In Pizzo
Escluderei che la presidente del Consiglio possa anche solo immaginare di paragonare lo Stato alla mafia, l’onore della Repubblica alla disonorata società. Vero che i comizi sono comizi, ma vero anche che le parole sono parole e hanno un significato. Queste sono state le sue: «L’evasione (fiscale, ndr.) devi combatterla dove sta: big company, banche, non sul piccolo commerciante a cui chiedi il pizzo di Stato solo perché devi fare la caccia al reddito più che all’evasione fiscale». Non soltanto non va bene, ma segnala una vicinanza, anzi una coincidenza fra le posizioni della destra e quelle della più estrema sinistra.
Il fisco – se funziona, e farlo funzionare tocca a chi governa – non dà “la caccia” al reddito e neanche al patrimonio, ma cerca di scovare i redditi e i patrimoni non dichiarati o mascherati, con illecita sottrazione di gettito fiscale. Quella sottrazione comporta due conseguenze: a. gli evasori si fanno pagare strade, scuole, ospedali, pensioni e tutto il resto dai contribuenti onesti; b. le imprese, piccole o grandi che siano, quando evadono fanno concorrenza sleale alle imprese oneste. Lo Stato che non persegue l’evasione, quindi, è loro complice ed è nemico delle persone e delle imprese per bene.
Nei giorni scorsi un tassista ha segnalato di avere e dichiarare un reddito decoroso, utilizzando carte di credito e bancomat per farsi pagare, ma ha anche aggiunto che molti (moltissimi, troppi) suoi colleghi si regolano diversamente, dichiarando redditi da fame che, in realtà, sono il risultato di evasione fiscale. Posto che gli hanno anche tagliato le ruote, comunicargli che i “piccoli” non devono essere costretti a pagare il dovuto è come dirgli che è un fesso. Definizione che si deve a Prezzolini, che la destra dice di avere caro. Una doppia offesa: all’onestà fiscale e al suo essere vittima di vandalismo intimidatorio. Legge e ordine dovrebbero essere (giustamente) cari alla destra.
In quella distinzione fra “piccoli” e “grandi” si annida un altro equivoco, fattuale e culturale. Nella realtà è evidente che un singolo evasore, se è grande, sottrae di più all’erario rispetto all’avere un giro d’affari limitato, ma è anche vero che il montante complessivo dell’evasione è dato dal sommarsi di tante evasioni. E in quella miriade di scontrini non battuti, di ricevute non rilasciate e di fatture non emesse gli evasori non sono soltanto quanti incassano, ma anche quanti pagano. Così l’Italia ha il triste primato della più alta quota europea di Iva evasa. Si tratta della ricorrente domanda, dall’idraulico al ristoratore: «Con o senza Iva?». Un Paese in cui viene formulata qualche migliaio di volte al giorno non sarà mai un Paese onesto. E manco una Nazione rispettabile.
Poi c’è il lato culturale, che vede l’evasione come un male legato alla ricchezza, con ciò stesso indirizzandole un giudizio moralmente negativo. In questo destra e sinistra ideologiche si somigliano come due gocce d’acqua. Come se la miseria fosse moralmente ammirevole. Tanto è forte questo pregiudizio da avere generato il concetto di “evasione per necessità”, che sarebbe poi la confessione di avere governato o star governando un fisco ingiusto per esosità. Che è pure vera, quest’ultima cosa, ma non la si affronta dando a me del pagatore di pizzi, offendendomi, ma costringendo tutti a pagare, diminuendo le spese e così il bisogno di portar via soldi alle libere scelte dei privati.
Accertare l’evasione è compito dello Stato, senza criminalizzare cittadini e imprese e senza giustificare la disonestà. Ha gli strumenti per accertamenti sui grossi e deve spingere per la tracciabilità dei piccoli. Due cose possibilissime usando i dati. Lavorino su quello, ricordando d’essere partiti male, sfottendo gli onesti che usano il Pos, come il nostro benemerito tassista.
Quelle parole sono un errore, che giustifica un comportamento asociale. Escludo fosse nelle intenzioni, ma quello significano. Averle pronunciate per prendere voti è di suo inquietante.
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Serve un servizio militare volontario nazionale? Risponde Farina
Periodicamente si torna a parlare dell’opportunità di prevedere un servizio militare su base volontaria. L’argomento è stato rilanciato ai massimi livelli dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Udine in occasione dell’Adunata nazionale degli Alpini il 14 maggio scorso. Sul tema si era espresso più volte anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, prefigurando una proposta di legge per istituire una “Mininaja” della durata di 40 giorni per i giovani che volontariamente desiderassero fare questa esperienza. Queste proposte, benché enunciate in modo sintetico, sono tutt’altro che campate in aria e meritano una giusta considerazione.
Le reazioni
Tuttavia, come spesso accaduto anche in passato, tali idee tendono a generare reazioni di vario tipo. La prima, da parte di coloro che vorrebbero il ripristino del servizio di leva obbligatorio (sospeso dal 2006) finalizzato non solo alla formazione del cittadino soldato per la difesa della Patria, ma anche funzionale per garantire una esperienza di vita fondata sulla disciplina e sui doveri che – a loro dire – contribuirebbe ad accrescere il senso civico e la maturazione dei giovani che sempre più rifuggono dai concetti di autorità, senso di responsabilità e spirito di gruppo. Il secondo moto d’opinione contesta decisamente qualsiasi idea di un ritorno al servizio di leva, sia pur volontario e di breve durata, considerando assai validi altri percorsi per migliorare il senso di cittadinanza e il contributo alla collettività, quali ad esempio i servizi nel terzo settore, nel sociale e nelle iniziative di volontariato in generale. Entrambe le posizioni, pur rispettabili, non colgono l’essenza della questione.
L’organico delle Forze armate è sufficiente?
La domanda cui si dovrebbe dare risposta è la seguente: l’organico attuale delle nostre Forze Armate è sufficiente per far fronte ai mutati scenari di sicurezza e alle molteplici emergenze che sempre più frequentemente affliggono il nostro Paese? La risposta è no. Difatti l’organico di Esercito, Marina e Aeronautica, ridotto da 190mila a 150mila unità complessive con la legge 244 del 2012, è stato ritenuto insufficiente ad affrontare le nuove sfide che vedono il ritorno della guerra nel continente europeo e un quadro di crisi e instabilità che si estende su un ampio arco a est e a sud del Mediterraneo, con il nostro Paese proprio al centro delle aree di instabilità.
Riserva ausiliaria
E proprio sulla base del mutato scenario di sicurezza il nostro Parlamento, con la legge 119 del 5 agosto del 2022, ha già delegato il Governo a definire la costituzione di una Riserva ausiliaria dello Stato pari a diecimila unità. Tale riserva verrebbe ripartita su base regionale alle dipendenze delle Forze armate, con compiti di impiego in caso di conflitti, grave crisi internazionale o per emergenze e calamità nazionali, nonché con funzioni in campo logistico e di cooperazione civile-militare. Siamo quindi di fronte a valutazioni solide e a un quadro condiviso in cui all’evidente esigenza si associa la volontà politica e la presenza di un impianto legislativo idoneo per procedere in tal senso. Un servizio militare volontario e limitato nel tempo costituirebbe un’importante fonte di alimentazione di detta Riserva ausiliaria dello Stato. A fronte di una chiara esigenza perché quindi non consentire a un giovane cittadino italiano, che decide di non intraprendere la carriera professionale nelle Forze armate, di avere l’opportunità, se lo desidera, di essere addestrato in campo militare per un periodo limitato per contribuire alla difesa e alla sicurezza dei suoi connazionali? Perché privarsi di una capacità importante ottenibile senza limitare alcuna libertà personale? Ci sono pertanto tutte le premesse per procedere in tal senso.
Prossimi passi
Si tratta ora di prefigurare il percorso addestrativo e il successivo eventuale impiego, improntati a ottimizzare il rapporto costi-benefici. Ad esempio, si potrebbe stabilire una fase di addestramento basico della durata variabile, compresa tra le 8 e le 12 settimane, in funzione degli incarichi da assegnare. Due o tre mesi di intenso addestramento, da svolgere nei mesi estivi, sarebbero poi facilmente compatibili con gli iter formativi scolastici-universitari dei giovani cittadini militari volontari. Terminata la formazione iniziale, i volontari del Servizio nazionale verrebbero inquadrati in unità già esistenti, dislocate nelle regioni di provenienza su tutto il territorio nazionale. Questo personale conserverebbe il proprio posto di lavoro civile, avrebbe uno “status militare” e potrebbe essere disponibile ad un richiamo addestrativo annuale della durata di 15-20 giorni.
I costi
Per ciò che concerne i costi, si evidenzia che la citata legge 119 ha previsto lo stanziamento di circa 50 milioni annui, defalcati dai risparmi della legge 244/2012, per i soli oneri di richiamo del personale; oltre ai quali dovranno essere previsti gli oneri di selezione, vestizione, equipaggiamento, mezzi e materiali, istruttori, e infrastrutture. Si potrebbe procedere con gradualità, prevedendo una fase sperimentale nei primi due anni con un reclutamento tra 1500 e 2000 volontari all’anno, per poi passare a regime su un reclutamento annuale di 3000 Volontari, sufficienti per alimentare un bacino di 30mila unità in dieci anni. Ciò consentirebbe, con ampia flessibilità, il richiamo fino al massimo di diecimila unità previste per l’eventuale impiego della Riserva ausiliaria dello Stato nei casi di massime emergenze.
Un supporto alle emergenze
In quanto all’utilità di un siffatto bacino di forze Volontarie, basti pensare alle calamità che purtroppo hanno interessato il nostro Paese negli ultimi decenni (terremoti, Covid-19, frane, inondazioni, ecc.) e che proprio in questi giorni affliggono una vasta parte del nostro Paese. La disponibilità di un battaglione aggiuntivo di riservisti volontari su base regionale o areale (con dotazioni di mezzi e materiali) consentirebbe immediato intervento in supporto alla Protezione civile e agli altri organi dello Stato con tempestività ed aderenza. C’è già un modello in tal senso: il battaglione Alpini “Vicenza” costituito in seno al 9° reggimento Alpini a L’Aquila, alimentato da personale in servizio permanente. Replicare tale schema con i volontari della Riserva ausiliaria sarebbe agevole e assai meno dispendioso del reclutamento di analoga aliquota in servizio permanente. Le differenti specificità delle tre Forze armate indicheranno poi anche compiti in campo logistico e di supporto che sono altrettanto importanti per sostituire temporaneamente il personale professionista inviato in missioni di difesa, sicurezza e gestione delle crisi internazionali.
Basi solide
Ecco in definitiva che gli intendimenti dei nostri governanti sull’istituzione di un servizio militare volontario e temporaneo poggiano su basi solide. Si tratta di un’iniziativa nobile che accrescerebbe ancor più il legame tra le nostre Forze armate, il territorio e i nostri concittadini. È giunto il momento di mettere da parte la retorica e le critiche argomentate con titoli semplificativi. Il Governo ha tempo fino a fine agosto per esercitare la delega conferitagli dal Parlamento e definire in concreto i parametri della Riserva ausiliaria dello Stato.
La Guerra tiepida. La sfida dell’Occidente per Casini e Manciulli
Gli strumenti della deterrenza e dell’equilibrio non bastano più. Lo scenario internazionale è caratterizzato contemporaneamente dalla competizione globale “fredda” tra potenze e da conflitti “caldi”. È la guerra tiepida, teorizzata nel nuovo libro chiamato appunto “La guerra tiepida. Il conflitto ucraino e il futuro dei rapporti tra Russia e Occidente”, di Enrico Casini e Andrea Manciulli (edito dalla Luiss University Press), presentato ieri alla sede dell’ateneo con la moderazione di Flavia Giacobbe, direttore delle riviste Airpress e Formiche. Questo nuovo tipo di confronto “intermedio tra lo scontro militare e l’equilibrio della tensione”, come lo ha definito il direttore generale dell’Università Luiss Guido Carli, Giovanni Lo Storto, richiede “l’analisi di specialisti che possano ipotizzare come sarà il monto dei prossimi anni, con una Europa nel vortice della Storia”. Per la vice presidente della Luiss, Paola Severino, il libro “analizza le premesse e il contesto di questa guerra tiepida” attraverso una “metodologia seria con diversi studiosi che analizzano i fenomeni”.
La Guerra tiepida
Alla base del libro, per Enrico Casini c’è “la volontà di fare chiarezza nel caos in cui siamo stati immersi, dove si confondevano invasi e invasori e non si distinguevano le origini del conflitto”. Per questo scopo il volume è diviso in due parti, una dedicata alle radici storiche, dal rapporto tra Mosca e Kiev dopo la dissoluzione dell’Urss, alla svolta impressa alla politica russa da Putin. La seconda parte è invece dedicata a una riflessione sulle possibili conseguenze. Sul titolo “Guerra tiepida” è intervenuto anche Andrea Manciulli, che ha spiegato come si tratti di un “termine per il futuro”. “Non stiamo assistendo solo alla guerra in Ucraina, ma siamo in una fase della storia di discrimine geopolitico”. Dopo la fine della guerra fredda, per l’autore, ci si è illusi che la democrazia avesse vinto; invece, “è stata coltivata con attenzione scientifica la disgregazione dei valori dell’Occidente”. Le sfide del resto sono tante, oltre quella ucraina a est, c’è l’Artico, ormai navigabile, e le fragilità dell’Africa. “L’Europa è circondata” ha detto Manciulli e si trova “in una nuova fase della storia in cui non c’è più solo l’equilibrio del freddo, ma ci sono tanti conflitti, importanti sia per la geopolitica che per la nostra vita quotidiana.
Lo scontro tra democrazia e autocrazia
Per la Difesa italiana è evidente che questa guerra abbia superato i confini europei, e si sia spostata in tutto il mondo e, più vicino a noi, nel Mediterraneo. A dirlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quello che serve, dunque, è che la politica “assuma uno sguardo più che decennale”. Il problema, ha sottolineato il ministro, è che “l’Europa per troppo tempo ha assunto un approccio burocratico, ma manca una volontà politica complessiva, cosa che hanno invece singolarmente i Paesi del Vecchio continente”. La domanda che si è posto il ministro, infatti, è “come si comporterebbe l’Unione se gli Usa ritirassero il proprio sostegno all’Ucraina?”. La complessa risposta è che se per alcuni non cambierebbe nulla, per altri invece sì. “È un momento in cui si scontrano due modelli, le democrazie e le autocrazie; il problema è che le democrazie sono più lente nelle decisioni, che possono sempre cambiare, e hanno catene di comando più lente”. Inoltre, il modello democratico, ha sottolineato Crosetto, prevale nella parte agiata del mondo, “incapace di avere la stessa voglia di combattere di chi vive nella parte povera”. Ci troviamo nella condizione di dover difendere “il modello di società dove si sta meglio, ma che sconta delle debolezze quando si scontra con le autocrazie”.
Un cambio culturale
Uno scontro che si combatte anche sul piano della comunicazione. “La Russia ha dimostrato di avere una StratCom più avanzata di noi; noi parliamo di pace o guerra, mentre dovremmo parlare di resa o resistenza, repressione o libertà. Noi stessi siamo stati contaminati”. “Come ho detto al Copasir – ha raccontato ancora Crosetto – la guerra finirà quando chi sta bombardando smetterà di farlo”. Per il ministro “la guerra è una cosa brutta, ma purtroppo l’unico modo per allontanarla è combattere chi vuole la guerra”. Quello che serve, dunque, è uno sforzo dell’intera classe dirigente per cercare di capire cosa potrà succedere tra vent’anni, “individuando i passi da fare per cambiare la cultura del nostro Paese ed europea, togliendo la sedimentazione di decenni per cui ci faceva schifo quello di cui avevamo bisogno”. Per Crosetto, “riscoprire questo percorso è l’unico per assicurare un futuro incarnato dalle democrazie”.
Destabilizzazione globale
Per il presidente della Fondazione MedOr, Marco Minniti, “non solo è una guerra tiepida, ma sarà anche una guerra lunga”. Il punto è che non può esserci pace “fondata sulla pace di un popolo, e chi lo chiede non sa di cosa parla”. Per Minniti, la guerra si combatte su due fronti, il primo materiale, sui campi di battaglia ucraini, “poi c’è una guerra asimmetrica, fatta di molte cose, dall’energia, al cyber”. L’obiettivo, spiega ancora il presidente di MedOr, è la destabilizzazione del mondo “che ha un epicentro: il Mediterraneo”. Per Minniti, infatti, l’obiettivo delle autocrazie è creare “tali e tante tensioni che sfaldano i legami e colpiscono lo schieramento occidentale” e l’elemento oggi più preoccupante è la conduzione di questa guerra asimmetrica in Africa. “Non c’è una grande regia strategica dietro, ma ci sono eventi e fatti che fanno comodo a Mosca e Pechino”.
Serve un’analisi approfondita
Come ha registrato il direttore generale dell’Agenzia industrie difesa, Nicola Latorre, “c’è stata superficialità nel valutare la strategia di Putin alla conferenza di Monaco nel 2007, in Georgia nel 2008, e poi in Crimea nel 2014”. Una superficialità dettata dal prevalere degli interessi economici invece che geopolitici. “La storia non si fa con i se – ha continuato il direttore generale – ma bisogna fare tesoro delle esperienze”, e non è la prima volta che succede all’Europa di sbagliare valutazioni, come successo con le Primavere arabe. L’obiettivo dell’analisi, allora, deve essere sviluppare un “margine di prevedibilità nella complessità di una partita enorme come quella che si sta giocando per ridefinire gli equilibri mondiali”.
Lo scontro sull’informazione
Il tentativo di destabilizzazione non si limita agli scenari esteri, ma accade anche nelle nostre società. “Nel nostro Paese il fenomeno della disinformazione ha due facce” ha spiegato la giornalista Monica Maggioni, “da una parte c’è chi decide di usare le informazioni per portare avanti un proprio credo ideologico, dall’altro c’è invece un deficit di consapevolezza”. Il punto, è che la guerra si combatte a Kiev e dentro le case di ognuno di noi: “si scontrano due visioni del mondo, progetti diversi sugli equilibri del globo”. Il problema è che negli Stati totalitari, in cui l’informazione è controllatissima, e i media tradizionali sono sotto scrutinio estremo da parte dello Stato, si è costruito un sistema di disinformazione sistematica a uso del nemico tra i più avanzati al mondo”.
Ministero dell'Istruzione
#PNSD, fino al prossimo 15 giugno si svolgerà la consultazione pubblica lanciata dalla Direzione generale per i fondi strutturali per l’istruzione, l’edilizia scolastica e la scuola digitale del Ministero, con l’obiettivo di raccogliere pareri e cont…Telegram
Fronte popolare-comando generale: raid Israele ha ucciso 5 nostri militanti
della redazione
Pagine Esteri, 31 maggio 2023 – Cinque membri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina comando generale (Fplp-cg), sono stati uccisi oggi da una potente esplosione avvenuta nella cittadina di Qousaya, nel Libano meridionale, a ridosso del confine con la Siria e a circa 70 chilometri da quello con Israele. L’organizzazione palestinese ha accusato lo Stato ebraico di aver colpito la sua base. Forse con un drone o un missile sganciato da alta quota da un cacciabombardiere, affermano alcune fonti. Nell’attacco sarebbero rimaste ferite altre dieci persone, due delle quali in modo grave ha detto Anwar Raja, portavoce del Fplp-cg.
Da parte sua Israele nega di aver effettuato un attacco aereo sul confine libanese-siriano.
Un dirigente del Fplp-cg, Abu Wael Issam, ha detto all’Associated Press che il suo gruppo si vendicherà “al momento opportuno”. Ha aggiunto che l’attacco non dissuaderà i combattenti palestinesi “dalla lotta contro il nemico israeliano”.
Fonti della sicurezza libanese, citate da media locali, invece sostengono che “i cinque membri del Fplp-cg sono stati uccisi dall’esplosione accidentale di un loro missile e non in un attacco aereo israeliano”.
Il Fplp-cg, Fondato da Ahmed Jibril (morto nel 2021) e nato da una scissione dal più noto Fronte popolare per la liberazione della Palestina, è sostenuto da Damasco e ha basi lungo il confine tra Libano e Siria e una presenza militare in entrambi i paesi. Pagine Esteri
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In Spagna è boom delle destre. Il ruolo delle chiese evangeliche
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 31 maggio 2023 – I sondaggi davano i due principali partiti appaiati, uno scenario tollerabile per i socialisti al potere. Ma i risultati delle elezioni regionali e municipali di domenica in Spagna hanno consegnato una netta vittoria al Partito Popolare, provocando un vero e proprio terremoto politico.
Il premier manda la Spagna al voto anticipato e spera nel miracoloLunedì, a sorpresa, il primo ministro Pedro Sánchez ha infatti annunciato lo scioglimento delle camere e l’indizione di elezioni anticipate per il 23 luglio.
«Molti presidenti dalla gestione impeccabile hanno smesso di esserlo. Tutto ciò rende opportuno che gli spagnoli facciano chiarezza sulle forze politiche che dovrebbero guidare questa fase. La cosa migliore è che gli spagnoli possano dire la loro nel definire la direzione politica del Paese», ha spiegato il premier.
Il leader socialista spera, anticipando il voto da dicembre a luglio, di costringere alla mobilitazione almeno parte dell’elettorato progressista che domenica si è astenuto o ha “disperso” il voto, obbligandolo ad una scelta di campo netta per evitare di consegnare il paese ad uno schieramento di destra che non comprende solo i postfranchisti del Partito Popolare, ma anche gli estremisti di Vox. Tra qualche settimana sapremo se l’azzardo di Sánchezsi sarà rivelato vincente, o se invece la trasformazione delle legislative in un referendum pro o contro l’attuale maggioranza di governo consegnerà una vittoria ancora più netta alle forze reazionarie.
Netta vittoria del PP
La destra di Feijóo ha intanto ottenuto il 31,5% e 7.055.000 voti; un balzo in avanti, rispetto alla precedente tornata, di ben 1 milione e 800 mila consensi, nonostante il leggero calo nell’affluenza generale che domenica è stata del 63,9% (l’1,3 in meno rispetto al 2019).
Il Partito Popolare è riuscito a espugnare 15 dei 22 capoluoghi in ballo, compresi molti tradizionali feudi socialisti. La destra ha ottenuto la maggioranza assoluta sia a Madrid che nella regione della capitale e si è piazzata in testa a Malaga, Almeria, Cadice, Cordoba, Granada, Murcia, Oviedo, Santander, Teruel, Logrono, Badajoz, Salamanca, Valencia, Siviglia, Valladolid, Castellòn e Palma. In Andalusia, il Pp ha vinto in tutti i capoluoghi tranne che a Jaen. In Castiglia La Mancia, dove il Psoe governava i cinque capoluoghi, il Pp può ora assumere il controllo a Toledo, Ciudad Real, Guadalajara e Albacete. Feijóo ha ottenuto buoni risultati anche nelle città catalane, terreno da sempre difficile per la destra spagnola.
Isabel Díaz Ayuso (PP), presidente della Comunità di Madrid
I socialisti arretrano, le sinistre si leccano le ferite
Il Psoe si è fermato invece al 28,1% e a 6.292.000 voti, perdendo centinaia di città e sei comunità autonome. È andata anche peggio alle forze politiche a sinistra dei socialisti, con Podemos (alleato quasi ovunque con Izquierda Unida, i verdi e liste progressiste locali) che ottiene il peggior risultato della sua storia. Le alleanze di sinistra escono da molti consigli comunali e regionali non riuscendo spesso a superare la soglia di sbarramento del 5% ad esempio né a Madrid né a Valencia. Anche la lista della sindaca uscente di Barcellona, Ada Colau, si è piazzata solo terza.
Il netto ridimensionamento di Podemos e l’anticipo delle elezioni a fine luglio obbligherà probabilmente il partito fondato da Pablo Iglesias ad accettare obtorto collo la confluenza nella piattaforma Sumar promossa dalla Ministra del Lavoro Yolanda Diaz, alla quale hanno già aderito la maggior parte delle forze di sinistra, ecologiste e di centrosinistra del paese.
L’eccezione basca a galiziana
L’unico risultato in controtendenza per le sinistre – ma stavolta quelle indipendentiste – si è registrato nei Paesi Baschi/Navarra e in Galizia. Nel primo caso EH Bildu ha aumentato in maniera consistente i consensi, scavalcando in alcuni casi il centrodestra del Partito Nazionalista Basco e riuscendo ad espugnare un certo numero di città (per la prima volta Vitoria-Gasteiz) e la provincia di Donostia e crescendo in Navarra. La sinistra indipendentista basca ha ottenuto il buon risultato nonostante la polemica suscitata, durante la campagna elettorale, dalla decisione di candidare una manciata di membri in passato condannati per appartenenza all’ETA, che a pochi giorni dal voto hanno però annunciato che non avrebbero accettato l’incarico nell’eventualità che fossero stati eletti. Inoltre con Bildu si sono schierati anche alcuni noti esponenti politici provenienti da altre forze politiche di sinistra e di centrosinistra non indipendentista, tra i quali l’ex leader di Izquierda Unida Javier Madrazo e l’ex dirigente socialista Gemma Zabaleta.
Il Blocco Nazionalista Galiziano aumenta i suoi voti del 50% e in molti casi supera i socialisti, piazzandosi in vari capoluoghi e località della regione atlantica.
Il leader di Vox, Santiago Abascal
Vox si prepara a governare la Spagna, Ciudadanos sparisce
Nonostante il forte exploit del PP – formazione che non può certo essere considerata moderata – anche l’estrema destra spagnola esce notevolmente rafforzata dalle amministrative.
Alle municipali Vox passa da 813 mila a 1 milione e 608 mila voti, cioè dal 3,56 al 7,18%, raddoppiando consensi e percentuale. In termini di consiglieri è un vero boom, da 530 a 1695.
Il bacino di voti che negli ultimi anni era andato a Ciudadanos lo ha assorbito quasi del tutto il partito di Feijóo, ma i neofranchistisono riusciti comunque a captarne una parte, pescando anche altrove. Ad esempio Vox è riuscita ad attirare completamente il voto, seppur marginale, che tradizionalmente andava ai partitini apertamente neofascisti e neonazisti.
Il partito fondato da Albert Rivera in Catalogna nel 2006 e poi rapidamente cresciuto grazie alla crisi dei due partiti maggiori negli anni dell’austerity, è stato espulso da tutti i parlamenti regionali e dalla quasi totalità dei consigli municipali. Ciudadanos, a lungo rappresentatosi come un partito liberale, moderno e moderato è stato fagocitato dalle destre radicali ed estreme e si avvia alla dissoluzione dopo la decisione di non presentarsi alle imminenti elezioni legislative.
Al contrario, Vox canta vittoria non solo per la vistosa crescita, ma soprattutto perché i suoi eletti diventano fondamentali per permettere al PP di raggiungere la maggioranza assoluta e governare in ben sei comunità – Aragona, Baleari, Cantabria, Estremadura, Murcia e Valencia – oltre che in molte città.
Domenica Vox è riuscito ad irrompere in molti consigli regionali e comunali dalla Castilla La Mancha all’Estremadura; nella Murcia passa dal 9,5 al 17,7%, e da 4 a 9 seggi, nonostante il boom del Pp che dal 32 sale al 43%. Nella Comunitat Valenciana il capolista Carlos Flores – condannato per “violenza psicologica” ai danni dell’ex moglie – porta i neofranchisti da 10 a 13 seggi.
«Celebriamo il consolidamento di Vox come partito assolutamente necessario per costruire l’alternativa al socialismo, al comunismo e ai loro soci separatisti e terroristi» ha commentato a caldo Santiago Abascal, riferendosi agli indipendentisti baschi di Bildu.
Trionfante, il leader dell’estrema destre nazionalista, xenofoba e omofoba ha avvisato lo stato maggiore del Pp di «non aspettarsi regali» e che nelle trattative per la formazione dei governi locali «non accetterà ricatti». Abascal ora assapora la concreta possibilità che le prossime elezioni consegnino la vittoria al Pp e permettano a Vox di accedere al governo statale come necessario puntello di Feijóo.
Il duello tra PP e Vox per il voto degli evangelici
La competizione tra i due partiti della destra, già forte nelle scorse settimane si appresta a diventare ancora più feroce nelle prossime.
I due partiti, tra le altre cose, si contendono i fedeli delle chiese evangeliche con i quali, negli ultimi anni, hanno stretto forti legami fino a trasformarne alcune in bacini elettorali stabili e organizzati.
In Spagna il cristianesimo evangelico è la religione che è aumentata di più e più in fretta negli ultimi due decenni, trainata dagli immigrati latinoamericani che conquistano gradualmente la cittadinanza e con la loro aggressiva attività di proselitismo pescano sempre più anche tra gli autoctoni.
Attraverso le loro reti di sostegno sul territorio alle famiglie di immigrati che hanno bisogno di aiuto per trovare lavoro, risolvere questioni burocratiche o affrontare drammi familiari legati alla droga, alla prostituzione o all’ingresso dei giovani nelle gang, le organizzazioni religiose aumentano rapidamente il numero di adepti, sottoposti a sedute motivazionali e una serrata “formazione ideologica”.
Secondo i dati dell’Osservatorio sul Pluralismo Religioso, il 2% della popolazione spagnola (48 milioni di persone) è di confessione protestante, e di questa percentuale i due terzi sono rappresentati da evangelici. I potenziali elettori da contendersi, quindi, ammontano a quasi 600 mila. Secondo l’Osservatorio, ben il 70,6% dei praticanti evangelici sono donne, e la fascia d’età più numerosa è quella che va dai 18 ai 44 anni. La maggioranza dei fedeli sono immigrati, e tra i nati in Spagna primeggiano le seconde generazioni o molti membri delle comunità gitane.
Le Chiese Evangeliche hanno messo solide radici nel paese, dove possono contare già su 4322 luoghi di culto, contro le 1750 moschee e i 634 templi dei Testimoni di Geova esistenti nel Regno. Tra le comunità autonome, a guidare la classifica c’è la Catalogna, seguita dalla regione di Madrid, dall’Andalusia e da Valencia.
Rito neopentecostale
In generale, gli aderenti alle chiese evangeliche spagnole tendono a non schierarsi pubblicamente a favore di questo o quel partito. Secondo l’ultima inchiesta dell’Osservatorio (2018) solo il 3% dei sondati si dichiara di destra, contro il 41% che si definisce di centro e il 17,6% che si colloca a sinistra (il 38% però si rifiuta di rispondere).
Ma la verità è che generalmente i valori su cui si basano le varie chiese evangeliche, soprattutto neo-pentecostali, sono decisamente affini all’identità politica e alla propaganda della destra. Mentre i fedeli di vecchia data, per lo più autoctoni, sono generalmente più vicini al centrosinistra (in opposizione al dogma nazional-cattolicista del regime franchista che fino al 1967 perseguitò i membri delle confessioni riformate) la più recente ondata di immigrazione latinoamericana ha portato alla crescita della componente tradizionalista e fondamentalista. Anche il grosso della comunità gitana spagnola, aderente alla Chiesa di Filadelfia, è su posizioni politicamente molto conservatrici. Le prediche dei pastori e dei predicatori si incentrano spesso sugli strali pronunciati contro i “costumi corrotti e perversi” di coloro che difendono l’aborto o i diritti della comunità Lgbt, quando non la parità dei sessi. Non è raro che i leader religiosi si dedichino a “curare” l’omosessualità dei neofiti, a perorare la causa di una società ordinata, gerarchica e corporativa e a inveire contro la “dottrina diabolica del marxismo”.
I forti legami delle propaggini spagnole con le case madri latinoamericane, spesso fortemente attive nel sostegno alle correnti più reazionarie dello scenario politico – fondamentale quello tributato in Brasile a Jair Bolsonaro – avvicinano molte di esse ai partiti di destra ed estrema destra. E questo nonostante le violente campagne dei gruppi falangisti – alcuni dei quali legati o interni a Vox – contro le “bande latine”, termine che spesso identifica non solo le gang composte da immigrati ma anche le intere comunità nazionali di appartenenza.
Non stupisce quindi che la competizione tra Popolari e Vox per aggiudicarsi il voto dei fedeli evangelici sia diventata negli ultimi tempi sempre più accesa, producendo numerosi scambi polemici. In particolare a Madrid, alla fine di marzo, la partecipazione della pastora neo-pentecostale Yadira Maestre (della “Chiesa Cristo Viene”) ad una convention del Partito Popolare, durante la quale ha platealmente benedetto la presidente della regione Isabel Díaz Ayuso, il sindaco José Luis Martínez-Almeida e il presidente nazionale della formazione Alberto Núñez Feijóo, hanno scatenato le ire dei dirigenti di Vox, che hanno accusato i competitori di “strumentalizzazione”. Le parole di Maestre, che aveva chiesto al “Padre Celestiale” di proteggere il Pp e in particolare i tre dirigenti presenti alla convention, non erano andate giù all’estrema destra, che ha rivendicato la sua vicinanza discreta alle chiese evangeliche e ai loro valori 365 giorni l’anno, e non solo a ridosso delle elezioni.
Ed in effetti, negli ultimi anni non è stato raro vedere la leader di Vox a Madrid Rocío Monasterio e il marito Iván Espinosa – portavoce dei neofranchisti al Congresso dei Deputati – partecipare alle funzioni religiose in diversi luoghi di culto neo-pentecostali della capitale. «Ad Ayuso interessano solo i latinos ricchi», hanno tuonato i leader di Vox rivendicando di avere a cuore gli «ispanici della porta accanto».
Ma è stato il PP il partito che per primo ha dedicato funzionari e dirigenti alla captazione dei consensi delle chiese evangeliche, in cambio di favori e facilitazioni che la propria natura di forza di governo gli permette di elargire a pastori e predicatori collaborativi. E per definire gli immigrati latinoamericani Ayuso usa furbescamente il termine “nuovi spagnoli”, che li promuove a immigrati di serie A in opposizione a quelli di altra provenienza, da considerarsi invece estranei e pericolosi. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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PAROLE O_STILI 2023
Grazie a Parole O_stili per avermi ospitato a parlare di intelligenza artificiale, neurodiritti e libertà. Temi sempre stimolanti ed attuali. Spero alla prossima edizione! Al link il video che riassume questa edizione youtube.com/watch?v=jVWXYAWxRu…
La lunga marcia cinese nello Spazio, intervista a Andrea Santangelo
La Cina ha lanciato con successo la nuova missione Shenzhou-16. Programma spaziale cinese, progressi in questo ambito e legami con la strategia militare abbiamo parlato: intervista ad Andrea Santangelo, professore ordinario di Astrofisica Sperimentale delle Alte Energie all’Università di Tubinga e Visiting Full Professor presso l’Institute of Hight Energy Physics
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In Cina e Asia – Corea del Nord, fallito il lancio del satellite spia
I titoli di oggi:
-Corea del Nord, fallito il lancio del satellite spia
-Cina e India, espulsioni incrociate di giornalisti
-Nuove sanzioni americane contro gli spacciatori di fentanyl
-Malesia, arrestato equipaggio cinese per furto di relitti
-Yunnan, proteste della minoranza musulmana per la demolizione di una moschea
-Per sfidare gli Usa sulla tecnologia la Cina deve puntare sulla formazione
-Sentenza storica in Giappone: il divieto dei matrimoni omosessuali è incostituzionale
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Un comitato per le patologie militari. La proposta del gen. Tricarico
Quando avevo formale titolo a farlo, proposi al ministro della Difesa di allora di istituire uno speciale Comitato di esperti che lo potesse assistere per ogni questione riguardante l’eventuale insorgenza di patologie a danno dei militari, a causa della loro esposizione a possibili agenti patogeni durante l’espletamento del servizio.
Il motivo era quello di prevenire gli effetti negativi legati a peculiari ambienti di lavoro quali l’esposizione a onde elettromagnetiche, ad agenti chimici nocivi, a materiali di amianto, a uranio impoverito; una casistica questa non scelta a caso, ma relativa a dossier già aperti e che ogni tanto rispuntano.
L’iniziativa non andò a buon fine perché affondata dalla burocrazia interna e dall’inesorabile meccanismo dell’avvicendamento dei vertici dell’amministrazione che spesso incide negativamente sulla continuità di governo.
Un motivo non secondario per la messa a punto di uno strumento scientifico/conoscitivo di alto livello a beneficio del ministro e della amministrazione era quello di poter assistere i vari comandanti che, numerosi, erano chiamati a rispondere in tribunale per l’insorgenza di malattie a danno dei dipendenti o di altri cittadini, i quali accusavano la Difesa e i loro responsabili locali o centrali per le infermità contratte.
Tra l’altro, si è da poco concluso il processo a carico di cinque generali dell’Aeronautica che si erano avvicendati al comando del Poligono interforze di Salto di Quirra, iniziato nel 2011 e la cui sentenza non è stata ancora depositata, una sentenza assolutoria per tutti in quanto “non vi è idonea prova della sussistenza del fatto”, ma che ha comportato che gli imputati (per l’inquinamento del territorio sardo con agenti dannosi – tra cui torio e uranio impoverito – smaltiti nell’ambiente) si siano dovuti difendere senza poter contare su una documentazione scientifica di alto livello e difficilmente contestabile, quale quella appunto che un comitato di scienziati avrebbe messo a disposizione della giustizia e di imputati innocenti.
Tra l’altro, è fin troppo facile prevedere che la mai sopita vivacità del ricco campionario di movimenti e associazioni sardi non tarderà a risvegliarsi, anche in considerazione dei nuovi insediamenti internazionali sulla base di Decimomannu.
Un caso, quello della Sardegna, che richiama la questione dell’uranio impoverito e del fatto che una mole gigantesca di istanze di indennizzo è ancora oggi in attesa di decisione da parte della giustizia o dell’amministrazione, con conseguenze imprevedibili, perché basate sull’ assunto – ben lungi dall’essere stato definitivamente acclarato sul piano scientifico – che l’esposizione all’uranio impoverito causi l’insorgenza di patologie tumorali.
Tutto questo nel nostro bizzarro paese accade nonostante una cospicua letteratura scientifica, (che la Fondazione Icsa ha voluto mettere insieme – vedi link), sia concorde sulla insussistenza/inverosimiglianza di un nesso causa effetto per i militari malati di tumore, cui in ogni caso va tutta la nostra umana e partecipe vicinanza e solidarietà.
Signor Ministro Crosetto, l’attualità e le prospettive di una Difesa in stato di accusa da parte di migliaia di militari che la chiamano in giudizio per danni subiti a causa del servizio prestato, così come il verosimile replicarsi di scenari dello stesso tipo, anche a causa della partecipazione a missioni multinazionali nei più disparati ambiti geografici, rendono la proposta di nominare un Comitato di esperti più attuale e necessaria oggi di ieri.
Tra l’altro, va tenuto in considerazione che i giudici, in quelle circa cinquanta sentenze favorevoli agli istanti ad oggi registrate, hanno considerato un precedente significativo l’accoglimento delle istanze di indennizzo da parte dell’amministrazione. Decisioni certamente tecniche, ma date le dimensioni del fenomeno – tutto e solo italiano – un monitoraggio della politica pare inevitabile.
PRIVACYDAILY
Pronto il settimo pacchetto armi per l’Ucraina. Crosetto al Copasir
È in partenza un nuovo pacchetto di armi per l’Ucraina. Martedì, di fronte al Copasir – presieduto dal Dem Lorenzo Guerini – il ministro della Difesa Guido Crosetto ne ha illustrato i contenuti, che come da consuetudine rimarranno secretati. Il passaggio è necessario per dare il via libera alla spedizione del nuovo lotto di equipaggiamenti che aiuteranno la resistenza ucraina contro l’invasione russa.
Si tratta del settimo pacchetto in termini assoluti e il secondo approvato dal governo di Giorgia Meloni, che agisce sulla base della copertura legale fornita dal decreto legge Ucraina, varato definitivamente a gennaio, che proroga fino al 31 dicembre 2023 la cessione di materiali militari all’Ucraina. Poche settimane dopo l’esecutivo ha dato il via libera al sesto pacchetto, che prevedeva, tra le altre cose, l’invio del sistema di difesa antiaerea Samp/T.
Secondo Repubblica il settimo pacchetto “ rinnova le dotazioni di armi, munizioni e sistemi di difesa antiaeree già inviate con i precedenti provvedimenti”. Materiale che risponde alle esigenze espresse dalla Difesa ucraina, a cui gli alleati occidentali stanno via via rispondendo: gli Stati Uniti con l’autorizzazione all’invio di caccia F-16, il Regno Unito con missili a lungo raggio Storm Shadow e droni, la Germania con tank e radar e così via. Il tutto in funzione della difesa dai missili di Vladimir Putin, ma anche della controffensiva ucraina ormai imminente.
La decisione del governo italiano arriva sulla scia del summit G7 a Hiroshima, dove i leader occidentali (inclusa la stessa Meloni, ai margini dei colloqui) hanno incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ribadito il sostegno finanziario, militare e umanitario a Kyiv. Questi e altri incontri – tra cui la recente visita a Roma – hanno permesso al leader ucraino di sottolineare l’urgenza dell’invio di nuovo materiale. A cui l’Italia, in linea con gli altri partner occidentali, sta reagendo.
Incontro di spie sul Lago Maggiore. Affonda la barca: uno dei morti era del Mossad
Pagine esseri, 30 maggio 2023 – Nella serata di domenica 28 maggio, una barca con a bordo 24 persone è affondata nel Lago Maggiore in seguito, probabilmente, al peggioramento delle condizioni atmosferiche.
A parte i membri dell’equipaggio, i passeggeri erano appartenenti ai servizi segreti italiani e a quelli israeliani del Mossad. Il comunicato ufficiale diramato dalle istituzioni italiane parla di una festa a bordo: erano riuniti sulla barca, si dice, per celebrare un compleanno. Oltre al capitano e a sua moglie, le altre 22 persone erano tutte di nazionalità italiana o israeliana.
Hanno perso la vita due membri dei servizi di intelligence italiani: Claudio Alonzi di 62 anni e Tiziana Barnobi di 53 anni. Sono stati, inoltre, ritrovati in mare i corpi senza vita di un agente del Mossad in pensione, Shimoni Erez, 50 anni e della moglie del capitano, Anya Bozhkova, di nazionalità russa.
10 agenti del Mossad sono stati immediatamente riportati in Israele con l’utilizzo di un aereo militare. Si mantiene il riserbo sulla loro identità così come su quella dei 10 membri dei servizi segreti italiani sopravvissuti al naufragio.
La barca, chiamata Goduria o Good… uria, di proprietà del 53enne Carlo Carminati, si è inabissata subito dopo l’incidente, quando le forti raffiche di vento ne avrebbero causato il capovolgimento. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’indagine per stabilire se tutte le condizioni di sicurezza fossero state rispettate (secondo alcuni media la barca trasportava più persone di quante fossero ammesse) e se, soprattutto, non siano altre, oltre al maltempo, le reali cause del naufragio. La barca verrà recuperata dal fondo del Lago Maggiore per procedere alle perizie del caso.
Nonostante la comunicazione ufficiale rilasciata dal Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, l’idea che venti 007 italiani e israeliani si ritrovino su di una barca al centro del Lago di Como per festeggiare un compleanno, pare grottesca e surreale. Impossibile non immaginare che tra gli obiettivi dell’incontro esistesse, invece, qualche attività sulla quale le fonti ufficiali non possono che tacere.
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Mosca minaccia il Mediterraneo anche sott’acqua. Parola di Cavo Dragone
La guerra in Ucraina i relativi effetti “hanno accentuato le responsabilità della Difesa e dell’Italia per la stabilità del Mediterraneo”, che “si estendono ai correlati fondali, percorsi da reti e infrastrutture strategiche, potenzialmente ricchi di risorse naturali e per questo, spesso obiettivo della cosiddetta ‘territorializzazione’ del mare”. Lo ha spiegato l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, intervenuto all’evento “L’Italia, il Mediterraneo allargato e il dominio subacqueo” dell’Istituto Affari Internazionali. Un occasione anche per fare il punto sull’ambiente subacqueo, che sta diventando un dominio operativo di rilievo per la Marina Militare italiana, e una frontiera tecnologica per l’industria del settore e più in generale per il sistema Paese che sta dando vita ad un Polo nazionale per la dimensione subacquea. L’apertura dei lavori è stata affidata all’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dello Iai. Dopo di lui, un saluto inviato da Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare.
IL DOMINIO SUBACQUEO
“Come per lo Spazio e per la Terra”, ha continuato il capo di stato maggiore della Difesa, “l’elevazione del mondo sommerso allo status di ‘dominio’” implica “una piena presa di coscienza anche delle accresciute responsabilità nella sua gestione, che sarà anch’essa un banco di prova della capacità del genere umano di approcciare, con equilibrio, tatto e rispetto, una realtà fondamentale per la preservazione degli equilibri biologici del nostro pianeta”. La rilevanza strategica delle infrastrutture subacquee, come gasdotti o dorsali di connettività digitale, “impone alla Difesa la protezione delle stesse, dedicando allo scopo risorse e investimenti paritetici a quanto garantito ad altre infrastrutture critiche del Paese, soggette a una minaccia sempre più ibrida”, ha continuato spiegando che la Difesa intende proseguire con un approccio “multi-disciplinare, inter-dicasteriale e inter-agenzia valorizzando il dialogo con le eccellenze nazionali, per consolidare una visione coerente, condivisa ed efficace”.
LA MINACCIA RUSSA
Oggi il Mediterraneo “è un punto di polarizzazione delle tensioni internazionali, così come il Nord Africa e la regione Saheliana sono aree dove attori terzi, statali e non statali, agiscono in maniera assertiva alimentandone la destabilizzazione a livello politico, sociale ed economico”, ha spiegato l’ammiraglio Cavo Dragone. In particolare, la Russia “non nasconde di voler estendere il proprio raggio d’azione in tutta questa importante fascia territoriale, nonché a tutto li Mediterraneo, anche attraverso le sue spiccate capacità nel settore underwater (manned e unmanned), ampliando le minacce a cui possono essere esposte le infrastrutture critiche e le dorsali marittime di nostro interesse strategico”.
LA RICERCA
Nella versione preliminare dello ricerca “The Underwater Domain and Europe’s Defence and Security” presentata dagli analisti Elio Calcagno e Alessandro Marrone, vengono analizzati gli scenari riguardanti le attività nel dominio sottomarino di sette Paesi: la Russia, che ha investito in droni subacquei sia per attacchi sia per deterrenza nucleare; la Cina, che punta a 76 sottomarini in cinque anni per anticipare nel mosse degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’Indo-Pacifico; il Giappone, con cui l’Italia ha recentemente rafforzato la relazione a partenariato strategico, dispone di una flotta ampia e moderna (22 sottomarini, che è più di Italia e Francia sommate, il più vecchio è del 2000) e all’ammodernamento preferisce la sostituzione a ritmo di un sottomarino all’anno; la Germania, leader mondiale in sviluppo e produzione, che è stata colta di sorpresa dal sabotaggio del Nord Stream 2 tanto che chiede, assieme alla Norvegia, una struttura di protezione delle infrastrutture critiche della Nato; il Regno Unito, che guarda all’Indo-Pacifico con l’accordo Aukus con Stati Uniti e Australia; la Francia, con 12 sottomarini nucleari di cui 4 con lanciamissili balistici e la Zee più grande al mondo.
IL RUOLO DELL’ITALIA
In generale, si nota un “aumento della rilevanza di sottomarini e droni subacquei, un aumento della domanda ma anche volontà di alimentare offerta tramite investimenti, innovazione e competizione”, ha spiegato Marrone. Aspetti che l’Italia e il sistema Paese non possono che tenere in considerazione.
IL DIBATTITO
Al dibattito successivo, moderato da Karolina Muti, responsabile di ricerca programmi sicurezza e difesa dello Iai, sono intervenuti Giuseppe Cossiga, presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, l’ammiraglio Enrico Credendino, capo di stato maggiore della Marina, Pierroberto Folgiero, amministratore delegato di Fincantieri, Gabriele Pieralli, direttore della divisione elettronica di Leonardo, Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo e Catherine Warner, direttrice del Nato Center for Maritime Research and Experimentation.
LE CONCLUSIONI
Le conclusioni sono state affidate a Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa. “Ancora si deve lavorare sull’opinione pubblica per far comprendere” la portata della dimensione marittima, ha spiegato il sottosegretario. A decidere il futuro del dominio per l’Italia “sarà la nostra capacità di fare sistema Paese e sfruttare il vantaggio competitivo”, ha aggiunto sottolineando l’impegno del governo a dare rapida attuazione al Polo nazionale della subacquea.
Via della seta, Meloni cambia strada
La decisione è ormai presa, l’unico dubbio è quando e come comunicarla per evitare di compromettere a cascata gli interessi di alcune grandi aziende italiane e di conseguenza l’interesse nazionale. Ma che Giorgia Meloni finirà per non rinnovare il memorandum sulla Via della seta siglato da Giuseppe Conte con la Cina nel 2019 viene dato per certo.
Pesa, naturalmente, il pressing americano. Pesa, ma non basta. Raccontano, infatti, che la presidente del Consiglio abbia affrontato la questione con spirito laico. Ha soppesato gli interessi economici, li ha intrecciati con gli interessi geopolitici ed è giunta alla conclusione che all’Italia convenga affrancarsi da un accordo che in termini commerciali conviene a Pechino più che a noi e che in termini politico-diplomatici è motivo di grande imbarazzo, tant’è che nessuno dei Paesi fondatori dell’Europa o membri del G7 l’ha siglato.
Anche di questo Giorgia Meloni parlerà col presidente statunitense Joe Biden in occasione della sua prima visita di Stato a Washington. Visita che dovrebbe tenersi, ma non è ancora ufficiale, la terza settimana di giugno.
Una delle tante anomalie italiane sembra dunque destinata a venir meno. Un’anomalia nel merito, ma anche nel metodo. Parlando con chi occupava posizioni di rilievo durante il primo governo Conte ci si rende infatti conto di quanto l’importanza di quell’accordo fosse stata trascurata. Non ci fu alcuna discussione né a livello politico né a livello governativo. Il dossier, caro a Beppe Grillo che ancora oggi lo difende, fu istruito dai vertici della Farnesina ispirati dall’ambasciatore italiano a Pechino Ettore Francesco Sequi con Luigi Di Maio ministro e dal sottosegretario leghista filo cinese allo Sviluppo economico Michele Geraci nell’indifferenza dei leader politici e degli altri ministri. Del resto, la segretezza era parte caratterizzante il memorandum. L’intesa sul futuro dei porti di Genova e Trieste, ad esempio, si concludeva con una raccomandazione che suonava grossomodo così: “L’accordo è segreto in tutte le sue parti compresa l’esistenza stessa dell’accordo”. Metodo cinese, appunto.
Il primo ad accorgersi dell’esistenza e soprattutto delle implicazioni del trattato fu l’allora sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, leghista di orientamento atlantista. Mancava poco più di un mese all’arrivo di Xi Jinping a Roma per la firma del memorandum quando Picchi, con un tweet e diverse telefonate, diede l’allarme. Si mosse l’ambasciata statunitense, si informò il Quirinale, si mobilitò il segretario di Stato americano Mike Pompeo. Da una cinquantina che erano, gli accordi bilaterali furono ridotti a 29 e ciascuno dei 29 accordi, di cui 10 commerciali e 19 istituzionali, fu annacquato il più possibile.
Tuttavia, il 23 marzo del 2019 il presidente cinese Xi Jinping e il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte firmarono in pompa magna il memorandum sulla Via della seta a Villa Madama. Sarà ora Giorgia Meloni a cancellare quella firma riportando di conseguenza l’Italia dall’orbita cinese dove la avevano collocata gli interessi grillini e la negligenza dei loro alleati all’orbita occidentale e atlantista che, per ragioni storiche, politiche ed economiche, ci caratterizza da sempre.
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Etiopia: come un fortunato villaggio del Tigray è sopravvissuto alla devastante guerra
La guerra condotta dal governo federale etiopico e dall’Eritrea contro il governo regionale del Tigray, durata dal novembre 2020 al novembre 2022, ha causato enormi devastazioni. Sono stati denunciati molteplici crimini di guerra e ci sono state denunce di intenti genocidi . Una campagna di fame ha portato alla morte di almeno 300.000 vittime civili.
Uno dei luoghi che riuscì a scampare alla distruzione fu il villaggio di Dabba Selama. Situato nel distretto di Dogu’a Tembien, nel Tigray, il villaggio è composto da quattro insediamenti, che ospitano circa 5.000 persone. Questi insediamenti sono sparsi in uno dei monasteri più antichi dell’Etiopia. Situata su un crinale isolato, elevato e pianeggiante, la comunità è fortemente dipendente dall’agricoltura.
Abbiamo pubblicato un libro sul distretto di Dogu’a Tembien, basato su 25 anni di ricerche geografiche nel distretto. Nel gennaio 2023, a guerra finita, siamo tornati nel quartiere per continuare la ricerca sulla società e l’ambiente. Ci siamo concentrati su 10 villaggi a Dogu’a Tembien, uno dei quali è Dabba Selama .
Gli abitanti di Dabba Selama si considerano fortunati. Altri villaggi sono diventati obiettivi di attacchi militari. In quattro dei 10 villaggi si sono verificati massacri di civili . Donne e ragazze sono state vittime di violenze sessuali perpetrate dalle forze militari. Case, scuole e prodotti agricoli sono stati deliberatamente distrutti.
Anche se il fronte di guerra ha superato più volte Dabba Selama, la comunità ha sofferto meno degli altri villaggi studiati, grazie al loro isolamento geografico, ai forti legami comunitari e al paesaggio agricolo produttivo.
Isolato
Durante le nostre interviste abbiamo capito che non c’era nessuna guerra nel villaggio stesso e nessuna vittima civile diretta. A differenza degli altri nove villaggi che abbiamo visitato, gli intervistati a Dabba Selama non hanno menzionato bambini o anziani che muoiono di fame.
Poiché il villaggio e il monastero si trovano su un terreno accidentato, a circa 20 km dalla strada più vicina, gli eserciti etiope ed eritreo hanno marciato attraverso gli insediamenti solo una volta e non si sono fermati. I depositi di grano e altri beni della comunità non sono stati saccheggiati, bruciati o volutamente rovinati dall’alluvione o dalla mescolanza di terra, come in altre comunità. I contadini avevano cibo anche durante il periodo critico. Molti di loro potrebbero permettersi di acquistare cibo o farmaci aggiuntivi (costosi).
È anche una fortuna che l’unica volta che i soldati hanno attraversato il villaggio, non si siano accorti del monastero al di là di una rupe a strapiombo e nessuno li abbia informati della sua esistenza. Altrimenti, avrebbero potuto invaderlo. Gli eserciti credevano che la leadership del Tigray si nascondesse nelle caverne e in altri luoghi inospitali. Hanno anche deciso di distruggere i siti storici del Tigray .
Forti legami sociali
Gli intervistati hanno affermato che, nonostante la sofferenza, le persone si sono aiutate a vicenda. Ciò contrasta con altri villaggi che abbiamo visitato dove la grande lamentela era che i legami sociali erano diventati molto più deboli.Interviste ai membri della comunità negli altopiani intorno a Dabba Selama.
A Dabba Selama, i legami comunitari erano forti anche prima della guerra, come nella maggior parte dei villaggi remoti. Le persone in genere si aiutavano a vicenda con cereali o denaro, e questo è continuato. La comunità, compresi i capi villaggio, ha condiviso ciò che aveva, così le persone sono sopravvissute. In altri villaggi, i leader a volte hanno dirottato aiuti o rifornimenti ai propri familiari.
Scorte alimentari
Quando scoppiò la guerra, il villaggio aveva scorte di viveri. I terreni agricoli di Dabba Selama, specialmente quelli dell’altopiano, sono relativamente produttivi e gli agricoltori avevano cereali nei loro granai.
Poco distante dal paese, ai piedi di ripidi pendii, si trovano delle sorgenti. Gli agricoltori li usano per l’irrigazione su piccola scala. Con il suo terreno accidentato, le buone precipitazioni e le temperature calde, la zona è adatta anche per l’allevamento del bestiame.
Molti contadini del villaggio commerciavano frutta, vendendola nei mercati vicini quando non c’erano combattimenti attivi.
Capacità di nascondersi
Alla fine del 2020, quando il fronte di guerra si è avvicinato a Dabba Selama, le famiglie contadine hanno abbandonato le loro fattorie. Fuggirono nelle gole e sulle montagne con il loro bestiame, la focaccia e le scorte di cibo, tra cui farina, spezie, caffè e sale.
Prima di partire, i contadini scavavano delle fosse nel terreno e nascondevano i sacchi di grano che avevano nelle loro case. Gli anziani, tradizionalmente percepiti come meno esposti alle brutalità dei militari, si assumevano la responsabilità di sorvegliare le case del villaggio. Fortunatamente i combattimenti non si sono avvicinati. Nei villaggi vicini, questa strategia è andata male e si dice che gli anziani siano stati massacrati , ma non così a Dabba Selama.
Tempi duri
Questo non vuol dire che i residenti di Dabba Selama non abbiano sopportato le difficoltà. La comunità ha lottato per produrre cibo. Molti terreni agricoli a Dabba Selama non sono stati coltivati in tempo nel 2021 e nel 2022 a causa della guerra. Era difficile ottenere semi e fertilizzanti.
Gli agricoltori seminavano principalmente erba di teff ( Eragrostis tef ) in assenza di altri semi. Rispetto ad altre colture, il teff offre rese inferiori per superficie coltivata.
La carenza di semi era in parte dovuta alla carestia. Molte famiglie dovevano mangiare i semi di grano che avevano conservato dai raccolti precedenti.
I raccolti sono stati gestiti male a causa della guerra e la resa del 2022 è stata peggiore di qualsiasi anno in tempo di pace, data la totale assenza di input agricoli.
Inoltre, le aree di rimboschimento e le foreste naturali sono state interessate dalla raccolta del legno e dalla preparazione del carbone resa necessaria dalla povertà. Nei 30 anni prima della guerra, era stato fatto un grande sforzo per rinverdire il Tigray come parte di una gestione sostenibile del territorio .
Infine, a causa del blocco della regione, le merci erano costose per gli abitanti del villaggio. Nel peggiore dei casi, il prezzo di vendita di un bue comprerebbe a malapena 50 kg di grano. Solo i residenti più abbienti potevano permettersi i prezzi di mercato.
Capitale naturale e capitale sociale
Alla fine, però, Dabba Selama ha sofferto meno della fame provocata dall’uomo rispetto ad altri villaggi del Tigray a causa del suo isolamento e della sua posizione. Il paese godeva di una buona situazione economica, che permetteva ai contadini di mantenere il proprio capitale sociale e i legami sociali.
FONTE: theconversation.com/ethiopia-h…
Data Retention: Red Line Against Storage of Citizens’ IP Addresses
CJEU case: Patrick Breyer MEP draws a red line against storage of citizens’ IP addresses
On 15 and 16 May the judges of the Court of Justice of the European Union heard the French government, several French NGOs, the European Data Protection Supervisor and the European Union Agency for Cybersecurity in a case whose outcome will significantly strengthen or weaken, respectively the privacy of more than 447 million EU citizen’s activities on the Internet. (See case C‑470/21)
The French NGOLaQuadraturedu Net (LQDN) and three other complainants challenge France’s use of citizens’ Internet identity to enforce copyright. The NGOs argue that using indiscriminately retained IP addresses to prosecute filesharing is disproportionate since it does not concern serious crimes and also there is no independent control prior to the access. In consequence, the competent authority Arcom (formerly Hadopi), maintains a surveillance file containing large amounts of IP addresses and civil identity data of citizens in order to warn and eventually punish Internet users who share copyrighted works without authorisation.
In his non-binding opinion, Advocate General (AG) Szpunar of the Court of Justice of the European Union proposes a “readjustment of the case-law of the Court on the interpretation of Article 15(1) of Directive 2002/58 as regards measures for the Luxembourg assigned to the source of a connection” in the form of jurisdiction “providing for the general and indiscriminate retention of IP addresses (…) for the purposes of [fighting] online criminal offences for which the IP address is the only means of investigation.”
Dr. Patrick Breyer MEP (Pirate Party / Greens/EFA) warns against indiscriminate retention of citizen’s IP addresses and drwas a red line.
Red Line: EU citizens have a right to confidential internet communication
A general and indiscriminate retention of IP addresses assigned to the source of a connection has unacceptable consequences.
IP addresses are access to identity
The IP records of citizens in combination with standard logfiles kept by content providers must be compared with a compulsory routing slip that keeps track of the activities of each citizen. In the analogue world, such activity retention would be unacceptable: It would be retained which newspaper articles citizens read in the morning, which doctor is contacted during the lunch break and who meets whom in the evening. Such a recording of activities would be unimaginable in analogue form in a democracy. In digital form, all this data is available, distributed across networked databases and devices. The IP addresses of citizens are the link that makes them accessible and traceable, IP addresses are access to identity.
The end of anonymity on the Internet
General and indiscriminate retention of IP addresses would constitute the end of the possibility for citizens to anonymously and confidentially request information on the internet, to seek medical advice or to contact journalists anonymously. Particularly affected would be people who seek advice and help in an emergency situation (e.g. victims and perpetrators of violent or sexual offences), citizens who want to express their opinion despite public pressure or citizens who want to expose abuses and who want to contact journalists or file a criminal complaint anonymously.
Retention of IP addresses affects e-mail correspondence
The IP address of the sender is included in most e-mails, so that e-mail accounts registered under a pseudonym could also be assigned in the future. Confidential e-mail communication must be better protected because it is one of the most widespread communication channels through which people exchange information, seek psychological or other medical advice, or contact the police, media or lawyers.
General suspicion against millions of citizens
General and indiscriminate retention of IP addresses violates the presumption of innocence. Already the storage of the data is an intrusion into the privacy of the internet users. Obligations to retain IP addresses are disproportionate because they overwhelmingly affect law-abiding citizens.
Personality and movement profiles
General and undifferentiated retention of citizens’ identity on the internet would enable the creation of meaningful personality and movement profiles of virtually every citizen to an even greater extent than telephone connection data because online activities cover the entire life of citizens. From the sum of the information of what citizens read and write on the Internet, a profile can be created, which can reveal, for example, political opinion, religion, illnesses or sex life. In addition to this, the IP address can also be used to determine the approximate location of the user. Due to the data accumulated and stored by many devices even in “stand-by mode”, extensive movement profiles, behavior patterns and user behavior can be created.
IPv6 addresses can be unique and persistent tracking identifiers
The new standard for IP addresses IPv6 makes it possible to assign an individual identification, a permanently identical IP address, to almost any number of everyday objects in our lives. Watches, refrigerators, toys, cars, work tools, smart home devices, simple telephones as well as smartphones, MP3 players and almost every other small technical device can be connected with the internet in the future. This the so-called “Internet of things” would be covered by general and undifferentiated retention in its entirety. According to a recent study, 19% of households can already be tracked permanently using the end-user ID in their IPv6 address.
Amplification of infringement of fundamental rights through combination of data
IP records must be considered in combination with other information (“log files”) stored by providers such as Google, Amazon, Meta or Microsoft. A general storage of IP addresses would make the entire internet use traceable. Potentially that includes every Internet user’s inputs, clicks, internet pages read, search terms, downloads and every posts on the Internet. Once a pseudonym (e.g. user account, cookie) has been identified via the user’s IP address, usage data from the provider often enables the tracking of every click and entry made by the owner over days, weeks or months.
Discrimination against internet users
General and undifferentiated retention of our identity on the internet would be an unjustifiable and anti-technology discrimination against internet users compared to people who can continue to communicate and obtain information anonymously by telephone (e.g. flat rate), post or directly. The fact that the IP address can be the only clue to solving a crime does not distinguish it from other connection data. It is not comprehensible why the identifiability of a subscriber on the basis of an IP address should be established under lower conditions than its identifiability with the help of other traffic data (e.g. IMEI identifier, time of a telephone connection).
EU jurisdiction is not respected
For more than 15 years, EU member state governments are reluctant to comply with the Court’s jurisdiction when it comes to data retention. Repeatably governments have ignored safeguards and requirements imposed by the Court. Recently governments of Belgium, Denmark and Ireland take every opportunity to enforce the maximum possible surveillance instead of investing in police work and social work as experts explain. Any weakening of fundamental digital rights will be further overstretched by governments. Which in sum leads to unnecessary and disproportionate surveillance of EU citizens and adds to the crisis of the Rule of Law in the EU.
Citizens’ IP addresses should be better protected
When it comes to citizens’ internet activities, the sensitivity of IP data records must be considered comprehensively and in the long term. What is crucial is the usability of the accumulated collected data and the possibilities of using citizens’ IP data. Therefore, IP data should be better protected and retained only in cases where there is a concrete reason to do so. For example in cases of suspicion, the identity of the user of an IP address may only be disclosed with a court order, only for the prosecution of serious crimes or for the prevention of serious dangers. Legally, the presumption of innocence must be upheld. Politically, only fundamental-rights-friendly alternatives to any kind of general and indiscriminate data retention will respect the values of the EU.
ARTIFICIAL INTELLIGENCE DAY – LA RIVOLUZIONE DE- GENERATIVA – CLASS CNBC
Sono intervenuto questa mattina all’ARTIFICIAL INTELLIGENCE DAY – LA RIVOLUZIONE DE- GENERATIVA organizzato da Milano Finanza e Class CNBC per parlare di regole, intelligenza artificiale, opportunità e rischi all’orizzonte. Qui il link alla mia intervista completa video.milanofinanza.it/video/a…
Arabia saudita. Eseguite altre due condanne a morte per “terrorismo”
della redazione
Pagine Esteri, 30 maggio 2023 – L’Arabia Saudita ha comunicato di aver giustiziato due cittadini del Bahrain accusati di aver pianificato atti di “terrorismo”. Secondo le autorità saudite, Jaafar Sultan e Sadeq Thamer sono stati condannati a morte perché presunti membri “di una cellula terroristica” e “per ricevuto addestramento in campi appartenenti a entità terroristiche che mirano a destabilizzare la sicurezza dell’Arabia Saudita e del Bahrain”.
Condannando le esecuzioni, Amnesty International ha riferito che Sultan e Thamer erano stati arrestati in Arabia Saudita l’8 maggio 2015 e condannati nell’ottobre 2021. Il gruppo per la difesa dei diritti umani ha aggiunto che i due bahraniti “avevano detto ai giudici di essere stati torturati e che le loro confessioni sono state estorte con la forza”.
Sayed Ahmed Alwadaei, direttore del Bahrain Institute for Rights and Democracy, ha dichiarato al portale Middle East Eye che le due esecuzioni devono essere classificate come “uccisioni arbitrarie”. “I due uomini hanno confessato sotto tortura e le loro dichiarazioni sono state poi utilizzate come prova contro di loro durante un processo iniquo, una pratica vietata dal diritto internazionale”, ha detto. “La leadership saudita – ha proseguito Alwadaei – si sente immune da qualsiasi conseguenza quando giustizia le persone che ha torturato. Il regime del Bahrein è complice poiché non è intervenuto per salvare le vite dei suoi cittadini, dando il via libera ai sauditi”.
L’Arabia Saudita ha eseguito più di 40 esecuzioni quest’anno. L’uso della pena di morte in Arabia Saudita è quasi raddoppiato dall’ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman. Dal 2015 sono state eseguite più di 1.000 condanne a morte. Solo questo mese, il regno ha condotto nove esecuzioni.
La scorsa settimana, il ministero dell’interno ha annunciato che tre cittadini sauditi Hassan bin Issa al-Muhanna, Haidar bin Hassan Muwais e Mohammed bin Ibrahim Muwais erano stati messi a morte. Pare inoltre imminente l’esecuzione di tre membri della tribù Howeitat nella provincia di Tabuk, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, accusati di aver resistito allo sgombero per far posto al progetto della megacittà di Neom. Pagine Esteri
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Anne Applebaum – La grande carestia
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In un’aula di giustizia occorre tenere le distanze. Separazione delle carriere nodale per la svolta – Il Piccolo
“Io che non amo solo te. I nuovi confini dell’infedeltà” di Selina Zipponi (Edizioni Il Saggiatore)
In Cina e Asia – Shangri-La Dialogue, salta l’incontro tra i ministri della difesa cinese e Usa
I titoli di oggi:
Shangri-La Dialogue, la Cina nega l'incontro tra i ministri della difesa cinese e Usa
Cina, troppi autisti per il ride-hailing: alcune città chiudono l'accesso ai nuovi lavoratori
La Cina e le aste d'arte, raccontate attravero un dipinto di Van Gogh scomparso
Cina-Afghanistan, riaprono i voli diretti
Spazio, partito il nuovo equipaggio della stazione cinese
Giappone, il figlio del premier si dimette per "un comportamento inappropriato"
Corea del Sud, ospitato il primo forum dedicato agli stati insulari del Pacifico
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Digitango – Rainews 24
Ieri sono stato ospite di Digitango la rubrica di RAINEWS 24 condotta da Diego Antonelli con Luciano Floridi e Walter Quattrociocchi per parlare di privacy e tecnologia Qui il link per rivedere la puntata completa rainews.it/rubriche/digitango/…
Le mosse di Xi sulla via della "riunificazione” di Taiwan
Quali nuovi strumenti per Pechino? Dopo quasi 9 mesi di silenzio, la Procura Suprema del Popolo di Pechino ha comunicato l’incriminazione di Yang Chih-yuan. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sull’indipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito Nazionalista di Taiwan, Non ci sono solo le armi militari. Xi Jinping mira a fare passi avanti sulla ...
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ARTIFICIAL INTELLIGENCE DAY: LA RIVOLUZIONE DE- GENERATIVA?
Tra poco avrò il piacere di intervenire all’ evento ARTIFICIAL INTELLIGENCE DAY: LA RIVOLUZIONE DE- GENERATIVA?Ripensare il digitale, rispettare i diritti, organizzato da Class Editori. Inquadrando il QR code potrete seguire la diretta .
Violenze dei coloni, 200 palestinesi lasciano il loro villaggio
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 30 maggio 2023 –Ne hanno di motivi i coloni israeliani per essere soddisfatti dalla legge di bilancio preparata dal governo di estrema destra religiosa e approvata la scorsa settimana dalla Knesset. Nei prossimi due anni il governo di estrema destra religiosa guidato da Benyamin Netanyahu investirà 3,5 miliardi di shekel (circa 940 milioni di dollari) per gli insediamenti coloniali e altre infrastrutture per i trasporti dei coloni nella Cisgiordania occupata, a cominciare dalle superstrade che aggireranno i centri abitati palestinesi.
A ciò si aggiungono il probabile via libera definitivo alla ricostruzione della colonia di Homesh, nel distretto di Nablus – evacuata e demolita dall’esercito israeliano durante il “ridispiegamento” da Gaza e in Cisgiordania, ordinato nel 2005 dal governo di Ariel Sharon – dove i coloni nei giorni scorsi hanno già allestito un collegio rabbinico e le ruspe sono al lavoro per preparare i siti dove edificare nuove case, e i finanziamenti aggiuntivi per l’espansione degli insediamenti coloniali.
Eppure, ciò che con ogni probabilità soddisfa la destra e i coloni – circa 500 mila in Cisgiordania, oltre ai 250mila a Gerusalemme Est – persino più dei piani faraonici che ha in cantiere il governo Netanyahu, è una notizia in apparenza secondaria ma significativa. Gli abitanti di Ein Samiya, una comunità povera di circa 200 palestinesi, molti dei quali vivono in tende, ad una ventina di chilometri da Gerico, sul versante orientale della Cisgiordania, hanno deciso di lasciare le case in cui vivono dagli anni ’80 perché, spiegano, sono stanchi di dover affrontare le intimidazioni e talvolta violenze vere e proprie da parte di giovani dell’avamposto coloniale di Habladim, nei pressi dell’insediamento di Kochav Hashahar. La ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ha documentato diversi attacchi di coloni e soldati. «I residenti della comunità di Ein Samiya – denuncia – hanno subito anni di violenze da parte delle forze israeliane…l’espulsione è un crimine di guerra».
Il trasferimento di piccoli nuclei palestinesi verso le città più grandi è visto con favore dal movimento dei coloni, poiché concentra la popolazione «araba» lasciando libero più territorio all’espansione degli insediamenti. Un esempio noto è quello della comunità beduina di Khan el Ahmar – alle porte di Gerusalemme Est, in cui si trova la Scuola di gomme costruita dalla ong Vento di Terra – di cui sono soprattutto i coloni che vivono in quella zona a chiedere lo sgombero (congelato dal governo, per il momento, a causa di pressioni internazionali).
Due abitanti di Ein Samiya, parlando al quotidiano Haaretz, hanno raccontato che i problemi, iniziati circa cinque anni fa, sono peggiorati nell’ultimo anno. «Abbiamo deciso di andarcene per paura, per il bene dei miei figli. Uno di loro mi ha detto ‘Non voglio vivere qui, i coloni vengono e lanciano pietre’», ha spiegato Khader, padre di nove figli. L’uomo ha riferito che giorni fa, i coloni sono venuti di notte al villaggio e hanno lanciato pietre contro tende e case, alcune delle quali abitate da famiglie con bambini. Mustafa ha detto che alcuni anni fa è arrivato a Ein Samiya un colono che si è definito «il loro manager». «Gli ho detto, diventiamo amici qui: io ti aiuterò e tu mi aiuterai. Lui ha risposto: che tu viva qui non mi va bene. Vai da un’altra parte». La notizia della partenza dei 200 palestinesi è stata salutata con entusiasmo sul gruppo Whatsapp dei «Giovani delle colline» composto da coloni estremisti. «Buone notizie! Due accampamenti beduini che avevano preso il controllo della terra vicino a Kochav Hashahar stanno lasciando il posto», si legge in un messaggio.
Per gli abitanti di Ein Samiya, originari di Bir Saba (oggi Beersheva), non è il primo trasferimento. Prima vivevano sulle terre dove poi è stato costruito Kochav Hashahar. L’esercito israeliano li obbligò ad andarsene perché, spiegò, proprio lì era prevista la costruzione di una sua base. Invece fu edificato l’insediamento coloniale. Pagine Esteri
*Questo servizio è un aggiornamento per Pagine Esteri dell’articolo, firmato sempre da Michele Giorgio, pubblicato il 26 maggio dal quotidiano Il Manifesto ilmanifesto.it/violenze-dei-co…
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PRIVACYDAILY
Kosovo. Scontri serbi-Kfor, almeno 50 i feriti
della redazione
Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Sarebbero almeno 50, secondo l’emittente serba Rst, le persone rimaste ferite oggi nei violenti scontri scoppiati a Zvecan, nel nord del Kosovo, dopo che i sindaci neoeletti nei giorni scorsi avevano cercato di insediarsi pur non essendo riconosciuti dalle popolazioni locali. 25 dei feriti sono militari del Kfor, il contingente a guida Nato agli ordini del generale Angelo Michele Ristuccia. Tra i militari feriti ci sono anche degli italiani.
Il comando della Kfor sostiene di aver ordinato di disperdere gruppi di cittadini serbi che si erano radunati davanti al Comune di Zvecan. Quando ha fatto uso di lacrimogeni e granate stordenti, la folla avrebbe reagito con il lancio di bottiglie e altri oggetti. Il Kfor ha detto che le unità della missione erano state schierate nelle quattro municipalità del nord del Kosovo per contenere le proteste organizzate per impedire l’ingresso nei loro uffici ai sindaci neoeletti nella parte settentrionale di quella che Belgrado considera sempre una sua provincia, non riconoscendone l’indipendenza decretata nel 2008 dopo l’intervento militare della Nato nel 1999.
Da parte serba invece si sostiene che le truppe del Kfor avrebbero fatto uso della forza senza giustificazione. Secondo Rts, inoltre, non ci sarebbero state tensioni a Leposavic e Zubin Potok, dove i cittadini si sono dispersi e hanno annunciato un nuovo raduno per domani. L’ambasciatore Usa a Pristina, Jeffrey Hovenier, dopo l’incontro degli ambasciatori dei Paesi del Quintetto (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) con il primo ministro Albin Kurti, ha invitato i sindaci eletti del nord a non recarsi negli uffici comunali per non alimentare la tensione.
Per il presidente serbo Aleksandar Vucic ad innescare la tensione sarebbe proprio Albin Kurti. Vuole “portare a spargimenti di sangue nell’intera regione, pochi vogliono sentire la verità e capire il contesto di ciò che sta accadendo”, ha detto Vucic. Il leader serbo ha accusato il primo ministro kosovaro di voler provocare “un grande conflitto tra i serbi e la Nato”, ed “è l’unico da incolpare per tutto ciò che sta accadendo”.
Più di 50.000 serbi che vivono in quattro comuni del nord del Kosovo, tra cui Zvecan, hanno disertato le urne il 23 aprile scorso per protestare contro il fatto che le loro richieste di maggiore autonomia non erano state soddisfatte.
Nei quattro comuni a maggioranza serba l’affluenza elettorale è stata soltanto del 3,47% e la popolazione ha affermato che non collaborerà con i nuovi sindaci – tutti di partiti di etnia albanese – perché non li rappresentano. Se gli albanesi costituiscono quasi il 90% della popolazione totale del Kosovo, i serbi rappresentano di gran lunga la maggioranza nella regione settentrionale. Pagine Esteri
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Erdogan rieletto già agita il pugno contro l’opposizione
della redazione
Pagine Esteri, 29 maggio 2023 – Il presidente turco Tayyip Erdogan ha prolungato i suoi due decenni al potere ottenendo ieri un nuovo mandato per perseguire le sue politiche autoritarie che hanno polarizzato la Turchia ma anche rafforzato la sua posizione di potenza militare regionale.
Il suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, l’ha definita “l’elezione più ingiusta degli ultimi anni” ma ha riconosciuto il risultato. Kilicdaroglu ha ottenuto il 47,9% dei voti contro il 52,1% di Erdogan, risultati che mostrano una nazione profondamente divisa.
L’elezione è stata tra le più importanti per la Turchia contemporanea, con l’opposizione che credeva fino a qualche settimana fa di avere un’ottima possibilità di spodestare Erdogan, in crisi di popolarità per la crisi economica, e di bloccare le sue politiche. Invece, la vittoria ha rafforzato l’immagine di Erdogan che nei suoi lunghi anni al potere ha ridisegnato la politica interna, economica, di sicurezza ed estera della Turchia, paese con 85 milioni di abitanti e membro della Nato
Nel discorso di vittoria pronunciato ad Ankara, Erdogan si è impegnato a lasciarsi alle spalle tutte le controversie e ha invitato il paese ad unirsi dietro i valori e i sogni nazionali. In precedenza, rivolgendosi ai sostenitori esultanti dall’alto di un autobus a Istanbul, aveva detto che “l’unico vincitore oggi è la Turchia”. “Ringrazio ognuno degli elettori che ci ha dato la responsabilità di governare il Paese per altri cinque anni”, ha detto.
Allo stesso tempo Erdogan si è scagliato contro l’opposizione, accusando Kilicdaroglu di essersi schierato con i terroristi, in riferimento al sostegno elettorale offerto dai curdi al suo rivale. E ha detto che il rilascio dell’ex leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtas, che ha etichettato come “terrorista”, non avverrà sotto il suo governo.
Secondo Erdogan l’inflazione è il problema più urgente della Turchia.
La sconfitta di Kilicdaroglu con ogni probabilità è stata accolta con dispiacere dagli alleati Nato della Turchia, allarmati dai legami di Erdogan con il presidente russo Vladimir Putin, che si è congratulato con il suo “caro amico” per la sua vittoria.
Comunque sia il presidente degli Stati uniti Joe Biden ha scritto su Twitter: “Non vedo l’ora di continuare a lavorare insieme come alleati della Nato su questioni bilaterali e sfide globali condivise”. Le relazioni degli Usa con Ankara sono state segnate da ripetuti disaccordi, come l’obiezione di Erdogan all’adesione della Svezia alla Nato, ma soprattutto lo stretto rapporto del rieletto presidente turco con Mosca, oltre alle divergenze sulla Siria.
Con il rinnovo del suo mandato, Erdogan diventa il leader più longevo da quando Mustafa Kemal Ataturk ha fondato la Turchia moderna sulle rovine dell’Impero ottomano un secolo fa. Si tratta di un anniversario di eccezionale significato politico che Erdogan, indubbiamente legato al passato ottomano, celebrerà al comando del paese.
Erdogan, capo del partito AK di matrice islamista, ha fatto appello agli elettori con una retorica nazionalista e conservatrice durante una campagna controversa che ha distolto l’attenzione dai profondi problemi economici.
Kilicdaroglu, che aveva promesso di portare il Paese su un percorso più democratico e di rispettare i diritti umani, ha detto che il voto ha mostrato la volontà della gente di cambiare un governo autoritario. “Tutti i mezzi dello stato sono stati posti ai piedi di un uomo”, ha detto.
I sostenitori di Erdogan, che si sono riuniti fuori dalla sua residenza di Istanbul, hanno cantato Allahu Akbar, o Dio è il più grande. E un po’ tutti si sono detti convinti che con lui in carica la Turchia diventerà più forte per altri cinque anni.
Ma la Turchia è divisa a metà e chi ha votato per Kilicdaroglu pensa che la speranza di un cambiamento non sia svanita ieri e che esistano ancora le possibilità di rimuovere dal potere Erdogan. La performance del presidente rieletto però ha spiazzato gli oppositori convinti che gli elettori lo avrebbero punito per la crisi economica, la risposta inizialmente lenta dello Stato ai devastanti terremoti di febbraio, in cui sono morte più di 50.000 persone. Non solo, al primo turno di votazioni del 14 maggio, che includeva le elezioni parlamentari, il partito AK del presidente a sorpresa è emerso al vertice in 10 delle 11 province colpite dai terremoti e potrà continuare a governare assieme agli alleati.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che spesso ha avuto contrasti con Erdogan si è congratulato, affermando che Francia e Turchia hanno “enormi sfide da affrontare insieme”. I presidenti di Iran, Israele e il re saudita Salman sono stati tra i primi leader a congratularsi con Erdogan per anni in disaccordo con numerosi governi della regione ma che negli ultimi anni ha assunto una posizione più conciliante. Pagine Esteri
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Digitango – Rainews 24
A partire dalle 20.30 avrò il piacere di essere ospite di Digitango la rubrica di RAINEWS 24 condotta da Diego Antonelli con Luciano Floridi e Walter Quattrociocchi per parlare di privacy e tecnologia Vi aspetto anche on line rainews.it/rubriche/digitango
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Le iniziative delle altre Autorità
L’insano aumento dei magistrati a presidio del Ministero della Giustizia
La riforma dell’ordinamento giudiziario firmata dal precedente ministro, Marta Cartabia, non ha rappresentato certo una rivoluzione. “Timidi passi nella giusta direzione, ovvero a garanzia dei principi cardine dello Stato di diritto”: è così che il mondo forense l’ha grossomodo valutata. Tuttavia l’Associazione nazionale magistrati ne ha paventato effetti dirompenti e ha fatto fuoco e fiamme per impedirne l’approvazione.
La riforma Cartabia è stata approvata sul finire della scorsa legislatura, ma gli addetti ai lavori danno per scontato che non vedrà mai la luce. Il motivo è semplice: i magistrati fuori ruolo che occupano le funzioni apicali del ministero della Giustizia lo impediranno. La tesi non è peregrina. Lo conferma il fatto che lo scorso ottobre la Cartabia non è entrata in vigore a causa, ma guarda un po’, della mancanza dei relativi decreti attuativi che avrebbero dovuto essere licenziati dal Ministero. Non era mai successo prima.
Ebbene, la notizia è che lo strapotere informale della magistratura sulle scelte politiche del ministro della Giustizia di turno non è destinata ad affievolirsi, ma ad accrescersi. Nel Palazzo circola, infatti, un emendamento firmato dal governo che, col pretesto del Pnrr, fa saltare il tetto previsto dal decreto legge 143 del 2008 portando da 65 a 75 il numero massimo di magistrati che possono essere destinati a ricoprire funzioni apicali nel ministero della Giustizia. Dieci magistrati in meno ad occuparsi della giurisdizione, dieci magistrati in più ad impedire che qualsivoglia riforma prenda vita contro il parere della corporazione togata.
Un secondo emendamento governativo prevede la costituzione di una nuova Direzione generale presso il gabinetto del ministro al costo di poco meno di 300mila euro, ed è chiaro a tutti che a ricoprire quella funzione sarà un magistrato. Altri due emendamenti, questa volta di iniziativa parlamentare, firmati da senatori Lega e di FdI, aggira il divieto, previsto della legge Cartabia, di rientro in ruolo per i magistrati che hanno assunto incarichi di governo.
C’è n’è abbastanza per dichiarare ufficialmente defunto l’antico principio del primato della politica. Questione che in tempi ormai lontani il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga così riassunse: “La funzione legislativa è stata ormai usurpata manu militari dalla magistratura, che, con la complicità di politici timorosi delle conseguenze in caso di diniego, impedirà qualsivoglia riforma vagamente seria dell’ordinamento giudiziario”.
L'articolo L’insano aumento dei magistrati a presidio del Ministero della Giustizia proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Una donna a guida delle operazioni navali Usa? Chi è Lisa Franchetti
Sarà forse una donna a guidare lo Stato maggiore della Marina statunitense? Non è ancora dato saperlo con certezza, ma si tratterebbe della prima a ricoprire tale incarico oltreoceano. A dare l’anticipazione sul nome di Lisa Franchetti è stato Breaking defense, definendola “il candidato più probabile” per il ruolo di prossimo capo delle operazioni navali del Paese a stelle e strisce. Ufficiale di carriera della guerra di superficie (surface warfare), Franchetti è attualmente già vice-capo delle operazioni navali e in precedenza ha comandato la Sesta Flotta degli Stati Uniti con sede a Napoli, tra il 2018 e il 2020. È stata, inoltre, la seconda donna (dopo Michelle Howard) a essere promossa ammiraglio a quattro stelle per la Us Navy, rientrando così nell’ancora ristretto alveo delle dieci donne nella storia americana a poter vantare tale grado. Insieme a lei, sembrerebbe esserci l’ammiraglio Samuel Paparo, comandante della Flotta del Pacifico degli Stati Uniti, come altro nome più papabile per guidare le operazioni navali Usa.
In attesa della conferma
Nonostante vi sia la possibilità che le circostanze cambino ancora prima dell’ufficiale nomina di Franchetti e quindi l’annuncio ufficiale da parte della Casa Bianca, sembra essere proprio il suo il nome più papabile secondo gli osservatori e analisti americani. Succederebbe all’ammiraglio Michael Gilday, l’ex comandante della decima Flotta la cui nomina ad ammiraglio maggiore della Marina, quattro anni fa, fu inaspettata e preceduta da uno scandalo che costrinse la prima scelta della Casa Bianca a ritirarsi dal processo.
Il profilo
Nonostante le chiare origini italiane, l’ammiraglio Franchetti è nata a Rochester, nello Stato di New York. Oltre agli incarichi già citati, ha ricoperto il ruolo di direttore per la strategia, i piani e la politica dello Stato maggiore. In qualità del suo ruolo di comando è stata responsabile delle forze nel Mar Nero e zone limitrofe, in particolare in prossimità della Marina russa. Tale esperienza, acquisita operando nel Mediterraneo e vicino alla flotta di Mosca sarà più che mai rilevante, soprattutto ad oggi che perdura da oltre un anno la guerra russo-ucraina. L’ammiraglio Franchetti, tuttavia, non è famosa per stare sotto i riflettori, soprattutto in confronto a Gilday, se non durante le udienze del Congresso e in poche altre occasioni. Quali una recente intervista rilasciata alla Cbs (in compagnia di tre sue colleghe del Pentagono) e nel corso dell’esposizione annuale Sea air space. Non è quindi facile cercare di capire come potrebbe comportarsi nel nuovo ruolo di capo delle operazioni navali per gli Stati maggiori riuniti, in particolare per quanto riguarda il rapporto con il comparto industriale.
Alla guida della VI flotta statunitense
“Lavoriamo per mantenere la pace per un anno in più, un mese in più, una settimana e un giorno in più”, così nel 2018 Lisa Franchetti aveva assunto il ruolo di comandante della Sesta Flotta degli Stati Uniti, l’armata marittima di pronto intervento su tutti gli scacchieri globali, in particolare in Europa e nel Mediterraneo. Contemporaneamente, con il comando della sesta flotta, Franchetti era diventata anche vice comandante delle Forze navali americane in Europa e delle Forze navali statunitensi in Africa.
(Foto: Us Navy)
Nava, Giacalone e Cangini al seminario su Einaudi e la sua idea di giornalismo – Corriere della Sera
Jordi
in reply to Andrea Russo • • •La Spagna è uno stato fascista, l'unica cosa che la salva dal cadere completamente nell'estrema destra è che conserva i cosiddetti territori "indipendenti" (Catalogna, Euskadi, Galizia) che, non essendo di estrema destra (come gli spagnoli radici), bilanciano i risultati complessivi.
#spainisafasciststate
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Jordi
Unknown parent • • •perché lo stato spagnolo fa da freno alla migrazione africana che va in Europa.
L'Europa razzista ha bisogno di questa frontiera negli Stretti, molto più efficace dei Pirenei e del controllo della sponda settentrionale della Mexiterrania.
Suppongo che l'UE voglia anche una certa influenza in America Latina. E non vorrà nemmeno lasciare isolato il Portogallo.
Jordi
Unknown parent • • •Si si i tant, el diners també tenen molt a veure.
Europa ha abocat molts calers a Espanya, expulsar-la seria disparar-se al propi peu.