Ucraina – Russia: cercasi diplomazia urgentemente
Con l’inizio del 2023, temiamo che la politica americana continuerà ad essere caratterizzata sia dallo scorrimento delle missioni sia dall’assenza di qualsiasi tipo di impegno diplomatico con la Russia. Durante il corso della guerra, l’amministrazione Biden ha lentamente, costantemente, persino furtivamente aumentato il coinvolgimento dell’America. Le richieste da Kiev per sempre più armi sono state […]
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L’Occidente deve prepararsi ad un finale diplomatico in Ucraina
A un anno dall’inizio del conflitto, il brutale tentativo della Russia di soggiogare l’Ucraina è stato un clamoroso fallimento. Mosca ha lanciato la sua ‘operazione militare speciale’ per riportare l’Ucraina nella sua sfera di influenza. Invece, l’invasione e la morte e la distruzione che ha causato hanno irreversibilmente alienato e fatto arrabbiare la stragrande maggioranza […]
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Prima attacchi cyber e poi bombe. Il metodo russo in Ucraina secondo Mele
Sono passati quasi tredici anni da quando William J. Lynn III, l’allora sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti, dalle pagine di Foreign Affairs dichiarò pubblicamente che l’America aveva iniziato a considerare il cyber-spazio come un dominio “altrettanto critico per le operazioni militari quanto la terra, il mare, l’aria e lo spazio”. Pochissimi mesi prima, lo Us Cyber command, ovvero il comando militare americano per le operazioni cibernetiche, aveva visto formalmente la luce.
Era il 2010 e il mondo, in quel momento, si accorse ufficialmente della nascita del cosiddetto quinto dominio della conflittualità: il cyber-spazio, appunto. Facendo correre velocemente in avanti il nastro degli eventi, in questi primi tredici anni sono state numerosissime le occasioni in cui si sono potuti registrare, in tempo di pace, attacchi cibernetici di alto profilo, condotti o sponsorizzati da attori statali, nei confronti dei principali operatori che erogano servizi essenziali per lo Stato e per i cittadini. Pochissime, invece, sono le volte in cui le operazioni militari nel e attraverso la dimensione informatica hanno potuto dare realmente prova, in tempo di guerra, della loro utilità e capacità distruttiva. Il triste anniversario del conflitto armato in Ucraina offre la possibilità di valutare, allo stato attuale delle informazioni, quanto la cosiddetta (impropriamente) cyber-war sia davvero reale, nonché i contorni del suo ruolo all’interno dei conflitti armati convenzionali. Possiamo anzitutto osservare – qualora ce ne fosse davvero bisogno – come l’idea che in tempo di guerra le operazioni cibernetiche possano sostituire i bombardamenti aerei, i carri armati, i fucili e più in generale le operazioni militari convenzionali, è semplicemente un atto di pura fantasia.
Le ragioni sono molteplici: dalla relativa temporaneità degli effetti degli attacchi cibernetici rispetto a quelli delle armi convenzionali, passando per la rapida obsolescenza delle cosiddette armi cyber (intimamente legate alla persistenza nel tempo delle vulnerabilità informatiche sfruttate), fino al rischio di colpire bersagli ulteriori e non previsti solo perché in qualche modo interconnessi con il bersaglio principale. I dati su quanto la Russia, successivamente all’invasione armata dell’Ucraina, abbia sfruttato il cyber-spazio per scopi distruttivi, fotografano in maniera cristallina questa condizione.
Nei primi dodici mesi del conflitto, infatti, il governo russo ha utilizzato questa opzione in maniera molto limitata, conducendo principalmente, e spesso con scarso successo, mere operazioni di sabotaggio informatico attraverso l’utilizzo di malware di tipo data wiper, i quali hanno come unico scopo quello di compromettere il corretto funzionamento dei dispositivi colpiti cancellandone le informazioni in modo irrimediabile. Peraltro, a esclusione dell’attacco ai sistemi informatici di Viasat nel giorno dell’invasione, che ha temporaneamente degradato sul terreno le capacità di comunicazione, la maggior parte dei successivi attacchi cibernetici sono stati tutti bloccati o mitigati rapidamente dal governo ucraino, anche grazie all’immediato e costante supporto di alcuni governi occidentali. Nei fatti, quindi, tali attacchi hanno avuto un limitatissimo impatto nell’ambito delle operazioni militari russe. Dalla loro analisi emerge un altro elemento rilevante, ovvero il coordinamento tra attacchi convenzionali e attacchi cibernetici.
Oltre all’attacco contro Viasat, infatti, si può notare una stretta correlazione tra tentativi di sabotaggio informatico e successivi attacchi cinetici (per lo più bombardamenti). Questo schema si è poi ripetuto, nel corso di questi dodici mesi, nelle ondate di attacchi militari a città strategiche come Kiev, Sumy, Zaporižžja, Dnipro e Odessa, solo per citarne alcune. Tale approccio, quindi, appare confermare – ancora una volta – il ruolo del cyberspazio come strumento di supporto o di agevolazione di attacchi cinetici e non come rilevante arma tattica. Infine, il cyber-spazio ha rappresentato senza ombra di dubbio l’effettivo e più importante campo di battaglia per le operazioni di propaganda e disinformazione russa. Il Cremlino, infatti, ha provato fin da subito a creare un vantaggio tattico attraverso gli strumenti della guerra psicologica. Internet e le tecnologie sono stati utilizzati come una straordinaria cassa di risonanza per le fake news.
In conclusione, il ruolo effettivo del cyber-spazio all’interno dei conflitti armati convenzionali sta lentamente emergendo dai contorni vaghi tratteggiati, nel corso degli ultimi anni, dalle esigenze della politica. Questo dominio, com’è evidente, ha assunto finora soprattutto i contorni delle operazioni di Intelligence che sfruttano la tecnologia e Internet sotto la soglia dei margini della guerra, attraverso operazioni di spionaggio e sabotaggio, azioni sotto copertura e di controspionaggio, arricchite da inganno e da moltissima disinformazione. La cyber-war, quindi, resta ancora molto lontana dalla realtà dei campi di battaglia se non per il suo ruolo, seppur utile, di supporto e di agevolazione di attacchi cinetici. Occorre prenderne coscienza quanto prima, per indirizzare al meglio le urgentissime esigenze di difesa e di potenziale contrattacco a livello strategico, operativo e tattico.
Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress
Ipnotico
Non si sa se reclamare un minimo di coerenza o se lasciare che l’incoerenza ponga rimedio alle enormità che si dissero. E, ancora una volta, la questione non riguarda solo il giudizio che si può esprimere su quanti fanno politica, ma il modo in cui quel giudizio si forma e trasforma in voto. Perché se ci trovassimo difronte a uno o più saltabeccanti incoerenti sarebbe facile riconoscerli come tali e metterli ai margini della vita pubblica, più complicato procedere se il modo scriteriato di zompare da una tesi al suo opposto diventa un costume diffuso, per non dire collettivo.
Prendiamo il caso del bonus 110%. Che fosse una mostruosità distorsiva era così evidente che taluni di noi lo sostennero nel mentre ancora lo si stava discutendo. Per essere precisi: siamo gli stessi che non hanno mai apprezzato i produttori di bonus, oramai estesi dalle supposte cose giuste ad ogni altro capriccio sconsiderato, monopattini compresi. Lo vararono. Cosa sarebbe successo, agevolando una spesa in quantità superiore al suo valore, non era difficile da immaginarsi. E lo dicemmo. Poi arriva il governo Draghi e ci mette un nanosecondo ad accorgersene. Per come la vedo io, avrebbe dovuto cancellarlo, ma, non avendone la forza, introdusse correttivi come i controlli, ovvero quelli che hanno portato a scoprire truffe per almeno 9 miliardi. Fu accusato di volere “affossare” la splendida idea del 110%. Contro Draghi si mossero vivacemente il Movimento 5 Stelle e la Lega, che della maggioranza facevano parte, si opposero silenti il Partito democratico e Forza Italia, preferirono defilarsi i renziani, che nel Conte 2 di quella roba erano corresponsabili, mentre s’opposero anche quelli di Fratelli d’Italia. Certo, erano all’opposizione, ma da quella collocazione reclamavano meno vincoli e controlli, per agevolare l’uso del 110%.
Intanto nascevano imprese edili improvvisate, con materiali comprati all’estero e lavoratori stranieri, che ora strillano perché andrebbero fuori mercato. Ma quello mica era un mercato, era un’illusione, un gioco ipnotico, una dilapidazione di quattrini del contribuente. Fatto è che i pochi contrari rimasero pochi. Mentre oggi sembra che lo sapessero tutti e non si capisce perché il guaio non fu fermato: perché eravate contrari a fermarlo e favorevoli ad allargarlo.
Così per il gas presente in Adriatico: tutti a far la commediola dell’ecologista scampanellante domenicale, tutti a fare i no-triv e ad accusare d’inconfessabili ed occulti interessi quanti di noi dicevano: siete scemi, il gas lo prendono i croati (bravi) e noi stiamo qui a discutere se disturbare o meno le cernie. Poi arriva la crisi del gas ed eccoli tutti a dire: prendiamo il gas nazionale, chi lo ha fermato? Voi.
Il tutto è talmente grottesco da chiedersi come possa durare, ma la risposta è scomoda: cancellati i (veri) partiti politici, cancellata la politica delle idee e delle convinzioni, s’è potuto credere che la democrazia consista nel prendere i voti. Un travisamento. La democrazia è un meccanismo decisionale delicato, il migliore, che si basa sul rispetto dello Stato di diritto, sulla libertà d’espressione del pensiero e sull’attività dei partiti (la leggano, la Costituzione che citano) i quali provano a convincere il maggior numero possibile di persone di quanto siano giuste le cose che dicono e propongono, il voto, infine, misura la distribuzione di quei convincimenti. Se ribalti la logica e cominci a credere che la democrazia consista nel prendere quanti più voti possibili, non importa dicendo cosa, per poi riuscire a comandare, l’hai distrutta, l’hai trasformata in votocrazia e demagogia.
Poi, finiti i ludi elettorali, restano le bidonate che hai detto. A quel punto non si sa se è meglio che tu sia coerente o incoerente. In tutti e due i casi l’effetto ipnotico funziona solo perché troppi cittadini elettori la pensano, in fondo, come i peggiori fra i politici: prendiamoci il prendibile e chi se ne frega del resto. E, in questo, si nota una certa coerenza.
L'articolo Ipnotico proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il Cielo di Sabra e Chatila – TOUR DI PRESENTAZIONE
Partito il tour di presentazioni del documentario Il cielo di Sabra e Chatila, prodotto da Pagine Esteri, regia di Eliana Riva.
L’elenco delle date è in costante aggiornamento. Pubblicheremo qui gli appuntamenti. Chiunque fosse interessato a proiettare il documentario può scrivere all’indirizzo email redazione@pagineesteri.it o mandare un messaggio what’s up al numero 08231547108. A sostegno delle spese di produzione chiediamo, per la proiezione, una donazione libera a Pagine Esteri.
FEBBRAIO:
16 NAPOLI
22 NAPOLI
MARZO:
4 Roma – RomArt Factory, con Assopace Palestina Link all’evento Facebook
17 Reggio Calabria
18 Messina
19 Catania
_________________
Il documentario “IL CIELO DI SABRA E CHATILA” racconta la difficile condizione dei profughi palestinesi oggi in Libano, la quotidianità dei campi, la povertà e la discriminazione.
A 40 anni dal massacro di Sabra e Chatila, Pagine Esteri è tornata sui campi profughi di Beirut, parlando con i sopravvissuti e con i più giovani, registrando le loro aspirazioni, raccontando come il sogno di rientrare nella terra di origine si scontri con la difficile realtà libanese e la netta chiusura di Israele al “diritto al ritorno”.
LA PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTARIO
Beirut, Libano. Era il 1982. Il 16 settembre. L’esercito israeliano era giunto nella zona occidentale di Beirut e insieme alla Falange libanese circondò i campi profughi di Sabra e Shatila.
L’obiettivo dichiarato era quello di scovare i combattenti palestinesi. Ma i campi erano privi di protezione militare: i combattenti erano andati via. Dopo dubbi e discussioni era stato deciso di accettare l’accordo proposto dagli Stati Uniti di Ronald Regan e ritirarsi dai campi profughi per evitare la strage.
Erano state date precise garanzie. Dagli USA e da Israele: una volta che usciti dal Libano i combattenti, la popolazione civile palestinese non avrebbe subito conseguenze.
GUARDA IL TRAILER:
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Ma il 16 settembre, per 3 giorni, i campi furono rastrellati. Prima i falangisti pareva cercassero solo gli uomini. Poi hanno cominciato a prendere anche le donne e ad assicurarsi che ci fossero i bambini.
L’esercito israeliano, intanto, aveva chiuso i campi, i palestinesi non potevano uscire e ai falangisti veniva permesso di entrare. L’obiettivo politico della Falange libanese era cacciare dal Libano i palestinesi.
E poi di vendicarsi. Vendicarsi per l’assassinio del suo leader, Bachir Gemajel, ucciso due giorni prima.
In questo modo cominciò la strage, illuminata dai fari di perimetro dell’esercito israeliano.
Andò avanti per 3 giorni.
I primi che visitarono i campi dopo il ritiro israeliano descrissero l’orrore di uomini, donne e bambini chiusi in trappola e trucidati. I metodi furono violenti e sanguinari e non si disdegnò l’utilizzo della decapitazione.
Dopo 40 anni i due campi profughi sono ancora lì. Ma la memoria è viva e tramandata da associazioni, volontari, scuole, dagli adulti ai bambini.
La situazione dei palestinesi è misera, i campi sono incredibilmente sovraffollati ma gli è vietato, in Libano, acquistare abitazioni.
La condizione sanitaria è preoccupante, cavi che spostano acqua e energia elettrica pendono insieme aggrovigliati come una rete tra i vicoli sempre più stretti e le case alte e buie. Ai palestinesi è vietato svolgere moltissimi lavori In Libano, decine. I bambini e le bambine spesso non possono far altro che lavorare con i genitori oppure vagare soli per i campi. Le associazioni li accolgono, provano a tenerli con loro, tra attività, giochi e istruzione, come fa la Beirut Atfal al Assomoud (La casa dei figli della Resilienza). Ma le forze non bastano mai.
Il documentario è un’occasione per ricordare ma anche per aprire gli occhi sul presente. Pagine Esteri
L'articolo Il Cielo di Sabra e Chatila – TOUR DI PRESENTAZIONE proviene da Pagine Esteri.
Mi si nota di più se… La Russia e il patto nucleare secondo Secci
Nella settimana in cui ricorre l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, il Cremlino ha sventolato più volte la bandiera dei rischi legati a un escalation nucleare.
L’iniziativa più importante è stata quella annunciata martedì 21 febbraio dal presidente russo Vladimir Putin in occasione del discorso tenuto all’Assemblea Federale, ossia la sospensione della partecipazione russa al Trattato Start. L’accordo, rinnovato più volte, venne siglato da Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1991 e rappresentò il culmine della distensione strategica tra le due superpotenze. Esso veniva a compimento di un periodo di importanti accordi sul disarmo e controllo degli armamenti (si pensi ai Trattati sulla non proliferazione nucleare o agli Accordi Salt); inoltre, fissando precisi limiti al numero di testate e vettori, prevedeva la distruzione di ordigni e dispositivi nucleari a lungo raggio già operativi, comportando con ciò una drastica riduzione dei rischi connessi allo schieramento di queste armi.
E ieri, in occasione delle celebrazioni per la Giornata dei difensori della patria, il leader russo ha annunciato il potenziamento di tutto l’arsenale russo. In particolare, Putin ha anticipato la piena operatività entro l’anno dei primi missili intercontinentali con testate nucleari Sarmat, il proseguimento della produzione a pieno regime del missile ipersonico aviotrasportato capace di trasportare ordigni atomici Khinzal e l’avvio dello schieramento in massa sulle unità della Marina russa del missile, anch’esso ipersonico e con capacità di carico nucleare, Zircon.
Per quanto roboanti, in realtà queste dichiarazioni andrebbero ridimensionate nella loro effettiva portata. E per farlo basterebbe soffermarsi su alcuni dettagli fatti emergere e sottolineati dal Cremlino stesso. Nel momento in cui annunciava la sospensione della partecipazione al Trattato Start, infatti, il presidente russo ha avuto premura di rimarcare il fatto che si trattava di una sospensione e non di un ritiro. Con ciò, sembrerebbe voler dire che sebbene non acconsentirà le ispezioni ai siti e dispositivi strategici russi, previste in regime di reciprocità con gli Stati Uniti dall’accordo stesso, si impegnerà a rispettare il limite massimo di vettori e testate nucleari previste. In sostanza, non vi sarà alcun mutamento nell’equilibrio strategico con Washington. A conferma di ciò, e per non lasciar spazio ad alcun (pericoloso) dubbio, il giorno stesso in cui Putin comunicava la sospensione del Trattato, il ministero degli Esteri rilasciava una nota con la quale, “per mantenere i necessari livelli di trasparenza e stabilità nel campo dei missili dotati di capacità nucleare”, assicurava che Mosca avrebbe “continuato a rispettare rigorosamente le limitazioni imposte dal Trattato” sino alla durata dello stesso (febbraio 2026).
A questo punto, è ragionevole chiedersi perché il Cremlino stia optando per questa postura, diplomatica e strategica. Le armi oggetto delle limitazioni previste dall’Accordo sono quelle di lungo raggio e con le maggiori capacità distruttive (da alcune centinaia di kilotoni a decine di megatoni), concepite soprattutto per un ipotetico scontro con gli Stati Uniti. Di certo, non sono armamenti pensati per un impiego in Europa (salvo ovviamente il lancio dalle basi missilistiche nelle regioni più remote a Est degli Urali o da eventuali sommergibili in navigazione negli oceani), sulla quale, invece, sempre nell’ambito delle ipotesi, potrebbero essere lanciate delle atomiche tattiche o di teatro. Ma la crisi internazionale più importante, degenerata nel conflitto di cui oggi ricorre l’anniversario, sta in Ucraina e, quindi, in Europa. Per questo, non sembrerebbe esserci alcun nesso diretto tra l’andamento dello scontro con Kyiv e la sospensione del Trattato Start.
Una possibile interpretazione di queste iniziative russe potrebbe essere quella per cui, il complesso gioco di irrigidimento diplomatico e rassicurazioni sul piano strategico faccia parte della più ampia serie di misure attive che il Cremlino sembrerebbe stia impiegando per cercare di creare fratture interne sia alla Nato, sia tra i singoli governi dell’Alleanza e le rispettive opinioni pubbliche, certamente sensibili allo spettro dell’escalation atomica, con il fine ultimo di indebolire, se non sovvertire del tutto, il sostegno politico e militare all’Ucraina.
Dei rischi di guerra nucleare e degli effetti della disinformazione e delle misure attive russe sulla politica estera e di difesa atlantica si parlerà nel corso del Convegno organizzato dall’Istituto di Scienze Sociali e Studi Strategici “Gino Germani”, con Formiche.net in qualità di media partner, in programma nel pomeriggio del 27 febbraio 2023 a Roma, presso la Casa dell’Aviatore.
Nablus, storie non raccontate di civili palestinesi uccisi
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 24 febbraio 2023 – «Questo è mio padre, mio padre». Elias Al Ashqar ha ripetuto più volte queste parole dopo che i suoi colleghi all’ospedale avevano girato il corpo senza vita di un uomo colpito da un proiettile durante la sanguinosa operazione di esercito e polizia di Israele due giorni a Nablus. Quindi è crollato in un pianto disperato. Al Ashqar, infermiere del pronto soccorso dell’ospedale Al Najah, il più attrezzato della città, aveva terminato il suo turno da qualche ora. All’improvviso è stato richiamato d’urgenza assieme all’amico e collega Ahmed Aswad per l’afflusso, in meno di due ore, di decine delle 102 di persone ferite da proiettili durante il raid israeliano che ha ucciso 11 palestinesi. Ad un certo punto sono arrivati cinque feriti. Tra questi un uomo di 61 anni giunto in condizioni critiche: un proiettile lo aveva centrato in pieno petto mentre era in strada. Elias ha provato a rianimarlo, senza guardarlo in faccia. I suoi tentativi sono stati inutili, come quelli di un chirurgo. Il ferito è stato dichiarato morto poco dopo. In quel momento Elias lo ha guardato e ha esclamato: «Questo è mio padre!». Il suo collega Ahmed Aswad, mostrandogli la carta d’identità del deceduto, gli ha chiesto «Vuoi dire che questa persona è tuo padre?». Elias con la disperazione scolpita sul volto ha risposto «Si chiama Abdel Hadi Al Ashqar ed è mio padre».
Un video suoi social mostra alcuni momenti del dolore provato da Elias. Ieri i media palestinesi raccontavano la storia dell’infermiere che ha tentato invano di rianimare un ferito scoprendo poi che si trattava del padre che aveva salutato appena qualche ora prima a casa. Come quella di un altro infermiere, Mohammad Baara, impiegato sulle ambulanze della Mezzaluna Rossa che per prime giungono sui luoghi degli scontri esponendosi a rischi enormi per portare soccorso ai feriti. Nell’ospedale dove aveva trasportato due feriti, Baara ha scorto tra gli uccisi il corpo dello zio Adnan, 71 anni.
Storie che restano confinate nei Territori occupati. I palestinesi uccisi durante i raid dell’esercito israeliano nelle città della Cisgiordania, anche quando sono civili innocenti, pesano poco per la stampa internazionale. Non fanno notizia. Un tempo almeno sarebbero stati definiti «danni collaterali». Oggi neppure quello. Sono solo numeri che indicano una tendenza che dall’inizio dell’anno punta sempre verso l’alto: sono oltre 60 i palestinesi uccisi dall’inizio del 2023. I giornali israeliani legati alla destra descrivono tutti i palestinesi, uccisi o feriti nelle incursioni dell’esercito, come «terroristi». Anche il 16enne Mohammed Shaaban, tra gli 11 uccisi di due giorni fa. E nelle ultime ore sono deceduti altri due giovani. Uno, un combattente, era stato ferito una settimana fa a Jenin durante un raid dell’esercito. L’altro, un 24enne di Gaza, non è sopravvissuto alle ferite gravi all’addome subite nel 2018 durante la Marcia del Ritorno lungo le linee di demarcazione con Israele.
Abdel Hadi Al Ashqar
Poche auto sulle strade e negozi chiusi ovunque ieri in Cisgiordania e in parte anche a Gaza e a Gerusalemme Est. Lo sciopero di protesta e lutto per le 11 vittime di Nablus ha paralizzato anche scuole, università e banche. Le formazioni politiche palestinesi hanno lanciato nuovi appelli a resistere all’occupazione miliatre mentre le continue uccisioni infoltiscono ulteriormente i gruppi armati. Ieri sera la Fossa dei Leoni, a cui appartenevano tre dei ricercati uccisi da Israele mercoledì a Nablus, ha annunciato che altri 50 palestinesi si sono uniti ai suoi ranghi. «Coloro che scommettono sulla fine dei gruppi (armati) delirano…i colpi che riceviamo ci rendono solo più determinati» ha scritto il gruppo armato in un comunicato invitando a popolazione di Nablus a partecipare oggi ai riti in ricordo delle ultime vittime. Israele ieri all’alba ha bombardato Gaza dopo il lancio di sei razzi, cinque dei quali abbattuti. Colpiti presunti edifici del movimento islamico Hamas.
Gli uomini della Fossa dei Leoni nel comunicato si sono anche rivolti, senza nominarla, all’Autorità nazionale palestinese (Anp) messa sotto pressione proprio dall’ultima cruenta incursione israeliana nella città vecchia di Nablus. «Questo raid è capitato in un momento critico in cui l’Anp è sotto accusa da più parti per aver ritirato, su insistenza americana, la sua proposta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condanna della colonizzazione israeliana» spiegava ieri al manifestoGhassan Khatib, analista e docente di scienze politiche all’Università di Bir Zeit. «L’Anp – ha aggiunto – sa bene che il ruolo degli Stati uniti non favorisce l’attuazione di leggi e risoluzioni internazionali riguardanti la questione palestinese. Eppure, non riesce e non può a fare a meno di Washington, perché non ha un’altra parte alla quale appoggiarsi. Si sente sola e debole e senza gli Usa crede di finire alla mercè delle politiche di Israele. Ma non è quello che crede e vuole la popolazione palestinese».
Migliaia di palestinesi hanno tenuto marce notturne in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est chiedendo di rispondere all’incursione israeliana a Nablus. Si sono registrati scontri tra manifestanti e forze israeliane in diverse località. Nelle ultime ore è spirato Mohammed Zawabreh, un poliziotto dell’autorità nazionale ferito da Israele ad Al-Aroub. Pagine Esteri
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Leland Did It - Hotel Moderno- Dischi Uappissimi 2023
I Leland Did It sono un gruppo che è incapace di fare qualcosa di predeterminato e felicemente ordinato, “Hotel Moderno” è una bellissima testimonianza di caos musicale, di ricerca sonora e di voglia di fare rumore.
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In Cina e Asia – Ucraina: Pechino invita al dialogo
Ucraina: Pechino invita al dialogo
La Commissione europea vieta Tik Tok
Incidente in una miniera di carbone in Mongolia Interna
Sondaggio: i cittadini cinesi sperano in una fine rapida del conflitto in Ucraina
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Messaggio di prova da #pixelfed a #lemmy: test di scrittura e di verifica della formattazione nel titolo
Prova di titolo con link
@Test: palestra e allenamenti :-)
Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt.
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Bavaglio e retate di oppositori; Tunisia a un passo dal default
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 24 febbraio 2023 – La “rivoluzione dei Gelsomini”, che nel 2011 pose fine dopo 24 anni al regime dispotico di Zine Ben Alì, è un ricordo sbiadito. La Tunisia è oggi un paese in profonda crisi gestito con il pugno di ferro dal presidente della Repubblica Kaies Saied.
Il golpe silenzioso
Eletto a furor di popolo nell’ottobre del 2019 come indipendente, due anni dopo Saied ha realizzato un vero e proprio autogolpe. In nome della stabilità, nel 2021 il presidente ha esautorato il governo e congelato il parlamento, attribuendosi pieni poteri. Nel luglio 2022, sfruttando la sua popolarità ma soprattutto la distanza siderale della popolazione dalla politica, Saied è riuscito a far approvare un nuovo testo costituzionale che concede alla Presidenza ampissimi poteri.
Se a pronunciarsi sul nuovo testo fondamentale fu solo il 30% degli elettori, nelle scorse settimane ancora meno cittadini hanno votato nelle due tornate (17 dicembre 2022 e 29 gennaio) delle elezioni legislative: solo l’11% degli aventi diritto ha messo la scheda nell’urna.
La popolarità di Saied è ancora superiore al 50%, dicono i sondaggi, ma è in calo visto soprattutto il rapido deterioramento della situazione economica. Impotente, l’autocrate risponde mettendo il bavaglio all’opposizione e denunciando improbabili complotti. Alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2024 – ammesso che si tengano – Saied non vuole problemi, anche se i sondaggi prevedono per ora una sua netta vittoria.
Un’ondata di arresti
Nei giorni scorsi il capo dello Stato ha avviato una vasta campagna di arresti di esponenti politici, di imprenditori, giudici e giornalisti accusati di «aver cospirato contro la sicurezza dello stato». In manette sono finiti soprattutto leader politici della Fratellanza Musulmana come Abelhamid Jlassi, Faouzi Kammoun e Noureddine Bhiri (ex ministro della Giustizia), vicini al partito di opposizione Ennahda. Ma gli arresti sono trasversali: in carcere sono finiti anche Noureddine Boutar, direttore di “Mosaique Fm” – la radio indipendente più ascoltata del paese spesso critica nei confronti del governo – l’imprenditore Kamal Eltaief, all’epoca vicino al despota Ben Ali e legato agli interessi occidentali e Khayam Turki, esponente del partito socialdemocratico Ettakatol. Mercoledì la Procura Nazionale Antiterrorismo ha ordinato l’arresto di Chaima Aissa, leader del Fronte di Salvezza Nazionale, e di Issam Chebbi, leader del Partito Repubblicano.
Contro gli arresti arbitrati si sono espressi in particolare la Germania e gli Stati Uniti, ma anche l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha espresso preoccupazione per «l’inasprimento della repressione contro gli oppositori politici e i rappresentanti della società civile in Tunisia, soprattutto attraverso le misure adottate dalle autorità, che continuano a minare l’indipendenza della magistratura».
Il portavoce della diplomazia Usa, Ned Price ha affermato che Washington sostiene le aspirazioni del popolo tunisino verso «un sistema giudiziario indipendente e trasparente, in grado di garantire libertà a tutti». «I principi democratici della libertà di espressione, della diversità politica e dello stato di diritto devono essere applicati in un paese democratico come la Tunisia» ha invece sentenziato il portavoce dell’esecutivo tedesco Wolfgang Buechner.
Saied ha risposto per le rime a tutti, soprattutto all’amministrazione Biden. «Che guardino alla loro storia e alla loro realtà, prima di parlare della situazione in Tunisia. Siamo uno stato indipendente e sovrano, non siamo sotto colonizzazione o protettorato. Sappiamo quello che facciamo, gli arrestati sono dei terroristi» ha detto l’uomo forte di Tunisi.
Manifestazione di protesta dei giornalisti
Sindacati in piazza, Tunisi espelle la leader della CES
Contro l’arresto del fondatore di Radio Mosaique a Tunisi hanno manifestato numerosi membri del Sindacato Nazionale dei Giornalisti. «Le autorità vogliono mettere in riga sia i media privati sia quelli pubblici, e l’arresto di Boutar è un tentativo di intimidire l’intero settore» ha denunciato Mahdi Jlassi, presidente del SNJT.
Anche la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (Ces), Esther Lynch, ha invitato il presidente tunisino a rispettare i diritti umani e a smettere di prendere di mira i sindacati. L’appello è giunto il giorno dopo l’espulsione della sindacalista irlandese dal Paese, motivata dalla sua partecipazione a una protesta antigovernativa organizzata a Sfax dall’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt). Il 18 febbraio Saied ha definito la leader sindacale “persona non grata”, ingiungendole di abbandonare la Tunisia entro 24 ore.
La sua partecipazione alle manifestazioni del maggiore sindacato del paese rappresenta, secondo il capo dello Stato, un atto di intollerabile ingerenza negli affari interni del paese. Per il segretario generale dell’Ugtt, Noureddine Taboubi, si sarebbe trattato solo di una dimostrazione di solidarietà.
Il sindacato tunisino, che conta oltre 700 mila iscritti, ha organizzato diverse manifestazioni di lavoratori per protestare contro gli arresti arbitrari. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in otto diverse città, accusando Saied di soffocare le libertà fondamentali, compresi i diritti sindacali. Il vicesegretario generale dell’Ugtt Taher Barbari ha spiegato che le manifestazioni sono una risposta a una situazione politica marcia, ai “discorsi da caserma” e alla nuova legge finanziaria.
«L’Ugtt non può lasciare il Paese nelle mani di un unico decisore e con una Costituzione redatta dal presidente della Repubblica per costruire una nuova dittatura», ha aggiunto.
Il 31 gennaio un dirigente dell’Ugtt, Anis Kaabi, è stato arrestato a seguito di uno sciopero dei lavoratori dei caselli autostradali. A favore della sua liberazione di sono espressi decine di firmatari di un appello – dal Partito Comunista all’Associazione Tunisina per i Diritti e le Libertà passando per il filosofo e antropologo Youssef Seddik e l’attivista Bochra Belhaj Hmida – che denuncia «i tentativi disperati di criminalizzare il lavoro sindacale».
Crisi economica e complotti
Saied afferma che «la libertà di espressione è garantita e non c’è alcun legame con questi arresti, che piuttosto sono legati al complotto e alla corruzione».
Il giro di vite voluto dal presidente si inserisce però in un contesto dominato dalla preoccupazione della popolazione per una crisi economica sempre più grave. Molti prodotti alimentari di base – come lo zucchero, il latte e il caffè – sono diventati inaccessibili a molti tunisini e comunque risultano spesso introvabili. Il paese è privo di significative risorse naturali, è affetto da una siccità sempre più cronica ed è costretto ad importare dall’estero il grano che serve per fare il pane distribuito alla popolazione a prezzi calmierati.
Anche in questo caso, però, Saied si difende agitando un non meglio precisato “complotto”. I beni alimentari di prima necessità «sono disponibili all’interno del mercato tunisino, ma sono registrate delle carenze allo scopo di aggravare la situazione» ha affermato dopo aver però rimosso, all’inizio di gennaio, la ministra del Commercio Fadhila Rebihi.
Saied incontra la premier tunisina
Lacrime e sangue
Giustificazioni del presidente a parte, la situazione economica in Tunisia non era stata così grave dagli anni ’50 del secolo scorso.
L’economia del paese è stata gravemente colpita prima dalla pandemia e poi dalle conseguenze del conflitto in Ucraina. Preoccupa soprattutto l’aumento record del debito che nel 2021 aveva raggiunto quota 40 miliardi di euro e l’80% del Pil. Le agenzie di rating hanno ulteriormente declassato Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di ritardare l’approvazione finale di un prestito di circa 2 miliardi inizialmente previsto il 19 dicembre. A provocare lo stop dell’FMI – che rischia di bloccare i finanziamenti internazionali necessari per evitare il tracollo finanziario del paese – sono stati il ritardo con il quale il governo ha varato la legge Finanziaria e le scarse garanzie fornite.
Se anche a marzo l’istituzione finanziaria gestita da Washington dovesse concedere il prestito, secondo la direttrice generale del Ministero delle Finanze di Tunisi, Ibtisam Ben Aljia, il paese dovrebbe riuscire ad ottenere altri 3 miliardi per mettersi al riparo dal default. Senza la tranche promessa dal FMI anche i creditori europei ed arabi potrebbero tirarsi indietro.
Se il prestito a 48 mesi del FMI non dovesse essere concesso, secondo il vicepresidente della Banca mondiale per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mena), Farid Belha, la Tunisia sarebbe costretta a rinegoziare il suo debito con il Club di Parigi, un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 Paesi più ricchi del mondo. Non saranno certo gli strali di Saied – che ha sollecitato i paesi creditori a cancellare i debiti del paese e a restituire i “fondi saccheggiati” – a placare gli appetiti del Fondo e del Club di Parigi, che in cambio di una dilazione delle rate chiederanno un prezzo alto alla Tunisia. A pagarlo, nel caso, non sarebbe certo il presidente Saied.
Per concedere il prestito, al governo di Tunisi il Fondo Monetarioha già preteso l’eliminazione dei sussidi concessi alla popolazione per l’acquisto di cibo e carburante, il taglio della spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e la protezione sociale, nonché la privatizzazione delle principali aziende pubbliche. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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La politica estera di Giorgia Meloni umilia l’Italia
Nel parlare due giorni di ferocia di questo Governo, avevo il timore di avere esagerato nella critica, specie sul piano etico e in particolare dell’etica politica. Ma poi, mentre guardavo sconsolato le gondole quasi in secca nel Canal Grande e in secca nei canali più piccoli di Venezia e rilevo sula stampa la totale indifferenza […]
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Il sacrificio di Carlo Cammeo, ucciso a scuola dai fascisti.
("Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti")
bibliotecabfs.wordpress.com/20…
Per Carlo Cammeo a 100 anni dalla morte
La registrazione dell’incontro sul canale YouTube della Biblioteca Serantini Il 13 aprile 1921 viene assassinato a Pisa Carlo Cammeo (1897-1921), segretario della federazione di Pisa del…Blog della BFS
Cronologia della barbarie in Ucraina in cinque fasi
Un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la realtà si sforza di ricordarci la crudeltà della guerra. Da quando il presidente Putin ha dato l’ordine di invadere l’Ucraina, un numero imprecisato di persone (110.000 secondo l’ONU e 200.000 secondo gli Stati Uniti, di cui 40.000 civili) hanno perso la vita in questo conflitto. Il numero di […]
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Servono più navi contro la crescente minaccia russa. L’allarme di Credendino
Una nuova Guerra fredda, ma dai contorni se possibile più preoccupanti, sembra star emergendo nelle acque del mar Mediterraneo. A lanciare l’allarme è stato il capo di Stato maggiore della Marina militare, Enrico Credendino, in audizione al Parlamento, che ha registrato “aumento impressionante dei numeri della flotta russa” tra lo stretto di Gibilterra fino al Mar Nero “a un livello che non si vedeva nemmeno ai tempi della guerra fredda”. Sebbene l’elevato numero di unità di Mosca di per sé “non è una minaccia diretta al territorio nazionale”, questa “aumenta tantissimo la tensione”. I russi, ha spiegato ancora Credendino “hanno un atteggiamento aggressivo che non era usuale”, con un aumento esponenziale del rischio incidente “e quando c’è un incidente di questa natura non si sa mai dove si può andare a finire”.
Tensioni crescenti
A preoccupare il comandante delle forze navali italiane, infatti, sono gli impatti che la tensione crescente potrebbe avere sull’”equilibrio instabile” di un Mediterraneo “molto affollato”. “Non si erano mai visti quattro gruppi portaerei alleati nel Mediterraneo: italiano, francese, americano e la nave anfibio spagnola”, ha spiegato Credendino, con i russi che “fanno puntate verso lo Jonio con un gruppo navale di tre navi moderne” senza problemi. Tra le minacce, tra l’altro, si aggiunge anche quella dell’ipersonica, con Mosca che ha in questo momento la sua unità più moderna, equipaggiata con missili di questo tipo, in Sudafrica. “Non sappiamo se siano efficaci o meno – ha detto l’ammiraglio a riguardo – questo lo vedremo, ma la nave entrerà nel Mediterraneo”.
Aggressività russa
La presenza delle navi russe non è una novità, e secondo l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici “rimarranno nel Mediterraneo abbastanza a lungo”, con almeno due diverse configurazioni: “le navi russe si dividono tra quelle che cercano di intimorire i Paesi europei del Mediterraneo, e quelle che seguono i gruppi portaerei alleati in funzione di contro-deterrenza”. Una condizione che pur ricordando i tempi della Guerra fredda, porta con sé una nuova minaccia: “questa volta c’è il rischio di un uso limitato della forza da parte dei russi, con attacchi ai gasdotti o ai cavi sottomarini per le telecomunicazioni” che attraversano il Mare nostrum. Una novità dovuta al fatto che “i russi sono in maggior difficoltà rispetto all’epoca dell’Unione sovietica”. Una condizione che non facilita nemmeno i rapporti tra le sponde nord e sud del bacino, con in particolare i Paesi meridionali preoccupati “dal rumore di sciabole” avvertito nelle acque mediterranee.
Servono maggiori unità
Di fronte a questo scenario, la Marina militare italiana è chiamata a svolgere un ruolo sempre più cruciale di sorveglianza. Uno sforzo complesso che richiede il possesso nelle necessarie capacità. “Avremmo bisogno da tre a sei fregate antisommergibile in più, due navi antiaerei in più, una seconda portaerei per garantire di avere per tutto l’anno una portaerei disponibile, una nave logistica e due sommergibili”, ha spiegato Credendino. Ulteriori unità senza le quali la Marina avrà sempre maggiori difficoltà a garantire il livello necessario di presenza nelle acque del Mediterraneo. Uno sforzo che già oggi sta usurando navi ed equipaggi: “La Francia – ha detto Credendino – che ha il nostro stesso numero di navi, ha deciso di dotare ogni Fremm e sommergibile di due equipaggi, dal comandante all’ultimo marinaio. Noi non riusciamo a garantire un equipaggio completo per nessuna delle nostre Fremm”.
I gap della Marina
La flotta italiana comprende attualmente 62 unità maggiori più due unità di Intelligence. Una parte di queste “deve essere rinnovata nei prossimi 15 anni”, ma i finanziamenti sono stati individuati “non completamente”. Tra i diversi gap capacitivi individuati dall’ammiraglio, quella italiana risulta l’unica marina d’altura “priva di aerei a pilotaggio remoto, e sprovvista di aereo da pattugliamento marittimo in versione antisommergibile” indispensabile visto l’utilizzo massiccio di queste unità da parte di Mosca. Proprio su quest’ultimo fattore si è soffermato anche Credendino “Di qualsiasi versione volessimo dotarci, italiano o straniero, serviranno 4 o 5 anni per averlo operativo. Quando ne abbiamo l’esigenza chiediamo agli Usa di poter usare uno dei loro stanziati a Sigonella”
Le risorse necessarie
Di fronte a questo scenario, tuttavia, esiste un rimedio. “Tale ritardo capacitivo – ha detto il capo di Stato maggiore – potrebbe ritrovare coerente attuazione ove si concretizzasse l’impegno politico di raggiungere il 2% del Pil per le spese della Difesa”. Ritardi o minori assegnazioni rischiano di non favorire “il tempestivo conseguimento delle capacità individuate”. Le minori risorse assegnate dal Mimit, per esempio, “hanno causato ritardi nei pagamenti delle fregate antisommergibile Fremm 11-12, che rimpiazzano quelle cedute all’Egitto” con rischio di interruzioni su altri programmi della Marina, dal nuovo sommergibile e all’elicottero Nh-90, “spina dorsale della flotta”.
Littu - Accolti da antiche radici - Autoprodotto 2023
I Littu raccontano i giganteschi cicli che vivono la Terra e i suoi abitanti, con i riti che servono per compenetrare e farsi partecipi della natura e viceversa. “Accolti da antiche radici” è un titolo molto azzeccato,
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Manifestazione una luce per l’Ucraina
Domani, venerdì 24 febbraio 2023 alle ore 18.30, ad un anno dall’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, si terrà una manifestazione dal nome “Una luce per l’Ucraina“.
La Fondazione Luigi Einaudi parteciperà nella persona del suo Segretario Generale, Andrea Cangini, per dimostrare ancora una volta il suo supporto al popolo ucraino e a tutte le vittime della guerra.
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Forum umanitario di Riyadh: ‘Modi più efficaci per rispondere alla crisi umanitaria’
Nel tentativo di riposizionarsi, l’Arabia Saudita si è impegnata in vari campi, tra cui quello umanitario. Con innumerevoli disastri che colpiscono le comunità e affliggono le popolazioni, non mancano le crisi che richiedono l’immediata attenzione della comunità internazionale. Il 3° Forum umanitario internazionale di Riyadh ospitato dal King Salman Humanitarian Aid And Relief Center in […]
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Guerra Russia-Ucraina: Cina mediatrice, un ruolo rischioso?
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i leader dell’UE, il ministro degli Esteri ucraino e il Presidente francese Emmanuel Macron hanno suggerito che, in quanto potenza neutrale vicina a Mosca, Pechino potrebbe mediare tra Russia e Ucraina. Lo stesso Presidente cinese Xi Jinping ha parlato vagamente di un ruolo cinese nella risoluzione del conflitto a marzo e […]
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Difendiamo la libertà di impresa da una giustizia penale ipertrofica
Il 22 febbraio 2023 in Fondazione Luigi Einaudi il settore produttivo, le Istituzioni e il mondo professionale si sono confrontati sulle criticità del D.Lgs. 231 del 2001. La disciplina vigente è fonte di incertezze e contraddizioni, che limitano la crescita economica delle imprese, esponendole ai rischi della responsabilità penale.
L’incontro fra le parti sociali ha permesso di evidenziare i nodi cruciali della normativa ed esporre le esigenze di riforma. Come ricordava Von Hayek in Legge, legislazione e libertà, la certezza di regole condivise è il presupposto della libertà, perché non si è liberi quando opachi sono i confini del diritto. È questo lo spirito che ha guidato la Fondazione a promuovere la tavola rotonda, a cui hanno partecipato il Sen. Francesco Urraro, il Direttore Area Legislativa di Confindustria Antonio Matonti, gli Avv. Anna Vittoria Chiusano e Massimiliano Annetta e la Professoressa Rosita Del Coco.
Dal dibattito è emersa una situazione di fatto non più procrastinabile. Per il 60% delle attività produttive i modelli di organizzazione e gestione 231 sono superflui e insufficienti per perseguire efficacemente la finalità di prevenzione dei reati. Non solo, si traducono nella realtà in significative limitazioni della libertà di impresa, perché costringono le aziende di media a grande dimensione ad assumere costi organizzativi spesso superiori alle possibilità economiche. Non deve, allora, meravigliare se il quadro legislativo sia ancora percepito come un costo.
Segnatamente, sono emerse tre questioni fondamentali che il Parlamento dovrebbe affrontare. In primis, è necessario razionalizzare i reati presupposto, che qualora commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente fanno sorgere responsabilità penale in capo all’impresa. La disciplina, in origine pensata per combattere i reati dei colletti bianchi, è stata estesa nel tempo a molti altri illeciti, che poco hanno a che fare con le scelte gestionali e che, soprattutto, paralizzano i processi produttivi.
In secondo luogo, non è chiaro quando i modelli di organizzazione e gestione 231 siano idonei a esonerare l’ente dalla responsabilità penale. Infatti, nonostante la presenza dei modelli, in sede applicativa essi raramente vengono considerati adeguati. Le pronunce giurisprudenziali sono fra loro contraddittorie e le Procure d’Italia ricorrono a criteri disomogenei. Si crea così nel mondo economico un intenso senso di sfiducia, che genera forti ostacoli alla crescita. È necessario che il Parlamento e il Governo intervengano per introdurre delle norme che chiariscano come debbano essere i modelli, perché senza certezza del diritto il settore produttivo è condannato alla paralisi.
Infine, tutti gli intervenuti hanno condiviso l’urgenza di uscire da un’ipocrisia di fondo: la responsabilità ex D.Lgs. 231 del 2001 è responsabilità penale. Basti pensare che l’impresa può essere condannata alla pena dell’interdizione perpetua. Allora, il Parlamento dovrebbe superare l’attuale frode delle etichette. Non si tratta né di responsabilità amministrativa, né di tertium genus, ma di responsabilità penale, da accertare secondo le regole del processo penale. A titolo di esempio, oggi durante il processo si verifica un terribile inversione dell’onere della prova: è l’ente a dover provare che ha fatto quanto possibile e necessario per prevenire il reato. In caso contrario, si giunge alla condanna. Insomma, si è passati dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza, nonostante l’art. 27, comma 2, della Costituzione sia ancora lì.
In conclusione, si auspica che il Governo posa dare delle risposte che si attendono da anni. La libertà di impresa, già compressa da un sistema fiscale iniquo e da una burocrazia asfissiante, non può essere paralizzata da una giustizia penale iper-invadente. La Fondazione Luigi Einaudi, come sempre, farà la sua parte, anche attraverso la costituzione di un osservatorio permanente sulle libertà economiche, per portare all’attenzione delle Istituzioni le esigenze dei ceti produttivi.
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Ucraina: dallo shock per l’aggressione della Russia alla sete di vittoria
Il 24 febbraio 2022 è la data che è rimasta fortemente impressa nel cuore di tutti gli ucraini. Questa giornata è diventata la pietra angolare per la rivalutazione del ruolo dell’Ucraina nel mondo. Distruggendo i falsi stereotipi sull’Ucraina, secondo cui “non è pronta o in grado” di difendersi, abbiamo convinto la comunità internazionale della nostra […]
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Superhumans Center, un simbolo della sfida ucraina nella guerra contro la Russia
Questa settimana ricorre il primo anniversario dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia. Molte migliaia sono state uccise e altri milioni sfollati. Il PIL dell’Ucraina è diminuito di circa il 40%. E più di diecimila ucraini hanno perso gli arti. Di fronte a questa insensata violenza e distruzione, il Superhumans Center, l’ente di […]
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Ha preso il via il progetto "Unreal Engine for School", l'iniziativa finanziata dal Piano Nazionale Cinema e Immagini per la scuola promosso dal MIM e dal Ministero della Cultura.
Info ▶️ https://cinemaperlascuola.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Ha preso il via il progetto "Unreal Engine for School", l'iniziativa finanziata dal Piano Nazionale Cinema e Immagini per la scuola promosso dal MIM e dal Ministero della Cultura. Info ▶️ https://cinemaperlascuola.Telegram
L’integrazione dei fattori ESG nella strategia aziendale e nei sistemi di governance e gestione dei rischi degli intermediari bancari e finanziari
Martedì 7 marzo alle ore 17:45 presso l’Hotel NH Touring di Milano si terrà la conferenza dal titolo: “L’integrazione dei fattori ESG nella strategia aziendale e nei sistemi di governance e gestione dei rischi degli intermediari bancari e finanziari”
Curatore dell’evento
Nino Parisi
Relatore
Ferdinando Parente
Intervengono
Stefano Preda
Alessandro De Nicola
Giovanni Barbara
Roberto Russo
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Ucraina: ‘massimalisti’ dominanti negli USA, per quanto ancora?
Con la fine della Guerra Fredda nel 1989-1991, ci si poteva aspettare un profondo ripensamento della politica estera americana. L’Unione Sovietica era morta, in gran parte per autoimmolazione. Gli Stati Uniti – nel loro momento unipolare – erano ora liberi dalle pressioni sistemiche che li avevano portati durante la Guerra Fredda a costruire un imponente […]
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Ucraina vs Russia: tutti i perché di una guerra che viene da lontano
Il 26 maggio 1896, nella Chiesa della Dormizione al Cremlino, veniva incoronato Nicola II Romanov, l’ultimo zar di tutte le Russie. Di Russia non ce n’era infatti una sola, ma, insieme alla Grande Russia, quella per intenderci di Mosca e San Pietroburgo, c’era la Russia Bianca di Minsk e laggiù, più a sud, la Piccola Russia di Kiev. […]
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PODCAST NABLUS. Sale bilancio vittime, raid aerei israeliani su Gaza
di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 23 febbraio 2023 – Restano negli ospedali decine di feriti palestinesi, alcuni dei quali in condizioni critiche. Uno di loro è spirato nella notte portando a 11 il bilancio provvisorio di vittime del blitz israeliano a Nablus. Da Gaza lanciati nella notte 6 razzi verso il sud d’Israele che ha reagito bombardando l’enclave palestinese. Sciopero generale nei Territori Occupati. La tensione rischia di sfociare in una ulteriore escalation. Ne abbiamo parlato con il direttore di Pagine Esteri, Michele Giorgio.
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Barcellona rompe con Tel Aviv. Israele divide la Spagna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 16 febbraio 2023 – Le diverse opinioni sul rapporto da intrattenere con Israele stanno polarizzando, negli ultimi giorni, il dibattito politico all’interno della Spagna.
Barcellona congela il gemellaggio con Tel Aviv
Era dal 2015 che i movimenti catalani per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni nei confronti di Israelechiedevano alle neoeletta sindaca di Barcellona, l’ex attivista del movimento contro gli sfratti Ada Colau, di interrompere le relazioni istituzionali con Israele.
La richiesta, più volte inevasa, è stata finalmente accolta dalla prima cittadina del capoluogo catalano lo scorso 8 febbraio, a poche settimane dalla convocazione delle prossime elezioni municipali fissate per il prossimo 28 maggio.
Ada Colau ha comunicato di aver congelato le relazioni con Israele e in particolare il gemellaggio tra la Barcellona e Tel Aviv, siglato nel lontano 1998 all’interno di un accordo che include anche Gaza in un improbabile “triangolo della cooperazione”.
«Non possiamo più tacere di fronte alla violazione flagrante e sistematica dei diritti umani» ha scritto la leader dei Comuns in una lettera indirizzata al premier israeliano Benjamin Netanyahu, sottolineando che la misura non intende rappresentare un atto di discriminazione nei confronti della popolazione o della religione ebraica ma una opportuna censura nei confronti del governo del cosiddetto “stato ebraico”.
Nella missiva la sindaca ha ricordato che organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International e l’israeliana B’Tselem «hanno denunciato che le pratiche dello stato di Israele contro la popolazione palestinese, come l’apartheid e la persecuzione, possono essere considerati dei crimini contro l’umanità». Già nel giugno dell’anno scorso, del resto, una mozione approvata dal Parlamento catalano con i voti di Erc (centrosinistra indipendentista) e della Cup (sinistra radicale indipendentista), ma anche dei socialisti e dei Comuns equiparava le conseguenze dell’occupazione israeliana all’apartheid.
«Non possiamo (…) chiudere gli occhi di fronte a una violazione ampiamente documentata da decenni dagli organismi internazionali» ha scritto la sindaca annunciando la sospensione delle relazioni istituzionali «finché le autorità israeliane (…) non si atterranno agli obblighi imposti dal diritto internazionale e dalle risoluzioni dell’Onu».
La prima cittadina dei Comuns si è apertamente allacciata alla campagna “Barcellona contro l’apartheid” lanciata dal coordinamento “Basta complicità con Israele”; la sigla riunisce 112 diverse organizzazioni popolari, sociali, politiche, sindacali ed ha raccolto quasi 4000 firme per ottenere che il consiglio comunale della città discutesse le richieste del movimento che si batte per i diritti del popolo palestinese e chiede alle istituzioni di interrompere i rapporti con lo “stato ebraico”.
Il no della politica
Colau ha però deciso di agire firmando un’ordinanza, senza far passare il provvedimento al vaglio dell’assemblea comunale. La decisione ha suscitato un vespaio – esacerbato dal clima elettorale – non solo all’interno dell’opposizione ma anche della sua maggioranza di centrosinistra.
L’opposizione di destra – Junts, Ciudadanos e PP – hanno chiesto un consiglio straordinario sull’iniziativa della sindaca. Già il Partito Socialista – alleato dei Comuns nel governo cittadino – aveva chiesto che appena possibile l’assemblea comunale discutesse l’ordinanza, giudicata un “grave errore”.
Anche in seno ad Esquerra Republicana, a parte qualche voce isolata, si sono levate forti critiche sia al carattere unilaterale sia alla sostanza del provvedimento che, nella plenaria del 24 febbraio, potrebbe essere quindi bocciato. Anche nello stesso partito della sindaca, del resto, non mancano i contrari all’iniziativa anche se il gruppo consiliare è rimasto compatto ieri mattina, nel corso di una votazione di ricognizione senza conseguenze, che ha detto ‘no’ alla sindaca. A favore di Ada Colau hanno votato solo i Comuns mentre i consiglieri di Esquerra si sono astenuti.
Il sostegno internazionale
A sostegno di Ada Colau, invece, si sono espressi una cinquantina di personalitàdel mondo della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della politica. Una dichiarazione internazionale di solidarietà alla sindaca di Barcellona è stata firmata dai premi Nobel Annie Ernaux, Mairead Maguire, George P. Smith e Jody Williams, dagli attori Mark Ruffalo, Miriam Margolyes, Viggo Mortensen, Susan Sarandon, dai registi Fernando Meirelles e Ken Loach, da musicisti come Marianne Faithful, Peter Gabriel e Brian Eno, da intellettuali come Angelas Davis, Arundathi Roy e Naomi Klein. Tra i firmatari anche l’ex vicepresidente del Parlamento Europeo Luisa Morgantini. La dichiarazione critica i governi per non aver reagito alle sistematiche violazione del diritto internazionale e alle violazioni dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. In un messaggio personale l’ex ministro del governo di Nelson Mandela, il sudafricano Ronnie Kasrils, ha affermato di essere entusiasta della decisione di Ada Colau.
Il congelamento dei rapporti con Tel Aviv è stato definito «coraggioso» dall’Associazione catalana degli ebrei e dei palestinesi ed ha ricevuto anche il sostegno dalla European Jewish for Just Justice, una rete dei 12 associazioni pacifiste europee.
La condanna della destra e di Israele
Immediata ed inappellabile, invece, è stata la condanna da parte del Ministero degli Esteri israeliano e della Federazione delle comunità ebraiche spagnole. Quest’ultima ha definito quella di Ada Colau una forma di «sofisticato antisemitismo».
Anche la destra spagnola è andata subito all’attacco, accusando la sindaca di Barcellona di antisemitismo. Il sindaco di Madrid José Luis Martínez Almeida, del Partito Popolare, ha invitato il primo cittadino di Tel Aviv a stringere un gemellaggio tra le due città.
La presidente della Comunità di Madrid (anch’essa del PP) Isabel Díaz Ayuso ha compiuto, il 12 e 13 febbaio, una visita istituzionale di due giorni in Israele, fissata prima dell’annuncio della Colau. Per sua stessa ammissione, il viaggio è servito per ampliare le relazioni economiche con le imprese e le istituzioni israeliane ed attirare nuovi investimenti. Ideologicamente, negli ultimi anni, anche la destra radicale di Vox si è distinta per il sostegno incondizionato a Israele.
L’ambiguità di Pedro Sanchez
Da parte sua il premier Pedro Sànchez ha evitato di incontrare i dirigenti israeliani, cosa che però hanno fatto più volte alcuni dei suoi ministri socialisti. Inoltre il primo ministro aveva promesso, nel 2015, che se avesse avuto accesso al governo avrebbe riconosciuto lo Stato palestinese. Lo ha ribadito nel 2017 e l’impegno è stato inserito all’interno del programma elettorale del Partito Socialista per le elezioni del 2019. Al momento, però, nonostante le pressioni di Unidas Podemos e dei partiti indipendentisti baschi e catalani che sostengono la sua maggioranza dall’esterno, la promessa non è stata ancora onorata e nulla fa pensare che Sanchez voglia dar seguito all’impegno preso nel prossimo futuro.
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Contestata a Madrid l’ambasciatrice di Israele
Intanto l’8 febbraio, all’interno dell’Università Complutense di Madrid gli organizzatori di una conferenza sugli “Accordi di Oslo” hanno invitato l’ambasciatrice in Spagna dello “stato ebraico”, Rodica Radian-Gordon.
Gli attivisti delle reti di solidarietà con la Palestina ne hanno approfittato per inscenare una contestazione, ricordando che solo nel mese di gennaio l’esercito di occupazione ha ucciso 35 palestinesi.
La reazione degli addetti alla sicurezza dell’ambasciatrice e dell’Università è stata violenta e spropositata. Un uomo, poi riconosciuto come un agente israeliano di scorta alla rappresentante diplomatica, ha addirittura minacciato i manifestanti con una pistola. Mentre l’ambasciatrice abbandonava il convegno, un plotone della Policia Nacional in assetto antisommossa ha aggredito i manifestanti. La giornata si è conclusa con due attiviste fermate e denunciate. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Sonno. - Supervoids
Torniamo con grande gioia a parlare di una delle etichette del sottobosco musicale italiano e più precisamente ligure, ovvero di Musica Orizzontale, una delle parabole più interessanti ed eretiche uscite dall’estremo ponente ligure.
@Musica Agorà #musica #idm #elettronica
Sonno. - Supervoids - 2023
Torniamo con grande gioia a parlare di una delle etichette del sottobosco musicale italiano e più precisamente ligure, ovvero di Musica Orizzontale, una delle parabole più interessanti ed eretiche uscite dall’estremo ponente ligure. Sonno.Massimo Argo (In Your Eyes ezine)
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