Rifondazione Comunista sarà anche quest’anno al Roma Pride per esprimere solidarietà alla comunità LGBTQIA+ che in questo ultimo anno è il bersaglio di un’escalation di odio e violenza, quella di strada tanto quanto quella istituzionale. Ricordiamo che Rifondazione Comunista rimane l’unico partito in Italia a far eleggere una persona trans in parlamento, un fatto che a distanza di quasi vent’anni continuiamo a rivendicare con orgoglio – ancor più oggi quando le persone trans* in particolare sono nel mirino delle destre di tutto il mondo, Italia compresa.
Rifondazione proprio per questo è solidale con le le istanze delle persone trans, queer e non binary che si sentono sovradeterminatә dalle stesse circostanze che hanno portato alla nascita del Priot, pur non condividendo la scelta quest’anno di renderlo antagonista al Pride istituzionale e le pratiche che ne sono conseguite. Ma questo non ci esenta dal riconoscere anche le criticità della gestione di un momento e di uno spazio fondamentali nella vita delle persone LGBTQIA+.
Troviamo problematica la scelta di ridurre progressivamente la partecipazione di tutte le diverse realtà che compongono la comunità dopo averle ignorate anche quando partecipavano al comitato organizzativo perché il Pride e di tuttә; è simbolicamente molto problematico un nuovo percorso – inaugurato l’anno scorso – che prevede un corteo che va a chiudersi dentro un recinto nascosto al pubblico perché il Pride è rivolta di strada; è estremamente problematico un manifesto politico che pur apprezzabile per molti versi, si rifiuta di chiamare le cose col proprio nome perché quello che sta avvenendo in Palestina è un genocidio anche di nome e non solo di fatto; troviamo problematica la scelta della stesse forze che si arrogano il timone del movimento di ignorare selettivamente i risultati dei tavoli di lavoro a cui abbiamo partecipato (invitatә) soprattutto quando ignorano il nodo centrale che lega in modo inestricabile diritti civili e diritti sociali.
Per le stesse ragioni continuiamo a trovare problematica (se non tragicamente sbagliata nel caso di marchi apertamente sostenitori del genocidio palestinese) la scelta di perseguire la logica delle sponsorizzazioni private, perché ci rende tuttә fragilә e ricattabilә e soggettә all’aria politica che tira al momento – come dimostra il fuggi fuggi degli sponsor: se tanti servizi per la comunità dipendono dal privato, forse compito di chi è al timone del movimento dovrebbe essere quello di lottare contro la dismissione generale dello stato sociale, affinché si prenda carico in maniera specifica delle esigenze di una comunità che non deve dipendere dalle fluttuanti elemosine del capitalismo. E crediamo che sia profondamente problematica la scelta di interloquire e cercare punti di convergenze con le stesse forze che adesso hanno anche il potere istituzionale per negare, reprimere e distruggere concretamente le nostre identità e le nostre vite.
Lә compagnә di Rifondazione e Giovanә Comunistә però, nonostante tutte queste contraddizioni, anche quest’anno al Roma Pride ci saranno, perché gli spazi conquistati col sacrificio e anche col sangue di tantә non si abbandonano a nessun costo e saremo lì a portare anche le istanze di chi ha scelto di non esserci e di chi non può e per non smettere mai di denunciare tutte queste criticità nello spirito più unitario possibile. Le alleanze politiche e sociali perseguite in questi anni stanno mostrando tutta la loro volatilità e la realtà con cui dobbiamo continuare a fare i conti è sempre la stessa: da una parte ci sono i sistemi di dominio, dall’altra le soggettività oppresse. È il momento di schierarsi e restare unitә, prima che ci travolgano.
Buon Roma Pride a tuttә
Federazione Roma Castelli Litoranea del Partito della Rifondazione Comunista
Giovanә Comunistә Roma
NESSUN ORGOGLIO NEL GENOCIDIO, NESSUN ORGOGLIO SENZA LIBERAZIONE
Rifondazione Comunista sarà anche quest’anno al Roma Pride per esprimere solidarietà alla comunità LGBTQIA+ che in questo ultimo anno è il berRifondazione Comunista
RIFONDAZIONE COMUNISTA IN GRECIA AL CONGRESSO DI SYRIZA
Inizia con un commosso saluto alla delegazione palestinese il 5° congresso di Syriza. "Insieme noi creiamo il futuro" lo slogan del congresso, in un momentoRifondazione Comunista
Rifondazione: Israele stato terrorista, fermare Netanyahu
Israele è uno stato terrorista che viola sistematicamente il diritto internazionale. Non bastano il genocidio a Gaza, l'apartheid in Cisgiordania, gli omicidiRifondazione Comunista
di Laura Tussi e Antonio Mazzeo
Il 28 aprile 2025, tre organizzazioni insignite del Premio Nobel per la Pace – Nihon Hidankyo (2024), ICAN (2017) e IPPNW (1985) – hanno inviato una lettera congiunta ai presidenti Donald Trump e Vladimir Putin, esortandoli a intraprendere azioni decisive per la de-escalation nucleare e a impegnarsi in negoziati significativi per il disarmo.
Nella lettera, i firmatari sottolineano che Stati Uniti e Russia detengono insieme circa il 90% degli arsenali nucleari mondiali, attribuendo a entrambi una responsabilità speciale nel prevenire una catastrofe globale. Rievocando il vertice del 1986 tra Reagan e Gorbaciov a Reykjavík, che segnò un momento storico per il disarmo, gli autori dell’appello invitano i leader attuali a riprendere quello spirito di cooperazione e a compiere passi concreti verso l’eliminazione totale delle armi nucleari.
Terumi Tanaka, sopravvissuto al bombardamento atomico di Nagasaki e rappresentante di Nihon Hidankyo, ha dichiarato: “Le armi nucleari non devono mai essere usate. Il loro impiego sarebbe un crimine contro l’umanità”. Tanaka ha criticato le minacce nucleari di Putin nel contesto del conflitto in Ucraina, sottolineando la mancanza di comprensione delle devastanti conseguenze umane delle armi nucleari.
Melissa Parke, direttrice esecutiva di ICAN, ha ribadito l’urgenza dell’azione: “Ascoltare Tanaka descrivere gli effetti orribili del bombardamento dovrebbe convincere i leader mondiali a fare di più che semplicemente congratularsi con i hibakusha per questo premio. Devono onorarli eliminando urgentemente le armi nucleari”.
Michael Christ, a nome di IPPNW, ha aggiunto: “Le armi nucleari non sono una forza naturale inevitabile. Sono state costruite da mani umane e possono essere smantellate da mani umane. Tutto ciò che è necessario è la volontà politica”.
L’appello congiunto delle tre organizzazioni Nobel rappresenta un richiamo potente alla responsabilità e alla leadership necessarie per prevenire un conflitto nucleare. In un momento in cui la minaccia nucleare è più alta che mai, la loro voce si leva a favore della pace e della sicurezza globale. E ovviamente non si può che condividerlo pienamente, anche alla luce delle sempre più numerose minacce provenienti dagli stati maggiori di Stati uniti d’America, Russia, paesi NATO, Israele, Cina, India e Pakistan di impiegare le armi nucleari per “chiudere” i conflitti in atto.
Crediamo tuttavia che l’appello alla denuclearizzazione totale debba essere fatto anche a Francia e Regno Unito, due partner NATO dotati di armi di distruzione di massa, anch’essi in piena corsa al riarmo nucleare e all’adozione di strategie sempre più aggressive in ambito militare.
Allo stesso modo non possiamo dimenticare Israele, India e Pakistan, tutti paesi che non hanno firmato il trattato di non proliferazione e che purtroppo, si caratterizzano per la spregiudicatezza, direi meglio la follia, nel considerare l’uso di testate come un’opzione praticabile e “sostenibile” in caso di conflitto.
L’appello dei premi Nobel per la pace incita i movimenti No War a rafforzare il proprio impegno contro ogni sistema nucleare e rilanciare – così come fu negli anni ’80 – grandi campagne internazionali per il disarmo nucleare e la denuclearizzazione, anche attraverso atti concreti di “primo passo” di disarmo unilaterale nel cuore del vecchio continente , a partire dal nostro paese, che ha consentito l’US Air Force a dislocare le famigerate bombe “tattiche” B-61-12 nelle basi di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone), testate che in caso di conflitto o escalation bellica potranno essere montate a bordo dei cacciabombardieri di quarta e quinta generazione nella disponibilità dell’Aeronautica Militare italiana.
“Vi scriviamo come vincitori del Premio Nobel per la Pace impegnati nell’eliminazione delle armi nucleari. In questo momento di estremo pericolo nucleare, vi invitiamo a prendere misure urgenti per la de-escalation delle tensioni e impegnarvi in negoziati significativi per il disarmo nucleare”, si legge nella lettera congiunta delle Organizzazione Premi Nobel per la pace indirizzata a Putin e a Trump.
E’ un messaggio importante questo documento a firma di tre Premi Nobel per la Pace rappresentanti rispettivamente le Organizzazioni Nihon Hidankyo, ICAN e IPPNW. Perché “come leader di stati armati nucleari che possiedono il 90% degli arsenali mondiali, i presidenti Putin e Trump hanno l’obbligo speciale di agire con l’urgenza che questo momento di immenso pericolo richiede.”
Ancora una volta, e questa volta direttamente ai leader di Russia e Stati Uniti, viene rammentato il rischio sempre più alto di una escalation nucleare e di un conflitto atomico; oltretutto accentuato dai voluti processi di modernizzazione degli arsenali e dall’abbandono di storici trattati che, pur insufficienti per assicurare un disarmo concreto, erano comunque segno di seppur tiepida intenzione di accordo tra le superpotenze.
“Come hanno dichiarato gli Stati parte del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) al loro recente incontro a New York: “L’architettura di lunga data del disarmo e della non proliferazione viene erosa, gli accordi sul controllo degli armamenti abbandonati e le posizioni militari si sono indurite, indebolendo ulteriormente l’architettura di sicurezza globale esistente. Un ambiente di sicurezza internazionale teso e sempre più polarizzato, combinato con una mancanza di fiducia e comunicazione, esacerba i pericoli esistenti dell’uso di armi nucleari.”
“Ricostruire il dialogo, ripristinare la fiducia, impegnarsi nuovamente nel disarmo nucleare.” L’invito dei Nobel aggiunge nuovamente l’esperienza degli Hibakusha, testimoni concreti dell’orrore di quanto l’atomica genera. Perché: “Sanno, per esperienza diretta, che nessuno dovrebbe mai sopportare la sofferenza che queste armi causano. Questo 21 giugno un gruppo di hibakusha arriverà a Reykjavík a bordo della Peace Boat dove visiteranno Höfði House, il sito di uno dei momenti più promettenti nella storia del disarmo nucleare.”
Ricordando infatti che “il vertice del 1986 tra i presidenti Reagan e Gorbaciov a Reykjavík ha aperto la strada a significative riduzioni di armi” e al quasi totale smantellamento dei missili nucleari. “Hanno quasi raggiunto una svolta storica per l’eliminazione di tutte le armi nucleari. Quel momento ha dimostrato che la volontà politica può superare divisioni apparentemente insormontabili.”
“Ora avete l’opportunità di riconquistare quello spirito e di andare oltre e ottenere ciò che i presidenti Reagan e Gorbaciov non sono riusciti a fare: l’eliminazione totale delle armi nucleari. Come premi Nobel per la pace, vi invitiamo a incontrarvi l’un l’altro per raggiungere un accordo sul disarmo nucleare totale.”
Ma, “nessuno dei nove paesi che possiedono armi nucleari – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord – sembra attualmente interessato al disarmo nucleare e al controllo degli armamenti.”
“Questo è il momento di mostrare al mondo la leadership coraggiosa e visionaria necessaria. Le armi nucleari non sono una forza naturale inevitabile che deve essere sopportata. Sono stati costruiti da mani umane e possono essere smantellati da mani umane. Tutto ciò che è necessario è la volontà politica. È nel vostro potere, come presidenti dei paesi nucleari più potenti del mondo, porre fine alle armi nucleari prima che finiscano noi”, afferma infine il documento a firma di Terumi Tanaka, Shigemitsu Tanaka, and Toshiyuki Mimaki, on behalf of Nihon Hidankyo, Nobel Peace Prize 2024, Melissa Parke and Akira Kawasaki, on behalf of ICAN, Nobel Peace Prize 2017, Michael Christ, on behalf of International Physicians for the Prevention of Nuclear War, Nobel Peace Prize 1985.
L’appello dei Premi Nobel a Trump e Putin: le Organizzazioni Nihon Hidankyo, ICAN e IPPNW chiedono di mettere in salvo l’umanità fermando l’escalation nucleare
di Laura Tussi e Antonio Mazzeo Il 28 aprile 2025, tre organizzazioni insignite del Premio Nobel per la Pace - Nihon Hidankyo (2024), ICAN (2Rifondazione Comunista
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Gianluigi Pegolo*
Il risultato ottenuto dai cinque quesiti referendari è stato deludente. Ci si aspettava quantomeno un livello di partecipazione superiore, anche se il raggiungimento del quorum non era un traguardo facile da superare. Questo esito ovviamente non fa venire meno la validità dei quesiti posti e l’importanza delle tematiche affrontate. Interrogarsi sulle ragioni di tali risultati non è però vano. E anzi è una condizione essenziale per decidere il che fare. Da tale punto di vista, l’appello reiterato delle destre all’astensione era prevedibile, com’era prevedibile che avrebbe condizionato non poco il risultato, specie per il fatto che oramai i livelli di partecipazione nel paese, almeno a livello elettorale, sono drammaticamente scesi al di sotto del 50%. E tuttavia, questo spiega totalmente il risultato? Quantomeno due interrogativi debbano essere posti. L’uno riguarda l’efficacia dei quesiti presentati e l’altro il grado di mobilitazione messo in atto per sostenere il si. In una società in cui i soggetti si disgregano e le organizzazioni di massa e i partiti perdono la capacità di orientare i comportamenti dei cittadini e di rappresentarne appieno le istanze, l’adesione di carattere politico in senso stretto – che un tempo era il collante nei comportamenti politici e sociali – tende a sfumare. Ciò che resta in campo è l’interesse specifico del singolo. La conseguente settorializzazione degli interessi diventa l’esito del disgregarsi della solidarietà collettiva e delle culture politiche. Nel caso del referendum c’è da chiedersi se questa scelta, tutta centrata sul tema della precarietà del lavoro e sui diritti di cittadinanza non abbia in qualche modo limitato il consenso possibile. E’ una questione della fondamentale importanza perché se fosse vero, ciò significherebbe che sempre di più la battaglia nel mondo del lavoro per esprimere un’egemonia dovrebbe intrecciarsi con problematiche più vaste come per esempio la condizione del welfare. La seconda considerazione è che nonostante il meritorio impegno della CGIL e di alcuni soggetti politici e sociali, la sensazione è che non si sia fatto tutto il possibile. Molte volte si è percepito una sorta di obbligo politico o morale all’impegno. Ciò vale per molti dei soggetti coinvolti. E in ogni caso l’impegno dell’opposizione politica è stato altalenante, riflettendo divisioni presenti nel PD, o differenziazioni e scarsa capacità di mobilitazione, come nel caso dei Cinque stelle. Non vi è stata insomma quella convinzione e determinazione necessari. Certamente ha influito in questo la scarsa fiducia nel successo del referendum, dopo la non ammissione del quesito referendario sull’autonomia differenziata che sicuramente avrebbe fatto la differenza. Queste considerazioni pongono numerosi problemi nella prospettiva di una continuazione dell’iniziativa sociale e politica. Molto giustamente il segretario generale della CGIL Maurizio Landini ha centrato l’attenzione sulla necessità di partire da quei quattordici milioni di cittadini che si sono recati a votare e, in particolare, su quanti hanno votato si. Essi costituiscono la base sociale dalla quale ripartire. Il problema è come fare per dare rappresentanza a questi elettori e anzi per estendere ulteriormente il consenso. E’ probabile che senza una proposta precisa tale realtà sia destinata, com’è successo più volte in passato, a dispendersi. Ciò che sarebbe invece necessario è offrire a quei milioni di si una sponda politico /organizzativa cui aderire o in cui riconoscersi. Qualcuno potrebbe pensare che tale compito ricada sui partiti o su alcune organizzazioni di massa e in primis la CGIL. A me pare che si dovrebbe fare un passo in più è porsi il problema della costruzione di un’”alleanza sociale”, strutturata a partire dall’esperienza dei comitati referendari che raccolga tutte le forze disponibili. Non quindi un generico appello, ma una proposta politico/organizzativa che consenta ai molti che credono in certi valori e che vogliono battersi per determinati contenuti di mobilitarsi anche nei livelli locali. In poche parole occorre dare alla prospettiva della Via maestra, cioè quella della valorizzazione del dettato costituzionale, un orizzonte più ampio e concreto. In tal senso i temi del lavoro, del welfare e della democrazia sono i pilastri di una piattaforma per la mobilitazione sociale; l’organizzazione locale è la condizione per un intervento capillare efficace e per la raccolta di nuove forze; il carattere specificamente sociale di tale alleanza è il mezzo per costruire l’unita sui contenuti consentendo a tutti di partecipare, senza annullare le proprie specificità. Si consideri inoltre che strumenti di partecipazione come il referendum diventano sempre più difficili da utilizzare e che esiste nel paese un livello di spoliticizzazione e anche di resistenza culturale (come dimostra il risultato del referendum sulla cittadinanza) che necessitano di un’azione pervasiva. Chi può oggi avanzare una proposta che vada in questa direzione, ma soprattutto avere l’autorevolezza e la forza per promuoverla? In primis il soggetto che ha promesso fin qui l’iniziativa e cioè la CGIL. E questo per varie ragioni, ma in primo luogo per l’essere il principale soggetto sociale organizzato in grado di superare le divisioni politiche, oltre che quello dotato di un supporto organizzativo necessario per attivare un processo. D’altronde solo andando in questa direzione si può mettere a valore il risultato del referendum.
*Direzione nazionale PRC-S.E.
Che fare dopo il risultato referendario?
Gianluigi Pegolo* Il risultato ottenuto dai cinque quesiti referendari è stato deludente. Ci si aspettava quantomeno un livello di partecipazione supeRifondazione Comunista
Stefano Galieni*
Si parta dal fatto che il bicchiere referendario va visto come “mezzo pieno”. Che nell’afoso silenzio elettorale, nella melassa della distrazione di massa, nell’assenza quanto nell’indicazione da parte di alte cariche dello Stato a disertare le urne, che quasi 15 milioni di aventi diritto si rechino a votare su quesiti complessi, sovente spiegati male – a volte anche dagli stessi proponenti – è un risultato da cui partire e da non dimenticare, per innescare dinamiche più articolate attorno al rapporto fra democrazia e partecipazione. Dalle prime dichiarazioni del segretario nazionale della Cgil questo dato pare acquisito, così come sembra aver preso piede la necessità di riaprire un lavoro di inchiesta sul campo nel mondo articolato, variegato e complesso del mondo del lavoro, fatto di ascolto, di ricerca, di analisi, tanto nei singoli territori, con le loro complessità, quanto nei diversi comparti produttivi. Un impegno che non si può esaurire nei luoghi di lavoro – troppo spesso effimeri, frammentati, fondati sull’isolamento – ma che deve riconnettere l’intero tessuto sociale del Paese. Non si tratta di utilizzare termini idealisti quali “ottimismo” quanto di una verifica incontrovertibile dei risultati ottenuti laddove insieme ai referendum si votava per il primo turno delle elezioni amministrative (cfr Nuoro) o al ballottaggio (Taranto o Matera). In queste città il quorum referendario si è quasi sempre raggiunto o superato e i risultati hanno dato una netta prevalenza del si. Ogni dato ipotetico, legato ad un superamento generale del quorum va preso con le molle. Se è vero che la destra tende ad appropriarsi del blocco astensionista, questa non va imitata. Non bisogna credere o far credere a proiezioni arbitrarie dei risultati anche se, va detto, laddove nei ballottaggi hanno prevalso coalizioni di centro destra, sui referendum hanno vinto le posizioni dei promotori dei quesiti. C’è però un vulnus, profondo e dalla forte natura politica che va analizzato nelle sue diverse e complesse sfaccettature. I referendum che direttamente impattavano sul mondo del lavoro sono quelli che hanno ricevuto i maggiori consensi con i 12.249.649 voti, in percentuale l’89.6% dei votanti (contro il jobs act) e i 12.220.430, pari all’ 89,04 % sul terzo quesito, quello riguardante le maggior tutele per chi lavora nelle piccole imprese. Questo perché nel mondo produttivo nazionale, questo tessuto è divenuto prevalente. Il problema forte è nel divario fra i si ottenuti ai 4 referendum e quello erroneamente presentato come quesito su immigrazione e cittadinanza.
In realtà il quesito, che mirava a dimezzare i tempi necessari per poter chiedere (non per ottenere come erroneamente, a volte anche in buona fede ha sintetizzato qualcuno), ha ottenuto oltre 3.200 mila voti in meno rispetto agli altri e questo apre ad una necessaria e urgente riflessione politica che si dirama verso diverse direzioni. I 3 milioni e 200 mila che hanno votato no ad una proposta minimale di estensione dei diritti a loro colleghe e colleghi di lavoro, a studentesse e studenti, vanno cercati in ambiti diversi, tanto in base alle appartenenze politiche, quanto alla disinformazione dilagante, quanto ai territori in cui tale dissenso si è manifestato. Con questo approccio non si intende certo fare proposte per affrontare un tema vasto e complesso, ma si propone semplicemente di analizzarlo in maniera laica e basata su dati certi, non su ipotesi. Togliamo, almeno in parte, le elettrici e gli elettori del M5S a cui il movimento aveva lasciato “libertà di coscienza” pronunciandosi compiutamente solo sui primi quattro si. Non si può dimenticare la composizione di questa forza politica che unisce ad una posizione altamente progressista su tematiche come il lavoro e l’opposizione al riarmo, crepe significative rispetto ai diritti, in particolare sul tema dell’immigrazione. Hanno governato con Salvini, una parte di loro considera ancora le Ong come “taxi del mare” ed è difficile far comprendere ad un elettorato poco politicizzato, anzi dall’origine orientato all’antipolitica, la differenza che passa fra i richiedenti asilo e chi vive e lavora magari da decenni in questo assurdo Paese. In alcuni, non tutti, i casi, i vertici – al contrario di altre forze politiche – sono più avanzati della base e questo è un problema di cui tenere conto. C’è poi una piccola area, forse ancora poco rilevante in termini numerici ma capace di proporre forti argomentazioni di contrarietà all’estensione dei diritti e che, per necessità di sintesi, proviamo a definire come i sostenitori italiani dell’approccio BSW di Sahra Wagenknecht. Si tratta di un’area di “sinistra nazionalista” secondo cui le forze comuniste (per loro neoliberiste) hanno da troppo tempo dimenticato il proletariato nazionale in nome di valori e di una società cosmopolita. Lavoratori (non è il caso che utilizzino spesso il termine al maschile), che, sentendosi abbandonati e vedendo i colleghi immigrati come concorrenti al ribasso nei salari, li percepiscono come “nemici”. Un approccio da sinistra conservatrice che però, in un contesto come quello italiano, più impoverito di quello tedesco, può trovare spazio e costituire cultura di se. Peccato che l’impoverimento del Paese non sia certo dovuto alla presenza, peraltro non competitiva di lavoratrici e lavoratori stranieri quanto all’assenza di una sana conflittualità per il miglioramento delle condizioni salariali, per un welfare da ricostruire, per servizi da estendere e non da considerare privilegi per chi, magari individualmente, li ha ottenuti.
Un’altra componente in cui ha prevalso la diffidenza vede insieme problemi di classe e generazionali. Ci si riferisce ad una marea di persone, sovente pensionate, con basso reddito e la cui informazione è basata sul livello infimo dei canali televisivi. Per questi il cambiamento sociale epocale dovuto all’immigrazione è da decenni – anche grazie a politiche di governo di diverso orientamento, complici o vigliacche – sinonimo di sconvolgimento, di paura, di insicurezza perché i volti che si incontrano sono considerati ancora sconosciuti e minacciosi. Tale paura, che secondo la narrazione tossica televisiva modello Rete 4 è generalizzante, nell’esperienza personale è rivolta principalmente contro quelle e quelli che vengono percepiti come poveri e, in quanto tali, concorrenti alla spartizione delle poche briciole lasciate da un welfare a pezzi. L’impressione, ancora da misurare con rilevazioni più accurate, è che laddove prevale un elettorato giovane e colto, spesso universitario, il divario delle opinioni sui diversi quesiti, si assottiglia molto. Resta, sia ben chiaro, ma c’è un segnale che contrasta invece con una ricerca basata su quanto accade nei territori. Nelle grandi città il si alla riforma della legge sulla cittadinanza ha avuto risultati migliori rispetto alle piccole province, significativo il divario fra un Nord più restio – pesa ancora l’influenza leghista – e un sud, in cui si è votato di meno ma dove la percentuale dei favorevoli al quinto referendum è stata maggiore. Non da ultimo, ad una prima analisi, si conferma anche un altro forte divario fra i risultati nei seggi ubicati nelle periferie e quelli in zone più borghesi.
Ad una lettura che si fermi alla fotografia del presente, i risultati sembrano confermare le tesi del BSW, che colgono la contraddizione fra un ceto medio progressista, più teso a difendere i “diritti civili” di chi non ha il problema di mettere insieme il pranzo con la cena, ed un proletariato / sottoproletariato, privo di strumenti di tutela e privo persino di quella consapevolezza di diritto alla rivolta verso le classi dominanti. E ci siamo infine arrivati, questi risultati si dimostrano questione politica da affrontare. O le soggettività politiche e sindacali si assumono la responsabilità di operare per una concreta ricomposizione di classe che passi attraverso lotte comuni, formazione, ricostruzione di una egemonia culturale in grado di ridare una spiegazione materiale e ideologica al presente o si è condannati a subire quella dell’avversario di classe.
Secondo alcune / i, questo referendum non andava fatto, secondo il parere di altre / i è stato impostato su valori di carattere liberale – come spesso capita sulle questioni inerenti diritti civili – non comunicandone la sua specificità all’interno di una complessità di classe. Chi scrive pensa che entrambe le reazioni siano inadeguate. Il referendum era necessario a seguito di totale inadempienza delle forze politiche presenti in parlamento che, o per opposizione ad ogni miglioramento di una legge razzista come la 91/1992 o per il timore di perdere consensi, non è mai stata seriamente messa in discussione. Solo una partecipazione popolare poteva riproporre meglio tale tema nell’agenda politica del Paese e questo in parte, certamente insufficiente, è avvenuto. Sulla seconda critica il ragionamento che va fatto è più articolato, spettava ai settori di classe organizzati e più avanzati, presentarlo nei luoghi critici come elemento di ricomposizione di classe ma spettava anche al ceto medio “illuminato” valorizzare il fatto che questo non era un “referendum sull’immigrazione” ma un primo tentativo per fare i conti con un Paese che è cambiato nel profondo nella propria composizione sociale.
Ora diventa necessario non disperdere quel consenso che comunque si è accumulato per farlo crescere, magari con un percorso più visibile, per ottenere non piccoli miglioramenti legislativi o accettare le proposte al ribasso come lo “ius scholae” già rilanciato da Forza Italia, ma modifiche molto più sostanziali. Bisogna puntare in alto partendo da alcuni elementi, questi si profondamente di classe. In Italia le questioni sociali sono divenute divisive quando scientemente si è scelto di separarle. Si pensi alle cd politiche inclusive per i rom, per i rifugiati, per i senza fissa dimora, per le persone con disagio psichico. Va invece reimposto di affrontare i problemi che attanagliano la vita di chi ha meno diritti o meno opportunità, riportandoli ad un carattere di universalismo. Serve edilizia popolare? Il solo modo per evitare che un quartiere di una periferia si mobiliti in maniera aggressiva perché legittimamente è stato dato un alloggio pubblico ad una famiglia “straniera” è quello di aumentare il numero di alloggi per edilizia pubblica, facendo conoscere bene i criteri di graduatoria. Lo stesso ragionamento va fatto per i presidi sanitari, per i posti negli asili nido, per tutti quei bisogni primari in cui la concorrenza fra ultimi e penultimi è determinata in realtà dal fatto che entrambi non sono garantiti dai poteri dominanti. Questo tipo di intervento che è sociale, economico, ma persino pedagogico, non va lasciato all’improvvisazione ma deve vedere come protagonisti tanto lo Stato, le regioni, i Comuni e gli enti pubblici di prossimità, quanto i corpi intermedi di cui questo Paese ha estremo bisogno, partiti, sindacati, mondo associativo eccetera. E riguardando un cambiamento sociale in atto da decenni ed irrefrenabile, deve vedere come protagoniste/i anche quelle forze vive, nate e/o cresciute in Italia che potrebbero svolgere un ruolo propulsivo.
Si tratta di coesione sociale che deve poter comprendere quante più persone possibili e attraverso cui va declinato, da “sinistra” il termine sicurezza, alibi attraverso cui da decenni si consumano le peggiori nefandezze.
Dovremmo insomma produrre un programma più ambizioso per il futuro, capace di modificare radicalmente le gerarchie dell’agenda politica e di quella, conseguente, dei media mainstream. Fino a quando si continuerà unicamente a difendersi con termini compassionevoli, che si richiamano ad un’etica che risulta inutile nella giungla della competizione individuale, saremo – molto probabilmente e quando va bene – in grado di ottenere soltanto la riduzione del danno. Invece dobbiamo volere “il pane e le rose” ad esempio costruendo quelle relazioni per cui la parola “cittadinanza”, da concessione individuale per alcune/i, riassuma il suo significato originale di appartenenza ad una comunità aperta e capace di guardare in avanti. Occorre un lavoro lungo, di tutte e di tutti, in cui il passaggio referendario va visto, con le sue contraddizioni, come un primo risultato da non rinnegare.
P.S. i referendum hanno risentito sicuramente anche, come già detto, di una scarsa quando non distorta informazione. A chi scrive è capitato, almeno un paio di volte, di partecipare in orari improbabili, a tribune referendarie televisive. Nel backstage, prima della diretta, gli esponenti della maggioranza dialogavano mostrando di comprendere quanto la presenza soprattutto di giovani immigrate/i non fosse stata mai seriamente affrontata, parlavano di urgenza di dialogo. Ma non appena le telecamere si accendevano, gli stessi si scatenavano affermando che i promotori volevano regalare la cittadinanza a clandestini, delinquenti, stupratori e, chi più ne ha più ne metta, seguendo un trito copione di esaltazione del braccio forte e autorevole dell’attuale compagine governativa. Un triste show che va in onda ogni giorno a reti pressoché unificate e in cui il contraddittorio è spesso debole se non timido. Anche questo è un intervento da perseguire perché sul pensiero televisivo si formano ancora le opinioni delle persone. Ed anche questo è un terreno di scontro di classe.
*Transform Italia
Pensare in grande
Stefano Galieni* Si parta dal fatto che il bicchiere referendario va visto come “mezzo pieno”. Che nell’afoso silenzio elettorale, nella melRifondazione Comunista
Rifondazione: Israele ferma i pacifisti con un atto di pirateria
I governanti di Tel Aviv lo avevano detto "bloccheremo la nave dei selfie" insultando così la piccola imbarcazione Madleen, della Freedom Flottilla che, con 12Rifondazione Comunista
Una alleanza internazionale per i diritti del popolo palestinese
Anna Camposampiero* Giovanna Capelli** Il 4 giugno 2025 in una giornata intensa e partecipata si è svolta a Parigi nella sede nazionale del PartitoRifondazione Comunista
Giuseppe Carroccia*
Bianca aveva nella sua casa in via Urbana una intera stanza di oltre dieci metri quadrati occupata da una biblioteca di un migliaio di volumi, ben ordinati per argomenti.
Politica, Storia, Filosofia e tanta Letteratura. Dopo la sua morte una parte di questo patrimonio, è stato donato al suo Partito, Rifondazione Comunista e custodito per circa 10 anni al circolo Tufello Valmelaina, all’interno della Biblioteca popolare Antonio Gramsci.
Si tratta di testi che riguardano prevalentemente i fascismi, l’antifascismo e la lotta di liberazione in Italia e nel mondo, il comunismo e la sua storia, in particolare del Pci. E quindi con un interesse forte per la politica internazionale come era normale per chi aveva ricevuto una formazione leninista.
Molti di questi libri sono ormai introvabili persino nelle biblioteche nazionali di Roma e Firenze e non si trovano nemmeno nelle vendite on line, come lamentano studenti, storici, studiosi.
Per questo da tempo si sta pensando di mettere in rete i cataloghi delle librerie dei nostri circoli e rendere fruibile questo valoroso patrimonio culturale.
Il circolo di Valmelaina ha dovuto cambiare sede e non potendo più ospitare la libreria, l’ha consegnata al Circolo Cinecittà Quadraro di Roma che l’ha inserita nella Biblioteca Franco Iachini e ha organizzato il 7 giugno una inaugurazione. Si è voluto così cogliere l’occasione per una riflessione sull’azione politica di Bianca. Quando verrà effettuata con criteri scientifici la catalogazione si è convenuto che il gruppo antifascismo organizzerà un seminario nazionale per ragionare, partendo dai suoi libri, del pensiero di Bianca.
Intanto un primo momento di riflessione lo abbiamo voluto fare subito
Giovanni Ammendola, che insieme a Bianca e a Tina Costa è stato l’animatore del Gruppo memoria e antifascismo della Federazione Romana ha illustrato il modo di operare; non solo seminari, corsi di formazione, ricerche e produzione di opuscoli, ma anche pannelli e mostre da esporre durante le Feste o le iniziative politiche.
Alba Vastano che ha voluto testimoniare l’importanza anche personale del suo incontro con Bianca ha citato le centinaia di attività promosse dalla Biblioteca popolare: presentazioni di libri, convegni, attività culturali di livello con relatori autorevoli, anche se non si è riusciti a determinare un coinvolgimento popolare significativo.
Michela Becchis dello stesso circolo e vicina di casa, quindi frequentatrice della biblioteca ha raccontato le tante discussioni non solo politiche. La capacità di Bianca di entusiasmare soprattutto i giovani e i giovanissimi. In Bianca cultura e politica viaggiavano insieme e questo si manifestava soprattutto nella la passione per la narrativa.
Fabrizio De Sanctis, della Segreteria nazionale, dell’Anpi ha ricordato il ruolo di Bianca come dirigente Anpi di Roma, l’intransigenza delle sue battaglie in particolare quella contro la Guerra in Afganistan. Frutto di una consapevolezza che nasceva dalla definizione maturata nello studio del Corso sugli avversari di Togliatti, cioè sul fascismo come movimento reazionario di massa organizzato dalla fazione più conservatrice del capitale finanziario che produce a alimenta la guerra. I Fascismi si riproducono fino a che non ci saremo liberati del modo di produzione capitalistico.
Rita Scapinelli della Segreteria nazionale e responsabile antifascismo ha concluso ribadendo il nostro impegno a continuare sulla strada tracciata contrastando le scelte reazionarie di questo governo a partire dalle riforme istituzionali e dal recente decreto 1660, Paura. Occorre riuscire a rendere più consapevole la popolazione dei rischi che sta correndo la democrazia. Il successo della pubblicazione del libro sulla Dodicesima disposizione con decine di presentazioni in tutta Italia ci dicono che è possibile.
Una bottiglia di spumante rosso stappatasi da sola sul tavolo degli oratori ci ha ricordato a tutti l’urgenza degli impegni della giornata: ultime ore per i referendum e la manifestazione contro il genocidio a Gaza.
Forse ce lo zampino di Bianca. Bisogna studiare, informarsi ma quando è il momento di agire non si deve perdere tempo e si fa quello che va fatto non quello che ci piace.
A tutti è però piaciuto il ritratto che le ha fatto Stefano Salvi immaginando Bianca da ragazzina che legge l’Ordine Due Due Sette: ”Non un passo indietro” con lo stesso sguardo entusiasta col quale leggeva i libri di Salgari, le avventure dei tigrotti di Mompracen e di Sandokan.
*Segretario del Circolo L. Longo, Cinecittà / Quadraro
INAUGURATA AL CIRCOLO LONGO LA LIBRERIA DI BIANCA BRACCI TORSI
Giuseppe Carroccia* Bianca aveva nella sua casa in via Urbana una intera stanza di oltre dieci metri quadrati occupata da una biblioteca di un migliaio di voRifondazione Comunista
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Questa è Gaza Intervista al segretario di Rifondazione comunista: «L’appiattimento su posizioni filoisraeliane è stato un tradimento della cultura della sinistra italiana». Il Manifesto, 6 giugno 2025
di Michele Gambirasi
Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, anche voi domani sarete in piazza, dopo aver constatato che la piattaforma sarà quella della mozione presentata in parlamento.
Noi manifestiamo da ottobre 2023, e abbiamo criticato a lungo la latitanza del centrosinistra e del Pd. Proprio per questo abbiamo accolto positivamente la mozione e la mobilitazione, e credo sia un risultato anche della resistenza controcorrente che è stata fatta in questi anni. Ora spero che non sia una fiammata isolata ma una ricollocazione di tutte le forze democratiche su posizioni di solidarietà con il popolo palestinese.
Cosa è cambiato negli anni nel rapporto tra il centrosinistra e la causa palestinese?
Con Ali Rashid abbiamo discusso molte volte della mutazione della sinistra italiana, passata dalla solidarietà con i palestinesi a una posizione filoisraeliana che ha caratterizzato il Pd dalla sua fondazione fino a poco fa. Posizioni che hanno negato la tradizione della cultura della sinistra italiana e delle forze democratiche: non solo il Pci, ma anche il Psi, la Dc, Aldo Moro, persino Giulio Andreotti e l’Italia in generale avevano sempre tenuto una posizione di mediazione e di riconoscimento dei diritti del popolo palestinese. Le critiche alla manifestazione, venute anche dagli studenti palestinesi, sono frutto da un lato del suo essere tardiva, dall’altro dal timore che la presa di distanza da Netanyahu non rappresenti una critica alle scelte di Israele sull’occupazione, che molto spesso sono bipartisan. E la maggior parte dei morti sono stati fatti con armi dell’Ue e degli Usa di Biden. Ora mi auguro che ci sia una svolta dopo anni di ingloriosa complicità, quando destra e sinistra hanno ritenuto normale essere alleati di Israele persino sul piano militare. Ora Israele va isolato, come a suo tempo il Sudafrica dell’apartheid.
Si sono sentite molte accuse di antisemitismo a chi ha manifestato in questi 20 mesi. Ora cosa è cambiato?
Sicuramente all’inizio c’è stato un allineamento politico e mediatico con i tratti di un nuovo totalitarismo. Si è aperta una dialettica diversa perché l’orrore ha raggiunto proporzioni tali che è impossibile tacerlo e perché abbiamo avuto un genocidio trasmesso in diretta che ha messo spalle al muro chi cercava di tacerlo. Anche le polemiche sul termine genocidio, che pure non è stato usato per la piazza di domani, mi sembrano assurde: è una parola che venne utilizzata per le guerre jugoslave e non ci furono polemiche. E anche Berlinguer, che penso nessuno possa accusare di antisemitismo, nell’82 parlando del massacro di Sabra e Shatila si riferì a una «furia omicida che ricorda gli eccidi nazisti».
Acerbo: «Non sia una fiammata dopo anni di complicità»
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LA CONVERGENZA NECESSARIA ALL’ALTEZZA DI QUESTI TEMPI TRAGICI STA TUTTA NELLE NOSTRE MANI
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