Il premier pigliatutto: come il governo Meloni svuota le Camere.
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Il premier pigliatutto: come il governo Meloni svuota le Camere.
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Il #governoMeloni spinge con decisione sulla riforma del #premierato, con l'intenzione di discuterla alla Camera già a gennaio 2026. L'idea centrale è introdurre l'elezione diretta del presidente del Consiglio, abbinata a un premio di maggioranza che assegni il 55% dei seggi alla coalizione vincitrice anche con quote di voto inferiori al 40%. Questo schema promette “stabilità”, ma rischia di alterare profondamente gli equilibri costituzionali, concentrando poteri nelle mani del capo del governo.
Le modifiche agli articoli 92 e 94 della Costituzione prevedono un premier legittimato direttamente dal voto popolare, con fiducia parlamentare solo formale. Una “norma anti-ribaltone” che limiterebbe le crisi di governo a sostituzioni interne alla stessa coalizione, sotto pena di scioglimento delle Camere. Il “Presidente della Repubblica” perderebbe autonomia nella nomina del capo del governo e nelle fasi di stallo, diventando figura di ratifica piuttosto che garante. Molti costituzionalisti sottolineano come questo crei uno squilibrio tra poteri, con un esecutivo dominante e un Parlamento indebolito.
La legge elettorale collegata adotterebbe un proporzionale con premio maggioritario, sul modello regionale, per blindare maggioranze artificiali. La Russa e Fazzolari ritengono i “tempi maturi”, ma il disegno solleva interrogativi sulla reale efficacia contro l'instabilità.
Già oggi l’esecutivo Meloni ha usato il ricorso a decreti-legge (32 su 103 leggi nella prima fase) e voti di fiducia, comprimendo il dibattito parlamentare, limitando emendamenti e commissioni. Il premierato aggraverebbe questa tendenza: con maggioranza garantita e sfiducia impraticabile, le Camere diverrebbero sedi di approvazione automatica, private di controllo reale sull'esecutivo.
Si passerebbe da una democrazia parlamentare a un sistema ibrido, dove il leader eletto prevale sul pluralismo rappresentativo. Non manca qualche dissenso o dubbio tra i partiti di governo, soprattutto in merito all’abbandono dei collegi uninominali proprio da parte di chi aveva fatto di quell’elemento uno dei pilastri elettorali. La “Lega” e “Forza Italia” manifestano riserve sulla forma della legge elettorale che accompagna il premierato e sull’effettiva possibilità di avere sulla scheda il nome del candidato premier.
Queste tensioni interne, seppure non in grado finora di fermare i piani di “Fratelli d’Italia”, indicano che la riforma non è un progetto unanimemente condiviso all’interno della stessa coalizione di governo. Le critiche di esperti evidenziano un “premier pigliatutto” che influenzerebbe nomine chiave (dal Quirinale alla Consulta) senza contrappesi adeguati. Non risolve i problemi di governabilità, ma li sposta verso una verticalizzazione del potere che riduce spazi per opposizioni e mediazioni.L'Italia ha bisogno di rafforzare il Parlamento, non di ridurlo a esecutore di un leader plebiscitario.
Una riforma così profonda merita un esame puntiglioso e per nulla ammiccante, ma i rischi per la democrazia parlamentare appaiono evidenti.
E’ la mossa decisamente più importante e pericolosa di un esecutivo che, finora, ha brillato solo per la sua scarsa qualità politica e morale. Un modo per avvicinarsi, con decisione, ad una idea di Stato inchiodato ad una donna (o uomo) forte. E, pur ammettendo che il paragone è trito, molti Italiani pensano, nella loro idea di storia al contrario, che questa sia ancora la soluzione migliore. Un allarme democratico che tutti coloro che si rispecchiano nella Costituzione e nella democrazia devono cogliere e combattere.
#Premierato #Italia #Politica #Costituzione #Opinioni #Blog
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Mamdani a New York: vittoria simbolo, sfida per la sinistra italiana.
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Mamdani a New York: vittoria simbolo, sfida per la sinistra italiana.
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Nota: non voglio, e non ne ho facoltà, minimizzare la vittoria di Mamdani, nè pormi in contrasto con chi ne gioisce. Diciamo che non amo molto che le vittorie della sinistra all'estero siano prese come esempio in questo paese, che deve, comunque, fare i conti con la sua, di politica.
#ZohranMamdani, eletto sindaco di New York a soli 34 anni, rappresenta una svolta storica per la politica americana. Primo sindaco musulmano della città, Mamdani ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo con il 50,4% dei voti, conquistando consenso soprattutto tra giovani, immigrati e lavoratori grazie a una piattaforma basata su trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare e giustizia sociale.
Già nel suo discorso di vittoria, Mamdani ha lanciato una sfida diretta a #DonaldTrump, definendolo un “despota” e affermando che “...la città che lo ha creato può anche sconfiggerlo”. Da parte sua, Trump ha risposto con sarcasmo, minimizzando la sconfitta: «Io non ero sulla scheda elettorale» e accusando le tensioni a Washington di aver danneggiato il movimento repubblicano. A Mamdani ha rivolto l’epiteto di “Comunista” e ha minacciato tagli ai fondi federali: “Se vince un comunista, pronti a tagliare miliardi a New York”. Questa contrapposizione incarna uno scontro tra due visioni opposte, ma con un comune uso di retorica fortemente polarizzante.
Le vittorie parallele di Abigail Spanberger in Virginia e Mikie Sherrill nel New Jersey consolidano il successo dei democratici in territori chiave, ponendo un ulteriore freno alla spinta trumpiana e segnando un chiaro avvertimento verso la leadership repubblicana.
In Italia, il successo di Mamdani è stato accolto con entusiasmo da settori della sinistra, ma la realtà politica appare ben diversa rispetto a quella statunitense. Qui la sinistra è dilaniata da una cronica divisione tra anime moderata e radicale, che impedisce la costruzione di un progetto unitario e coerente. L’assenza di una leadership convincente che sappia parlare ai bisogni concreti della società limita molto la capacità di mobilitazione e di creare un’alternativa credibile al governo Meloni.
L’opposizione italiana tende spesso a rifugiarsi in tentativi di emulazione di modelli esteri senza riuscire a tradurli nel contesto nazionale, rimanendo così frammentata e marginale. Manca, inoltre, un dialogo autentico con le nuove generazioni e con i settori più vulnerabili, fattori che in America invece hanno fatto la differenza per Mamdani.
Solo un’analisi critica e profonda di queste difficoltà interne potrà avviare un processo di rinnovamento e rilancio della sinistra in Italia, partendo dalla concretezza e non dall’astrazione.
Mamdani e i successi democratici statunitensi mostrano dunque un modello efficace di politica progressista da cui trarre ispirazione, ma la sinistra italiana deve affrontare le proprie contraddizioni interne per poter davvero sognare una rinascita simile.
#Blog #USA #Mamdani #Trump #Politica #Italia #Sinistra #Opinioni
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Un ponte sul mare dei conti.
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Un ponte sul mare dei conti.
(174)
Il dibattito sul ponte sullo stretto di Messina di questi giorni va oltre la politica. I rilievi della Corte dei conti non sono un atto di ostruzionismo, ma l’esercizio di una funzione di garanzia che tutela la legalità, la trasparenza e la corretta gestione delle risorse pubbliche. In un sistema democratico equilibrato, il controllo non è un freno, ma uno strumento di responsabilità.
Il progetto del ponte muove circa 14 miliardi di euro, coinvolge interessi strategici e incide sull’ambiente, sull’economia e sulla coesione territoriale. È naturale, e necessario, che la Corte chieda chiarezza su piani finanziari, sostenibilità economica e conformità giuridica degli atti, per assicurare che ogni fase rispetti le norme sui contratti pubblici e sulla spesa dello Stato.
Nel caso del governo Meloni, la spinta verso una realizzazione rapida dell’opera è ovvia: il ponte è diventato un simbolo politico, un progetto identitario che promette infrastrutture e sviluppo. Tuttavia, l’urgenza non può sostituire la trasparenza né giustificare forzature amministrative. Il ruolo della Corte è proprio quello di ricordare che una grande opera vive solo se fondata su basi legali solide e su una gestione finanziaria sostenibile.
Parlare di “attacco” o “ostacolo” da parte della Corte significa travisare la sua missione costituzionale. La funzione di controllo serve a rafforzare la credibilità dell’azione di governo, non a limitarla. In un periodo in cui il debito pubblico pesa e i margini di spesa sono stretti, è fondamentale che ogni euro investito sia tracciabile e coerente con i vincoli di legge.
La correttezza dei rilievi contabili sta nel richiamare l’attenzione su elementi tecnici che non possono essere ignorati: la revisione dei contratti con i concessionari, la copertura finanziaria pluriennale, la valutazione dei rischi ambientali e la trasparenza delle gare. Sono queste le condizioni per evitare arbitrio, sprechi o contenziosi futuri che rallenterebbero ulteriormente i lavori. La vera modernizzazione non è solo costruire infrastrutture, ma farlo rispettando le regole e garantendo che la spesa pubblica sia un investimento per tutti, non un rischio collettivo.
Ora serve che il governo Meloni abbandoni la retorica distrattiva. Se davvero la priorità è costruire il futuro dell’Italia, si dimostri di saperlo fare passando dal rispetto delle leggi e dall’ascolto delle istituzioni di controllo. Solo così questa opera potrà essere il simbolo di un paese credibile, non di una stagione di scorciatoie, e non divenire l’ennesimo fallimento di un esecutivo che, per ora, non ha portato a casa quasi nulla.
#Blog #PonteSulloStretto #GovernoMeloni #Opinioni #Italia #Politica
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Fiano, o delle distinzioni di comodo.
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Fiano, o delle distinzioni di comodo.
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Brevi e probabilmente banali considerazioni dopo l'ascolto di Emanuele Fiano oggi sui fatti accaduti a “Cà Foscari”.
Per chi segue il dibattito social, la posizione di Emanuele Fiano e “Sinistra per Israele” tende a sostenere che l’ #antisionismo sia una forma di #antisemitismo, cioè che l’opposizione al movimento sionista o alle politiche di Israele coincida sempre con l’odio verso gli ebrei. Questa visione semplifica e confonde due piani profondamente diversi.
L’antisemitismo è ostilità verso gli ebrei in quanto persone, religione o popolo: pogrom, discriminazioni, teorie del complotto e “Shoah” ne sono espressioni drammatiche. L’antisionismo invece è la critica dell’ideologia sionista e delle politiche dello Stato di Israele: non nasce per definizione come discorso d’odio, ma come posizione politica, spesso alimentata da ragioni storiche, etiche o di difesa dei diritti dei palestinesi.
Ci sono sempre stati ebrei antisionisti: gruppi religiosi o laici che non si riconoscono nello Stato di #Israele o ne criticano l’esistenza, a prescindere da ogni odio antiebraico. Anzi, la discussione critica tra ebrei su sionismo e Israele fa parte della storia stessa dell’ebraismo moderno. Equiparare ogni antisionismo all’antisemitismo cancella questa pluralità e nega il diritto a dissentire, dentro e fuori dalla comunità ebraica.
Una critica anche aspra al governo israeliano, alla sua politica verso i palestinesi o al progetto sionista in sé non implica odio per gli ebrei. Così come criticare la Russia di Putin, la Cina di Xi o l’America di Biden non significa odiare russi, cinesi o americani. Dire il contrario è una forma di propaganda che soffoca il dibattito, bolla ogni dissenso come intolleranza e serve spesso a zittire movimenti per i diritti umani o campagne di solidarietà internazionale.
Chi sostiene che antisionismo e antisemitismo siano la stessa cosa rischia di banalizzare davvero l’antisemitismo: se tutto è odio antiebraico, niente lo è più davvero. E si finisce per colpire chi magari lotta contro razzismi e colonalismi ma è a favore dei diritti di palestinesi, israeliani ed ebrei. Banalizzazione che fanno, alla luce del sole, Fiano e i componenti di “Sinistra per Israele.” Antisionismo e antisemitismo sono cose diverse e confonderle fa male sia alla lotta contro le discriminazioni, sia alla libertà di dibattito politico.
Non ho scritto cose nuove, me ne rendo conto, ma continuare a “tenere il punto”, in giorni disperanti come questi, mi aiuta a considerare le cose per come dovrebbero essere, non per come vogliamo che siano.
#Blog #Antisemitismo #Antisionismo #Opinioni #Italia #Politics #Politica
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Il mondo finisce a Oriente.
Stavolta il post è lungo.
E' il brutto di lavorare a turni: il tempo per scrivere, se vuoi, si trova.
Ciò che sta accadendo tra #Israele ed #Iran ci porta sempre più vicino al punto di non ritorno.
Forse per questo mi sono dilungato.
Abbiate pazienza.
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Il mondo finisce ad Oriente.
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Nota: Lo so, non è da me farla così lunga, ma in un mondo che impazzisce forse un pochino di squilibrio ce lo metto anche io. La verità è che la #Pace è davvero impossibile. Almeno così sembra. Il che rende, fondamentalmente, questo uno sfogo. Ci vuole pazienza.
La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 ha visto l'ennesima escalation del conflitto mediorientale, quando #Israele ha lanciato un massiccio attacco aereo contro l' #Iran, mirato principalmente alle strutture nucleari e militari di Teheran. Le forze israeliane hanno colpito siti sensibili, distruggendo laboratori e centri di ricerca, nonché eliminando alcuni tra i principali comandanti delle Guardie della Rivoluzione, l'élite militare iraniana. Un colpo che ha scatenato una serie di reazioni internazionali. L'Iran, come prevedibile, ha replicato con una serie di droni che hanno tentato di colpire obiettivi strategici in Israele, gettando il paese in una nuova spirale di violenza.
Le parole di #DonaldTrump, che ha immediatamente espresso un sostegno incondizionato all'azione israeliana, hanno ulteriormente polarizzato il dibattito internazionale. Trump ha minacciato l'Iran con nuove offensive se non avesse accettato un accordo sul nucleare, aggiungendo così un ulteriore strato di complessità alla già tesa situazione geopolitica. L’appoggio degli Stati Uniti alla politica aggressiva di Israele sembra segnare il punto di non ritorno di un conflitto che ha radici profonde, alimentato da ideologie contrapposte e da interessi strategici divergenti.
Politicamente, l'attacco israeliano ha reso evidente l'intensificarsi della guerra a bassa intensità tra le potenze regionali. Israele, con la sua operazione “Leone Ascendente”, ha voluto chiarire una volta per tutte che non tollererà il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Questo attacco ha avuto l'effetto di indebolire momentaneamente l'Iran, uccidendo alcuni dei suoi strateghi più esperti e decimando parte delle sue capacità operative. Tuttavia, la risposta dell'Iran non si è fatta attendere: il lancio di droni ha avuto il chiaro intento di far capire a Israele che ogni azione avrà una controparte, anche se le capacità belliche di Teheran, pur impressionanti, non possono in alcun modo paragonarsi alla potenza di fuoco israeliana.
Le implicazioni politiche per il Medio Oriente sono incalcolabili. L'Iran ha immediatamente mobilitato le sue milizie alleate in Siria, Libano e Iraq, preparando il terreno per una possibile guerra per procura che potrebbe estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti. In questo scenario, la comunità internazionale rischia di assistere a una polarizzazione crescente, con i paesi arabi che, pur condannando l’aggressione israeliana, non sembrano disposti a schierarsi apertamente a favore di Teheran, temendo le ripercussioni di un allineamento troppo esplicito.
Moralmente, invece, l'attacco israeliano solleva interrogativi inquietanti sulla legittimità di un'azione preventiva, soprattutto quando si considera che l'Iran ha sempre sostenuto di non avere intenzioni belliche dirette contro Israele. Sebbene Israele possa giustificare il suo intervento come una misura di difesa preventiva, non si può ignorare la violazione della sovranità iraniana e il fatto che l’attacco possa generare un'ulteriore spirale di violenza e vendetta. La morte di alti ufficiali iraniani e scienziati nucleari potrebbe, inoltre, rafforzare la narrativa del martirio e alimentare il risentimento tra la popolazione iraniana, creando un ulteriore fossato tra l'Iran e l'Occidente.
Da un punto di vista etico, sorge anche la questione dell’equilibrio delle forze: mentre gli Stati Uniti e Israele vedono la sicurezza come una priorità assoluta, l'Iran non può fare a meno di difendere ciò che considera un diritto sovrano, ossia la propria capacità di autodefinirsi come potenza regionale. La domanda che sorge spontanea è quindi se la logica della deterrenza, che ha caratterizzato la guerra fredda, possa essere applicata efficacemente in un contesto così volatile e intrinsecamente pericoloso.
L'operazione ha accentuato le divisioni interne in Iran, dove il regime potrebbe trovarsi a fronteggiare un'ondata di proteste interne. La crisi economica che affligge Teheran, le sanzioni internazionali e il crescente malcontento popolare potrebbero minare ulteriormente la stabilità del governo. Tuttavia, un sentimento di orgoglio nazionale potrebbe temporaneamente consolidare il consenso interno contro l'invasore straniero, come spesso accade in contesti bellici.
In Europa, la situazione appare delicata. L'Unione Europea, da sempre promotrice di un approccio diplomatico e pacifico, si trova ora a dover navigare tra due fuochi: la necessità di mantenere relazioni economiche con l'Iran, e l'alleanza con Israele, che rappresenta uno dei suoi principali partner strategici. La Francia e la Germania hanno condannato l'escalation, chiedendo una de-escalation immediata, ma non sono riuscite a offrire una soluzione concreta. L'Italia, pur allineata in linea di principio con le posizioni europee, ha adottato un tono più cauto, sottolineando la necessità di una mediazione internazionale urgente per evitare che il conflitto degeneri in una guerra totale.
Il nostro stato si è trovato a giocare un ruolo delicato nel bilanciare il proprio supporto a Israele con l’esigenza di non alienarsi la cooperazione iraniana. Sebbene il governo italiano abbia espresso una condanna per l'aggressione israeliana, si è anche preoccupato delle implicazioni a lungo termine di una rottura totale tra l'Iran e l'Occidente. L'Italia, infatti, è da sempre favorevole a un approccio diplomatico per risolvere la crisi nucleare iraniana, e un’escalation militare potrebbe compromettere gli sforzi compiuti negli anni passati per stabilire un dialogo.
L’Unione Europea, nel suo insieme, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali invocando una “de-escalation immediata”, ma la divisione tra i membri più favorevoli a un duro confronto (come la Polonia) e quelli più favorevoli a un negoziato (come l’Italia e la Spagna) è ormai palese. Il rischio è che l'Europa, incapace di adottare una linea unitaria, finisca per essere marginalizzata in un conflitto che potrebbe ridisegnare gli equilibri di potere nell'intera regione mediorientale.
L'attacco israeliano all'Iran ha profondamente scosso gli assetti geopolitici internazionali, mettendo in luce non solo le fragilità politiche e sociali dei protagonisti del conflitto, ma anche la difficoltà di una comunità internazionale a trovare un punto di mediazione efficace. Le conseguenze politiche, morali e sociali di questa nuova escalation sono ancora in divenire, ma una cosa è certa: l'Europa e l'Italia dovranno affrontare con urgenza la necessità di rinnovare i propri approcci diplomatici, se vogliono evitare che il conflitto si trasformi in una guerra su scala globale. La strada verso una stabilizzazione del Medio Oriente sembra sempre più incerta e tortuosa, e l'unica speranza risiede nel ritorno al dialogo e alla cooperazione internazionale.
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