giocano su diversi elementi di sfida, attingendo «a una storia più lunga di donne iraniane che scattano e condividono foto e video di azioni considerate illegali, come cantare e ballare per protestare contro l’oppressione di genere» e si basano «sugli sforzi di resistenza passati e su una tradizione di resistenza al governo».
E dopo gli avvertimenti sollevati giorni fa da Amnesty International riguardo all’imminente esecuzione del rapper 24enne Saman Seydi, in arte «Yasin», condannato a morte in prima sentenza dal tribunale, diverse fonti hanno divulgato ieri la notizia che il ragazzo avrebbe tentato di suicidarsi nella prigione Rajaei Shahr di Karaj con un’overdose di pillole. L’agenzia degli attivisti per i diritti umani ha fatto sapere che Seydi è ricoverato nell’infermeria del carcere e attribuisce il gesto del cantante alle torture fisiche e mentali che avrebbe subito anche per strappargli la confessione con cui è stata emessa la sua condanna a morte. Il ragazzo era apparso provato fin dalla prima udienza. Mentre il giudice leggeva le accuse contro di lui, è stato ritratto in foto in lacrime, con la testa tra le mani. I genitori hanno tentato di ottenere il suo rilascio. La madre aveva pubblicato un appello video chiedendo aiuto per il figlio e il padre, in un posto su Instagram, aveva scritto: «Figlio mio Saman, quando guidavi la moto ero preoccupato che ti facessi male. Ma ora non so cosa fare. Non so come potrei continuare la mia vita senza di te».
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Il massacro di Chio (1822)
Il massacro di Chio del 1822 è uno degli eventi più tragici e orrendi avvenuti nel corso della Guerra d’Indipendenza Greca dal dominio ottomano. Introduzione Prima della Guerra d’Indipendenza, la Grecia è rimasta sotto ilContinue reading
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Diseguaglianze, un termine sinistro - Kulturjam
Si utilizza sempre il termine "disuguaglianze", al plurale, per evitare di pronunciarne uno più appropriato, ingiustizia, che politicizzerebbe la questione. Non sia mai.
Il Giappone raddoppia le spese militari
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 22 dicembre 2022 – Non è la prima volta, negli ultimi anni, che il Giappone aumenta la spesa militare e decide di rafforzare il suo esercito, contravvenendo alle imposizioni “pacifiste” dettate dagli alleati – in particolare dagli Stati Uniti – dopo la sconfitta di Tokyo nella Seconda Guerra Mondiale.
Spese militari al 2% del Pil
Questa volta, però, il governo di Fumio Kishida ha deciso l’aumento più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale delle spese per la Difesa, che passano nel 2023 da 5200 miliardi a 6500 miliardi di yen, l’equivalente di 47 miliardi di dollari.
Come se non bastasse, il boom della spesa militare aprirà la strada ad un aumento fino al 2% del Prodotto interno lordo, portandola al livello dei paesi della Nato.
Il premier punta infatti ad aumentare il bilancio della Difesa per gli anni che vanno dal 2023 al 2027 fino a 318 miliardi di dollari, con un raddoppio di fatto rispetto al quinquennio che si sta chiudendo. Poco importa che l’articolo 9 della Costituzione giapponese, analogamente a quanto previsto dall’articolo 11 della Magna Carta italiana, reciti che «Il popolo rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali».
Le opposizioni denunciano il carattere militarista della decisione e il pericolo che questa scateni un’ulteriore escalation con Pechino e Pyongyang, e sottolineano che l’aumento delle spese militari sottrae importanti risorse ad un paese già sottoposto ad una forte crisi fiscale e ad un indebitamento pubblico da record. L’approvazione dell’aumento delle spese per la Difesa è stata preceduta da una polemica interna al Partito Liberal Democratico – principale forza del governo insieme al Komeito – tra coloro che proponevano di utilizzare i titoli di stato per coprire le nuove spese e il premier che invece ha optato per un aumento delle tasse. La Legge Finanziaria include un aumento graduale della tassazione sulle imprese a partire dal 2024 e altri provvedimenti volti a reperire le necessarie risorse addizionali.
Manifestazione pacifista a Tokyo
Colpire la Cina
Il boom delle spese militari servirà a rafforzare le forze armate e a finanziare un piano di massiccio riarmo per sostenere la competizione militare nella regione dell’Indo-Pacifico. L’obiettivo del Giappone, affermano fonti del governo Kishida, è dotarsi di una forza convenzionale di deterrenza in grado di tenere testa alle ambizioni militari della Repubblica Popolare Cinese e di difendersi dalle minacce della Corea del Nord.
Tokyo intende aumentare significativamente la proiezione a lungo raggio della propria capacità militare, e a questo scopo ha deciso l’acquisto dagli Stati Uniti di alcune centinaia di Tomahawk; i missili da crociera statunitensi hanno infatti una gittata massima di 1600 km, che permetterebbe al Giappone di colpire obiettivi in territorio cinese in caso di conflitto.
L’esecutivo Kishida si è inoltre impegnato ad aumentare la gittata dei propri missili anti-nave, a sviluppare armi ipersoniche e a creare una forza speciale di auto-difesa contro i cyber-attacchi. Tokyo si è detta anche interessata a partecipare alla realizzazione dei caccia di sesta generazione Tempest, alla quale partecipano già la britannica BAE Systems e l’italiana Leonardo.
A spingere Tokyo ad adottare una politica di difesa più aggressiva, afferma il Washington Post, sarebbe stata anche l’invasione russa dell’Ucraina. «Il Giappone voleva limitare la sua spesa in materia di difesa ed evitare l’acquisto di sistemi d’arma d’attacco. Tuttavia, la situazione internazionale non ci consente di farlo» ha spiegato al quotidiano l’ex ambasciatore giapponese a Washington Ichiro Fujisaki.
Nella scia di Shinzo Abe
La realtà è che già durante il lungo governo del nazionalista Shinzo Abe, esponente della corrente più conservatrice del Partito Liberal Democratico (al governo quasi ininterrottamente dal 1955), Tokyo ha intrapreso il cammino verso una politica estera più aggressiva e militarista.
Prima del suo assassinio nel luglio scorso, Abe ha operato per centralizzare le politiche di sicurezza; ha riformato la Costituzione per affermare il cosiddetto “diritto all’autodifesa collettiva” del paese consentendo alle forze armate di intervenire in un conflitto non solo per difendere il Giappone ma anche un alleato contro un attacco esterno; infine, ha più volte aumentato gli stanziamenti per la Difesa fino a portare Tokyo al nono posto della classifica mondiale della spesa militare.
È anche vero, però, che l’invasione russa dell’Ucraina e i timori di un imminente attacco cinese a Taiwan hanno fatto aumentare il sostegno dell’opinione pubblica giapponese – tradizionalmente pacifista – al riarmo e alla creazione di un esercito forte e moderno.
All’inizio di dicembre una fonte del governo giapponese aveva già rivelato che l’esecutivo intende aumentare la presenza del proprio esercito nell’isola sudoccidentale di Okinawa “in previsione di un possibile scontro con la Cina su Taiwan». Il Ministro della Difesa Yasukazu Hamada prevede di portare a due il numero di reggimenti di fanteria di stanza sull’isola. Inoltre Tokyo prevede di triplicare le unità di difesa contro i missili balistici nelle Nansei, un arcipelago in parte contiguo a Taiwan, mentre le Forze di autodifesa aerea giapponesi sono state inviate per la prima volta nelle Filippine per partecipare a esercitazioni congiunte.
Il premier giapponese Fumio Kishida
Gli Usa plaudonoLa nuova versione della Strategia di sicurezza nazionale varata dal governo di Fumio Kishida – a lungo ministro degli Esteri nei governi di Shinzo Abe – definisce la Cina «una sfida strategica senza precedenti», allineandosi così alla visione di Washington.
Non stupisce quindi l’entusiasmo manifestato nei confronti della storica decisione da parte degli Stati Uniti, che nel paese del Sol Levante mantengono da sempre un sostanzioso contingente militare dislocato in diverse basi. Da tempo la Casa Bianca chiede a Tokyo un maggiore protagonismo militare nel Pacifico in funzione anti-cinese. L’ambasciatore di Washington a Tokyo, Rahm Emanuel, ha definito la misura «una pietra miliare epocale» nelle relazioni tra i due paesi, indispensabile per fare dell’Indo-Pacifico un «territorio libero e aperto». Per il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, «L’obiettivo del Giappone di aumentare significativamente gli investimenti nella difesa rafforzerà e modernizzerà anche l’alleanza Usa-Giappone».
Pechino: “non siamo una minaccia”Di segno opposto, ovviamente, la reazione di Pechino. Il governo cinese ha infatti denunciato che Tokyo «accusa falsamente la Repubblica Popolare Cinese di ricattare il Giappone attraverso misure economiche coercitive e di intraprendere attività militari minacciose che destano grande preoccupazione nella comunità internazionale».
L’ambasciata cinese in Giappone ha affermato che la nuova Strategia di sicurezza di Tokyo viola numerose intese raggiunte negli ultimi anni tra i due governi e alimenta le tensioni regionali invece di promuovere la stabilizzazione e la pace. «La Cina ha sempre aderito alla strada dello sviluppo pacifico, ha perseguito una politica nazionale di natura difensiva e non ha mai istigato né partecipato a una corsa agli armamenti», ha affermato la sede diplomatica di Pechino, difendendo la posizione del proprio governo su Taiwan e sulle isole Senkaku, che la Cina considera parte del proprio territorio nazionale. L’ambasciata ha infine invitato il Giappone a non giustificare il proprio riarmo con la «teoria della minaccia cinese» e a scegliere la strada del consenso politico considerando i due Paesi come «partner e non come reciproche minacce».
Ma proprio nei giorni scorso le unità navali del Giappone sono entrate in stato di allerta dopo l’individuazione di alcune unità militari cinesi, tra le quali la portaerei Liaoning, nelle acque territoriali rivendicate sia da Tokyo sia da Pechino. Secondo il Ministero della Difesa giapponese si tratterebbe della nona “incursione” cinese da novembre.
Nel tentativo di frenare le rivendicazioni di Pechino nel Mar cinese meridionale, Tokyo ha negli ultimi anni rafforzato la cooperazione diplomatica e militare con le Filippine e il Vietnam, paesi coinvolti in altrettanti contenziosi con Pechino per il controllo di alcune aree. Nei mesi scorsi, inoltre, Tokyo ha tentato di stringere i rapporti con l’Indonesia che finora ha sempre cercato di porsi come mediatrice nei conflitti regionali.
Anche la Repubblica Popolare di Corea ha reagito negativamente all’aumento record delle spese militari da parte del Giappone, definendolo un «pericoloso errore che muterà in maniera netta il contesto di sicurezza regionale». «Il Giappone sta causando una grave crisi di sicurezza nella Penisola coreana e nell’Asia orientale, adottando una nuova strategia di sicurezza che ammette a tutti gli effetti l’attacco preventivo contro Paesi terzi» afferma una nota del Ministero degli Esteri di Pyongyang. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Il Battaglione Azov in visita in Israele «si purifica» a Masada
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 22 dicembre 2022 – Accusati di antisemitismo e di essere neonazisti, eppure accolti con calore in Israele. Militari del famigerato Battaglione Azov, oggi chiamato Reggimento Azov, sono giunti la scorsa settimana, assieme a una delegazione ucraina, a Gerusalemme dove hanno incontrato tra gli altri ufficiali riservisti delle forze armate israeliane. Scopo del viaggio, di cui si è appreso solo due giorni fa da articoli apparsi su alcuni giornali locali, è stato quello di discutere con gli interlocutori israeliani dell’andamento della guerra con la Russia e di smentire quanto si dice a proposito dei sentimenti razzisti dei combattenti dell’Azov.
Sabato la delegazione ucraina è andata nell’area del Mar Morto dove ha visitato il sito archeologico di Masada, la cittadella dove l’esercito romano nel 73, al termine della prima guerra giudaica, mise sotto assedio un gruppo di ribelli zeloti arroccati in una fortezza. Alla fine, i Romani riuscirono ad espugnarla trovandovi i cadaveri di quasi tutti gli assediati che si erano suicidati in massa. Un luogo che, stando a ciò che riferiscono i media israeliani, ha ispirato la guida della delegazione, Ilya Samoilenko, uno degli ufficiali dell’Azov che si sono barricati mesi fa nelle acciaierie dell’Azovstal, al punto da spingerlo a paragonare la difesa di Mariupol dall’attacco russo a quella di Masada contro i Romani. «Quando oggi in Israele si parla della difesa di Mariupol, gli israeliani, comprendendo prima di tutto le differenze militari tra la guerra di 2000 anni fa e oggi, ripetono costantemente: Mariupol è la tua Masada», ha proclamato, attraverso un portavoce, Samoilenko, accompagnato in Israele da Yuliya Fedosyuk, dell’Associazione delle famiglie dei difensori dell’Azovstal. In Israele Samoilenko ha lungamente parlato dei soldati ucraini che hanno combattuto al suo fianco e che sono detenuti in Russia.
Il Reggimento Azov oggi afferma di essere diverso dal Battaglione Azov e di aver congedato i neonazisti che ne facevano parte. Proprio Samoilenko, durante l’assedio dell’Azovstal, descrisse in un’intervista le accuse secondo cui il reggimento è neonazista parte della «propaganda russa». L’Azov, disse, «è cambiato. Ha epurato il suo oscuro passato. L’unico radicalismo che abbracciamo è la nostra volontà di difendere l’Ucraina». A sostegno delle sue affermazioni la stampa israeliana, evidentemente imbarazzata da una visita tanto ingombrante, ha pubblicato un fiume di dichiarazioni di analisti ed esperti, locali e internazionali, che si affannano a confermare il «cambiamento radicale» avvenuto nell’Azov nel passaggio da Battaglione a Reggimento. I lupi in sostanza sarebbero diventati agnelli, semplici patrioti che combattono agli ordini della Guardia Nazionale dell’Ucraina e bravi padri di famiglia. I dubbi invece restano forti ed è ancora vivo il ricordo di crimini compiuti nel 2013-14 dal Battaglione Azov durante le violenze e spargimenti di sangue che aprirono la strada al colpo di stato contro il presidente filorusso Viktor Yanukovich.
Il suprematista ucraino Andriy Biletsky a colloquio con due miliziani dell’Azov
In rete circolano articoli e notizie, di cui non è possibile verificare il fondamento, di vendite avvenute negli anni passati di fucili Tavor israeliani agli uomini dell’Azov ritenuti dall’Onu e dai centri per i diritti umani responsabili di crimini di guerra nel Donbass tra cui torture, violenze sessuali e attacchi contro abitazioni civili. Uno dei fondatori dell’Azov, è stato un deputato nel parlamento ucraino. Sostiene la necessità di «ripristinare l’onore della razza bianca» e ha proposto leggi che vietano il «mescolamento razziale». Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine sul quotidiano Il Manifesto
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La Francia ritira i soldati dalla Repubblica Centrafricana. Cresce in Africa l’influenza degli Usa
della redazione
Pagine Esteri, 19 dicembre 2022 – Con l’intento di spostare gradualmente il suo focus in Benin, Ghana e Costa d’Avorio e, più di ogni altra parte, in Niger, paese centrale per le forniture di uranio che alimentano i suoi reattori atomici, la Francia ha ritirato gli ultimi soldati stanziati in Repubblica Centrafricana dove erano stati inviati, ufficialmente, per combattere i gruppi armati che destabilizzavano il Paese. A giugno si è anche concluso il ridispiegamento volto a dimezzare entro il 2023 da 5mila a circa 2.500 i soldati francesi stanziati in Mali (missioni Barkhane e Takuba). Il 13 dicembre il campo di M’Poko – ospitante le forze francesi – è stato consegnato alle autorità centrafricane in coordinamento con la missione dell’Onu (Minusca) e con quella dell’Unione europea.
La missione Mislognella Repubblica Centrafricana “non aveva più alcuna giustificazione operativa”, ha spiegato il ministero della difesa francese annunciando in rientro in patria di 47 soldati (inizialmente era 130 uomini) rendendo definitiva la separazione fra Parigi e Bangui annunciata lo scorso anno. Una scelta che, dissero gli analisti francesi, era la conseguenza dell’arrivo nel Paese africano del gruppo paramilitare russo Wagner come già avvenuto in precedenza in Mali. “Nel 2021, quando la presenza della compagnia militare privata Wagner era sempre più invadente nel Paese, la Francia ha constatato l’assenza delle condizioni per continuare a lavorare a beneficio delle forze armate centrafricane”, ha dichiarato il generale Francois-Xavier Mabin, comandante della Mislog.
In realtà il ritiro di Parigi, ex potenza coloniale in Africa – accusata di svolgere, seppur con modalità diverse, ancora quel ruolo – da Bangui deve leggersi all’interno del contesto regionale. La Francia, e il presidente Macron ne è ben consapevole, risulta sempre più perdente nella competizione con Russia e Cina che allargano e conquistano terreno, in termini economici e di influenza, nel continente africano ricco di risorse. Un ulteriore segnale del suo declino è stato anche il raffreddamento delle relazioni con il Burkina Faso, frutto di un crescente sentimento antifrancese.
L’invio in Africa di contingenti militari francesi come di altri Paesi occidentali per “combattere il terrorismo” si scontra sempre di più con l’idea che spetti agli Stati africani di decidere e attuare in piena autonomia le strategie più idonee per affrontare le formazioni jihadiste – Isis e al Qaeda – che infoltiscono i loro ranghi e rafforzano le loro posizioni. Diverse organizzazioni regionali negli ultimi mesi hanno programmato l’invio di forze militari in situazioni di crisi. Come nel caso della Comunità dell’Africa orientale (Eac) nella Repubblica democratica del Congo, della Comunità dei Paesi dell’Africa meridionale (Sadc) in Mozambico e della Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Cedeao) che formerà una forza armata regionale incaricata di intervenire in questioni di terrorismo e sicurezza.
Se la Francia, cosciente delle difficoltà cheincontra a svolgere il ruolo che si era assegnata, di fatto, unilateralmente in Africa, ritira parte delle sue forze e le ridispiega in apparenza in forma più contenuta solo in alcune regioni africane, gli Stati Uniti al contrario continuano a penetrare nel continente allo scopo fin troppo evidente di limitare la crescente influenza di Mosca e Pechino, al momento molto marcata nell’Africa orientale. La strategia americana al momento è soprattutto economica ed “umanitaria”. Stati uniti e Unione africana, nei giorni scorsi, al summit dei leader Usa-Africa a Washington, hanno affermato il loro impegno a “rafforzare la sicurezza alimentare” nel continente, avviando una “partnership strategica” volta a guidare e accelerare il più possibile il sostegno ai Paesi africani. La collaborazione, non è certo una sorpresa, punta a rafforzare il settore privato in modo che faccia fronte, al posto dello Stato, alle carenze di cibo. Al vertice di Washington, il presidente Joe Biden ha annunciato che l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha approvato un pacchetto di aiuti umanitari da due miliardi di dollari per le popolazioni africane colpite dalla crisi legata alla pandemia, ai conflitti regionali, alla siccità e agli eventi meteorologici estremi. Aiuti che aprono la strada a una presenza statunitense che in futuro potrebbe essere anche militare nell’Africa sub-sahariana. Pagine Esteri
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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – O lo Stato si limita a fare quell’opera che i privati non sono capaci di fare
O lo Stato si limita a fare quell’opera che i privati non sono capaci di fare […]; ovvero […] saccheggia la roba altrui, e l’unico risultato è di eccitare le ingordigie dei poltroni
da Corriere della Sera, 16 giugno 1922
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Ucraina: Zelensky va da Biden per non far finire la guerra
Fateci caso: è diventato un ‘topos’, una frase fatta, una sorta di clausola implicita in ogni discorso sulla guerra. ‘Putin è in difficoltà’, ‘si circonda di spie’, ‘i soldati lo odiano’, ‘i generali si ribellano’: lui, però, intanto là sta e là resta. Certo, Zelenski va a Washington a parlare alle Camere riunite statunitensi: propaganda pura, […]
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strano bug in Firefox - post lungo
Nei miei pc uso #firefox installato via #Flatpak, per un paio di motivi: mi piace avere sempre l'ultima versione del browser, mi piace poter controllare (tramite #flatseal) quanto FF possa interagire col resto del mio sistema, e infine per me è stato il modo più semplice e indolore per avviare FF in modalità #wayland senza strani script (sempre grazie a Flatseal).
Tuttavia sto avendo esperienza di uno strano bug. Quando, in Gnome, apro firefox dall'icona, ho esperienza di continui crash, riproducibili. Di solito, basta aprire il browser e andare nelle impostazioni, o aprire due o tre bookmark, e il programma crasha e si chiude. Non viene proposto il tool per esaminare l'errore o inviarlo a FF e a volte riparte in safe mode, con tutte le estensioni disabilitate.
A questo punto ho lanciato il programma da terminale, usandoflatpak run org.mozilla.firefox
per vedere se almeno, al momento del crash, fosse prodotto qualche output indicativo. Ma lanciandolo da terminale il crash non avviene.
Così apro Alacarte e scopro che il launcher grafico di FF è un po' più complesso di quello che avevo digitato in terminale:/usr/bin/flatpak run --branch=stable --arch=x86_64 --command=firefox --file-forwarding org.mozilla.firefox @@u %u @@
copio-incollo la stringa in terminale (senza la parte finale, da @ in poi) per capire se il problema fosse in una delle opzioni passate dal launcher; ma, anche in questo caso, firefox lanciato da terminale è il solito vecchio firefox, solido come una roccia, zero crash, anche con tutte le estensioni attive.
Ho provato anche a fare il contrario, cioè a togliere dal launcher grafico le opzioni aggiuntive, ma aprendo FF da icona continuo a ottenere questi crash dopo le prime interazioni.
Ho cercato su DDG e financo su GGL, ma non sono riuscito a trovare segnalazioni simili.
La situazione si ripresenta in modo identico su entrambi i laptop su cui io abbia questa configurazione (Gnome, Firefox da Flatpak).
Le mie capacità di indagine si fermano qui. Se ci fossero suggerimenti, sarebbero molto graditi!
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Sospensione assicurazione auto: come funziona
Che si tratti di rinnovo o stipula di nuovo contratto, tutti gli automobilisti sanno che arriva quel momento dell’anno in cui bisogna provvedere a mettersi in regola con l’assicurazione Auto. L’RC Auto, infatti, oltre ad essere obbligatoria per legge è anche una tutela per tutti gli automobilisti e, in generale, la polizza assicurativa corredata delle […]
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Autonomia differenziata il mostro a due teste di Lega e Pd - Kulturjam
"Un meccanismo di colonialismo interno al paese, che produrrà al Nord altre privatizzazioni dei servizi pubblici, al Sud altra disoccupazione e miseria, ovunque ulteriore ingiustizia sociale.
Questo progetto di frantumazione territoriale è liberismo allo stato puro, cui non a caso il governo vuol aggiungere il presidenzialismo. Un potere centrale autoritario che promuove ovunque la legge del massimo profitto, è l’ideologia reazionaria di Von Hayek che cancella e riscrive la Costituzione.
E come sempre nella politica italiana la destra porta a termine il lavoro sporco iniziato dalla finta sinistra."
Armiamoci
Abbiamo importanti industrie della difesa e per la nostra, di difesa, spendiamo 25 miliardi l’anno (dato 2021). Però di queste cose non si può parlare, se ne deve avere pudore, abbassare la voce e chiudere la porta, manco si dovesse andare in bagno. Il solo modo frequentato, per parlare di armi, è reclamarne la scomparsa, ovviamente riducendone la spesa, mentre per il lato in cui si guadagna si suggerisce di vergognarsene. Un approccio ideologico, che ben si concilia con quello mistico, che invoca la fratellanza. Ma le cose stanno all’opposto: se vuoi conservare la pace sarà bene che i guerrafondai valutino l’annientamento cui vanno incontro se provano ad aggredirti. Se Putin avesse immaginato su quali forniture militari e su quale organizzazione avrebbe potuto contare l’Ucraina, ci saremmo risparmiati una carneficina e la Russia si sarebbe risparmiata l’essere uno Stato canaglia, candidato a divenire Stato terrorista.
Se si considera possibile una pace anche a costo di perdere libertà e ricchezza, allora il disarmo è una buona opportunità. Se si considerano la libertà e la prosperità dei valori da difendere, essere pronti a farlo con le armi è cosa buona e giusta. Non avere la franchezza di parlarne finisce con il far sfuggire passi avanti importanti.
A forza di ripetere che l’Unione europea non ha una politica estera comune ed è divisa, si è finito con il non accorgersi del fatto che è unita ed ha una netta politica estera. Perché quella non è una materia che sia stata delegata, sicché è bislacco pretendere che sia nazionale e piagnucolare che non è europea, ma, a parte questo, sulla cosa di gran lunga più importante, da febbraio l’Ue ha una sola posizione, che unisce tutti e rende irrilevanti gli ostacoli ungheresi. Ovvio che esistono ancora differenze, per esempio sulla Libia, ma non sul fronte decisivo e vitale. Qui la condanna della Russia è unanime e si estende dal campo militare (con un comune e corale sforzo di forniture a chi difende la sovranità e la libertà) a quello economico (perché il valore politico del tetto al prezzo del gas supera il pur importante valore di mercato).
Non abbiamo una difesa comune, perché gli Stati nazionali l’hanno rifiutata. Ma non ci sono solo 27 forze armate, con innumerevoli fornitori e tecnologie diverse, c’è anche dell’altro. Dall’invasione dell’Ucraina, quando il tema della difesa è uscito dall’ombra, ripetiamo che difesa europea comune è, prima di tutto, comune investimento e industria. Noi europei spendiamo un po’ meno degli americani, in difesa, ma spendiamo assai peggio, perché sono spese divise e frammentate. Già con quel che spendiamo il risultato sarebbe diverso e migliore, se messo a fattor comune. Il che porta agli interessi industriali.
La novità è che per un piccolo, primo lotto di ricerca e produzione per la difesa, finanziato dall’Ue per 8 miliardi, sono state presentate 142 proposte, con 629 candidature alla collaborazione produttiva. 61 progetti sono stati selezionati, per divenire operativi, e in questi vi sono 156 partecipazioni italiane. Siamo secondi solo alla Francia, che ne totalizza 178. La Spagna 147 e la Germania 113. E via a scendere per gli altri. Il lotto è piccolo, ma il risultato è indicativo. Del resto siamo gli ottavi esportatori al mondo di armi, avendo raggiunto picchi di quasi 15 miliardi l’anno. Ed esportare armi non è esportare guerra, ripetiamolo. In quello è imbattibile la concorrenza degli Stati canaglia: dall’Iran alla Russia alla Corea del Nord.
Uno dei nodi da affrontare è sul lato aviazione, perché si acquistano aerei statunitensi, poi c’è il programma Tempest, che ci coinvolge con il Regno Unito, e quello Futur Air Combat System, animato da Francia, Germania e Spagna. Epperò imprese controllate s’intrecciano. Il nodo da affrontarsi non è militare, ma industriale, quindi politico, intanto imponendo l’interoperabilità, in modo, almeno, da potere combattere assieme. E da queste cose che passa la difesa comune.
Armiamoci, proprio per non partire.
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Turchia: condanna di Ekrem Imamoglu, da escamotage a boomerang per Erdogan?
Pochi giorni fa, il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, è stato condannato a due anni, sette mesi e 15 giorni di carcere per oltraggio a pubblico ufficiale (per cui rischiava quattro anni), in particolare per aver insultato – definendoli ‘folli’, espressione già usata dal Ministro dell’Interno Suleyman Soylu contro di lui – i membri del Consiglio elettoraleche nel […]
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La Malesia rimane intrappolata sotto l’orbita della Cina
La Malesia è classificata come la decima più influenzata dalla Cina dal China Index, un database rilanciato l’8 dicembre da DoubleThink Labs. Questo studio che misura l’influenza globale in espansione di Pechino ha menzionato i legami e la dipendenza della Malesia da Pechino, in termini di politica estera e interna, tecnologia ed economia che la […]
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Etiopia, incontro delle alte cariche militari federali e del Tigray a Nairobi per definire monitoraggio degli oneri dell’accordo di Pretoria
Addis Abeba – I rappresentanti del governo federale etiope e gli alti comandanti del Tigray si stanno incontrando a Nairobi presso il Moran Training Center di Karen, Nairobi, in Kenya, per un incontro consultivo sull’attuazione dell’accordo di cessazione permanente delle ostilità (CoHA) dell’Etiopia che è stato firmato a Pretoria, Sud Africa il 02 novembre, secondo la documentazione visionata da Addis Standard.
La riunione consultiva era originariamente prevista tra il 20 e il 23 dicembre, ma Addis Standard ha appreso che inizierà mercoledì 21 dicembre.
Durante la riunione consultiva di tre giorni, le due parti dovrebbero discutere il documento finale sull’attuazione del processo di disarmo, la finalizzazione e l’adozione dei termini di riferimento (ToR) per il meccanismo di monitoraggio, verifica e conformità dell’UA e le prossime fasi l’attuazione del CoHA permanente, secondo il calendario del programma.
I rappresentanti di Uhuru Kenyatta, ex presidente del Kenya e membro dell’High Level Panel dell’UA, IGAD, e del governo degli Stati Uniti parteciperanno all’incontro, che si svolge tra crescenti richieste per il dispiegamento urgente del team di monitoraggio e verifica dell’UA, la cui istituzione è prevista ai sensi dell’articolo 11 del CoHA permanente di Pretoria a seguito di scambi di adempimenti tra il governo federale e lo stato regionale del Tigray.
Sabato 17 dicembre, il governo federale ha rilasciato una dichiarazione minacciando di adottare “misure necessarie” per proteggere i civili tigrini sottoposti a quelli che ha definito “crimini organizzati” e “rapina” in aree di cui le sue forze non hanno il controllo, inclusa la capitale Mekelle . “Il governo dell’Etiopia vuole sottolineare che questi criminali saranno ritenuti responsabili”, afferma la dichiarazione, aggiungendo che il governo adotterà “tutte le misure necessarie per salvaguardare la sicurezza delle persone in quelle aree e adempiere alle proprie responsabilità”.
FONTE: twitter.com/FdreService/status…
Da parte sua, il leader del Tigray Debretsion Gebremichael (PhD), ha dichiarato domenica 18 dicembre che sebbene la sua parte abbia attuato i patti di pace di Pretoria e Nairobi sin dalla firma, il governo federale è rimasto indietro nell’attuazione. Debretsion ha incolpato il governo federale che, sebbene ci sarebbe dovuto essere un flusso illimitato di aiuti umanitari al Tigray, ci sono ostacoli nonostante alcuni miglioramenti.
“Le persone che risiedono nelle aree occupate dalle forze eritree e amhara non ricevono gli aiuti in modo adeguato, anche nelle aree in cui il governo federale ha distribuito gli aiuti, solo le persone nelle città ricevono gli aiuti, ma molte persone nelle campagne non ne ricevono aiuto» ha dichiarato.
Diversi rapporti mostrano anche che sia le forze eritree che quelle amhara stanno commettendo crimini atroci contro i civili tigrini nelle aree che hanno occupato.
Alla voce “Disarmo dei combattenti armati del Tigray”, sulla Dichiarazione sulle modalità per l’attuazione dell’accordo di Pretoria, firmata a Nairobi il 12 novembre, l’articolo 2.1/D, affermava che “il disarmo delle armi pesanti sarà effettuato in concomitanza con il ritiro delle forze straniere e non ENDF dalla regione”.
Il 5 dicembre, il più alto comandante militare del Tigray, il generale Tadesse Worede, ha affermato che quasi il 65% dei combattenti armati del Tigray era stato disimpegnato dalle linee del fronte, ma l’annuncio non è stato confermato in modo indipendente a causa dell’assenza della squadra di monitoraggio e verifica dell’UA sul campo, che rende l’incontro odierno a Nairobi e il suo esito fondamentali per il processo di pace.
FONTE: addisstandard.com/news-alert-f…
Il divario generazionale al centro delle proteste in Cina
Per un regime che ostenta costantemente il suo “tasso di approvazione superiore al 90 per cento”, l’improvviso scoppio di proteste in tutta la Cina è sia imbarazzante che sconcertante. Tre anni di severe restrizioni COVID hanno causato frustrazione e rabbia nei confronti del governo che trascendono la classe e la geografia, una situazione mai vista […]
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PD alla ricerca del tempo buttato
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Il titolo di questa riflessione ‘triste solitaria y final’ del Pd era facile. Anche se la più raffinata ‘Recherche’ di […]
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La polizia morale e l’equilibrio autoritario dell’Iran
Non sorprende che un recente annuncio del procuratore generale iraniano secondo cui il governo stava abolindo la sua ‘polizia morale’ abbia suscitato una diffusa confusione. Infatti, mentre alcuni funzionari hanno indicato che erano in discussione modifiche al ruolo della polizia morale, altri hanno affermato che non c’erano piani per abolire la forza. Così, la vittoria […]
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Leonardo
in reply to J. Alfred Prufrock • • •J. Alfred Prufrock
in reply to Leonardo • •Ciao Leonardo, grazie per il suggerimento
Purtroppo non ho questo file
J. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •A questo punto mi viene da sospettare di tutta quell'abbondanza di @ e di u nel launcher. Non dovrebbe essere solo un %u?
A meno che non sia una sintassi particolare per passare argomenti a un flatpak
Edit: a quanto sembra è proprio così
docs.flatpak.org/en/latest/fla…
Flatpak Command Reference — Flatpak documentation
docs.flatpak.orgJ. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •AGGIORNAMENTO
Probabilmente non sarà utile a nessuno e sarò il solo ad averne avuto esperienza (su ben due pc!), ma credo di essere riuscito a risolvere il problema in un modo tanto anti-scientifico da vergognarmene quasi.
In pratica ho riaperto il fido Alacarte, copiato la stringa del launcher creato dal flatpak e fatto un nuovo launcher con la stessa identica stringa.
Se lancio #Firefox da questo nuovo launcher, il programma non crasha.
Se uso il launcher originale invece sì.
Lascio qui la "soluzione", magari torna utile a qualcuno.
Non senza disappunto per non aver capito il mistero dietro tutto questo