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L’Himalaya cosmico dei quasar da record



Schierati come gli undici giocatori di una squadra di calcio. A presiedere il confine tra due ammassi di galassie. Stanno facendo parlare di sé per due ragioni: non ci si aspettava di trovarne così numerosi, in un’area larga “solo” quaranta milioni di anni luce, e poi perché non ci si aspettava di trovarli lì, al bordo fra due strutture di galassie in evoluzione. Sono gli undici quasar scoperti da un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Yongming Liang dell’Università di Tokyo e del National Astronomical Observatory of Japan. La scoperta più che raddoppia il record precedente, che era di cinque quasar in una stessa struttura, ed è stata pubblicata su The Astrophysical Journal questa settimana.


L’Himalaya cosmico (colonna arancione) spicca in questo istogramma che confronta il numero di quasar rivelati nella sovradensità con quello degli oggetti in altre regioni (punti neri). Crediti: Sdss, Liang et al.

La sorprendente formazione di quasar è stata scoperta grazie ai dati della Sloan Digital Sky Survey (Sdss), una delle più grandi campagne osservative mai realizzate, che ha mappato circa un terzo del cielo notturno. Sovradensità – o overdensity, in inglese – viene detta un’associazione di oggetti che non sono distribuiti a caso nel cielo ma fanno parte di una stessa struttura, più densamente popolata di quanto accada in media nell’universo circostante. Questa sovradensità svetta in modo particolare, rispetto alle altre regioni del cielo, come si vede nel grafico qui accanto. Per questo i ricercatori l’hanno ribattezzata col roboante nome di Himalaya cosmico (“Cosmic Himalayas”, in inglese). O per lo meno, questo è uno dei motivi.

Il secondo motivo lo hanno fornito agli astronomi i dati dell’Hyper Suprime-Cam, camera montata sul telescopio da 8.2 metri Subaru, situato alle Hawaii. Curiosi di approfondirne la natura, i ricercatori hanno scandagliato un’area di cielo che si estende per centocinquanta milioni di anni luce attorno a questi quasar. Scoprendo centinaia di giovani, flebili galassie, aggregate in due ammassi in piena crescita. Il fatto anomalo è che la sovradensità dei quasar non coincide spazialmente con nessuno dei due ammassi di galassie. Bensì, gli undici oggetti sono situati al confine fra queste due gigantesche strutture in evoluzione, un po’ come una catena di montagne, elemento di separazione tra regioni distinte. Da qui la seconda ragione per l’epico nome di Himalaya cosmico.


L’Himalaya cosmico in un’immagine del telescopio Subaru (immagine di sfondo). Gli undici quasar sono visibili nei quadrati. La regione rossa e quelle blu indicano rispettivamente la sovradensità dei quasar e le due sovradensità di galassie. Crediti: Subaru Telescope, Sdss, Liang et al.

Hanno partecipato alla scoperta Sebastiano Cantalupo e Andrea Travascio dell’Università di Milano Bicocca. «Questa regione di universo corrisponde alla più grande concentrazione di quasar osservati dalla survey Sdss, sorprendentemente, però le nostre osservazioni con il telescopio Subaru non hanno mostrato in questa regione una corrispondente concentrazione di galassie che emettono nell’ottico. Anzi, le osservazioni attuali sembrano suggerire che i quasar si trovino al bordo di due concentrazioni di galassie. Non esattamente il posto dove ci saremmo aspettati di trovarli», dice Cantalupo a Media Inaf. E aggiunge: «Non abbiamo ancora una chiara spiegazione per questo. Una possibilità è che nella regione dei quasar ci siano delle galassie oscurate da polveri o più difficili da individuare nell’ottico. Stiamo conducendo osservazioni addizionali a diverse lunghezze d’onda per cercare di fare luce su questa questione.»

I quasar sono fra gli inquilini più vivaci dell’universo. Alimentati da copiose quantità di gas in caduta su di un buco nero supermassiccio, producono talmente tanta luce da eclissare le galassie che li ospitano. Sono degli animali da palcoscenico, insomma. Si ritiene che le interazioni fra galassie favoriscano l’approvvigionamento di materiale da parte dei buchi neri situati nelle loro regioni nucleari. In quelle grandi concentrazioni di oggetti che sono gli ammassi di galassie, le interazioni sono più frequenti e dunque ci si aspetta che i buchi neri supermassicci si accendano come quasar più facilmente che altrove. Ecco perché la posizione dell’Himalaya cosmico ha lasciato i ricercatori sbalorditi. Alla luce delle teorie attuali, gli scienziati si sarebbero aspettati di trovarlo piazzato al centro di uno dei due ammassi, piuttosto che in questa regione di confine. Questa scoperta costringe gli scienziati a riconsiderare gli ambienti in cui i buchi neri supermassicci si evolvono.


In questa immagine le “X” in giallo indicano la posizione degli undici quasar, al confine tra i due ammassi di galassie. La scala di colore rappresenta la densità di idrogeno, più alta nelle regioni rosse (gas neutro) e più bassa in quelle blu (gas ionizzato). I contorni neri indicano la densità di galassie, mentre le aree grigie sono state mascherate a causa della scarsa copertura o per la presenza di stelle nelle vicinanze. L’immagine in basso mostra invece la catena montuosa dell’Himalaya, che ha ispirato il nome della struttura appena scoperta. Crediti: Subaru Telescope/Sdss, Liang et al.; Google, Image Landsat/Copernicus

«Abbiamo scoperto che questi quasar si raccolgono ai margini di una zona in cui le condizioni cambiano», afferma Liang. «Questo potrebbe indicare che la loro potente radiazione sta attivamente rimodellando il gas circostante, mentre, allo stesso tempo, i quasar potrebbero tracciare regioni in cui strutture massicce come gli ammassi di galassie sono ancora in fase di assemblaggio. Ecco perché l’abbiamo chiamata Himalaya Cosmico: si staglia come una catena montuosa che separa strutture distinte nell’universo primordiale.»

I ricercatori hanno studiato anche la distribuzione dell’idrogeno nel mezzo intergalattico, ovvero il gas diffuso tra una galassia e l’altra. Scoprendo che la zona in cui risiedono i quasar coincide con la regione di transizione dall’idrogeno neutro a quello ionizzato. «Trovare una tale concentrazione di buchi neri attivi – e scoprire che la distribuzione delle galassie e dei gas circostanti si discosta dalla nostra immagine convenzionale dell’universo – è davvero sorprendente», afferma il professor Masami Ouchi, membro del team. «Potrebbe essere che abbiamo semplicemente trovato un posto unico e speciale nel cosmo. Ma potrebbe anche indicare qualcosa di più profondo: forse stiamo assistendo a un raro momento nella storia cosmica in cui molti buchi neri diventano attivi tutti insieme. Studi futuri saranno essenziali per svelare la vera natura di questa scoperta.»

Un ambiente in effervescente evoluzione, dunque, quello rivelato dall’Himalaya cosmico, in cui due grandi strutture stanno crescendo lungo un filamento, ovvero una struttura allungata su grande scala, e galassie, buchi neri supermassicci e gas intergalattico si stanno evolvendo in maniera simultanea.

L’Himalaya Cosmico lo si può ammirare a 10,8 miliardi di anni luce dalla Terra, guardando verso la costellazione della Balena. Per il futuro i ricercatori vogliono approfondirne la natura con il Prime Focus Spectrograph, spettrografo sempre del telescopio Subaru, che aiuterà a comprendere meglio come certe strutture si evolvano fino ad assumere la conformazione che osserviamo nell’universo di oggi.

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Così Bologna celebra l’Anno cassiniano




Logo ideato per le celebrazioni dell’Anno Cassiniano.

Nel 2025, in occasione del quarto centenario della nascita di Giovanni Domenico Cassini – avvenuta l’8 giugno 1625 a Perinaldo, in provincia di Imperia, in Liguria – la città di Bologna commemora l’astronomo più celebre della sua epoca. L’eco dei suoi studi superò i confini nazionali, tanto che Luigi XIV, il Re Sole, lo volle al suo fianco a partire dal 1669 per la fondazione dell’Observatoire de Paris, il primo osservatorio astronomico moderno.

Per celebrare questa figura storica, le principali istituzioni culturali e di ricerca italiane legate a Cassini – l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf, con le sedi di Bologna e Roma), l’Università di Bologna (Dipartimento di fisica e astronomia, Difa) e l’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna – in collaborazione con le istituzioni locali, in particolare il Comune di Perinaldo, hanno promosso presso il Ministero della cultura l’istituzione del Comitato nazionale per le celebrazioni del IV centenario della nascita di G.D. Cassini.

Domenica 8 giugno, alle ore 17, presso l’Oratorio di San Filippo Neri (Via Manzoni 5, Bologna), si terrà la conferenza pubblica “Cassini, da 400 anni… un astronomo pop”. Nel giorno esatto della nascita di Giovanni Domenico Cassini, due noti astronomi e divulgatori scientifici, Patrizia Caraveo e Amedeo Balbi, racconteranno le principali scoperte dell’astronomo ligure e ne ripercorreranno l’eredità scientifica, con particolare attenzione all’esplorazione del Sistema solare e alle moderne missioni spaziali. L’ingresso è libero.


Domenica 8 giugno, alle ore 17, presso l’Oratorio di San Filippo Neri (Via Manzoni 5, Bologna), si terrà la conferenza pubblica “Cassini, da 400 anni… un astronomo pop”. Patrizia Caraveo e Amedeo Balbi racconteranno le principali scoperte dell’astronomo ligure e ne ripercorreranno l’eredità scientifica, con particolare attenzione all’esplorazione del Sistema solare e alle moderne missioni spaziali. L’ingresso è libero

Dal 18 al 20 giugno 2025, presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle scienze (Via Zamboni 31, Bologna), si svolgerà il congresso storico-scientifico “Giovanni Domenico Cassini, astronomo europeo del Seicento nel quarto centenario della nascita”. L’incontro sarà un’occasione di confronto e approfondimento tra studiosi, dedicato a un periodo storico segnato da una rapida accelerazione del progresso scientifico e astronomico. L’emergere di nuove idee, strumenti innovativi, nuovi metodi e l’apertura allo scambio di informazioni e alla collaborazione tra gli scienziati, anche oltre i confini nazionali, favorì la conquista di importanti scoperte sul Sistema solare – l’universo conosciuto all’epoca – in tempi sorprendentemente rapidi. Il congresso intende restituire la complessità e il fermento culturale di quel contesto, in cui Cassini fu protagonista di primo piano.

A corollario del Congresso, sarà proposto un programma di eventi rivolti a studenti e cittadinanza, che culminerà sabato 21 giugno, giorno del solstizio d’estate, con una giornata dedicata all’osservazione del Sole nel cuore di Bologna. Esattamente 370 anni dopo la storica osservazione del transito solare condotta da Giovanni Domenico Cassini presso la meridiana di San Petronio – alla quale invitò “li professori di Matematica e Filosofia e gli altri curiosi” – la città ne rievoca lo spirito con un’iniziativa pubblica. Dalle 10:30 alle 14:30, in Piazza Nettuno, il pubblico potrà osservare il Sole attraverso telescopi solari, affiancato da astronomi di Inaf e Difa ed esperti dell’Associazione astrofili Bolognesi (Aab), che guideranno le osservazioni e illustreranno le caratteristiche della nostra stella. L’evento è a ingresso libero. In caso di pioggia o maltempo, l’iniziativa sarà annullata.


Particolare della meridiana di Cassini, a Bologna. Crediti: F. Bonoli

Sempre in occasione del solstizio d’estate, sabato 21 giugno 2025, dalle 12:30 alle 13:30, sarà possibile assistere all’osservazione del passaggio del Sole sulla linea meridiana di San Petronio, la più lunga del mondo, costruita proprio da Giovanni Domenico Cassini, trasmessa in diretta sul canale YouTube MediaInaf Tv. La stessa osservazione sarà effettuata anche presso la meridiana della Visitazione di Perinaldo, città natale dell’astronomo. Il confronto tra i due eventi, reso possibile dalla misurazione dell’intervallo di tempo tra i passaggi del Sole sulle due meridiane, offrirà al pubblico una dimostrazione diretta della differenza di longitudine tra Bologna e Perinaldo. Durante l’iniziativa, astronomi ed esperti illustreranno al pubblico il funzionamento e il valore scientifico della meridiana. L’ingresso libero.

Nel pomeriggio di sabato 21 giugno, dalle 15:00 alle 18:00, il programma proseguirà presso Sala Borsa con un ricco calendario di attività dedicate al pubblico. Sarà possibile assistere a uno spettacolare viaggio nel cielo all’interno del planetario gonfiabile allestito per l’occasione: un’esperienza immersiva pensata per tutte le età (posti limitati a 35 persone per turno ogni 45 minuti). L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria. In parallelo, sempre in Sala Borsa, si terrà un laboratorio creativo per bambine e bambini, che potranno costruire un vero orologio solare da portare a casa. Il laboratorio prevede tre turni da 20 partecipanti ciascuno, con prenotazione obbligatoria.


Illustrazione rappresentativa del planetario in sala borsa. Crediti: Notte dei Ricercatori/Society

Anche oltre i confini cittadini, a Loiano, sede della Stazione osservativa dell’Inaf Oas, il cui telescopio maggiore è dedicato a “G.D. Cassini”, è previsto un ricco calendario di appuntamenti dedicati al pubblico nei mesi di giugno e luglio. Maggiori informazioni e prenotazioni nel sito web dedicato.

Tutte le iniziative previste per l’Anno cassiniano 2025 a Bologna sono promosse dal Comitato nazionale per le celebrazioni del IV centenario della nascita di G.D. Cassini. Il progetto è reso possibile grazie al contributo del Ministero della cultura, dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Università di Bologna, e gode del patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Bologna, del Comune di Loiano, dell’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna e della Basilica di San Petronio.

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Premi Sait 2025, ecco i vincitori




Il 66esimo congresso della Sait si è svolto in questi giorni a Palazzo Affari a Firenze. Crediti: C.Badia/Inaf

Il congresso nazionale della Società astronomica italiana (Sait) si è concluso oggi con la premiazione delle migliori tesi di dottorato e dei lavori di ricerca che si sono distinti per la qualità scientifica e il loro impatto nel campo dell’astrofisica.

Durante la 66esima edizione del convegno, che si è svolta dal 3 al 6 giugno 2025 a Firenze, sono stati consegnati il premio “Pietro Tacchini”, alla miglior tesi di dottorato in astronomia e astrofisica, e il premio “Giuseppe Lorenzoni” per il miglior articolo di carattere scientifico pubblicato nell’ultimo triennio da giovani ricercatori e ricercatrici.

A vincere il premio di duemila euro intitolato a Pietro Tacchini, astronomo che negli anni dell’Unità d’Italia fondò assieme a Padre Angelo Secchi la Sait – al tempo chiamata Società degli spettroscopisti italiani – è stato Massimiliano Parente, ricercatore presso la Sissa di Trieste. Il suo lavoro per la tesi di dottorato Dust in hydrodynamical and semi-analytic galaxy evolution simulation spiega come la polvere interstellare influisce sulla formazione e sull’evoluzione delle galassie, un aspetto fondamentale per la comprensione della fisica galattica. La commissione del premio ha apprezzato non solo la solidità metodologica della ricerca, ma anche l’originale idea di incorporare modelli di polvere nelle simulazioni idrodinamiche consentendo di ottenere nuove intuizioni sulla dinamica delle galassie.

Menzione speciale per Federico Esposito dell’Università di Bologna: la sua tesi di dottorato dal titolo Impact of active galactic nuclei on the molecular gas: a radiative and kinematic perspective fornisce un’importante contributo nell’elaborazione di modelli teorici sull’emissione di righe da parte degli nuclei galattici attivi (Agn), con particolare attenzione alle interazioni tra i campi gravitazionali e i gas molecolari nei nuclei galattici.

È di Andrea Botteon, ricercatore all’Osservatorio di Leiden nei Paesi Bassi e all’Istituto di radioastronomia Inaf a Bologna, il miglior articolo scientifico di carattere astrofisico pubblicato nell’ultimo triennio. La pubblicazione è stata insignita del premio dedicato alla figura di Giuseppe Lorenzoni, quarto direttore della Specola di Padova e primo astronomo padovano a compiere ricerche astrofisiche. ll lavoro dal titolo “Magnetic fields and relativistic electrons fill entire galaxy cluster”, è stato pubblicato su Science Advances nel 2022 e ha riguardato l’analisi dei campi magnetici e delle particelle relativistiche all’interno degli ammassi di galassie, con particolare focus sull’ammasso di galassie Abell 2255. Botteon ha fornito, per la prima volta, prove dell’emissione di sincrotrone su enormi distanze, oltre 16 milioni di anni luce (cinque megaparsec). Grazie alle osservazioni a bassa frequenza, il lavoro confermerebbe che i fenomeni di shock e turbolenza nelle zone esterne degli ammassi trasferiscono energia alle particelle relativistiche – particelle che si muovono a velocità vicine a quella della luce – alimentando la formazione di campi magnetici. I risultati potrebbero avere un forte impatto nel campo della fisica degli ammassi di galassie, offrendo nuove informazioni sulla materia non termica al loro interno, materia che non è semplicemente riscaldata ma che viene accelerata a velocità estreme.


Andrea Botteon (sx) e Massimiliano Parente (dx), vincitori rispettivamente del premio “Giuseppe Lorenzoni” e del premio “Pietro Tacchini” assegnati dalla Sait. Crediti: Inaf

In aggiunta, la commissione del premio “Giuseppe Lorenzoni” ha voluto segnalare il lavoro di Michele Fiori dell’Osservatorio astronomico di Padova per la sua ricerca “Modelling the gamma-ray pulsar wind nebulae population in our galaxy”. Pubblicato nel 2022 su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, lo studio di Fiori e di molti colleghi e colleghe dell’Inaf ha modellato la popolazione di plerioni – o pulsar wind nebula – nella nostra galassia, offrendo uno strumento utile per l’interpretazione dei dati gamma e delle alte energie provenienti dalle osservazioni future.

L’evento fiorentino – che ha visto la partecipazione di circa 120 tra soci, ricercatori, astronomi e docenti scolastici – ha rappresentato un’opportunità per fare il punto sullo stato della ricerca astronomica in Italia e per discutere delle sfide future. In particolare, sono stati presentati aggiornamenti su progetti di grande rilievo, come le missioni spaziali in corso e le nuove generazioni di telescopi, tra cui quelli in grado di osservare in nuove bande di frequenza come l’infrarosso e le alte energie.

«I congressi della Società astronomica italiana sono importanti per rafforzare la coesione della comunità scientifica e per sostenere, anche grazie a premi e riconoscimenti, giovani ricercatori e ricercatrici», ha sottolineato Patrizia Caraveo, nuova presidente della Sait. «La scienza non deve mai fermarsi, anche in un periodo di incertezze globali, e la ricerca astronomica deve continuare a fare importanti passi avanti grazie all’impegno di ricercatori e istituzioni. Per questo motivo, oltre a trattare argomenti della scienza di punta, durante queste giornate abbiamo voluto sottolineare l’importanza dell’insegnamento dell’astronomia nelle nostre scuole, senza dimenticare la valenza strategica della divulgazione scientifica».

Guarda su MediaInaf Tv l’intervista video alla nuova presidente della Sait, Patrizia Caraveo:

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Webb scruta il passato con la lente di Abell



Abell S1063, un gigantesco ammasso di galassie situato a 4,5 miliardi di anni luce della Terra è il protagonista della nuova immagine del mese del telescopio spaziale James Webb di Nasa, Esa e Csa. Ma ciò che colpisce di più non è il centro dell’ammasso, bensì ciò che si trova sullo sfondo: un intricato insieme di archi luminosi che avvolge il gruppo centrale di galassie. Queste strisce distorte di luce sono in realtà immagini di galassie lontanissime e molto deboli, la cui luce, proveniente dagli albori dell’Universo, è stata amplificata e deformata dall’enorme massa di Abell. Ed è proprio su queste galassie primordiali che si concentra l’attenzione degli astronomi.


Un campo di galassie nello spazio, dominato da un’enorme e luminosa galassia ellittica che costituisce il nucleo di un massiccio ammasso galattico. Attorno a essa si vedono molte altre galassie ellittiche. Nelle vicinanze si notano anche brevi linee curve luminose di colore rosso, che sono immagini di galassie di sfondo lontanissime, ingrandite e distorte dalla lente gravitazionale. Crediti: Esa/Webb, Nasa/Csa, H. Atek, M. Zamani (Esa/Webb)

Abell S1063, già osservato in passato dal programma Frontier Fields del Telescopio Spaziale Hubble della Nasa/Esa, è un classico esempio di lente gravitazionale, un fenomeno previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein. L’ammasso è così massiccio che la sua gravità curva lo spaziotempo e devia la luce proveniente dalle galassie lontane situate dietro di esso. Il risultato è proprio la formazione degli archi luminosi che possiamo osservare nell’immagine. Seppur distorte, queste immagini appaiono ingrandite e luminose a sufficienza da poter essere studiate. L’obiettivo di Hubble era proprio questo: utilizzare l’ammasso Abell come una lente d’ingrandimento per esplorare l’Universo primordiale.

La nuova immagine è stata scelta da Esa Webb come immagine del mese di maggio. Ottenuta con la NirCam di Webb, combina nove scatti acquisiti a diverse lunghezze d’onda nel vicino infrarosso, per un totale di circa 120 ore di osservazione. Il risultato è un deep field, una delle immagini più profonde mai realizzate da Webb su una singola porzione di cielo. Concentrare una tale potenza osservativa su una lente gravitazionale massiccia come quella di Abell offre la possibilità di osservare alcune delle primissime galassie formatesi nell’universo primordiale.

Il programma osservativo che ha prodotto questa immagine si chiama Glimpse (Gravitational Lensing In Multi-band Photometry Surveys and Extragalactic studies), già presentato in un articolo dello scorso marzo, e ha come obiettivo quello di studiare ed esplorare il periodo noto come “alba cosmica”, quando l’universo aveva solo pochi milioni di anni.



La quiete dopo la tensione di Hubble



L’universo è in espansione, ma la velocità con cui sta avvenendo è al centro di un acceso dibattito, noto come tensione di Hubble. Questo nome deriva dalla celebre costante di Hubble, che sembra assumere valori diversi a seconda che venga calcolata a partire dalle misurazioni sull’universo primordiale oppure da osservazioni dell’universo locale. Se confermata, questa discrepanza metterebbe in discussione il modello standard della cosmologia, attualmente la teoria più solida a nostra disposizione per descrivere l’universo. Tuttavia, un nuovo studio guidato da Wendy Freedman, scienziata dell’Università di Chicago, non ha riscontrato anomalie. Utilizzando i dati del telescopio spaziale James Webb (Jwst), il team non ha rilevato discrepanze significative nei valori ottenuti.


Gli scienziati hanno calcolato in modo più preciso la velocità di espansione dell’universo, utilizzando i dati raccolti dal potente telescopio spaziale James Webb su diverse galassie. Qui sopra, l’immagine di Webb di una di queste galassie, nota come Ngc 1365. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Janice Lee (NoirLab), Alyssa Pagan (StScI)

Esistono due principali approcci per calcolare la velocità di espansione dell’universo. Il primo si basa sull’osservazione del fondo cosmico a microonde, la radiazione fossile del Big Bang, che offre agli astronomi preziose informazioni sulle condizioni dell’universo primordiale. Il secondo approccio, nel quale Freedman è specializzata, consiste invece nel misurare la velocità di espansione dell’universo attuale, ovvero dell’universo locale. Paradossalmente, quest’ultimo metodo è molto più complesso, perché richiede misurazioni estremamente precise delle distanze cosmiche – un compito tutt’altro che semplice.

Negli ultimi cinquant’anni circa, gli scienziati hanno ideato diversi metodi per misurare le distanze cosmiche relativamente vicine. Uno dei più noti si basa sull’osservazione delle supernove di tipo Ia, una tipologia di supernove originata dall’esplosione di una nana bianca. Poiché il picco di luminosità di queste esplosioni è ben conosciuto, confrontarlo con la loro luminosità apparente consente di calcolarne la distanza.

Freedman ha sviluppato altri due metodi, sfruttando le proprietà di due tipi di stelle: le stelle all’apice del ramo delle giganti rosse (Trgb, dall’inglese tip of the red giant branch) – stelle di bassa massa in una fase evolutiva molto avanzata, poco prima dell’accensione dell’elio nel loro nucleo – e le stelle al carbonio (Jagb, dall’inglese J-band asymptotic giant branch), una sottoclasse delle stelle del ramo asintotico delle giganti, particolarmente luminose nella banda J dell’infrarosso.

Nello studio appena pubblicato su The Astrophysical Journal, gli autori presentano gli ultimi risultati del programma Chicago-Carnegie Hubble Project (Cchp), volto alla misurazione della costante di Hubble utilizzando i dati di Jwst. Il programma ha l’obiettivo di calibrare tre metodi indipendenti per la determinazione della costante: quello basato sulle stelle Trgb, quello sulle Jagb e quello che impiega le Cefeidi.

Lo studio si basa su un campione di 10 galassie vicine che ospitano in totale 11 supernove di tipo Ia, oltre alla galassia Ngc 4258, la cui distanza geometrica fornisce una calibrazione di riferimento fondamentale. Nell’articolo vengono discussi i risultati ottenuti tramite i due metodi basati sulle stelle Trgb e Jagb, che portano a una stima della costante di Hubble pari a 70,39 ± 1,22 (stat) ± 1,33 (sist) ± 0,70 (σₛₙ) km s⁻¹ Mpc⁻¹. Questo valore si basa esclusivamente sul metodo Trgb, utilizzando un totale di 24 supernove di tipo Ia come calibratori, derivate dai dati del Telescopio Spaziale Hubble (Hst) e del Jwst.

Considerando invece solo i nuovi dati ottenuti con Jwst, gli autori trovano un valore di 68,81 ± 1,79 (stat) ± 1,32 (sist) km s⁻¹ Mpc⁻¹ per il metodo Trgb e 67,80 ± 2,17 (stat) ± 1,64 (sist) km s⁻¹ Mpc⁻¹ per il metodo Jagb.

Le distanze misurate con i metodi Trgb e Jagb risultano in accordo tra loro a un livello superiore all’uno per cento, e mostrano una concordanza con le distanze derivate dalle Cefeidi del programma SHoES (Supernovae, H₀, for the Equation of State) a un livello di poco superiore all’uno per cento.


Wendy Freedman. Crediti: University of Chicago

I risultati ottenuti sono coerenti con il modello cosmologico standard ΛCdm (Lambda Cold Dark Matter), che descrive un universo composto principalmente da materia oscura fredda ed energia oscura, senza richiedere l’introduzione di nuova fisica. Tuttavia, per affinare ulteriormente la precisione e l’accuratezza della scala delle distanze locali, saranno necessari nuovi dati osservativi di Jwst.

Prossimamente, Freedman e il suo team utilizzeranno Jwst per effettuare misurazioni nell’Ammasso della Chioma, un gruppo di galassie che potrà fornire ulteriori dati da una prospettiva indipendente. «Queste misurazioni ci permetteranno di determinare direttamente la costante di Hubble, senza il passaggio dell’osservazione delle supernove», spiega Freedman.

In sintesi, l’ultima stima della costante di Hubble ottenuta da Freedman, che integra i dati di Hst e Jwst, fornisce un valore di circa 70,4 chilometri al secondo per megaparsec, con un’incertezza di circa il 3 per cento. Questo valore risulta statisticamente compatibile con le più recenti misurazioni del fondo cosmico a microonde, che indicano un valore di 67,4 chilometri al secondo per megaparsec, con un’incertezza inferiore all’uno per cento.

Con una (apparente) buona pace per la costante della discordia.

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S’apre l’occhio del Flyeye sul cielo di Matera




Galassia di Andromeda vista con Flyeye (cliccare per ingrandire). Flyeye è un telescopio di rilevamento progettato per scansionare rapidamente l’intero cielo notturno alla ricerca di nuovi oggetti vicini alla Terra. Questa immagine è stata acquisita utilizzando solo un sedicesimo dell’intero campo visivo di Flyeye. Per osservare l’intera galassia di Andromeda in questo modo con un telescopio astronomico come il telescopio spaziale Hubble sarebbe necessario mettere insieme molte centinaia di osservazioni individuali. Crediti: Esa

Ispirandosi all’occhio composto di un insetto, l’Agenzia spaziale europea (Esa) e Ohb Italia hanno progettato il telescopio Flyeye, in grado di catturare in una singola esposizione una regione del cielo grande oltre 200 volte la Luna piena – dunque molto più estesa di quanto riesca a osservare un telescopio convenzionale.

Flyeye utilizzerà questo ampio campo visivo per sorvegliare automaticamente il cielo ogni notte, senza necessità d’intervento umano, e identificare nuovi asteroidi che potrebbero rappresentare un pericolo per la Terra.

«In futuro, fino a quattro telescopi Flyeye distribuiti nei due emisferi lavoreranno in rete per migliorare ulteriormente la velocità e la completezza di queste rilevazioni automatiche del cielo e per ridurre la dipendenza dal bel tempo in ogni singolo sito», dice Ernesto Doelling, responsabile del progetto Flyeye dell’Esa.

«Prima riusciamo a individuare asteroidi potenzialmente pericolosi, più tempo abbiamo per analizzarli e, se necessario, preparare una risposta», sottolinea Richard Moissl, responsabile dell’Ufficio per la difesa planetaria dell’Esa. «I telescopi Flyeye dell’Esa rappresenteranno un sistema di allerta rapida, e le loro scoperte saranno condivise con la comunità globale della difesa planetaria».

Il Near-Earth Object Coordination Centre (Neocc) dell’Esa verificherà ogni potenziale nuovo asteroide rilevato dai telescopi Flyeye e sottoporrà i risultati al Minor Planet Center, l’hub terrestre per i dati osservativi sugli asteroidi. Gli astronomi, compresi gli esperti del Neocc, effettueranno quindi osservazioni di follow-up per valutare ulteriormente il pericolo che l’oggetto potrebbe rappresentare per il nostro pianeta.


Delegazione in visita al telescopio Flyeye presso la sua fabbrica di Matera, in Italia, il 4 giugno 2025, durante la campagna di test finale. Crediti: Esa

«L’esclusivo design ottico del telescopio Flyeye è ottimizzato per condurre ampie ricognizioni del cielo mantenendo un’elevata qualità dell’immagine su tutto il grande campo di vista», spiega Roberto Aceti, amministratore delegato di Ohb Italia. «Il telescopio è dotato di uno specchio primario di un metro capace di catturare efficacemente la luce in ingresso. Questa luce viene poi suddivisa in 16 canali separati, ciascuno dotato di una telecamera in grado di rilevare oggetti molto deboli. Ciò consente osservazioni simultanee ad alta sensibilità su un’ampia regione del cielo».

Durante le operazioni, il programma osservativo di Flyeye sarà ottimizzato per tenere conto di fattori quali la luminosità della Luna e l’attività di altri telescopi di rilevamento, come quelli del sistema Atlas, finanziato dalla Nasa, la Zwicky Transient Facility e il futuro osservatorio Vera Rubin.


Timelaspe con l’asteroide 2025 KQ ottenuto con il Flyeye durante la campagna di “prima luce”. Queste immagini sono state acquisite il 21 maggio, appena due giorni dopo la scoperta dell’asteroide. Dimostrano la capacità del telescopio Flyeye di condurre rapide osservazioni di follow-up di oggetti vicini alla Terra appena scoperti. Crediti: Esa

Queste immagini del cielo sopra Matera sono più di un semplice test: sono la prova che Flyeye è pronto per iniziare la sua missione. Il telescopio lascerà presto il Centro di geodesia spaziale dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) per essere trasportato a Monte Mufara, in Sicilia, dove si unirà all’impresa globale di sorveglianza dei cieli della Terra.

Fonte: press release Esa (in inglese)



Con Eris, anatomia d’un gigante della Lepre



Successore al Very Large Telescope (Vlt) degli strumenti Naco e Sinfoni, Eris non disattende le aspettative e non fa rimpiangere il passato. Dotato di uno spettrografo a campo integrale e di un modulo di ottica adattiva, lo strumento ha dato dimostrazione di poter migliorare le osservazioni in termini di contrasto, risoluzione e sensibilità. A dirlo è uno studio guidato dall’Eht di Zurigo, al quale ha partecipato anche l’Inaf, pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics. Gli autori hanno usato Eris (acronimo di Enhanced Resolution Imager and Spectrograph) per caratterizzare l’atmosfera e l’orbita di AF Lep b, un gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo F a 87,5 anni luce dal Sistema solare, nella costellazione della Lepre. L’obiettivo principale dell’osservazione era proprio quello di dimostrare le potenzialità scientifiche dello strumento e testare i suoi limiti di rilevamento.


Rappresentazione artistica dell’esopianeta AF Leporis b. Crediti: Nasa

Installato e operativo dal 2022 al telescopio Vlt dell’Osservatorio dell’Eso a Paranal, in Cile, Eris è uno fra gli strumenti più avanzati per caratterizzare le proprietà orbitali e atmosferiche di pianeti cosiddetti super-gioviani. La combinazione di immagini ad alto contrasto e spettroscopia garantite dallo strumento grazie al suo spettrografo a campo integrale Spiffier e al modulo di ottica adattiva – quest’ultimo completamente a firma italiana, progettato e realizzato nella sede di Firenze dell’Inaf da un team guidato da Simone Esposito e Armando Riccardi – consente infatti di separare la luce proveniente dal pianeta da quella della sua stella ospite, distinguendo le firme spettrali caratteristiche di entrambi i corpi. Lo strumento giusto, dunque, per analizzare in dettaglio la complessa atmosfera di AF Lep b.

Questo giovane pianeta ha una massa pari a 3,7 volte quella di Giove e percorrere in 24 anni un’orbita quasi circolare attorno alla sua stella, dalla quale dista circa 8.98 unità astronomiche (un’unità astronomica corrisponde alla distanza media tra il Sole e la Terra). Nella sua atmosfera gli astronomi hanno trovato le firme chimiche di acqua e monossido di carbonio, mentre sono risultati assenti metano e anidride carbonica: un quadro che rispecchia assai poco le previsioni teoriche. Data la temperatura della fotosfera della stella AF Lep, circa 800 gradi kelvin, in condizioni di equilibrio chimico il metano dovrebbe infatti essere la specie di carbonio dominante, mentre il monossido di carbonio dovrebbe essere meno abbondante. Gli autori ipotizzano dunque una condizione di disequilibrio chimico dovuto, scrivono, a un trasporto verticale di molecole dagli strati più bassi e caldi dell’atmosfera del pianeta. Ipotesi però tutta da verificare.

«Questo studio, guidato dall’Eht di Zurigo, oltre al risultato scientifico in sé, che ha migliorato la conoscenza degli elementi orbitali e della composizione dell’atmosfera del pianeta super-gioviano AF Lep b, ha dimostrato la capacità di Eris/Spiffier di produrre ricerca di punta in applicazioni spettroscopiche di alto contrasto ed elevata risoluzione spaziale al livello dei migliori strumenti in dotazione all’astronomia osservativa attuale», dice Armando Riccardi dell’Inaf di Arcetri, responsabile tecnico del modulo di ottiche adattive di Eris. «La qualità del sistema di ottica adattiva, sviluppata per Eris dall’Inaf di Arcetri, ha avuto un ruolo cruciale nel raggiungimento di questo risultato, permettendo di separare la luce del pianeta da quella della stella intorno a cui orbita attraverso la correzione in tempo reale dei disturbi introdotti dalla turbolenza della nostra atmosfera che degradano, se non corretti con elevata qualità, la risoluzione spaziale dell’oggetto osservato. Lo studio ha anche dimostrato che Eris ha la potenzialità di spingersi oltre a questo risultato ed eseguire osservazioni di pianeti con distanze angolari ancora più ridotte dalla sua stella aprendo a nuove ricerche e nuovi risultati».


Lo strumento Eris (Enhanced Resolution Imager and Spectrograph) al Very Large Telescope. Crediti: Ric Davies/Eso

«Il lavoro pubblicato su A&A», aggiunge Mauro Dolci, direttore dell’Inaf d’Abruzzo, dov’è stata realizzata l’unità di calibrazione di Eris, «è stato reso possibile dall’estrema precisione con cui è possibile eseguire osservazioni astronomiche, data dalle caratteristiche assolutamente innovative dello strumento. L’unità di calibrazione di Eris è servita fin da subito per l’integrazione dei moduli di cui è costituito lo strumento, e continua a fornire un riferimento fondamentale per dare un significato fisico quantitativo ai dati acquisiti al telescopio».

«Eris è uno strumento progettato per offrire un’ampia gamma di modalità osservative, e questo lavoro appena pubblicato dimostra anche come le osservazioni siano caratterizzate da una elevata precisione di misura. Per raggiungere la precisione richiesta, oltre a un sofisticato sistema di ottica adattiva, a due eccellenti canali scientifici infrarossi e a una avanzata unità di calibrazione, è richiesto un complesso software di controllo che orchestri tutte le procedure necessarie per l’esecuzione delle operazioni di osservazione e di calibrazione. Il software di controllo di Eris è stato realizzato da un team internazionale coordinato dal gruppo software dell’Inaf di Padova, che ha messo a frutto la competenza e la lunga esperienza del team nello sviluppo di software per strumentazione astronomica per i maggiori osservatori astronomici del mondo», conclude Andrea Baruffolo dell’Inaf di Padova. «Ed è anche grazie al successo di questo lavoro che è stato possibile effettuare studi come la caratterizzazione dell’orbita e dell’atmosfera di AF Lep b».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “High-contrast spectroscopy with the new VLT/ERIS instrument: Molecular maps and radial velocity of the gas giant AF Lep b”, di Jean Hayoz, Markus Johannes Bonse, Felix Dannert, Emily Omaya Garvin, Gabriele Cugno, Polychronis Patapis, Timothy D. Gebhard, William O. Balmer, Robert J. De Rosa, Alexander Agudo Berbel, Yixian Cao, Gilles Orban de Xivry, Tomas Stolker, Richard Davies, Olivier Absil, Hans Martin Schmid, Sascha Patrick Quanz, Guido Agapito, Andrea Baruffolo, Martin Black, Marco Bonaglia, Runa Briguglio, Luca Carbonaro, Giovanni Cresci, Yigit Dallilar, Matthias Deysenroth, Ivan Di Antonio, Amico Di Cianno, Gianluca Di Rico, David Doelman, Mauro Dolci, Frank Eisenhauer, Simone Esposito, Daniela Fantinel, Debora Ferruzzi, Helmut Feuchtgruber, Natascha Förster-Schreiber, Xiaofeng Gao, Reinhard Genzel, Stefan Gillessen, Adrian Glauser, Paolo Grani, Michael Hartl, David Henry, Heinrich Huber, Christoph Keller, Matthew Kenworthy, Kateryna Kravchenko, John Lightfoot, David Lunney, Dieter Lutz, Mike Macintosh, Filippo Manucci, Thomas Ott, David Pearson, Alfio Puglisi, Sebastian Rabien, Christian Rau, Armando Riccardi, Bernardo Salasnich, Taro Shimizu, Frans Snik, Eckhard Sturm, Linda Tacconi, William Taylor, Angelo Valentini, Christopher Waring, Erich Wiezorrek e Marco Xompero


Due minuti ogni 44: un enigma di lungo periodo




Gli scienziati hanno scoperto una stella con un comportamento mai visto prima: Askap J1832-0911, individuato nell’immagine dal cerchio bianco. Crediti: Raggi X: Nasa/Cxc/Icrar, Curtin Univ./Z. Wang et al.; Infrarossi: Nasa/Jpl/CalTech/Ipac; Radio: Sarao/MeerKAT; Elaborazione immagini: Nasa/Cxc/Sao/N. Wolk

Gli astronomi dell’International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar), in collaborazione con un team internazionale, hanno fatto una scoperta sorprendente: un oggetto situato nella nostra galassia, a circa 15mila anni luce dalla Terra – noto come Askap J1832-0911 – emette impulsi di onde radio e raggi X per due minuti ogni 44 minuti. Si tratta della prima rilevazione nei raggi X di un oggetto di questo tipo, classificato come transiente a lungo periodo (Lpt, dall’inglese long-period transient). Gli scienziati sperano che questa scoperta possa contribuire a far luce sull’origine di altri misteriosi segnali simili osservati nel cielo.

L’oggetto è stato osservato utilizzando il radiotelescopio Askap nella contea di Wajarri in Australia, dell’agenzia scientifica nazionale australiana Csiro. I ricercatori hanno correlato i segnali radio con gli impulsi di raggi X rilevati dall’Osservatorio a raggi X Chandra della Nasa, che per pura (e fortunata) coincidenza stava osservando la stessa parte del cielo.

«Scoprire che Askap J1832-0911 emetteva raggi X è stato come cercare un ago in un pagliaio», afferma il primo autore, Ziteng (Andy) Wang del nodo Icrar della Curtin University. «Il radiotelescopio Askap ha un campo visivo ampio del cielo notturno, mentre Chandra ne osserva solo una frazione. Quindi, è stata una fortuna che Chandra abbia osservato la stessa area del cielo notturno nello stesso momento».

Le sorgenti Lpt, che emettono impulsi radio a intervalli di minuti o addirittura ore, sono una scoperta relativamente recente. Dalla prima osservazione effettuata dai ricercatori dell’Icrar nel 2022, gli astronomi di tutto il mondo ne hanno individuate dieci. Al momento, non esiste ancora una spiegazione chiara per l’origine di questi segnali, né per il motivo dei loro lunghi, regolari e insoliti intervalli di accensione e spegnimento.


Curve di luce radio e X che mostrano come Askap J1832-0911 pulsi in entrambe le bande. Crediti: Ziteng Wang, Icrar

«Questo oggetto è diverso da qualsiasi cosa abbiamo visto prima», spiega Wang. «Askap J1831-0911 potrebbe essere una magnetar (il nucleo di una stella morta con potenti campi magnetici), oppure potrebbe essere una coppia di stelle in un sistema binario in cui una delle due è una nana bianca altamente magnetizzata (una stella di piccola massa alla fine della sua evoluzione)».

Tuttavia, anche queste teorie non riescono a spiegare pienamente ciò che stiamo osservando. Questa scoperta potrebbe aprire la strada a una nuova fisica o a modelli alternativi di evoluzione stellare. L’individuazione di questi oggetti sia nei raggi X che nelle onde radio potrebbe aiutare gli astronomi a identificarne altri e a comprendere meglio la loro natura. Poiché i raggi X possiedono un’energia molto più elevata rispetto alle onde radio, qualsiasi ipotesi dovrà tenere conto di entrambe le forme di emissione – un indizio cruciale, considerato che l’origine di questi segnali resta, per ora, un mistero.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Detection of X-ray emission from a bright long-period radio transient” di Ziteng Wang, Nanda Rea, Tong Bao, David L. Kaplan, Emil Lenc, Zorawar Wadiasingh, Jeremy Hare, Andrew Zic, Akash Anumarlapudi, Apurba Bera, Paz Beniamini, A. J. Cooper, Tracy E. Clarke, Adam T. Deller, J. R. Dawson, Marcin Glowacki, Natasha Hurley-Walker, S. J. McSweeney, Emil J. Polisensky, Wendy M. Peters, George Younes, Keith W. Bannister, Manisha Caleb, Kristen C. Dage, Clancy W. James, Mansi M. Kasliwal, Viraj Karambelkar, Marcus E. Lower, Kaya Mori, Stella Koch Ocker, Miguel Pérez-Torres, Hao Qiu, Kovi Rose, Ryan M. Shannon, Rhianna Taub, Fayin Wang, Yuanming Wang, Zhenyin Zhao, N. D. Ramesh Bhat, Dougal Dobie, Laura N. Driessen, Tara Murphy, Akhil Jaini, Xinping Deng, Joscha N. Jahns-Schindler, Y. W. Joshua Lee, Joshua Pritchard, John Tuthill e Nithyanandan Thyagarajan


Mini stella con maxi pianeta: una coppia al contrario




Immagine artistica del pianeta gigante appena scoperto – Toi-6894 b in orbita attorno a una stella ospite con massa pari ad appena il venti per cento di quella del Sole. Crediti: Università di Warwick/Mark Garlick

La stella Toi-6894 è simile a molte altre nella nostra galassia: una piccola nana rossa con una massa pari solo al 20 per cento di quella del Sole. E come molte stelle di piccole dimensioni, non si ritiene che possa offrire condizioni adeguate alla formazione di un pianeta di grandi dimensioni. Invece, è stato pubblicato ieri su Nature Astronomy un articolo in cui si afferma di aver trovato l’inconfondibile traccia di un pianeta gigante, Toi-6894b, in orbita attorno alla piccola stella. Traccia che appare nei dati del Transiting Exoplanet Survey Satellite, Tess, in un’indagine su larga scala che cercava proprio pianeti giganti attorno a stelle di bassa massa. Il caso in questione, però, è molto più estremo di quanto si aspettavano gli autori della scoperta e porta con sé alcuni primati, come vedremo in seguito.

«Sono stato molto entusiasta di questa scoperta. Inizialmente cercavo pianeti giganti tra le osservazioni Tess di oltre 91mila stelle nane rosse di bassa massa», dice Edward Bryant, ricercatore postdoc all’Università di Warwick, primo autore dello studio e alla guida del programma osservativo. «Poi, utilizzando le osservazioni effettuate con uno dei telescopi più grandi al mondo, il Vlt dell’Eso, ho scoperto Toi-6894b, un pianeta gigante in transito attorno alla stella di massa più bassa conosciuta fino ad oggi che ospita un pianeta di questo tipo. Non ci aspettavamo che pianeti come Toi-6894b potessero formarsi attorno a stelle di massa così bassa. Questa scoperta sarà fondamentale per comprendere gli estremi della formazione dei pianeti giganti».

E il primo record l’ha rivelato proprio Bryant: si tratta del pianeta gigante in transito attorno alla stella di più piccola massa conosciuta. Il pianeta è stato catalogato infatti come “gigante gassoso” (categoria alla quale appartengono anche Giove, Saturno e Urano nel Sistema solare, ad esempio), ha un raggio leggermente superiore a quello di Saturno, ma una densità molto inferiore dato che ha solamente il 50 per cento circa della massa di Saturno. La stella, dicevamo, è la stella con la massa più bassa che abbia mai ospitato un pianeta gigante in transito e ha una dimensione pari solo al 60 per cento della seconda in classifica.

E se da un lato gli scienziati ancora non hanno una teoria di formazione planetaria che riesca a spiegare in maniera soddisfacente la strana presenza del gigante attorno alla piccola nana rossa, dall’altro questa scoperta crea un precedente: dato che di stelle come Toi-6894 ce ne sono tante, nella nostra galassia, la stima del numero di pianeti giganti esistenti va probabilmente rivista a rialzo.

Tornando alle ipotesi, la teoria oggi più diffusa sulla formazione dei pianeti è chiamata teoria dell’accrescimento del nucleo (in inglese, core accretion theory). In sostanza, il nucleo planetario si formerebbe attraverso il graduale accumulo di materiale dal disco protoplanetario e, man mano che diventa più massiccio, comincia ad attrarre i gas che formano l’atmosfera. In questa fase, il pianeta in formazione potrebbe accumulare abbastanza massa da entrare in un processo di accrescimento di gas incontrollato e diventare, alla fine, un gigante gassoso. In questo processo, però, la formazione di giganti gassosi è più difficile intorno alle stelle di bassa massa perché la quantità di gas e polvere nel disco protoplanetario attorno alla stella (la materia prima della formazione dei pianeti) è troppo limitata per consentire la formazione di un nucleo sufficientemente massiccio e innescare l’accrescimento incontrollato. Va cercata quindi una teoria alternativa. Potrebbe essere l’accrescimento graduale di materiale e gas senza la fase di accrescimento incontrollato, oppure il disco protoplanetario di partenza potrebbe essere gravitazionalmente instabile. In questo caso, il disco potrebbe frammentarsi, e il gas e la polvere in esso contenuti collassare per formare un pianeta. Tutte ipotesi che, considerando i dati attualmente disponibili, ancora non spiegano completamente la formazione di Toi-6894b.

Un modo per far luce sulla questione sarebbe quindi condurre un’analisi dettagliata dell’atmosfera del pianeta. Misurando la distribuzione del materiale all’interno del pianeta, sarebbe possibile determinare le dimensioni e la struttura del suo nucleo e comprendere quale percorso di formazione fra quelli descritti sopra abbia seguito Toi-6894b. Non solo, l’analisi spettroscopica sarebbe interessante anche perché, secondo quanto misurato finora, l’atmosfera del pianeta sarebbe insolitamente fredda per un gigante gassoso. La maggior parte di quelli scoperti finora sono infatti gioviani caldi, giganti gassosi massicci con temperature comprese tra circa 1000 e 2000 kelvin. Toi-6894b, invece, ha una temperatura di soli 420 kelvin – vale a dire, 147 gradi Celsius.

«Sulla base dell’irraggiamento stellare di Toi-6894b, prevediamo che l’atmosfera sia dominata dalla chimica del metano, che è estremamente rara da identificare», spiega Amaury Triaud, professore dell’Università di Birmingham e coautore dello studio. «Le temperature sono sufficientemente basse da consentire alle osservazioni atmosferiche di rilevare anche l’ammoniaca, che sarebbe la prima volta che viene trovata nell’atmosfera di un esopianeta. Toi-6894b rappresenta probabilmente un esopianeta di riferimento per lo studio delle atmosfere dominate dal metano e il miglior “laboratorio” per studiare un’atmosfera planetaria contenente carbonio, azoto e ossigeno al di fuori del Sistema solare».

L’atmosfera di Toi-6894b è già stata programmata per essere osservata dal telescopio spaziale James Webb – chi, se non lui – nei prossimi dodici mesi. Speriamo di tornare con aggiornamenti interessanti da scrivere, quindi, il prossimo anno.

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Buchi neri come super collisori di particelle



Ai costruttori di mega acceleratori di particelle non piacerà l’articolo uscito ieri su Physical Review Letters a firma di Andrew Mummery e Joseph Silk, fisico teorico a Oxford il primo, cosmologo vincitore nel 2011 del premio Balzan il secondo, oggi professore emerito anch’egli a Oxford. Articolo nelle cui conclusioni possiamo leggere, senza troppi giri di parole, che i buchi neri nel cuore degli Agn potrebbero rappresentare un complemento astrofisico dai costi relativamente contenuti alla costruzione di un Fcc – acronimo per Future Circular Collider. Detto altrimenti: collisori di particelle in grado di sprigionare un’energia paragonabile ai 100 TeV promessi dal successore di Lhc – costo stimato attorno ai 40 miliardi, dice Sabine Hossenfelder – potrebbero già essere disponibile in natura.

L’analogia fra oggetti celesti e acceleratori di particelle non è certo nuova, anzi: è un’immagine che anche qui su Media Inaf abbiamo usato più volte per descrivere processi in grado di spingere raggi cosmici e neutrini a energie impensabili – ultimo in ordine di tempo il superneutrino intercettato dall’esperimento Km3Net al largo di Portopalo di Capo Passero. La novità che più balza agli occhi nell’articolo di Mummery e Silk è proprio l’esplicito riferimento ai costi, riferimento che soprattutto in quest’epoca di tagli feroci alla scienza come quelli auspicati dall’amministrazione Trump non passa certo inosservato.


Rappresentazione artistica di un buco nero supermassiccio – con una massa pari a miliardi di volte quella del Sole – come quelli che si trovano al centro delle galassie. La rapida rotazione del buco nero e i potenti campi magnetici che lo circondano possono produrre enormi getti di plasma nello spazio, un processo che potrebbe potenzialmente generare gli stessi risultati dei supercollisori costruiti qui sulla Terra. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

«Una delle grandi speranze riposte nei collisori di particelle come il Large Hadron Collider è che possano generare particelle di materia oscura, ma per ora non abbiamo ancora avuto alcuna prova di ciò. Ecco dunque che si sta valutando di costruirne una versione molto più potente», ricorda Silk, professore di astrofisica alla Johns Hopkins e all’Università di Oxford, «un supercollisore di nuova generazione. Ma non è escluso che la natura stessa – mentre stiamo investendo 30 miliardi di dollari, disposti ad attendere 40 anni per costruire questo supercollisore – possa fornirci attraverso i buchi neri supermassicci un assaggio del futuro».

In che modo è presto detto. I flussi di gas in caduta nei pressi di un buco nero potrebbero arrivare – se si tratta di un cosiddetto buco nero di Kerr, dunque se sta ruotando attorno al proprio asse – ad avere un’energia persino maggiore di quella pur notevole che già gli astrofisici stimano. Gli urti caotici fra particelle che ne conseguono fanno sì che un buco nero come quello descritto si comporti, appunto, da collisore di particelle naturale con energie del centro di massa comprese tra 10 e 100 teraelettronvolt. In altre parole, un supercollisore.

Poi però occorre intercettarle e misurarle, le nuove particelle eventualmente prodotte da queste collisioni. Negli acceleratori costruiti qui sulla Terra ci pensano i rivelatori: strumenti come Atlas e Cms, i due rivelatori di Lhc che hanno consentito di confermare l’esistenza del bosone di Higgs. Ma per le particelle che dovessero formarsi attorno ai buchi neri?

«Alcune delle particelle provenienti da queste collisioni finiscono giù nella gola del buco nero e spariscono per sempre. Ma la loro energia e la loro quantità di moto fanno sì che altre, invece, riescano a uscirne fuori, e sono proprio queste che escono ad essere accelerate a energie mai viste prima», spiega Silk. A rilevarle potrebbero dunque pensarci gli osservatori che già usiamo per le supernove, per le emissioni dai buchi neri massicci e altri eventi cosmici, continua Silk: osservatori come IceCube al Polo Sud o, appunto, Km3Net, il Cubic Kilometre Neutrino Telescope, in via di completamento nel Mediterraneo

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Con Jwst, all’origine di Wasp-121b



Wasp-121b, anche noto col nome di Tylos, è un gigante ultra-caldo situato a circa 858 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Poppa. L’esopianeta è in rotazione sincrona con la sua stella madre, Wasp-121: ciò significa che il periodo di rotazione su se stesso del pianeta è uguale al periodo di rivoluzione – il tempo necessario a completare un’orbita intorno alla stella, pari a circa 30 ore. La conseguenza di questo fenomeno è che Wasp-121 presenta due emisferi distinti: uno sempre rivolto verso la stella madre, con temperature superficiali superiori ai 3mila gradi Celsius, e uno perennemente in ombra, con temperature che possono scendere fino a 1500 gradi.


Illustrazione artistica che mostra Wasp-121b nella fase di accumulo della maggior parte del suo gas. Secondo i ricercatori, durante la sua formazione, il pianeta ha ripulito la sua orbita originale, molto distante dalla stella, dai ciottoli solidi. Questo vuoto ha impedito ad altri aggregati di raggiungere il pianeta. Successivamente, Wasp-121b è migrato dalle fredde regioni esterne verso il disco interno, dove ora orbita vicino alla sua stella. Crediti: T. Müller (Mpia/HdA)

Utilizzando il James Webb Space Telescope, un team di ricercatori guidati dal Max Planck Institute for Astronomy (Mpia, Germania) ha ora caratterizzato la composizione chimica dell’atmosfera di entrambe gli emisferi, ricavando nuove informazioni su dove e come il pianeta potrebbe essersi formato nel disco di gas e polveri che circondava la sua stella.

I risultati dello studio, pubblicati questa settimana su Nature Astronomy, si basano su osservazioni effettuate con lo spettrografo nel vicino infrarosso NirSpec del telescopio per l’intera orbita del pianeta. Poiché la radiazione termica emessa dal pianeta varia durante la sua rotazione, i ricercatori sono riusciti a osservare porzioni diverse della sua atmosfera. Inoltre, sono state effettuate osservazioni durante il transito del pianeta davanti alla stella, fase in cui parte della luce stellare attraversa l’atmosfera, lasciando firme spettrali rivelatrici della sua composizione chimica.

«I materiali gassosi sono più facili da identificare rispetto ai liquidi e ai solidi», dice Cyril Gapp, ricercatore al Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania, e co-autore dello studio. «Poiché molti composti chimici sono presenti in forma gassosa, gli astronomi usano Wasp-121b come laboratorio naturale per sondare le proprietà delle atmosfere planetarie».

Con circa 40 ore di osservazioni, il team ha generato oltre 300 curve di fase spettroscopiche – grafici che mostrano le variazioni di luminosità della stella durante e dopo il transito, in funzione della posizione del pianeta rispetto alla stella – e altrettanti spettri di emissione degli emisferi diurno e notturno, la cui analisi ha rivelato la presenza di molteplici molecole: acqua, monossido di carbonio e monossido di silicio nell’atmosfera dell’emisfero illuminato del pianeta, metano nell’atmosfera di quello in ombra. Ma cosa ci dice questa scoperta sull’origine di Wasp-121b?

«L’abbondanza relativa di carbonio, ossigeno e silicio offre spunti su come questo pianeta si è formato e ha acquisito la sua materia» spiega il primo autore dello studio, l’astronomo del Max Planck Institute for Astronomy Thomas Evans-Soma.

Secondo i ricercatori, il pianeta avrebbe accumulato la maggior parte di questi gas in una regione del disco sufficientemente fredda da mantenere l’acqua allo stato solido, ma abbastanza calda da permettere al metano di evaporare. In un disco protoplanetario – il disco di gas e polveri da cui originano i pianeti – queste condizioni si verificano a una distanza dalla stella tale per cui la radiazione genera temperature appropriate. Nel Sistema solare, questa regione si trova tra le orbite di Giove e Urano. Il fatto che Wasp-121b orbiti estremamente vicino alla sua stella suggerisce che, dopo la sua formazione, il pianeta si sia spostato dalle regioni esterne ghiacciate verso il centro del sistema planetario.


Illustrazione artistica che mostra l’orbita di Wasp121-b attorno alla sua stella madre. L’immagine evidenzia come il pianeta presenti porzioni variabili del suo lato diurno, illuminato e caldo. Osservando il pianeta per tutta la sua orbita, il team ha ricavato informazioni dalle variazioni nelle emissioni atmosferiche. La fase in cui il pianeta passa davanti alla stella ha inoltre permesso al team di analizzare come il sottile bordo dell’atmosfera planetaria modificasse la luce stellare che lo attraversava. In questo modo, hanno rilevato la presenza di diversi gas, utili per sondare l’origine del pianeta. Crediti: Patricia Klein

Wasp-121-b si potrebbe essere formato in una zona in cui i grani di metano sono evaporati, spiegano i ricercatori, arricchendo il pianeta di carbonio. Al contrario, i ciottoli contenenti acqua sono rimasti congelati, intrappolando l’ossigeno. Con l’evoluzione del sistema, Wasp-121b ha continuato ad accrescere monossido di carbonio anche dopo che il flusso di ciottoli ricchi di ossigeno si è interrotto, definendo così la composizione finale del suo involucro atmosferico. Quanto al monossido di silicio, secondo i ricercatori la molecola è stata incorporata attraverso l’acquisizione di materiale roccioso immagazzinato nei planetesimi, che il pianeta ha inglobato dopo aver formato gran parte del suo involucro gassoso.

Un discorso a parte merita la rilevazione di metano nell’atmosfera del lato notturno del pianeta, segno di dinamiche atmosferiche complesse, non previste dai modelli attuali.

In generale, al variare della temperatura atmosferica, cambia anche la presenza relativa delle molecole. Alle altissime temperature del lato diurno di Wasp-121b il metano è altamente instabile e non è presente in quantità rilevabili. Tuttavia, anche le quantità sul lato diurno dovrebbero essere tali, ciò a causa del mescolamento dei gas tra le due facce del pianeta. Come anticipato, però, gli astronomi hanno trovato abbondanti quantità di metano sulla faccia non illuminata del pianeta. Come spiegare questo risultato?

I ricercatori un’idea se la sono fatta: la sua presenza potrebbe essere dovuta al fatto che la molecola viene rapidamente rimpinguata. Un meccanismo plausibile per questo processo, propongono gli autori dello studio, potrebbe essere la presenza di forti correnti verticali che sollevano il metano dagli strati inferiori dell’atmosfera, dove la molecola si conserva grazie alle temperature relativamente basse.

Lo studio di Wasp-121b fornisce indizi sulla formazione dei pianeti giganti, la dinamica atmosferica e l’evoluzione planetaria. I risultati sembrano sfidare i modelli di dinamica atmosferica attuali, soprattutto per quanto riguarda la circolazione verticale.

«Il nostri risultati mettono in discussione i modelli dinamici degli esopianeti», conclude Evans-Soma. «Tali modelli dovranno probabilmente essere adattati per spiegare il forte mescolamento che abbiamo scoperto sul lato notturno di Wasp-121b»

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “SiO and a super-stellar C/O ratio in the atmosphere of the giant exoplanet WASP-121 b”, di Thomas M. Evans-Soma, David K. Sing, Joanna K. Barstow, Anjali A. A. Piette, Jake Taylor, Joshua D. Lothringer, Henrique Reggiani, Jayesh M. Goyal, Eva-Maria Ahrer, Nathan J. Mayne, Zafar Rustamkulov, Tiffany Kataria, Duncan A. Christie, Cyril Gapp, Jiayin Dong, Daniel Foreman-Mackey, Soichiro Hattori e Mark S. Marley


Minuta nana bruna con un disco tutto per sé




Rappresentazione artistica creata con l’AI di una nana bruna circondata da un disco protoplanetario. Crediti: Inaf/OpenAI’s Dall·E

Le nane brune sono oggetti affascinanti che rappresentano un ponte tra le stelle e i pianeti. Difficili da individuare e studiare a causa della loro bassa luminosità, celano ancora numerosi misteri irrisolti, come ad esempio il loro meccanismo principale di formazione: sono il prodotto di massa più bassa del processo di formazione stellare, oppure si formano come i pianeti? Anche le proprietà e l’evoluzione dei loro dischi protoplanetari restano in gran parte da chiarire. Questi dischi sono di particolare interesse: nelle stelle di massa maggiore possono infatti evolvere in sistemi planetari, come conseguenza della rapida (nell’ordine di pochi milioni di anni) formazione di corpi rocciosi su cui può successivamente accrescersi del gas. Una delle domande ancora aperte quindi è: anche i dischi attorno alle nane brune sono capaci di formare pianeti?

Le nane brune non sono solo poco luminose, ma anche oggetti freddi, con temperature efficaci comprese tra 1500 e 2500 gradi. A queste temperature, la loro emissione è concentrata principalmente nella banda dell’infrarosso. La bassa luminosità e l’emissione infrarossa rendono le nane brune bersagli ideali per il James Webb Space Telescope (Jwst), il supertelescopio delle agenzie spaziali Nasa, Esa e Csa. Il Jwst è infatti non solo in grado di rilevare nane brune in sistemi lontani (studi recenti hanno individuato candidate nane brune perfino nelle Nubi di Magellano), ma anche di ottenere osservazioni spettroscopiche con qualità sufficiente a studiarne la chimica atmosferica e quella dei dischi protoplanetari nelle nane brune più vicine.


In primo piano, lo spettro di Cha 1107-7626 prodotto dagli spettrografi NirSpec-Prism (viola) e Miri-Lrs (giallo) di Jwst. Sullo sfondo, immagine Wise nel medio infrarosso prodotta con EsaSky da M. Guarcello/Inaf

Recenti osservazioni spettroscopiche condotte con il Jwst dell’oggetto Cha 1107-7626, situato nella regione di formazione stellare di Chamaeleon I, sono state presentate in uno studio, in uscita su The Astrophysical Journal, guidato dall’astrofisica Laura Flagg della Johns Hopkins University. Con la sua massa pari a circa 6-10 volte quella di Giove, Cha 1107-7626 è l’oggetto isolato più piccolo conosciuto ad essere circondato da un disco protoplanetario ricco di gas e polveri. Grazie agli strumenti NirSpec e Miri del Jwst, gli autori dello studio hanno costruito e analizzato lo spettro di Cha 1107-7626 nella banda del medio infrarosso, dove l’emissione del disco protoplanetario risulta predominante rispetto a quella dell’oggetto centrale. Questo ha permesso di identificare segnali legati all’accrescimento di gas dal disco verso l’oggetto, con un tasso stimato tra 10-10 e 10-11 masse solari per anno. Inoltre, sono stati individuati segnali spettroscopici indicativi della presenza di molecole organiche come etilene e metano. Tali caratteristiche, comuni nei dischi attorno a stelle giovani di massa maggiore, ma osservate qui per la prima volta in un oggetto di massa così bassa, suggeriscono che la chimica e l’evoluzione dei dischi attorno alle nane brune possano essere simili a quelle dei dischi attorno alle stelle.

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Così Planet Nine potrebbe aver preso il largo



Nelle zone periferiche di sistemi planetari, alcuni corpi celesti orbitano ben lontani dalle loro stelle, arrivando persino a migliaia di unità astronomiche (Ua) di distanza. Si tratta di pianeti “a orbita larga”, tra i quali figura anche l’ipotetico Pianeta Nove, la cui effettiva esistenza nel Sistema solare è ancora oggetto di accese discussioni. Dopo anni di dubbi su come avvenga la formazione di tali oggetti, uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature Astronomy, guidato da un team di ricercatori della Rice University e del Planetary Science Institute, potrebbe aver trovato una risposta plausibile.

Gli autori si sono serviti di una lunga e complessa serie di simulazioni, giungendo a concludere che i corpi a orbita larga non sono strane anomalie, ma piuttosto sottoprodotti naturali di uno sviluppo iniziale caotico dei sistemi planetari. Difatti, quando le stelle sono fortemente compresse negli ammassi in cui hanno origine, gli oggetti celesti che si formano nelle epoche iniziali devono cercare di “sopravvivere” in regioni con grandi turbolenze. Così il primo autore dello studio, André Izidoro della Rice University (Usa), descrive cosa accade nelle fasi primordiali dei sistemi planetari: «In sostanza, è come se stessimo guardando dei flipper in una sala giochi cosmica. Quando i pianeti giganti si disperdono a vicenda attraverso interazioni gravitazionali, alcuni vengono scagliati lontano dalla loro stella. Se le circostanze sono perfette questi oggetti non vengono espulsi, ma rimangono intrappolati in orbite molto ampie».


Rappresentazione artistica di Planet Nine. Crediti: Nasa

Le simulazioni hanno riprodotto migliaia di ambienti realistici differenti di ammassi stellari, realizzando modelli con condizioni fisiche di ogni tipo: da sistemi simili al nostro Sistema solare solare a sistemi binari. Nella maggior parte dei casi, il risultato finale ha presentato uno schema frequente: le instabilità interne portano alcuni pianeti a seguire orbite ampie ed eccentriche e, una volta giunti a grande distanza dalla loro stella, questi corpi vengono stabilizzati dall’influenza gravitazionale degli astri vicini nell’ammasso. «Quando le spinte gravitazionali si verificano al momento giusto, l’orbita di un pianeta si disaccoppia dal sistema interno. Il corpo assume un’orbita ampia e rimane essenzialmente congelato sul posto dopo la dispersione dell’ammasso», spiega il coautore dello studio Nathan Kaib.

Considerando che la comunità scientifica definisce pianeti in orbita larga gli oggetti aventi un semiasse maggiore dell’orbita compreso tra 100 e 10mila unità astronomiche, le recenti scoperte potrebbero chiarire alcuni dubbi sull’esistenza dell’ormai celebre Planet Nine. Si ritiene che l’ipotetico corpo celeste orbiti attorno al Sole ad una distanza che va da 250 a mille unità astronomiche. Sebbene a oggi non sia mai stato osservato, la sua presenza è suggerita da particolarità nelle orbite di alcuni oggetti transnettuniani.

«Le simulazioni mostrano che se il Sistema solare primordiale ha attraversato due specifiche fasi di instabilità (la crescita di Urano e Nettuno e la dispersione tra i giganti gassosi), c’è fino al 40 per cento di possibilità che un corpo simile a Pianeta Nove possa essere rimasto intrappolato durante quel periodo», sottolinea Izidoro.

Nel lavoro di ricerca, gli astronomi si sono dedicati anche al confronto tra i pianeti in orbita larga e quelli liberi (o erranti), ossia corpi celesti espulsi dai loro sistemi d’origine. e che dunque non sono legati gravitazionalmente ad alcuna stella. «Non tutti i pianeti sparsi restano vincolati alla propria stella», dice Kaib, «la maggior parte finisce per essere scagliata nello spazio interstellare». La probabilità che corpi simili restino gravitazionalmente legati alle proprie stelle prende il nome di “efficienza d’intrappolamento”. E i sistemi simili al Sistema solare risultano avere un’efficienza d’intrappolamento piuttosto elevata, compresa tra il 5 e il 10 per cento.

Il nuovo studio promette sviluppi interessanti anche nell’ambito della ricerca di esopianeti. Sembra infatti esserci una maggiore probabilità che pianeti “a orbita larga” si trovino intorno a stelle ad alta metallicità, fornendo così potenziali candidati per campagne di deep imaging. Quanto al mistero sull’esistenza o meno di Pianeta Nove, una riposta potrebbe arrivare una volta che l’Osservatorio Vera C. Rubin – destinato a essere usato anche per la ricerca di oggetti distanti del Sistema solare – sarà operativo.

«Man mano che affiniamo la comprensione di dove e cosa cercare», conclude Izidoro, «non solo aumentiamo le probabilità di trovare il Pianeta Nove, ma apriamo anche una nuova finestra sull’architettura e l’evoluzione dei sistemi planetari in tutta la galassia».

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Pioggia di plasma solare a risoluzione mai vista



Queste che a prima vista possono sembrare dettagli di tele di Pollock, o nubi di Turner virate al fucsia, sono protuberanze solari – getti di plasma che spesso appaiono come archi o anse che si estendono verso l’esterno della superficie del Sole.


A sinistra, un fotogramma del timelapse prodotto con il nuovo sistema di ottica adattiva coronale Cona del Goode Solar Telescope. Mostra come il plasma di una protuberanza solare “danzi” e si contorca con il campo magnetico del Sole. A destra un altro fotogramma che evidenzia il fenomeno della “pioggia coronale”, che si forma quando il plasma più caldo della corona del Sole si raffredda e diventa più denso. Come le gocce di pioggia sulla Terra, la pioggia coronale viene trascinata verso la superficie del Sole dalla gravità. Poiché il plasma è elettricamente carico, invece di cadere in linea retta segue le linee del campo magnetico, che formano enormi archi o anelli. Il timelapse dal quale è tratto il fotogramma è composto dalle immagini a più alta risoluzione mai realizzate della pioggia coronale, e ha consentito agli autori dello studio di dimostrare che i filamenti possono avere uno spessore inferiore a 20 km. Entrambe le immagini sono ottenute osservando il plasma solare in H-alpha e colorate successivamente, con il colore più scuro là dove la luce è più intensa. Crediti: Schmidt et al./Njit/Nsoi/Aura/Nsf

Presentate martedì scorso su Nature Astronomy in uno studio guidato da Dirk Schmidt del National Solar Observatory, Boulder, Colorado (Usa), sono le immagini più nitide mai ottenute della struttura fine della corona solare. A renderle così affascinanti è proprio il livello di dettaglio, quasi incredibile pensando che sono state acquisite da un telescopio terrestre nemmeno troppo grande, il Goode Solar Telescope (Gst), un telescopio solare da 1.7 metri che si trova in California, al Big Bear Solar Observatory, ed è gestito dal Center for Solar-Terrestrial Research (Cstr) dell’Njit, il New Jersey Institute of Technology.

A consentire al Gst di raggiungere a una risoluzione così spinta – quasi al limite di diffrazione teorico del telescopio – è stato un nuovo sistema di ottica adattiva, ovvero la tecnologia che, correggendo le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica, consente ai grandi telescopi terrestri di produrre immagini astronomiche con una definizione paragonabile a quelle acquisite dallo spazio. In particolare, Gst si avvale di un sistema di ottica adattiva chiamato Cona in grado di modificare in continuazione, 2200 volte al secondo, la forma di uno specchio così da annullare – o quasi – la distorsione dell’immagine dovuta, appunto, alla turbolenza dell’aria.


Altro fotogramma tratto da un timelapse prodotto garzie al sistema Cona che mostra la rapida, fine e turbolenta ristrutturazione di una protuberanza solare con un dettaglio senza precedenti. La superficie del Sole, dall’aspetto soffice, è costellata da “spicole”: getti di plasma di breve durata, la cui creazione è ancora oggetto di dibattito scientifico. Le striature sulla destra sono piogge coronali che cadono sulla superficie del Sole. Crediti: Schmidt et al./Njit/Nsoi/Aura/Nsf

«L’ottica adattiva è come un autofocus potenziato e una stabilizzazione ottica dell’immagine analoghi a quelli presenti nella fotocamera del vostro smartphone, solo che invece di contrastare il tremolio delle mani corregge gli errori dell’atmosfera», spiega uno dei coautori dello studio, Nicolas Gorceix, ingegnere ottico e osservatore capo al Big Bear Solar Observatory.

I grandi telescopi solari terrestri si avvalgono delle ottiche adattive dall’inizio degli anni Duemila, e questo ha consentito di rivoluzionare l’osservazione della superficie del Sole, ma ancora non avevano avuto particolare impatto sulle osservazioni della corona, le cui caratteristiche erano fino a oggi inchiodate a una risoluzione nell’ordine dei mille chilometri se non peggio – livelli rimasti pressoché immutati per un’ottantina d’anni.

«Il nuovo sistema di ottiche adattive coronali colma questa lacuna decennale e fornisce immagini delle caratteristiche coronali con una risoluzione di 63 chilometri, il limite teorico del Goode Solar Telescope da 1.6 metri», conclude un altro coautore dello studio, Thomas Rimmele, il chief technologist del National Solar Observatory che ha costruito le prime ottiche adattive operative per la superficie del Sole e ne ha promosso lo sviluppo.

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Politica, scienza, società: lo spazio a tutto tondo




Emilio Cozzi, “Geopolitica dello spazio. Storia, economia e futuro di un nuovo continente”, Il Saggiatore, 2025, 438 pagine, 26 euro

Oggi più che mai, lo spazio è uno specchio di quello che succede sulla Terra. In un mondo sempre più lacerato da conflitti dove le spinte espansionistiche si tingono di motivazioni patriottiche, religiose e sociali, l’affannosa corsa all’occupazione delle orbite terrestri riflette ed amplifica la realtà che viviamo tutti i giorni.

Quando Emilio Cozzi ha deciso di scrivere Geopolitica della Spazio sapeva di affrontare un argomento complesso dove la tecnologia, necessaria per sviluppare la strumentazione satellitare, si coniuga con le molteplici ricadute economiche e politiche delle attività spaziali. Di certo aveva pianificato fin dall’inizio di raccontare la storia di SpaceX e di come questa compagnia, creata nel 2002 da Elon Musk, abbia cambiato il modo di fare spazio, ma non poteva immaginare che il libro sarebbe uscito nel momento dell’ascesa politica di Elon Musk, quando l’uomo più ricco del mondo è diventato anche quello politicamente più rilevante nella nuova amministrazione americana. Chi avesse dubitato sulla valenza geopolitica delle attività spaziali, adesso ha ampiamente modo di ricredersi. L’importanza strategica dei servizi offerti dallo spazio è un argomento di attualità. Siamo stati bombardati dalle discussioni sull’opportunità o meno che il governo italiano sottoscriva un contratto per utilizzare Starlink per connettere le aree non raggiunte dalla fibra ottica, ma anche per disporre di un canale sicuro per le comunicazioni istituzionali mentre si aspetta che l’Europa si doti di Iris2, la costellazione Ue per fornire connessione internet orbitale. Purtroppo il vecchio continente ha accumulato gravissimi ritardi anche nel settore, altrettanto strategico, dei lanciatori e Cozzi esamina i motivi di una vera e propria disfatta strategica e industriale. Nel 2024, contro i 134 lanci dei Falcon di SpaceX, l’Europa ha fatto solo tre lanci ed è stata costretta a comperarne più del doppio da SpaceX. Ma Geopolitica dello spazio non tratta solo di Musk. È un saggio completo sulle attività spaziali di tutto il mondo, parla dei turisti spaziali e delle colonie (vuoi orbitali, vuoi marziane) che piacciono tanto ai miliardari che investono nello spazio perché, per dirla come Jeff Bezos, “Ci vorrà un po’ di tempo, ma sarà il miglior affare della mia vita”. Ho molto apprezzato la prima parte, dedicata ai protagonisti dell’inizio dell’era spaziale, dove Cozzi cerca di umanizzare i personaggi inserendo le loro visioni nel contesto storico. Raccomando anche una lettura attenta dell’Appendice dall’esplicito titolo “Space law poche norme e nessuno sceriffo”, dove Cozzi dialoga con la professoressa Agatina Latino, esperta di diritto internazionale, sulla necessità di regole che aggiornino lo Outer Space Treaty del 1967. Nello spazio nulla è più come allora: l’imprenditoria privata è ora azionista di maggioranza dell’orbita circumterrestre e pianifica lo sfruttamento delle risorse della Luna.


Carlo di Leo e Antonio Lo Campo, “Fondamenti di fisica spaziale”, IBS editore, 2025, 269 pagine, 22 euro

Quelle che rimangono immutabili sono le leggi della fisica che regolano come i satelliti vanno in orbita, come vengono stabilizzati e puntati in una determinata direzione, come rientrano nell’atmosfera. Nel loro Fondamenti di fisica spaziale Carlo Di Leo e Antonio Lo Campo ci ricordano che tutto (o quasi) dipende dalla legge di gravitazione universale elaborata da Newton nei suoi Principia datati 1687.

La mela che cade obbedisce alla stessa legge che il 10 maggio ha fatto precipitare nell’Oceano Indiano il satellite Kosmos-482, un relitto sovietico che, dopo avere fallito l’immissione nella traiettoria verso Venere nel 1972, ha orbitato per 53 anni intorno al nostro pianeta. Sono le meraviglie della meccanica celeste che ha infinite sfaccettature, non sempre gradite dal nostro organismo abituato alla gravità terrestre. Non che in orbita la gravità scompaia, semplicemente è compensata dall’accelerazione del moto orbitale. Gli astronauti che fluttuano ne sono un esempio e, pur sapendo quanto la permanenza in microgravità sia dannosa per i tessuti ossei e muscolari, competono per essere assegnati a missioni orbitali di lunga durata. Mica tutti hanno la fortuna di essere “abbandonati“ sulla Iss come è successo a Sunita Williams e Butch Wilmore che, complice il malfunzionamento della navetta Starliner, hanno trascorso nove mesi in orbita. Nonostante la politica abbia cercato di farli diventare dei naufraghi spaziali, loro non si sono mai lamentati, anzi hanno sempre spiegato che stavano realizzando un sogno.

Andare nello spazio è un privilegio che porta con sé pesanti responsabilità. Lo ha vissuto sulla sua pelle Sally Ride, la prima astronauta americana diventata, suo malgrado, un personaggio così iconico da decidere di tenere nascosto il fatto di essere diversa. Solo nel suo necrologio il pubblico ha scoperto che, per 27 anni, Sally avevo vissuto con Tam O’Shaughnessy, la sua compagna segreta. È lei che racconta la loro difficile storia in un documentario di National Geographic intitolato semplicemente Sally, vincitore del 2025 “Alfred P. Sloan Feature Film Prize”. Scopriamo che l’eroina americana temeva che ammettere la sua diversità avrebbe distrutto la sua carriera e l’avrebbe squalificata agli occhi del pubblico. L’aveva visto succedere ad altri e non voleva fare la stessa fine. La regista Cristina Costantini utilizza filmati d’archivio per documentare un’epoca di trasformazione del programma spaziale americano che faticava ad accettare l’ingresso delle donne. Purtroppo, l’umanità porta nello spazio anche i suoi pregiudizi.

Guarda il trailer di Sally sul canale YouTube del National Geographic:

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Stasera, giovedì 29 maggio, dalle 21, ci troviamo al #Museo Malmerendi (Via Medaglie d'Oro 51, #Faenza) per una conferenza dal tema "Giove e le sue lune".

A cura di Paolo Tortora, che ha lavorato per la missione #NASA #EuropaClipper, in viaggio verso #Giove per scoprire se su #Europa può esserci vita.

Ingresso libero e #gratis, non mancare!
mobilizon.it/events/d07508bd-4…

@astronomia

#astronomia #spazio #scienza #divulgazione #astronautica #spacex #esa #science #space #astronomy #romagna #italia


Giove e le sue lune - NASA Europa Clipper alla ricerca della vita su Europa - Paolo Tortora
Inizia: Giovedì Maggio 29, 2025 @ 9:00 PM GMT+02:00 (Europe/Rome)
Finisce: Giovedì Maggio 29, 2025 @ 10:30 PM GMT+02:00 (Europe/Rome)

Giovedì 29 maggio, dalle ore 21, presso il Museo Civico di Scienze Naturali Malmerendi (Via Medaglie d'Oro 51, Faenza) si terrà una conferenza dal tema "Giove e le sue lune".

A cura di Paolo Tortora, Professore Ordinario di Impianti e Sistemi Aerospaziali - Direttore CIRI AEROSPACE - Università di Bologna, Campus di Forlì.

In questa serata si parlerà della missione NASA Europa Clipper. Il principale obiettivo scientifico di Europa Clipper è determinare se ci sono luoghi sotto la superficie della luna ghiacciata di Giove, Europa, che potrebbero ospitare la vita. La sonda, al momento in fase di crociera fra la Terra e Giove, dove arriverà nel 2031. Una volta in orbita attorno a Giove effettuerà quasi 50 sorvoli ravvicinati di Europa fino ad altitudini di circa 25 chilometri sopra la superficie, sorvolando una posizione diversa durante ogni sorvolo per scansionare quasi l'intera luna.

Ingresso libero e gratuito. L'incontro è organizzato dal Gruppo Astrofili Faenza e dalla Palestra della Scienza nell'ambito della XXV Settimana Scientifica e Tecnologica Faentina.


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Mistral, un vento di innovazione per Srt




Il ricevitore Mistral installato sul Sardinia Radio Telescope. Crediti: Inaf

Mistral è il ricevitore di nuova generazione installato sul Sardinia Radio Telescope (Srt) e costruito da Sapienza Università di Roma per l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) nell’ambito del potenziamento del radiotelescopio per lo studio dell’universo alle alte frequenze, finanziato da un progetto Pon (Programma Operativo Nazionale), concluso nel 2023 e che oggi vede risultati sempre più concreti.

Mistral sta per “MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids”, ovvero ricevitore di onde millimetriche per il Sardinia Radio Telescope basato su una rete di rivelatori a induttanza cinetica.

È un ricevitore innovativo sotto molteplici aspetti. I ricevitori radioastronomici sono tipicamente “mono pixel”, cioè sensibili alla radiazione proveniente da una sola direzione e questo richiede lunghe scansioni con il telescopio per poter realizzare immagini panoramiche della zona di cielo di interesse. Una soluzione per superare questa limitazione è costruire ricevitori “multi pixel”, sensibili cioè alla radiazione proveniente da più direzioni simultaneamente. Mistral porta questo concetto all’estremo. Al suo interno è infatti custodito un cuore ultra-freddo composto da una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica (Kids) sviluppati in collaborazione con il Cnr-Ifn di Roma e raffreddati ad appena una frazione di grado dalla temperatura di zero assoluto, pari a -273,15 gradi Celsius. «È proprio questo elevato numero di rivelatori accoppiato con un sistema ottico sviluppato appositamente a rendere Mistral uno strumento estremamente efficace e rapido per l’imaging a largo campo di sorgenti deboli ed estese», commenta Paolo de Bernardis, coordinatore scientifico del ricevitore per Sapienza Università di Roma.

Mistral è stato installato nel maggio 2023 nel fuoco gregoriano, localizzato al centro della grande parabola di 64 metri di diametro di Srt. Subito dopo è iniziata la messa in servizio del ricevitore, il cosiddetto commissioning: un’intensa serie di test tecnici e osservativi con l’obiettivo di integrare il ricevitore nel sistema del telescopio.

Un team di ricercatori di Inaf e Sapienza sta lavorando fianco a fianco con l’obiettivo di portare Mistral alle sue massime prestazioni e poterlo quindi offrire alla comunità scientifica per osservazioni regolari. «Il commissioning è normalmente un passaggio di routine nell’installazione di nuova strumentazione», spiega Matteo Murgia, responsabile scientifico del ricevitore per Inaf. «Tuttavia, si trasforma in una vera sfida nel caso di un ricevitore nel millimetrico come Mistral, che richiede che le prestazioni del telescopio siano spinte al limite sotto ogni aspetto».

«Inizialmente si sono affrontati e superati diversi ostacoli legati alla criogenia davvero eccezionale del ricevitore, ottenendo infine la temperatura necessaria per mettere in misura i Kids, ossia appena 0,2 gradi sopra lo zero assoluto», dichiara Elia Battistelli, project manager del ricevitore per Sapienza Università di Roma. Il miglioramento delle prestazioni della superficie attiva di Srt ha permesso, a partire da settembre 2024, di raggiungere la sensibilità adeguata per calibrare lo strumento. È stato quindi possibile procedere all’ottimizzazione dell’allineamento tra le ottiche di Mistral e quelle di Srt.


Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore Mistral. Crediti: Mistral commissioning team

Il team di commissioning ha inoltre lavorato senza sosta per sviluppare le procedure e il software necessari per il puntamento e la messa a fuoco. Contemporaneamente, Inaf e Sapienza hanno realizzato le procedure di calibrazione e composizione delle immagini. A questo punto Mistral era finalmente pronto per le osservazioni di “prima luce” di sorgenti radio estese. In successione sono stati osservati tre oggetti celesti iconici: la Nebulosa di Orione, la radiogalassia M87, e il resto di supernova Cassiopea A. Queste osservazioni hanno evidenziato la grande versatilità di Mistral e confermato le sue capacità di realizzare immagini di grande dettaglio di oggetti celesti in contesti astrofisici anche molto diversi tra loro.

«Il traguardo raggiunto con le immagini di prima luce di Srt a 90 GHz», commenta Isabella Pagano, direttrice scientifica dell’Inaf, «segna un passo importante nell’ampliamento degli orizzonti scientifici del radiotelescopio che dimostra così di essere in grado di operare con successo alle alte frequenze radio per le quali era stato progettato». Con la “prima luce” ottenuta osservando questi affascinanti oggetti cosmici, si conclude questa prima fase di test tecnici e inizia una fase, non meno importante, di validazione scientifica, volta a verificare le prestazioni di Mistral con sorgenti sempre più deboli, per garantire che sia pronto per le numerose sfide scientifiche per cui è stato progettato.

Mistral affronterà un’ampia gamma di questioni scientifiche, dalla cosmologia e fisica degli ammassi di galassie, allo studio dei nuclei galattici attivi, della struttura delle nubi molecolari e della loro relazione con la formazione stellare nelle galassie vicine e nella Via Lattea, fino allo studio dei corpi celesti del nostro Sistema solare. Le attività del team di commissioning continuano quindi con l’obiettivo di verificare le prestazioni di Mistral in ciascuno di questi casi scientifici e di rendere il ricevitore disponibile alla comunità scientifica il prima possibile.

LE PRIME IMMAGINI DI MISTRAL

A dicembre 2024 lo strumento è stato puntato verso la famosa Nebulosa di Orione (nota anche come M42) al centro della omonima costellazione. Situata a una distanza di circa 1350 anni luce dalla Terra, M42 è una delle regioni di formazione stellare attive più vicine ed è caratterizzata da idrogeno ionizzato eccitato da un gruppo di stelle massicce, noto come il Trapezio. M42 fa parte di un vasto complesso di nubi molecolari che si estende per 30 gradi nel cielo, mentre Mistral ne ha osservato la parte centrale a una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco. Nell’immagine è ben visibile la Barra di Orione a sud, che segna un confine netto tra la regione di idrogeno ionizzato e la nube molecolare sottostante. Si notano inoltre i picchi di emissione in prossimità delle stelle del Trapezio e della Nebulosa Kleinmann–Low, una densa nube molecolare di formazione stellare che ospita un ammasso stellare interessato in passato da un evento esplosivo. L’emissione di M42 visibile a 90 GHz è una miscela pressoché uguale di radiazione prodotta dall’idrogeno ionizzato e quella delle polveri fredde contenute nel complesso di nubi molecolari sottostante.


Nel riquadro a sinistra si nota l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore Mistral. A destra una sovrapposizione con una immagine a più largo campo ottenuta dall’Hubble Space Telescope. Crediti: Mistral commissioning team; Nasa, Esa, e The Hubble Heritage Team (StscI/Aura)

A febbraio 2025 Mistral ha osservato, sempre alla frequenza di 90 GHz, la radiogalassia M87, il cui nucleo attivo contiene l’ormai famoso buco nero supermassiccio presente nella costellazione della Vergine, il primo di cui è stata ottenuta una immagine diretta grazie alla storica osservazione dell’Event Horizon Telescope nel 2019. La sorgente radio che circonda M87 ha una struttura complessa, costituita da lobi interni delle dimensioni di circa trentamila anni luce (poco più della distanza che ci separa dal centro della Via Lattea) circondati da una bolla di plasma esterna su più larga scala. Queste strutture sono il risultato dell’attività del buco nero centrale nel corso dei precedenti milioni di anni. Nell’immagine di Mistral sono visibili i lobi radio interni, le strutture più recenti tuttora alimentate da una coppia di getti radio relativistici che si propagano dal buco nero centrale. Osservare queste strutture a frequenze così alte fornisce informazioni nuove e preziose sui meccanismi fisici che alimentano le particelle radio emittenti all’interno della sorgente.


Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da Mistral a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta a una immagine ottica, in toni di blu, della galassia. Crediti: Mistral commissioning team; Sloan Digital Sky Survey

Infine, nell’ultima sessione di aprile 2025, Mistral ha osservato, attraverso due scansioni incrociate di circa mezz’ora ciascuna, il resto di supernova Cassiopea A (Cas-A): una delle più intense radio sorgenti del cielo avente una dimensione angolare di circa 5 minuti d’arco (circa un sesto del diametro apparente della Luna piena). Nell’immagine ottenuta, il guscio di gas in espansione è visibile nella sua interezza e, grazie alla risoluzione angolare di Srt a queste lunghezze d’onda, si possono apprezzare i dettagli e le variazioni di luminosità della struttura filamentare.



A Brera, mappe celesti e mappe terrestri



All’Osservatorio astronomico di Brera è conservata una ricca, meravigliosa raccolta di carte celesti, terrestri e di altro genere, formatasi fin dai primi anni di vita della Specola alla metà del 18esimo secolo. Un elenco di questo materiale è da oggi disponibile al sito dell’Inaf di Brera e rappresenta un altro tassello per la conoscenza dell’intero patrimonio storico dell’Osservatorio milanese.

La cartografia, intesa come misura e descrizione della Terra, era una disciplina affine all’astronomia, che aveva come scopo, invece, quello della misura e della rappresentazione dei cieli. Infatti, carte della Terra e del cielo sono spesso presenti nelle raccolte storiche degli osservatori astronomici.


Stato di Milano, 1777: ai piedi della carta, in primo piano, una scena bucolica di svago campestre ma, più in profondità, il duro lavoro nei campi

A Brera questa situazione diventa ancora più vera dal momento che gli astronomi braidensi furono “cartografi” essi stessi, coinvolti in prima persona nella realizzazione, nel 18esimo secolo, della Carta del Milanese e del Mantovano e poi, durante la dominazione francese, nelle successive operazioni topografiche sul territorio allora lombardo. Inoltre non possiamo dimenticare il ruolo che Giovanni Schiaparelli, direttore dell’Osservatorio dal 1862 al 1900, ebbe come “cartografo” di Marte, applicando per primo alla descrizione del pianeta gli stessi criteri definiti per la descrizione della Terra. Insomma, la cartografia, celeste o terrestre, è sempre stata di casa all’Osservatorio milanese.

Scorrendo le circa 330 descrizioni raccolte nell’elenco (incluse quelle delle lastre di rame con l’incisione della Carta della Lombardia, la prima carta “moderna” del territorio lombardo, che fu commissionata agli astronomi di Brera da Cesare Beccaria) si viaggia attraverso due mondi: quello terrestre e quello celeste.


La guerra di oggi nelle carte di ieri: i territori della Russia (a sx) e della Palestina (a dx) nell’Atlante di Sanson della fine del Seicento

Per quanto riguarda la Terra, a stupire non è solo la gran quantità dei luoghi attraversati, che comprendono tutto l’orbe terracqueo, descritto secondo le conoscenze del tempo a partire dalla seconda metà del Seicento, ma anche la raffinatezza dell’intaglio e la ricchezza degli ornamenti di corredo alla rappresentazione geografica, come appare, ad esempio, in due carte dell’atlante dei Sanson, un’importante famiglia di cartografi di origine francese. Due carte dell’atlante non scelte a caso, perché raffigurano per noi, oggi, due sanguinosi teatri di guerra: “La Russie Blanche ou Moscovie” il cui cartiglio è chiuso dalla grande testa dell’orso, simbolo della potenza, della forza e della paura che l’animale incute e la “Iudaea seu Terra Sancta”, che viene rappresentata, secondo il racconto biblico, con le figure di Adamo ed Eva ai lati dell’albero della conoscenza, con il serpente, e da due cornucopie che versano l’abbondanza di animali, fiori e frutti del paradiso terreste. Per rimanere in zone più vicine a noi, ovvero nello Stato di Milano del 1777, troviamo una carta alla cui base, quasi come a fondamento dello Stato stesso, sono raffigurate le allegorie dei fiumi – e l’acqua era alla base della florida agricoltura lombarda – e, poco oltre, il duro lavoro dei contadini nei campi.


Una rara carta della Luna (cliccare per ingrandire), probabilmente la sola conservata in Italia, presentata dalla delegazione sovietica al Congresso di astronautica a Belgrado nel 1967

Non mancano poi le carte celesti, che ci svelano, sotto tante angolature, il mondo sopra di noi. Tra le altre ne ricordiamo una insolita, ossia la carta della Luna presentata dalla delegazione sovietica all’International Astronautical Congress di Belgrado nel 1967 e che, a quanto scrive il direttore dell’Osservatorio Francesco Zagar in un piccolo cartellino che la accompagna, dovrebbe essere l’unica copia esistente in Italia.

L’elenco delle carte, curato da Cristina Zangelmi e dalla scrivente, si caratterizza anche per essere un riconoscimento alle attività legate all’alternanza scuola-lavoro (ora Pcto) svolte dai ragazzi all’Osservatorio di Brera. A tutti gli studenti che ospitiamo, infatti, viene sempre mostrato il patrimonio storico dell’Osservatorio. Tra i libri, destano sempre molto interesse quelli legati alla rappresentazione della Terra con i suoi fenomeni e a quella del cielo con i suoi “abitanti” – costellazioni, comete, pianeti e satelliti – e con i suoi fenomeni – eclissi, occultazioni o esplosioni che siano.

Per iniziativa dei ragazzi, quindi, è stato avviato, partendo dai volumi schedati in biblioteca, un censimento delle raffigurazioni di Terra e cielo; finora ne sono state prese in considerazione oltre un centinaio. Queste scelte sono indubbiamente soggettive e incomplete rispetto al patrimonio della biblioteca (e infatti il progetto è in divenire) e si basano spesso su un criterio estetico, ma sono state fatte dai nostri studenti in piena autonomia e come tali le abbiamo accolte nell’elenco che pubblichiamo. Un ringraziamento, quindi, alle studentesse Isabella Pepita Mandrino, Emma Della Ceca e Giorgia Leone che, finora, hanno lavorato a questo progetto.



L’impronta magnetica racconta la storia della Luna



Un nuovo studio condotto dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit), pubblicato la settimana scorsa su Science Advances, potrebbe aver trovato una risposta a una domanda aperta da decenni riguardo al magnetismo delle rocce lunari. Un grande impatto sulla superficie della Luna – questo lo scenario suggerito dallo studio – potrebbe aver temporaneamente intensificato il suo debole campo magnetico, generando un picco momentaneo registrato in alcune rocce lunari.

Le prime evidenze del magnetismo lunare risalgono alle missioni Apollo degli anni ’60 e ’70, alle quali si sono aggiunte le rilevazioni delle sonde orbitali più recenti. Queste hanno infatti confermato la presenza di magnetismo residuo, specialmente sul lato nascosto della Luna. La spiegazione più accettata di questo fenomeno è l’esistenza di un campo magnetico globale generato da una dinamo interna, cioè da un nucleo di materiale fuso in movimento, simile a quello terrestre. Tuttavia, il nucleo lunare, molto più piccolo di quello della Terra, avrebbe prodotto un campo magnetico troppo debole per spiegare la forte magnetizzazione osservata in alcune rocce. Un’ipotesi alternativa riguarda un impatto gigante sulla superficie lunare, che avrebbe generato del plasma capace di interagire con un campo magnetico debole già esistente, amplificandolo localmente. Simulazioni che consideravano un campo magnetico solare molto debole, a distanza della Luna, avevano però escluso questo scenario.


Un’immagine del lato nascosto della Luna. Crediti: Nasa/Gsfc/Università Statale dell’Arizona

L’approccio adottato nel nuovo lavoro ipotizza un debole campo magnetico lunare, con un’intensità di circa 1 microtesla (50 volte più debole di quello terrestre attuale). Partendo da questo scenario, è stato simulato un impatto delle dimensioni di quello che ha formato il bacino di Imbrium, uno dei più grandi crateri lunari, situato sul lato visibile della Luna. Le simulazioni mostrano una nube di plasma sollevarsi dalla superficie di impatto e, in parte, diffondersi attorno alla Luna, concentrandosi sul lato opposto. In quel punto, il plasma avrebbe compresso e temporaneamente amplificato il debole campo magnetico lunare. Il tutto sarebbe avvenuto in un tempo incredibilmente rapido: appena 40 minuti.

Secondo gli autori, anche un intervallo di tempo così breve sarebbe stato sufficiente per imprimere l’impronta magnetica osservata. Questo, non solo grazie al campo magnetico amplificato, ma anche all’onda d’urto generata dall’impatto, che si sarebbe propagata fino al lato opposto, “disturbando” gli elettroni presenti nelle rocce. Questi, una volta ristabiliti, hanno assunto una nuova orientazione, allineata al campo magnetico momentaneamente rafforzato.

Questi risultati offrono una spiegazione completa della presenza di rocce altamente magnetizzate, specialmente sul lato nascosto della Luna. Un modo per verificarla sarebbe prelevare direttamente campioni di quelle rocce e cercare tracce di shock e forte magnetizzazione. Questo potrebbe diventare possibile grazie al programma Artemis della Nasa, che prevede l’esplorazione proprio del lato nascosto, in prossimità del polo sud lunare.

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Ixpe svela i segreti di una magnetar attiva



Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia spaziale italiana (Asi). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.


Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico. Crediti: Esa

La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28mila anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso Ixpe, che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.

Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.


Michela Rigoselli, ricercatrice Inaf. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli

Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.

«È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi», dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’Inaf di Milano e prima autrice dell’articolo. «Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche».

Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N.
  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A.


Con Diana a bordo di Tianwen-2, verso un asteroide



Mancano meno di due giorni al lancio della missione cinese Tianwen-2, in programma a partire dalle 18:00 ora italiana di domani, mercoledì 28 maggio, dalla base di lancio di Xichang, nella Cina sud-occidentale, a bordo di un razzo Long March 3B. Obiettivo principale è un’impresa mai tentata prima dalla Cina: posarsi su un asteroide – il corpo celeste 469219 Kamoʻoalewa, noto anche come 2016 HO3 – e riportarne un campione sulla Terra. La consegna è prevista per la fine del 2027. Terminata questa prima fase della missione, la sonda proseguirà poi la sua avventura dirigendosi, questa volta, verso una cometa della fascia principale, la 311P/PanStarrs, che dovrebbe raggiungere nell’arco di sei anni.

Tianwen-2 asteroid sample return and comet exploration mission is planned to launch in 2025. Comet 311P/PANSTARRS will be studied after the spacecraft returning samples from asteroid 2016HO3. pic.twitter.com/so25RBdxTu

— China ‘N Asia Spaceflight ️ (@CNSpaceflight) May 23, 2022

A bordo della sonda – che oltre ad ampliare le capacità di esplorazione planetaria della Cina mira a raccogliere nuove informazioni sulle origini e l’evoluzione di asteroidi e comete – è presente anche uno strumento scientifico interamente italiano, Diana, acronimo di Dust in situ Analyzer: sviluppato da un consorzio dall’Inaf Iaps di Roma, dal Cnr e dal Politecnico di Milano, avrà il compito di misurare e caratterizzare sul posto polveri e ghiaccio.


Diana2, una delle due teste sensoriali che compongono lo strumento italiano Diana a bordo della missione cinese Tianwen-2. Crediti: E. Palomba/Inaf

«Diana comprende due teste sensoriali, Diana1 e Diana2», spiega a Media Inaf uno degli scienziati che lo hanno realizzato, l’astrofisico Ernesto Palomba dell’Inaf di Roma. «Diana1 si occuperà di misurare la massa totale della polvere raccolta e di rilevare la presenza di ghiaccio d’acqua, mentre Diana2 sarà dedicata all’identificazione e alla caratterizzazione di composti organici altamente volatili».

«Il cuore del funzionamento dello strumento è basato sull’utilizzo di microbilance a cristalli in quarzo», prosegue Palomba, che allo sviluppo di microbilance ad altissima precisione per impieghi spaziali lavora da lungo tempo. «Lo strumento è miniaturizzato, e infatti ogni testa sensoriale pesa solo 90 grammi, occupando un volume di circa 50x50x35 mm ed è in grado di misurare fino a un milionesimo di grammo di polvere presente nello spazio. Le sue eccezionali prestazioni e la sua compattezza hanno motivato l’Agenzia spaziale cinese a sceglierci come unico strumento europeo della missione».

Quelli collezionati da Tianwen-2 – nome tratto dal titolo di un’opera del poeta cinese Qu Yuan, che potremmo tradurre come “Domande al cielo” saranno, dicevamo, i primi campioni di asteroide portati sulla Terra dalla Cina, ma non certo la sua prima sample-return mission: le missioni cinesi Chang’e-5 nel 2020 e Chang’e-6 nel 2024 già hanno raccolto e recapitato con successo campioni lunari. E da un certo punto di vista anche questi che raccoglierà Tianwen-2 potrebbero essere considerati campioni del nostro satellite naturale: alcune analisi preliminari suggeriscono infatti che 469219 Kamoʻoalewapossa essere un frammento di Luna staccatosi in seguito a un impatto.

La raccolta del materiale sarà essa stessa un esperimento: verrà infatti tentata in tre differenti modalità. Anzitutto con un campionamento in volo, allungando un braccio robotico fino a “grattare” la superficie dell’asteroide mentre la sonda lo sorvola da vicino. Poi con il cosiddetto approccio touch-and-go, già sperimentato con successo dalla sonda giapponese Hayabusa2 e dalla sonda Nasa Osiris-Rex. Infine con un atterraggio vero e proprio, un approdo al termine del quale – se le caratteristiche del suolo lo consentiranno – la sonda si ancorerà al terreno e tenterà di trapanarlo.



Il lato caldo della Luna




Variazioni del campo gravitazionale lunare misurate dal Gravity Recovery and Interior Laboratory (Grail) della Nasa da marzo a maggio 2012. Il campo mostrato ha una risoluzione superficie di circa 20 chilometri. Il rosso corrisponde agli eccessi di massa e il blu alle carenze di massa. La mappa mostra maggiori dettagli su piccola scala sul lato lontano della Luna rispetto al lato vicino, perché il lato lontano presenta molti più piccoli crateri. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Mit/Gsfc

Come molti lettori sapranno, la Luna presenta marcate differenze tra il lato visibile dalla Terra e quello nascosto. Il primo è in gran parte ricoperto da mari di scuro basalto, solcati da crateri da impatto e da chiari raggi di regolite, mentre il secondo mostra una presenza molto più ridotta di mari rispetto alla faccia ben nota.

Le differenze non si limitano all’aspetto superficiale: si riscontrano anche nello scostamento tra il centro di massa e il centro geometrico del satellite, nello spessore della crosta, nella distribuzione superficiale degli elementi radiogeni e nella geologia complessiva. Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questa asimmetria, ma la sua origine resta ancora oggetto di dibattito.

Alcuni studi suggeriscono che queste differenze possano derivare da variazioni nella struttura interna della Luna, in particolare nella distribuzione degli elementi radiogeni responsabili della produzione di calore. Tale distribuzione potrebbe aver generato, nel corso del tempo, una persistente differenza di temperatura tra il lato visibile e quello nascosto. Questi modelli riescono, ad esempio, a spiegare la concentrazione del vulcanismo sul lato visibile della Luna, offrendo al contempo preziosi vincoli sulle masse e sulla distribuzione degli elementi radiogeni stessi, che restano in gran parte poco conosciuti.

Tuttavia, fino a oggi non era stata trovata alcuna evidenza osservativa inequivocabile di differenze termiche o di variazioni strutturali profonde. Ora, uno studio recentemente pubblicato su Nature ha quantificato la presenza di tali differenze analizzando la risposta gravitazionale della Luna alle forze mareali periodiche esercitate dalla Terra, rivelando che l’interno del nostro satellite è più caldo sul lato vicino, quello rivolto verso il nostro pianeta, e suggerendo che le strutture interne lunari siano irregolari.

Questo è stato dedotto da Ryan Park e colleghi, analizzando i dati della missione Grail (Gravity Recovery and Interior Laboratory) della Nasa, lanciata nel 2011 con lo scopo di mappare con altissima precisione il campo gravitazionale della Luna. I ricercatori hanno calcolato con precisione quanto la Luna sia suscettibile a deformarsi in risposta alla gravità terrestre, scoprendo che tale misura è superiore del 72 per cento rispetto a quanto ci si aspetterebbe se l’interno lunare fosse perfettamente uniforme e simmetrico. In particolare, utilizzando i dati delle sonde gemelle Ebb e Flow – le due componenti della missione Grail – il team ha rilevato una differenza del 2-3 per cento nella capacità del mantello lunare di deformarsi tra il lato vicino e quello nascosto.


Modello concettuale dell’evoluzione dell’interno lunare. Circa 4 miliardi di anni fa (a sinistra), una parziale fusione del mantello nel lato vicino della Luna — legata a un’anomalia termica — risale verso la superficie, dando origine ai mari lunari. Con il progressivo raffreddamento dell’interno (a destra), la zona di fusione si è ritirata in profondità, stabilizzandosi oggi tra 800 e 1.200 km sotto la superficie. La scala cromatica rappresenta la temperatura del mantello (dal giallo chiaro per le zone più calde all’arancione scuro e al verde per quelle più fredde). Le croci gialle indicano la posizione dei terremoti lunari, localizzati all’interno o in prossimità delle attuali regioni parzialmente fuse del mantello. Crediti: Park et al., Nature

Il team ha esplorato diverse possibili cause dell’anomalia, tra cui la composizione chimica della Luna. Tuttavia, i ricercatori sono giunti alla conclusione che tali dati potrebbero essere ben spiegati da una differenza termica fino a 170 °C tra l’interno dell’emisfero vicino e quello del lato lontano. Si ipotizza che tale differenza sia sostenuta dal decadimento radioattivo di elementi come torio e titanio, concentrati nell’interno del lato visibile, forse come residuo dell’intensa attività vulcanica che ha modellato quella regione tra 3 e 4 miliardi di anni fa.

Secondo gli autori, i metodi utilizzati per sondare l’interno della Luna potrebbero essere applicati anche ad altri corpi planetari, come Marte, Encelado e Ganimede, in quanto non richiedono l’atterraggio diretto di una sonda sulla superficie.

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Un milione e 200mila euro al progetto Darker




La ricercatrice Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek, in Sudafrica. Crediti: Inaf

Il progetto Darker – Accurate constraints on dark energy and dark matter using strong lensing in the era of precision cosmology riceve un finanziamento di 1,2 milioni di euro grazie al Fondo italiano per la scienza – Fis 2, erogato dal Ministero dell’università e della ricerca (Mur). A guidare la ricerca sarà Cristiana Spingola, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), con l’obiettivo di sondare alcuni degli enigmi più profondi della cosmologia: energia oscura e materia oscura, che insieme costituiscono circa il 95 per cento dell’intero universo.

Il progetto Darker ha l’obiettivo di scoprire nuove lenti gravitazionali molto piccole che, come potentissimi telescopi naturali, permetteranno di indagare in modo ancora più accurato alcuni aspetti dell’universo lontano. Il fenomeno della lente gravitazionale, o lensing in inglese, è un effetto previsto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein. «Se un oggetto molto massiccio – come una galassia o un ammasso di galassie – si trova tra noi e una sorgente luminosa lontana – come un quasar – il suo potenziale gravitazionale può deviare la radiazione, producendo immagini multiple della sorgente di sfondo», spiega Spingola. «Ogni variazione di intensità luminosa avverrà in tempi diversi nelle diverse immagini, ovvero con un ritardo temporale (time delay). È proprio quest’ultima proprietà che Darker sfrutterà per cercare questi oggetti estremamente rari, finora sfuggiti all’osservazione».

La particolarità del progetto risiede quindi nel suo approccio innovativo: per la prima volta, la ricerca di lenti gravitazionali verrà condotta nel dominio temporale (time-domain) invece che tramite immagini statiche. Per la conferma delle “candidate lenti” serviranno osservazioni ad altissima risoluzione angolare. In questo contesto osservazioni con i tre radiotelescopi italiani dell’Inaf – il Sardinia Radio Telescope (Cagliari) e le parabole gemelle di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa) – in modalità Vlbi (Very Long Baseline Interferometry), saranno fondamentali per determinare la natura di queste rarissime lenti gravitazionali di piccolissima massa.

«Sappiamo ancora troppo poco di materia ed energia oscura. Grazie a questo approccio innovativo, potremo identificare simultaneamente lenti gravitazionali molto piccole e sorgenti variabili sullo sfondo, finora invisibili con le tecniche tradizionali», commenta Spingola, la quale svolgerà il suo progetto presso l’Istituto di radioastronomia e in collaborazione con l’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio, le due sedi bolognesi dell’Inaf.

Il progetto punta quindi a identificare centinaia di nuove lenti usando dati raccolti in passato dai telescopi spaziali Gaia e Fermi, cercando in particolare oggetti molto compatti con masse di pochi milioni di masse solari, la cui esistenza – o assenza – potrebbe aiutare a chiarire la vera natura della materia oscura, distinguendo tra modelli “freddi” o “caldi”.

«La conferma finale della natura di questi oggetti», aggiunge Spingola, «sarà possibile solo usando la tecnica della Very Long Baseline Interferometry, di cui l’Inaf vanta un’esperienza storica ed è oggi tra i protagonisti della tecnica Vlbi in Europa, con le sue strutture radioastronomiche che rappresentano un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale».

Darker contribuirà anche alla determinazione precisa della costante di Hubble (H₀), parametro che misura la velocità di espansione dell’universo. «Questa misura sarà indipendente da quelle attualmente disponibili e potrà aiutare a risolvere una delle più grandi controversie dell’astrofisica moderna, la cosiddetta tensione di Hubble, che consiste nel disaccordo tra le stime di H₀ ottenute da osservazioni dell’universo primordiale e quelle basate su misure più vicine a noi. Darker potrebbe rappresentare, quindi, un passo importante per fare luce sull’universo oscuro», conclude la ricercatrice.

Originaria di Perugia e laureata in astrofisica all’Università di Bologna, Cristiana Spingola si è formata scientificamente tra Italia e Paesi Bassi, dove ha conseguito il dottorato all’Università di Groningen. Ricercatrice a tempo indeterminato dal 2023, è esperta di interferometria radio e lensing gravitazionale, e partecipa attivamente alla preparazione scientifica della prossima generazione di interferometri radio, come quelli del progetto Ska.

Il finanziamento complessivo è stato erogato nell’ambito del macrosettore Physical Sciences and Engineering – Universe Sciences del Fis 2. I fondi Fis sostengono ogni anno progetti di ricerca altamente innovativi nei principali settori scientifici, seguendo il modello dello European Research Council.



Una barra agitata, undici miliardi di anni fa



Si è presentata così, come un dettaglio piccino e a prima vista irrilevante in un’immagine del ben più appariscente Vv114, sistema di galassie in interazione situato a soli 300 milioni di anni luce dalla Terra. Dettaglio che però non è passato inosservato agli occhi attenti degli astronomi che hanno deciso di approfondirne la natura. Che si è rivelata oltremodo sorprendente, tanto da meritarsi un articolo su Nature uscito la scorsa settimana. E che ha per protagonista J0107a, enorme galassia a spirale barrata, la cui luce ci ha raggiunti direttamente dall’infanzia dell’universo, poco più di undici miliardi di anni fa.


Il sistema di galassie interagenti Vv114 in un’immagine del James Webb Space Telescope (a sinistra). J0107a, galassia protagonista della scoperta, si trova nel dettaglio ingrandito nel pannello di destra. Crediti: Nasa, Alma (Eso/Naoj/Nrao), Huang et al.

Lo studio è guidato da Shuo Huang, del National Astronomical Observatory giapponese (Naoj) e dell’Università di Nagoya, sempre in Giappone. Che cos’ha di speciale questa galassia? Intanto è bella grossa, dieci volte più massiccia della Via Lattea, la nostra galassia. Ma sopratutto, ha qualcosa di curioso nella forma. Le galassie a spirale barrata si contraddistinguono per la presenza di una struttura – la barra, per l’appunto – che attraversa lo sferoide centrale – il bulge – e dalla quale si diramano i caratteristici bracci. Le barre sono costituite da stelle e gas, e le galassie che le possiedono sono piuttosto comuni nell’universo attuale. Anche la nostra galassia, la Via Lattea, viene comunemente classificata come galassia a spirale barrata. Il fatto è che J0107a sembrerebbe una galassia molto precoce, nel senso che somiglia moltissimo alle spirali barrate che brulicano nell’universo attuale, sebbene risalga a un’epoca cosmica molto antica, a meno di tre miliardi di anni dal Big Bang. La sua barra però ha colpito gli astronomi perché è per metà costituita da gas, a differenza di quelle delle galassie locali, costituite da gas solo per il dieci per cento. E questa barra è pure piuttosto agitata.

Utilizzando l’interferometro Alma, gli astronomi hanno notato che grandi quantità di gas sono convogliate dalla barra verso le regioni centrali di J0107a, gas che si muove alla velocità di centinaia di chilometri al secondo. Questo materiale sta generando intensi episodi di formazione stellare nel nucleo di J0107a. Gli astronomi hanno stimato che la galassia forma stelle ben trecento volte più rapidamente rispetto alla Via Lattea. Alma ha consentito agli astronomi di studiare l’emissione delle molecole di monossido di carbonio (CO, in formule chimiche) e degli atomi di carbonio. Il gas molecolare costituisce la materia prima per la formazione stellare, per questo è molto importante studiarlo ricorrendo a strumenti all’avanguardia come Alma. Dotato di sopraffina risoluzione angolare e sensibilità alla luce emessa alle lunghezze d’onda millimetriche e sub-millimetriche, Alma ha consentito di guardare attraverso i polverosi meandri di J0107a, là dove perfino l’occhio di Webb risulta un po’ miope. Grossi episodi di formazione stellare producono infatti delle gran quantità di polveri che avvolgono galassie come questa, rendendo arduo il loro studio. La luce emessa alle lunghezze d’onda del millimetrico fortunatamente attraversa indisturbata questi muri di polvere e pertanto Alma rimane ancora il cavallo di battaglia per studiare galassie come J0107a – della sinergia fra Alma e Webb abbiamo parlato in questo video.


L’emissione stellare (in blu) della galassia J0107a, catturata da Webb con lo strumento NirCam. In rosso viene invece mostrata quella del gas molecolare CO(4-3), visto da Alma. Si nota la barra che attraversa la regione centrale della galassia, visibile nelle immagini di entrambi gli strumenti. Crediti: Nasa, Alma (Eso/Naoj/Nrao), Huang et al.

In gergo si chiamano galassie starburst, quelle galassie che stanno attraversando fasi di violenta formazione stellare. Agli inizi della storia del cosmo erano molto comuni, ma se ne trova qualcuna anche nei paraggi della Via Lattea. Quasi tutte le galassie starburst locali hanno una morfologia turbolenta dettata dall’interazione con altre galassie. L’interazione fra galassie agita il gas, scatenando degli intensi episodi di formazione stellare. Gli astronomi dunque ritengono che qualcosa di simile avvenisse anche in passato, ovvero che le fusioni fra galassie – in inglese, mergers – inneschino i mirabolanti eventi di formazione stellare che caratterizzano le galassie starburst lontane.


Esempio di starburst nell’universo vicino. Le fusioni tra galassie innescano intensi episodi di formazione stellare. Crediti: Nasa/Esa

Il problema è che molte di queste galassie, anziché presentarsi con una forma irregolare, slabbrata dall’interazione gravitazionale, come accade per le loro analoghe locali, nell’universo lontano si presentato con un’apparentemente quieta forma a disco. Questo ce l’hanno raccontato negli ultimi anni i dati di Alma e, più di recente, le sorprendenti immagini di Webb. Quest’ultimo ha immortalato J0107a nel 2023, rivelandone la forma regolare e la massa particolarmente pronunciata. Galassie, dunque, in apparenza placide come la nostra, che si degna di sfornare su per giù una stella all’anno, grossa come il Sole. Ci dev’essere dunque qualche altro meccanismo nell’universo lontano capace di innescare scoppi improvvisi di formazione stellare, al di là dei merger fra galassie. Quello individuato da Huang e collaboratori potrebbe fornire una risposta, rappresentando uno scenario alternativo alle fusioni tra galassie per generare ondate di nuovi astri. È la prima evidenza di un meccanismo di questo genere nell’universo lontano.

«La notevole quantità di gas necessaria per la crescita delle galassie giganti è fornita da fusioni fra galassie o afflussi di gas dalla ragnatela cosmica», spiega Huang riguardo alla struttura a disco di J0107a. «Mentre non ci sono segni di una fusione galattica, è stato rilevato un grande disco di gas attorno a J0107a. Questo disco di gas ha un diametro di circa 120mila anni luce, il doppio del diametro del corpo principale della galassia visibile come stelle, e il suo moto segue approssimativamente la galassia stessa. In base a ciò, ipotizziamo che sia stato creato da una grande quantità di gas che spiraleggia verso la galassia dalla ragnatela cosmica».

E aggiunge, rispetto al ruolo della barra nel favorire imponenti episodi di formazione stellare: «Questa è una nuova immagine di una galassia starburst, in cui una galassia a disco si forma da un flusso di gas su scala cosmica, seguito dall’emergere di una struttura a barra durante l’evoluzione della galassia, che porta a rapidi flussi di gas su scala galattica e a intensi episodi di formazione stellare. Continueremo i nostri studi osservativi con Alma per approfondire questi aspetti».

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Pianeta nano ai confini del Sistema solare




L’immagine mostra una composizione di cinque pianeti nani conosciuti dall’Unione astronomica internazionale e l’oggetto transnettuniano 2017 OF201 recentemente scoperto (cliccare per ingrandire). Crediti immagini pianeti nani: Nasa/Jpl-Caltech; crediti immagine 2017 OF201: Sihao Cheng et al.

Il Sistema solare non smette di sorprenderci, e i suoi confini si spingono sempre più lontano. Lo ha dimostrato un piccolo team di Princeton, nel New Jersey, quando il 21 maggio scorso ha confermato la scoperta di uno straordinario oggetto transnettuniano (Tno, da trans-Neptunian object) oltre l’orbita di Plutone chiamato 2017 OF201.

Tale rilevamento ha importanti implicazioni per la nostra conoscenza del Sistema solare esterno. Fino a qualche tempo fa si riteneva che la regione di spazio oltre Nettuno e la fascia di Kuiper fosse pressoché vuota, ma l’individuazione di questo oggetto suggerisce che la realtà potrebbe essere ben diversa. Il Tno appena scoperto è speciale per due motivi: la sua orbita estesa e le sue dimensioni ragguardevoli: con i suoi circa 700 km di diametro è infatti abbastanza grande da qualificarsi come pianeta nano, la stessa categoria a cui appartiene Plutone, ed è uno degli oggetti visibili più distanti del Sistema solare.

«Il suo afelio, il punto dell’orbita più lontano dal Sole, è 1600 volte l’orbita della Terra», spiega Sihao Cheng, capo del team di ricerca e membro presso la School of Natural Sciences dell’Institute for Advanced Study. «Invece, il suo perielio, il punto dell’orbita più vicino al Sole, è 44.5 volte l’orbita della Terra, simile all’orbita di Plutone».

Il corpo impiega ben 25mila anni a compiere un giro completo attorno al Sole, suggerendo dunque una complessa storia di interazioni gravitazionali. «Deve aver avuto incontri ravvicinati con un pianeta gigante, che lo hanno spinto a compiere un’orbita ampia», dice Eritas Yang, studentessa della Princeton University e collaboratrice della scoperta. «Potrebbero esserci stati più passaggi nella sua migrazione. È possibile che questo oggetto sia inizialmente stato espulso dalla nube di Oort, la regione più distante del Sistema solare, e sia poi stato rimandato indietro», aggiunge Cheng.


L’immagine mostra l’orbita di 2017 OF201. L’ingrandimento evidenza la posizione del pianeta, Plutone e Nettuno il giorno 21 maggio 2025. Crediti: Jiaxuan Li and Sihao Cheng

«Molti Tno hanno orbite che sembrano raggrupparsi in configurazioni specifiche, ma 2017 OF201 si discosta da questo comportamento», osserva Jiaxuan Li, studente della Princeton University, terzo e ultimo componente del team di ricerca. Si pensa che questi orientamenti siano causati dall’influenza gravitazionale di un pianeta massiccio oltre Nettuno, il cosiddetto Pianeta X. L’esistenza di 2017 OF201, eccezione a tali raggruppamenti, potrebbe suggerire che in realtà tale pianeta non esista.

Come dicevamo, Cheng e i colleghi stimano per 2017 OF201 un diametro di circa 700 km, dimensioni dunque relativamente ridotte rispetto ai 2377 km di Plutone. Se la misura fosse accurata, diventerebbe comunque il secondo oggetto conosciuto più grande avente un’orbita così estesa. Ulteriori osservazioni, anche con l’uso di radiotelescopi, saranno preò necessarie per determinare l’esatta grandezza dell’oggetto.

La scoperta fa parte di un progetto di ricerca volto a identificare oggetti transnettuniani e possibili nuovi pianeti ai confini del Sistema solare. Il corpo è stato individuato utilizzando metodi computazionali avanzati e un algoritmo efficiente prodotto da Cheng. Il team è partito dall’identificazione di punti luminosi in un database di immagini astronomiche del telescopio Victor M. Blanco e del Canada-France-Hawaii Telescope. Connettendo tutti i gruppi di punti che sembravano muoversi in una traiettoria probabile per un Tno, l’oggetto 2017 OF201 è stato identificato in 19 diverse esposizioni catturate nell’arco di 7 anni.


Immagini di 2017 OF201 dal database dei telescopi e la sua traiettoria nel cielo nell’arco di tempo compreso tra il 2012 e il 2018. Crediti: Jiaxuan Li and Sihao Cheng

«Il pianeta trascorre solo l’un per cento del suo tempo abbastanza vicino a noi da poterlo rilevare. La presenza dell’oggetto suggerisce che potrebbero esserci altri centinaia di corpi con orbite e grandezze simili, ma che al momento sono troppo lontani per essere individuati», spiega Cheng. «Nonostante i progressi dei telescopi ci abbiano permesso di esplorare zone distanti dell’universo, c’è ancora molto da scoprire sul nostro stesso Sistema solare».

La scoperta dimostra anche la forza dell’open science. «Tutti i dati che abbiamo utilizzato per identificare e caratterizzare questo oggetto provengono da archivi pubblici accessibili a chiunque, non solo agli astronomi professionisti», sottolinea infatti Li. «Questo significa che le scoperte rivoluzionarie non sono limitate a chi ha accesso ai più grandi telescopi del mondo. Qualsiasi ricercatore, studente o appassionato di scienza, con gli strumenti e le conoscenze giuste, avrebbe potuto fare questa scoperta, mettendo in evidenza il valore della condivisione delle risorse scientifiche».

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Con l’image restoring, il Sole in 8K



Uno dei grandi ostacoli nell’osservazione del Sole con telescopi da terra è rappresentato dalle distorsioni delle immagini introdotte dall’atmosfera. Anche con ottiche sofisticatissime, le istantanee che questi strumenti di ricerca ottengono possono infatti risultare sfocate. Tali alterazioni risultano problematiche soprattutto quando si vogliono studiare strutture molto fini della superficie solare, dell’ordine di poche centinaia di chilometri.


Immagine ad alta risoluzione, ricostruita a partire da cento esposizioni singole, catturate dal nuovo sistema di telecamere del Vacuum Tower Telescope. Crediti: R. Kamlah et al., Solar Physics, 2025

Per superare questi limiti, gli scienziati si affidano a diverse tecniche di restauro delle immagini. La speckle reconstruction è una di queste. Un team di ricerca dell’Istituto Leibniz per l’astrofisica di Potsdam, in Germania, ha applicato questa tecnica a una serie di immagini catturate con il telescopio solare Vacuum Tower Telescope, situato all’Osservatorio del Teide, alle Isole Canarie. Il risultato, reso possibile anche grazie all’impiego di nuove telecamere installate sul telescopio, consiste in una serie di immagini del Sole ad altissima definizione, nelle quali è possibile distinguere nitidamente i dettagli più fini delle sue regioni attive. Lo studio è stato pubblicato questo mese sulla rivista Solar Physics.

La speckle reconstruction è una tecnica che permette di migliore la qualità delle immagini astronomiche, in questo caso del Sole, riducendo o eliminando gli effetti del seeing atmosferico, del rumore elettronico e di altri fenomeni di degrado. Il metodo si basa sull’acquisizione di centinaia di immagini a esposizione molto breve. Questi scatti vengono poi combinati e processati tramite algoritmi di restauro, generando istantanee prive di distorsioni, il più fedele possibile alla realtà. Nel caso specifico, i ricercatori hanno applicato la tecnica alle immagini del Sole acquisite dal Vacuum Tower Telescope nel maggio 2024, ritraenti due regioni attive: Noaa 13691 e Noaa 13693. Dando in pasto all’algoritmo di image restoring cento di queste istantanee da 8000×6000 pixel, è stato possibile ottenere immagini in 8K, nitide e ricche di dettagli.

Le immagini coprono aree equivalenti a circa 1/7 del diametro del Sole, ovvero circa 200mila chilometri, spiegano i ricercatori. L’elevata frequenza degli scatti ha consentito di eliminare le distorsioni dovute all’atmosfera terrestre, facendo raggiungere al telescopio una risoluzione spaziale teorica di 100 chilometri sulla superficie del Sole. Inoltre, la rapidità nell’acquisizione delle immagini ha reso possibile la realizzazione di time-lapse con intervalli di appena 20 secondi, permettendo agli scienziati di osservare quasi in tempo reale l’evoluzione di fenomeni dinamici.


A sinistra, il dettaglio di un’immagine del Sole scattata con il Vacuum Tower Telescope di Tenerife. A destra, l’immagine ad alta risoluzione ricostruita a partire da cento esposizioni singole, catturate dal nuovo sistema di telecamere. Il nuovo sistema di telecamere del telescopio consente ai ricercatori di studiare con i grandi flussi di plasma, nonché l’evoluzione e il moto delle macchie solari. Crediti: R. Kamlah et al., Springer Nature, 2025

«Le prestazioni del nuovo sistema di telecamere hanno superato ogni aspettativa fin dal primo momento», sottolinea Robert Kamlah, ricercatore all’Università di Potsdam e primo autore dello studio

Le immagini restaurate mostrano con chiarezza le due macchie solari e, attorno ad esse, una distesa di granuli solari – le sommità delle celle convettive di plasma che risalgono dalla parte inferiore della fotosfera, conferendo al Sole il suo tipico aspetto “a buccia d’arancia”. Grazie a filtri speciali, i ricercatori sono stati in grado di rilevare tracce del campo magnetico solare, visibili nelle immagini come strutture luminose. Le osservazioni effettuate a 393 e 430 nanometri hanno inoltre permesso di identificare aree ad alta attività magnetica e di monitorare i movimenti del plasma in due strati dell’atmosfera solare: la fotosfera e la zona di transizione verso la cromosfera.

Nella studio, immagini nitide del Sole sono state ottenute anche con un’altra tecnica di miglioramento. Chiamata multi-frame blind deconvolution (deconvoluzione cieca), questo metodo ha lo stesso obiettivo del metodo speckle: ottenere un’immagine il più possibile fedele alla scena reale a partire da dati sfocati. Tuttavia, a differenza della speckle reconstruction, viene usata per rimuovere effetti di distorsione senza conoscerne esattamente la causa, da cui il nome deconvoluzione cieca.

Telescopi come il Vtt sono strumenti fondamentali per lo studio dell’attività solare, soprattutto quando si vogliono analizzare vaste regioni attive durante brillamenti solari o altri eventi eruttivi connessi alla meteorologia spaziale, osservano i ricercatori. In futuro, sistemi a basso costo dotati di telecamere 8K giocheranno un ruolo chiave per la prossima generazione di telescopi solari da 4 metri di diametro, triplicando il campo visivo rispetto alle attuali tecnologie basate su sensori 4K.

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Disfida tra galassie nello spazio profondo



In una zona remota dell’universo, due galassie sono impegnate in una guerra avvincente. Caricano ripetutamente l’una contro l’altra a velocità di 500 km/s su una violenta rotta di collisione, solo per assestare un colpo di striscio prima di ritirarsi e prepararsi per un altro round. «Per questo chiamiamo questo sistema ‘giostra cosmica’», dice Pasquier Noterdaeme, coautore dello studio pubblicato la settimana scorsa su Nature che riporta il risultato e ricercatore presso l’Istituto di astrofisica di Parigi, in Francia, e il Laboratorio franco-cileno di astronomia in Cile, facendo un paragone con lo sport medievale. Ma questi cavalieri galattici non sono realmente cavallereschi, e uno di loro ha un vantaggio decisamente sleale: usa un quasar per trafiggere l’avversario con una lancia di radiazioni.


Questa immagine, ottenuta con Alma, mostra il contenuto di gas molecolare di due galassie coinvolte in una collisione cosmica. Quella a destra ospita un quasar, un buco nero supermassiccio che sta accumulando materiale dall’ambiente circostante e rilascia intense radiazioni direttamente verso l’altra galassia. Gli astronomi hanno utilizzato lo strumento X-shooter del Vlt dell’Eso per rilevare la luce del quasar mentre attraversa un alone invisibile di gas che circonda la galassia sulla sinistra. In questo modo è stato possibile osservare i “danni” che questa radiazione provoca alla “vittima”, frammentando le sue nubi di gas e ostacolando la sua capacità di formare nuove stelle. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/S. Balashev e P. Noterdaeme et al.

Il quasar è il nucleo luminoso di alcune galassie lontane, alimentato da un buco nero supermassiccio, che rilascia enormi quantità di radiazioni. Sia i quasar che la fusione tra galassie erano molto più comuni nel passato: più frequenti nei primi miliardi di anni di vita dell’universo, quindi per osservarli gli astronomi scrutano il lontano passato con potenti telescopi. La luce di questa “giostra cosmica” ha impiegato oltre 11 miliardi di anni per raggiungerci, quindi la vediamo com’era quando l’universo aveva solo il 18 per cento dell’età attuale.

«Qui vediamo per la prima volta l’effetto della radiazione di un quasar direttamente sulla struttura interna del gas in una galassia altrimenti normale», spiega Sergei Balashev, primo autore dello studio e ricercatore presso l’istituto Ioffe di San Pietroburgo, in Russia. Le nuove osservazioni indicano che la radiazione rilasciata dal quasar disgrega le nubi di gas e polvere nella galassia normale, lasciando indietro solo le regioni più piccole e dense, probabilmente troppo piccole per essere in grado di formare stelle, e provocando una notevole trasformazione che lascia la galassia ferita con meno incubatrici stellari.

Ma la vittima galattica non è l’unica a essere trasformata. «Si pensa che queste fusioni», spiega Balashev, «portino enormi quantità di gas ai buchi neri supermassicci che risiedono nel centro delle galassie». Nella giostra cosmica, nuove riserve di combustibile vengono messe alla portata del buco nero che alimenta il quasar. Mentre il buco nero si alimenta, il quasar può continuare il suo attacco distruttivo.

Lo studio è stato condotto utilizzando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) e lo strumento X-shooter montato sul Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), entrambi situati nel deserto di Atacama in Cile. L’alta risoluzione di Alma ha aiutato gli astronomi a distinguere chiaramente le due galassie in fusione, così vicine da apparire come un singolo oggetto nelle osservazioni precedenti. Con X-shooter, i ricercatori hanno analizzato la luce del quasar mentre attraversava la galassia normale. Questo ha permesso al gruppo di lavoro di studiare come la galassia abbia sofferto a causa della radiazione del quasar in questa lotta cosmica.

Osservazioni con telescopi più grandi e potenti potrebbero rivelare di più su collisioni come questa. Come afferma Noterdaeme, un telescopio come l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso «ci consentirà sicuramente di compiere uno studio più approfondito di questo e di altri sistemi, per comprendere meglio l’evoluzione dei quasar e il loro effetto sulla galassia ospitie e su quelle vicine».

Fonte: comunicato stampa Eso

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Disco di ghiaccio cinge una giovane stella



Un team di ricercatori guidato da Chen Xie della Johns Hopkins University di Baltimore, nel Maryland, ha confermato la presenza di ghiaccio d’acqua cristallino in un disco di detriti polverosi attorno a una giovane stella simile al Sole, HD 181327, distante circa 155 anni luce da noi. Il risultato, pubblicato la settimana scorsa su Nature, è stato ottenuto grazie ai dati raccolti dal telescopio spaziale James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa.

La presenza di acqua ghiacciata in questo sistema era già stata suggerita da alcune osservazioni dell’ormai defunto telescopio spaziale Spitzer della Nasa. Ora, la sensibilità senza precedenti degli strumenti del Jwst ha permesso di rilevare in modo inequivocabile il ghiaccio d’acqua cristallino, presente anche – nel Sistema solare – in ambienti come gli anelli di Saturno o i corpi ghiacciati della Fascia di Kuiper. Il ghiaccio rilevato da Webb è associato a minuscole particelle di polvere distribuite in tutto il disco: vere e proprie “palle di neve sporche” in miniatura, che testimoniano un ambiente dinamico e ricco di collisioni tra corpi minori.


Rappresentazione artistica della stella HD 181327 osservata dal James Webb e del suo disco di detriti dove è stato osservato il ghiaccio d’acqua cristallino. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Ralf Crawford (Stsci)

Il ghiaccio d’acqua è un ingrediente fondamentale nei dischi attorno alle giovani stelle: influenza fortemente la formazione dei pianeti giganti e può anche essere trasportato da piccoli corpi, come comete e asteroidi, verso i pianeti rocciosi già formati.

Si stima che la stella HD 181327 abbia circa 23 milioni di anni, dunque significativamente più giovane del Sole, rispetto al quale è anche leggermente più massiccia e più calda, caratteristiche che hanno favorito la formazione di un sistema più grande attorno ad essa.

I dati, raccolti dallo strumento NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) del Jwst, hanno rivelato una distribuzione non uniforme del ghiaccio all’interno del disco. La concentrazione maggiore, oltre il 20 per cento, si trova nelle zone più esterne e fredde, lontane dalla stella. La percentuale scende nella parte intermedia all’8 per cento, mentre le zone più interne non mostrano, agli occhi del Webb, alcuna traccia di ghiaccio. Si pensa che in queste regioni la radiazione ultravioletta della stella abbia vaporizzato le particelle, oppure che il ghiaccio sia stato inglobato all’interno dei planetesimi, rendendolo invisibile agli strumenti del telescopio.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Water ice in the debris disk around HD 181327”, di Chen Xie, Christine H. Chen, Carey M. Lisse, Dean C. Hines, Tracy Beck, Sarah K. Betti, Noemí Pinilla-Alonso, Carl Ingebretsen, Kadin Worthen, András Gáspár, Schuyler G. Wolff, Bryce T. Bolin, Laurent Pueyo, Marshall D. Perrin, John A. Stansberry e Jarron M. Leisenring


Troppo vicina al buco nero: la fine di una stella



Pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un articolo scientifico a guida dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) riporta l’osservazione di un raro evento di distruzione mareale (o Tde, dall’inglese Tidal Disruption Event) in una coppia di galassie in interazione. Chiamato At 2022wtn, il fenomeno è stato segnalato alla comunità astronomica dalla Zwicky Transient Facility e quindi classificato come evento di distruzione mareale grazie a osservazioni spettroscopiche a cui ha fatto seguito una campagna multi-frequenza nell’ambito della collaborazione ePessto+, coprendo lo spettro elettromagnetico dalla banda radio agli infrarossi, per arrivare fino ai raggi X. Questo studio apre nuove prospettive sui processi che si innescano quando una stella si avvicina troppo a un buco nero supermassiccio al centro di una galassia e sulla connessione tra questi eventi distruttivi e l’evoluzione dinamica delle galassie.

L’evento di distruzione mareale si è verificato nel nucleo della galassia meno massiccia della coppia (denominata Sdssj232323.79+104107.7), circa dieci volte più piccola della sua compagna, in un sistema in fase iniziale di “fusione” che ha probabilmente già subito un primo passaggio ravvicinato.


Immagine dal Legacy Survey Dr10 del campo di At 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Inaf/F. Onori

At 2022wtn mostra caratteristiche particolarmente insolite rispetto agli eventi simili già noti, come spiega Francesca Onori, assegnista di ricerca dell’Inaf in Abruzzo e prima autrice dello studio. «È un evento peculiare. La sua curva di luce è caratterizzata da un plateau nella fase di massima luminosità – della durata di circa 30 giorni – accompagnato da un brusco crollo della temperatura e una sequenza spettrale che mostra lo sviluppo di due righe in emissione in corrispondenza delle lunghezze d’onda dell’elio e dell’azoto. Qualcosa che non avevamo mai osservato con tanta chiarezza».

Gli eventi di distruzione mareale si verificano quando una stella si avvicina a un buco nero supermassiccio, generalmente situato al centro di una normale galassia. La potente forza gravitazionale esercitata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella, riuscendo prima a deformarla e poi a distruggerla, allungandola sino a formare sottili filamenti, in un processo, chiamato “spaghettificazione”, durante il quale viene rilasciata un’enorme quantità di energia osservabile da Terra. I frammenti stellari catturati formano un disco di materiale che orbita intorno al buco nero (il disco di accrescimento) che, cadendo su di esso, si riscalda a temperature altissime ed emette radiazioni intense alle frequenze X, Uv e del visibile.


Francesca Onori, ricercatrice all’Inaf d’Abruzzo e prima autrice dello studio pubblicato su Mnras

Tra gli aspetti più sorprendenti riportati nell’articolo c’è anche la rilevazione di un’emissione radio transiente, segno della presenza di flussi di materia in uscita (outflow in inglese), e forti variazioni nel tempo delle velocità delle linee spettrali. Tutti questi indizi indicano che una stella di bassa massa è stata completamente distrutta da un buco nero supermassiccio di circa un milione di masse solari, generando il disco di accrescimento e una sorta di “bolla” quasi sferica di gas espulso in espansione.

«Abbiamo trovato tracce chiare della dinamica del materiale circostante anche in alcune righe in emissione», aggiunge Onori, «che mostrano caratteristiche compatibili con una veloce propagazione verso l’esterno. Grazie alla nostra campagna di monitoraggio siamo riusciti a proporre un’interpretazione dell’origine della radiazione osservata: At2022wtn ha dato luogo a una rapida formazione del disco attorno al buco nero e alla successiva espulsione di parte della materia stellare. Questo risultato è particolarmente rilevante, poiché la sorgente della luce visibile e le condizioni fisiche della regione da cui essa proviene, nei Tde, sono ancora oggetto di studio».

Il gruppo di ricerca si è inoltre concentrato sull’ambiente galattico dell’evento. AT 2022wtn è il secondo evento di distruzione mareale osservato in una coppia di galassie in interazione, una coincidenza che, secondo quanto si legge nello studio, non è casuale: le prime fasi delle fusioni galattiche potrebbero infatti favorire un aumento della frequenza di questi fenomeni estremi, ancora poco compresi.

«Questa eccellente scoperta scientifica mette in luce quanto l’astrofisica moderna richieda sempre maggiori conoscenze interdisciplinari e notevoli capacità di analisi multibanda. È davvero molto importante che l’Inaf sia pronto a raccogliere queste sfide scientifiche con giovani ricercatrici come Francesca Onori», conclude Enzo Brocato, dirigente di ricerca presso l’Inaf a Roma e tra gli autori dell’articolo.

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “The case of AT2022wtn: a Tidal Disruption Event in an interacting galaxy”, di F. Onori, M. Nicholl, P. Ramsden, S. McGee, R. Roy, W. Li, I. Arcavi, J. P. Anderson, E. Brocato, M. Bronikowski, S. B. Cenko, K. Chambers, T. W. Chen, P. Clark, E. Concepcion, J. Farah, D. Flammini, S. González-Gaitán, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, E. Hammerstein, K. R. Hinds, C. Inserra, E. Kankare, A. Kumar, L. Makrygianni, S. Mattila, K. K. Matilainen, T. E. Müller-Bravo, T. Petrushevska, G. Pignata, S. Piranomonte, T. M. Reynolds, R. Stein, Y. Wang, T. Wevers, Y. Yao e D. R. Young


Einstein Telescope, da lunedì il Simposio a Bologna



Dal 26 al 30 maggio la comunità internazionale di Einstein Telescope (Et) si riunirà a Bologna per il suo quindicesimo Simposio annuale, un evento che vedrà la presenza di oltre trecento ricercatori e ricercatrici provenienti da tutto il mondo. L’evento, co-organizzato da Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, Sezione di Bologna dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Sezione di Bologna dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e Istituto nazionale di astrofisica – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna (Inaf Oas), rappresenta un’importante occasione per discutere gli sviluppi di questo ambizioso progetto che mira a diventare il più avanzato osservatorio di onde gravitazionali al mondo.


XV Einstein Telescope Symposium – Bologna, 26–30 maggio 2025

Einstein Telescope è la futura infrastruttura di ricerca europea di terza generazione dedicata ai rivelatori di onde gravitazionali, progettata per superare di almeno mille volte le capacità degli attuali strumenti (Ligo negli Stati Uniti e Virgo in Italia, che nel 2015 hanno rilevato per la prima volta le onde gravitazionali previste da Albert Einstein). Uno dei siti candidati a ospitare Et si trova in Sardegna, nell’area intorno all’ex miniera di Sos Enattos (NU). L’esperimento sarà costruito all’interno di una grande struttura sotterranea, a 100-300 metri di profondità. Questa collocazione “silenziosa” lo isolerà dalle vibrazioni sismiche e umane (“rumore”) che potrebbero interferire con le sue delicate misurazioni.

Parallelamente all’intenso programma scientifico, durante la settimana si svolgeranno a Bologna anche una serie di iniziative gratuite rivolte alla cittadinanza, organizzate nell’ambito del progetto Et-Italia con il supporto dello European Gravitational Observatory.

Mostra “Einstein Telescope: Uno sguardo all’universo profondo”

Dal 26 maggio al 13 giugno | Palazzo d’Accursio (Manica Lunga), Piazza Maggiore, Bologna – dal lunedì al sabato dalle 7:00 alle 20:00; la domenica dalle 9:00 alle 19:00

Il percorso espositivo parte dalla relatività generale di Einstein fino alla rivoluzionaria scoperta delle onde gravitazionali, per poi concentrarsi su Einstein Telescope, infrastruttura di ricerca all’avanguardia inclusa nella Roadmap Esfri. La mostra esplora le prospettive scientifiche di Et, le sfide tecnologiche e industriali del progetto, con un focus sulla candidatura italiana del sito di Sos Enattos in Sardegna, dove sono già in corso attività preparatorie.


Locandina degli eventi per il pubblico (cliccare per ingrandire)

Spettacolo “L’Universo sottoterra – Einstein Telescope in Sardegna”

Giovedì 29 maggio | ore 21:00 | Cinema Modernissimo, Piazza Re Enzo 3, Bologna. Ingresso gratuito. Prenotazioni: l.infn.it/et-modernissimo


Conferenza-spettacolo che intreccia scienza, arte e territorio per raccontare una delle più affascinanti sfide della fisica contemporanea: la costruzione di Einstein Telescope, il futuro osservatorio sotterraneo europeo per le onde gravitazionali, il cui sito ideale potrebbe sorgere nel cuore della Sardegna, nell’area intorno all’ex miniera di Sos Enattos, a Lula. Sotto la guida ironica e appassionata di Patrizio Roversi, il pubblico verrà condotto in un viaggio tra le profondità della Terra e quelle dello spazio-tempo. Con il contributo della scienziata Marica Branchesi, tra i volti più noti dell’astrofisica delle onde gravitazionali, e del fisico Massimo Carpinelli, tra i promotori del progetto in Sardegna, si esplorerà il senso di una ricerca che ha l’ambizione di osservare l’universo al di là della luce, ascoltandone le vibrazioni più remote. Ma non sarà solo scienza. A raccontare il legame tra ricerca e paesaggio, tra conoscenza e identità, ci saranno anche le note del violino di Anna Tifu, musicista sarda di fama internazionale, e le illustrazioni dal vivo di Angelo Adamo, artista e scienziato, che daranno forma visiva all’immaginario di un universo che pulsa sotto i nostri piedi.

Van interattivo “Big Bang Machine”

Giovedì 29 maggio dalle 12:00 alle 21:00 e venerdì 30 maggio dalle 10:00 alle 19:00 | Piazza Galvani, Bologna

La “Big Bang Machine”, un laboratorio mobile nel cuore di Bologna, offre un’esperienza immersiva che guida il pubblico in un viaggio virtuale attraverso lo spazio e il tempo, fino alle origini dell’universo. A bordo di una navicella spazio-temporale, i visitatori esploreranno fenomeni estremi come buchi neri, fusioni stellari e i primi istanti del cosmo. L’esperienza mira a mostrare il legame tra i segnali cosmici e lo studio della Terra, rendendo accessibili i temi della fisica fondamentale in modo coinvolgente e interattivo.



Giove era grande il doppio, miliardi di anni fa



Giove è spesso definito l’“architetto” del Sistema solare. Il perché di questo appellativo è il fondamentale ruolo che la sua formazione ed evoluzione hanno svolto nel plasmare la geometria su larga scala del nostro quartiere cosmico. Il paradigma attuale, ormai largamente accettato dalla comunità scientifica, è infatti che la moltitudine di corpi celesti che albergano nel Sistema solare si sia evoluta sotto l’influenza di due soli oggetti celesti: il Sole e, appunto, Giove. Di conseguenza, comprendere l’origine e la struttura del pianeta è considerato un passo cruciale per ricostruire l’evoluzione del Sistema solare primordiale. Per approfondire queste origini, Konstantin Batygin del California Institute of Technology e Fred Adams dell’Università del Michigan hanno analizzato la dinamica di due delle sue lune, Amaltea e Tebe, le cui orbite sono ritenute primordiali, deducendo il raggio e lo stato interno di Giove al momento della cosiddetta dissipazione della nebulosa proto-solare.


Crediti: Kevin M. Gill/Cc-By/Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss)

Oltre ai ben noti satelliti galileiani, Giove è circondato da un sistema piccole lune: Tebe, Amaltea, Adrastea e Metis, disposte in ordine di distanza decrescente dal pianeta. Tra le quattro, Amaltea e Tebe sono le uniche a possedere orbite inclinate rispetto al piano equatoriale del pianeta. Queste caratteristiche, secondo gli scienziati, indicano orbite primordiali, orbite cioè che non sono state modificate nel corso dell’evoluzione del pianeta, e per questo utili per indagare sul passato del pianeta. Partendo da queste discrepanze orbitali, i ricercatori hanno calcolato le dimensioni originali di Giove, così come l’intensità del suo antico campo magnetico.

«Il nostro obiettivo è capire da dove veniamo. Individuare le fasi iniziali della formazione dei pianeti è essenziale per risolvere questo enigma», sottolinea Batygin. «Questo ci avvicina a comprendere come non solo Giove, ma l’intero Sistema solare abbia preso forma».

Nello studio, il team si è concentrato sulla dinamica orbitale delle lune e sulla conservazione del momento angolare del pianeta. Un aspetto chiave della ricerca è stato collegare le analisi a un’epoca ben definita dell’evoluzione del Sistema solare. Per farlo, i ricercatori hanno utilizzato i dati di magnetizzazione dell’angrite, la materia differenziata più antica del Sistema solare che si conosca.


Illustrazione artistica che mostra Giove con le linee di campo magnetico che fuoriescono dai suoi poli. Crediti: K. Batygin/Caltech

L’analisi ha prodotto un’istantanea di com’era Giove circa 4,5 miliardi di anni fa, all’epoca della cosiddetta dissipazione della nebulosa proto-solare, una fase di transizione nell’evoluzione del Sistema solare in cui la nebulosa solare – la nube di gas e polvere da cui sono nati i pianeti – si è dissolta e l’architettura del nostro quartiere cosmico consolidata.

I risultati delle indagini, pubblicati su Nature Astronomy, indicano che Giove fosse da due a due volte e mezzo più grande, con un volume stimato equivalente a quello di oltre duemila Terre. I calcoli dei ricercatori suggeriscono inoltre che il pianeta avesse un campo magnetico di circa 21 milliTesla, un valore 50 volte superiore a quello attuale (pari all’equatore a 0.42 millitesla), e che accrescesse materia da un disco proprio – il disco circumgioviano – a un ritmo di 1,2-2.4 masse gioviane ogni milione di anni, fino alla distruzione della nebulosa solare.

Questo studio apre una finestra sul passato di Giove, rivelandone un volto primordiale molto diverso da quello attuale. Al tempo stesso, però, aggiunge tasselli fondamentali ai modelli attuali di formazione planetaria. Le attuali caratteristiche fisiche di Giove sono in linea con le previsioni del modello di accrescimento del nucleo (noto anche come modello di instabilità del nucleo) della formazione dei pianeti giganti, spiegano i ricercatori. Secondo questo modello, la formazione dei giganti gassosi segue una serie di fasi distinte. Inizialmente, si forma un nucleo roccioso ad alta metallicità, seguito da un periodo di lenta crescita caratterizzato dalla formazione un’atmosfera di idrogeno ed elio. Questo processo continua finché la massa dell’involucro gassoso non raggiunge quella del nucleo. Una volta superata questa soglia, segue un periodo transitorio di rapido accrescimento di gas, che facilita l’accumulo della maggior parte della massa del pianeta. Infine, il pianeta si separa dalla nebulosa circostante, intraprendendo un percorso di evoluzione termica a lungo termine. Per quanto riguarda Giove, osservano i ricercatori, i nostri risultati sono pienamente coerenti con questo modello.

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I pendii striati su Marte non sono tracce d’acqua



Per anni, gli scienziati hanno osservato strane strisce che “dipingono” le pareti dei rilievi marziani. Alcuni le hanno interpretate come flussi liquidi, suggerendo la possibile esistenza di ambienti attualmente abitabili sul Pianeta rosso. Tuttavia, un nuovo studio pubblicato su Nature Communications, condotto dalla Brown University e dall’Università di Berna, mette in dubbio questa affascinante ipotesi. I ricercatori, che hanno utilizzato l’apprendimento automatico per creare e analizzare un’enorme quantità di dati sulle caratteristiche delle striature dei pendii, propongono una spiegazione diversa: un processo secco, legato all’attività del vento e della polvere.


Strisce luminose e scure che ricoprono le pendici dell’Olympus Mons, viste dallo strumento Colour and Stereo Surface Imaging System (CaSSIS) a bordo dell’ExoMars Trace Gas Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. L’immagine copre un’area di circa 50 chilometri quadrati ed è stata acquisita il 3 ottobre 2024. Coordinate marziane: 26,5°N, 223,8°E. Crediti: Esa

Gli scienziati hanno osservato per la prima volta le strane striature nelle immagini raccolte dalla missione Viking della Nasa, negli anni Settanta. Questi tratti, generalmente più scuri rispetto al terreno circostante, si estendono per centinaia di metri lungo pendii marziani. Alcuni di essi persistono per anni o addirittura decenni, mentre altri appaiono e scompaiono più rapidamente. Le formazioni di più breve durata – soprannominate linee di pendenza ricorrenti (Rsl, Recurring Slope Lineae) – sembrano comparire sempre negli stessi punti durante i periodi più caldi dell’anno marziano.

L’origine delle striature è stata a lungo oggetto di dibattito tra gli scienziati planetari. L’attuale Marte è estremamente secco, e le temperature raramente superano lo zero. Tuttavia, è stato ipotizzato che piccole quantità d’acqua – forse derivanti da ghiaccio sotterraneo, falde acquifere profonde o da un’atmosfera insolitamente umida – possano mescolarsi con sali presenti nel suolo, dando origine a flussi liquidi anche sulla gelida superficie marziana. Se ciò fosse vero, le Rsl e le striature sui pendii potrebbero rappresentare rare nicchie abitabili su un pianeta altrimenti inospitale.

Tuttavia, non tutti i ricercatori concordano con questa interpretazione. Alcuni sostengono che le striature siano in realtà causate da processi completamente asciutti, come la caduta di massi o l’azione del vento, e che la loro parvenza “liquida” sia semplicemente un’illusione dovuta alle immagini orbitali.

Nella speranza di ottenere nuovi spunti, i due autori dello studio – Valentin Tertius Bickel e Adomas Valantinas – si sono affidati a un algoritmo di apprendimento automatico per catalogare il maggior numero possibile di striature sui pendii marziani. Dopo aver addestrato l’algoritmo su avvistamenti confermati di queste strisce, lo hanno applicato all’analisi di oltre 86mila immagini satellitari ad alta risoluzione. Il risultato è stata una mappa globale di queste striature su Marte, unica nel suo genere, che raccoglie più di 500mila caratteristiche di tali formazioni.

«Una volta ottenuta questa mappa globale, abbiamo potuto confrontarla con database e cataloghi in cui sono raccolti altri parametri come la temperatura, la velocità del vento, l’idratazione, l’attività delle frane e altri fattori», dice Bickel. «Poi abbiamo potuto cercare correlazioni su centinaia di migliaia di casi per capire meglio le condizioni in cui si formano queste caratteristiche».

L’analisi geostatistica ha evidenziato che le striature dei pendii e le Rsl non sono generalmente associate a fattori indicativi di un’origine liquida o glaciale, come un orientamento specifico dei pendii, ampie variazioni della temperatura superficiale o un’elevata umidità. Al contrario, lo studio ha rilevato che entrambe le formazioni tendono a svilupparsi in aree caratterizzate da velocità del vento e depositi di polvere superiori alla media, elementi che suggeriscono un’origine secca.

I ricercatori concludono che le striature si formano molto probabilmente quando strati di polvere fine scivolano improvvisamente lungo pendii ripidi, sebbene le cause specifiche possano variare. Le striature dei pendii risultano più comuni in prossimità di crateri da impatto relativamente recenti, dove le onde d’urto potrebbero innescare lo scivolamento della polvere superficiale. Le Rsl, invece, si osservano più frequentemente in aree caratterizzate da fenomeni come i diavoli di polvere o la caduta di massi.

Nel complesso, i risultati sollevano nuovi dubbi sull’ipotesi che le striature sui pendii e le Rsl rappresentino ambienti abitabili su Marte. Questo ha importanti implicazioni per la futura esplorazione del Pianeta rosso perché sebbene gli ambienti potenzialmente abitabili siano obiettivi privilegiati per le missioni, si preferisce mantenere da questi ambienti una certa distanza per evitare il rischio di contaminazione. Qualsiasi microbo terrestre trasportato da un veicolo spaziale potrebbe infatti compromettere l’integrità di questi ambienti, ostacolando la ricerca di vita autoctona su Marte. Lo studio suggerisce che, in questi peculiari ambienti oggetto di studio, tale rischio di contaminazione è piuttosto basso.

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Ricercatrice Inaf premiata dalla Gruber Foundation




Sambatriniaina Hagiriche Aycha Rajohnson, ricercatrice originaria del Madagascar, oggi all’Inaf di Cagliari, a Selargius. Crediti P. Soletta/Inaf

Prestigioso riconoscimento per Sambatriniaina Hagiriche Aycha Rajohnson, ricercatrice dell’Inaf di Cagliari nel team di studio coordinato dall’astrofisico cagliaritano Paolo Serra dedicato all’osservazione dell’ammasso di galassie della Fornace con la rete di telescopi MeerKat, in Sudafrica. La dottoressa Rajohnson è stata dichiarata vincitrice di una borsa di studio messa in palio dalla statunitense Gruber Foundation, che ogni anno dal 2001, in collaborazione con l’Unione astronomica internazionale (Iau), finanzia un programma di borse di studio di 75mila dollari per valorizzare e incoraggiare il lavoro dei giovani astronomi più promettenti.

In linea con le scelte effettuate negli ultimi anni, il comitato di selezione – composto dalle vicepresidenti dello Iau Hyesung Kang (presidente del comitato), Monica Rubio e Gražina Tautvaisiene – ha deciso di assegnare anche quest’anno la borsa di studio a tre candidati i cui studi astronomici sono stati riconosciuti come eccellenti, conferendo loro l’importante cifra di 25mila dollari ciascuno per poter continuare ad approfondire le proprie ricerche. A far compagnia alla ricercatrice malgascia ci sono dunque altri due giovani ricercatori entrambi con interessi scientifici molto simili ai suoi. L’astronomo britannico Deaglan John Bartlett ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Oxford nel 2022 ed è attualmente postdoc all’Institut d’Astrophysique di Parigi, dove si occupa di studi sull’intelligenza artificiale e machine learning applicato a livello cosmologico su materia oscura, energia oscura e processi di formazione galattica. Premiata anche l’astronoma indiana Akshara Viswanathan, che ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Groningen (Paesi Bassi) nel 2024 e, da gennaio 2025, ha iniziato una borsa di studio all’Università di Victoria, in Canada. La sua ricerca mira a studiare la peculiare distribuzione delle stelle di piccola massa e bassa metallicità nell’alone esterno della Via Lattea, utili a comprendere la formazione primordiale della nostra galassia.

Nel caso della ricercatrice dell’Inaf di Cagliari, che per amici e colleghi è semplicemente Sambatra, lo studio continua nel solco galattico ma in modo ancora diverso, in quanto l’oggetto di ricerca consiste in un ammasso di galassie di piccola massa, quello appunto della Fornace, di cui viene studiata la distribuzione e il comportamento del mezzo interstellare e in particolare del gas di idrogeno freddo (HI) nell’ambito dei processi di quenching, ovvero di spegnimento della capacità di formare nuove stelle. Il percorso che ha portato Sambatra fino a Cagliari parte nel 2018, quando, dopo la triennale, consegue una laurea magistrale in astrofisica all’Università di Antananarivo (Madagascar), dove comincia da subito la sua attività di ricerca. La partecipazione, sempre nel 2018, al programma di formazione di base Development in Africa with Radio Astronomy (Dara) le suscita un forte interesse verso le scienze radioastronomiche – interesse che l’ha portata ad approfondire lo studio dell’idrogeno neutro nelle galassie al di fuori della Via Lattea, fondamentale per comprendere l’evoluzione galattica su larga scala. Dopo il dottorato di ricerca conseguito nel 2024 all’Università di Città del Capo, in Sudafrica, questo percorso l’ha fatta approdare, nel gennaio 2025, nello staff di ricerca del gruppo Fornax dell’Inaf di Cagliari, condotto dall’astrofisico cagliaritano Paolo Serra. Il potenziale di questo ambito scientifico è stato riconosciuto e premiato dal comitato della fondazione Gruber a fronte di una discreta concorrenza: le candidature valide alla Gruber Fellowship 2025 sono state ben 43 – 20 donne e 23 uomini.

«Sono profondamente onorata, grata e davvero felice di aver ricevuto una delle borse di studio della Gruber Foundation per il 2025», dice Sambatra Rajohnson. «Ricevere questo premio significa molto per me. È un potente promemoria del fatto che anni di dedizione e perseveranza, supportati dall’incrollabile incoraggiamento di chi mi circonda, sono stati proficui. Questo riconoscimento mi dà rinnovata speranza e motivazione: non mollare mai, puntare sempre in alto, a prescindere da quanto sia difficile il percorso della ricerca».

Il comitato The Gruber Foundation 2025 sottolinea infine l’eccezionale qualità di tutti i candidati che hanno presentato domanda. «Il comitato di selezione delle borse di studio della Gruber Foundation è rimasto profondamente colpito dall’eccezionale qualità e originalità delle candidature di quest’anno», dichiara infatti Hyesung Kang.«L’attuale generazione di astronomi all’inizio della carriera si distingue per intuizione e creatività straordinariamente profonde e la numerosità delle proposte di ricerca ha reso il processo di selezione estremamente stimolante e competitivo».

Il bando per il 2026 si aprirà il 1° dicembre 2025 e le candidature complete per la borsa di studio della Gruber Foundation dovranno essere presentate online entro la scadenza del 1° marzo 2026.

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Voyager 1, propulsori riparati dopo 21 anni



Quando nel 2004 la sonda Voyager 1 smise di rispondere ai comandi dei suoi propulsori principali per il controllo del rollio, il team del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, nel sud della California, ritenendo che la causa fosse un guasto ai riscaldatori interni, decise di considerarli definitivamente persi e di affidarsi ai soli propulsori di riserva. Nei mesi scorsi, a distanza di oltre due decenni, quando la sonda si trova ormai ben oltre i confini dell’eliosfera, il team ha deciso di tentare l’impossibile: riparare da remoto un sistema inattivo da ventun anni. Il motivo è che i tubi del carburante nei propulsori di riserva, gli unici rimasti operativi, stavano accumulando residui che rischiavano di renderli inutilizzabili già a partire dall’autunno del 2025. Nel frattempo, l’unica antenna abbastanza potente per inviare i comandi alle sonde Voyager, la Deep Space Station 43 (Dss-43) di Canberra, in Australia, si prepara a essere messa offline da maggio 2025 a febbraio 2026 per lavori di aggiornamento. Una finestra di opportunità stretta, che ha spinto il team ad agire prima della sospensione delle comunicazioni.


Le due sonde gemelle Voyager della Nasa, lanciate nel 1977, stanno ora viaggiando nello spazio interstellare a circa 56mila km/h. In questa rappresentazione artistica è raffigurata una delle sonde mentre sfreccia nello spazio profondo. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Esaminando il guasto del 2004, il team ha ipotizzato che il problema non fosse irreparabile, ma causato da un’interruzione nel circuito di alimentazione elettrica dei riscaldatori. Ripristinando dunque la configurazione originale dei circuiti dei riscaldatori, i propulsori principali sarebbero potuti tornare attivi. Tuttavia, l’operazione comportava dei rischi: i propulsori di rollio sono fondamentali per mantenere l’antenna della sonda allineata con la Terra. Un disallineamento del tracciatore stellare, che guida l’orientamento, avrebbe potuto attivare i propulsori in modo scorretto, provocando possibili danni.

Nonostante i rischi, il 20 marzo 2025 il team ha inviato i comandi necessari a riattivare i riscaldatori della sonda Voyager 1. Dopo oltre 23 ore – viaggiando alla velocità della luce – per raggiungere la sonda, e altrettante per ricevere la risposta, è arrivata la conferma: i riscaldatori si erano riaccesi e i propulsori creduti “morti” da vent’anni, erano tornati in funzione. L’operazione ha ridato alla sonda una riserva importante per il controllo dell’assetto e ha permesso di estendere la vita operativa della missione, guadagnando tempo prezioso mentre l’antenna Dss-43 resterà fuori servizio per diversi mesi.

Lanciata nel 1977, la Voyager 1 è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, insieme alla sua gemella Voyager 2. Entrambe viaggiano a circa 56mila km/h nello spazio a più di venti miliardi di chilometri da noi. E a quasi 50 anni dal lancio, continuano a esplorare l’ignoto e a inviare dati scientifici unici, frutto di un’ingegneria senza precedenti e della tenacia di chi ancora le segue da Terra.



Lo stretching della Piccola Nube di Magellano



La Piccola Nube di Magellano – Small Magellanic Cloud (Smc), in inglese – è una galassia nana situata a circa 200mila anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione del Tucano. Dopo la Grande Nube di Magellano (Lmc), sua “sorella maggiore”, è la galassia a noi più vicina, e per questo ampiamente studiata dalla comunità astronomica.

Uno degli ultimi studi che la riguardano è stato pubblicato il 15 maggio scorso su The Astrophysical Journal Letters. Oggetto della ricerca sono le cefeidi classiche della galassia, una classe di stelle variabili che gli astronomi utilizzano come “candele standard” per misurare le distanze cosmiche. Condotto da due ricercatori dalla Nagoya University, in Giappone, lo studio ha analizzato la dinamica di questi astri, scoprendo un comportamento anomalo: il loro moto in direzioni opposte.


La visione di Gaia delle Nubi di Magellano: a sinistra, la Grande Nube di Magellano; a destra, la Piccola Nube di Magellano. Crediti: Esa

Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno utilizzato i dati del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea. Incrociando questi dati, in particolare quelli della terza data release, con le informazioni sulle cefeidi raccolte durante l’esperimento Ogle (Optical Gravitational Lensing Experiment), i ricercatori sono riusciti a ottenere distanze e moti propri di ben 4.236 stelle cefeidi della galassia. I risultati delle indagini hanno indicato chiaramente lo strano schema di movimento stellare: mentre le più vicine alla Terra si muovono verso nord-est, quelle più lontane si spostano in direzione opposta, ovvero verso sud-ovest.

Secondo gli scienziati, questa complessa dinamica suggerisce che la Piccola Nube di Magellano sia soggetta a forze gravitazionali esterne. Un precedente studio dello stesso gruppo aveva già ipotizzato che la Piccola Nube di Magellano stesse subendo uno stiramento gravitazionale da parte della Grande Nube di Magellano. Le due galassie, infatti, sono legate gravitazionalmente, influenzando reciprocamente la loro struttura ed evoluzione. Dal nuovo studio emerge tuttavia che la galassia sia sottoposta a forze gravitazionali multiple: da un lato ci sarebbe l’attrazione esercitata dalla sorella più grande, la Grande Nube di Magellano; dall’altro, una forza esercitata da qualcosa che rimane al momento ignoto.


Illustrazione che mostra le due popolazioni di cefeidi osservate nello studio. In verde sono rappresentate le stelle più vicine, in magenta quelle più lontane. La stella verdesegna la posizione media delle stelle a meno di 180.000 anni luce, mentre la stella magenta indica la posizione media di quelle oltre i 230.000 anni luce. Le frecce che partono da queste stelle mostrano la direzione media del moto, rispettivamente verso nord-est e sud-ovest. Nella figura, la parte superiore corrisponde al nord e il lato sinistro all’est. Crediti: Satoya Nakano, Nagoya University

Secondo Kengo Tachihara, ricercatore della Nagoya University e co-autore dello studio, è possibile che questo qualcosa sia «la gravità della Via Lattea o l’effetto di un passato incontro ravvicinato tra le due Nubi di Magellano».

I risultati delle indagini indicano inoltre che le stelle della galassia non presentano un moto rotazionale coerente attorno al centro galattico, contrariamente a quanto osservato, ad esempio, nella Via Lattea. Questo, secondo i ricercatori, rafforza l’ipotesi che la Piccola Nube di Magellano presenti una dinamica unica, probabilmente modellata dalle interazioni gravitazionali con la Via Lattea e la Grande Nube di Magellano.

«La nostra scoperta mette in discussione le teorie precedenti sulla struttura e la dinamica di questa galassia», conclude il primo autore dello studio, Satoya Nakano. «È necessario ripensare le interazioni tra la Piccola Nube di Magellano, la Grande Nube di Magellano e la Via Lattea. In questo senso, servono nuove simulazioni che considerino la natura non rotante della galassia, per comprendere meglio questi complessi rapporti gravitazionali».

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Cercare onde gravitazionali con una rete di quasar



L’astrofisico Jeremy Darling, dell’Università del Colorado Boulder, sta sviluppando un nuovo metodo per misurare il fondo di onde gravitazionali dell’universo: un flusso costante e impercettibile di increspature che attraversano il cosmo, deformando il tessuto stesso dello spaziotempo. La sua ricerca, pubblicata su The Astrophysical Journal Letters, potrebbe un giorno contribuire a svelare alcuni dei misteri più profondi dell’universo.

Per comprendere come funzionano le onde gravitazionali, immaginate la Terra come una piccola boa che galleggia sulla superficie di un oceano in tempesta: si solleva e ricade seguendo il profilo delle onde, si sposta lateralmente e può anche ruotare o inclinarsi leggermente. Allo stesso modo, le onde gravitazionali fanno oscillare impercettibilmente il nostro pianeta mentre lo attraversano.


Rappresentazione artistica dei buchi neri supermassicci che generano il fondo di onde gravitazionali dell’universo. Crediti: Olena Shmahalo per NanoGrav

Nel corso della storia dell’universo, è probabile che innumerevoli buchi neri supermassicci abbiano interagito tra loro, spiraleggiando l’uno verso l’altro a velocità sempre maggiori fino a collidere. Gli scienziati ritengono che queste colossali fusioni abbiano generato onde gravitazionali così potenti da propagarsi nel tessuto dello spaziotempo come le onde nel mare. Queste onde ci investono costantemente, generando una sorta di rumore di fondo cosmico. Anche se non ce ne accorgiamo.

Nel 2023, i ricercatori dello European Pulsar Timing Array (Epta), in collaborazione con i colleghi indiani e giapponesi dell’Indian Pulsar Timing Array (InPta), hanno annunciato di aver individuato segnali coerenti con l’esistenza di onde gravitazionali a bassissima frequenza, analizzando dati raccolti in oltre 25 anni da sei dei radiotelescopi più sensibili al mondo, tra cui il Sardinia Radio Telescope dell’Inaf. I loro risultati sono risultati coerenti con una serie di studi indipendenti pubblicati in parallelo da altre collaborazioni internazionali, legate agli array di temporizzazione di pulsar australiano (Ppta), cinese (Cpta) e nordamericano (NanoGrav).

Infatti, le pulsarstelle di neutroni che ruotano rapidamente – si comportano come orologi naturali di altissima precisione. Analizzando variazioni minime (inferiori a un milionesimo di secondo) e correlate tra loro nei tempi di arrivo dei loro impulsi, è possibile rilevare le piccolissime dilatazioni e compressioni dello spaziotempo causate dal passaggio di onde gravitazionali provenienti da regioni remote dell’universo. Questo gigantesco rivelatore di onde gravitazionali – che dalla Terra si estende idealmente verso una rete di 25 pulsar selezionate all’interno della Via Lattea, a migliaia di anni luce di distanza – permette di indagare un tipo di onde gravitazionali dal ritmo lentissimo, associate a lunghezze d’onda enormemente maggiori rispetto a quelle osservate a partire dal 2015 grazie agli interferometri per onde gravitazionali, come Virgo a Cascina (vicino Pisa) e Ligo negli Stati Uniti.

Finora, le misurazioni hanno rilevato solo il modo in cui le onde gravitazionali si propagano in una direzione specifica, come onde del mare che si avvicinano e si allontanano dalla riva. L’obiettivo di Darling, invece, è osservare come queste onde si muovano verticalmente – dall’alto verso il basso – rispetto alla Terra. Ricordate la boa? Il tipo di onde gravitazionali che Darling intende misurare ha una frequenza estremamente bassa e attraversa il nostro pianeta nell’arco di anni o addirittura decenni.

Nel suo ultimo studio, l’astrofisico ha coinvolto un’altra classe di oggetti celesti: i quasar, galassie straordinariamente luminose alimentate da buchi neri supermassicci attivi nei loro centri. È proprio osservando con grande precisione il movimento apparente di questi quasar nel cielo che Darling spera di individuare le sottili distorsioni provocate dal passaggio delle onde gravitazionali.

Al momento, Darling non è ancora riuscito a individuare questi segnali, ma la situazione potrebbe cambiare con la disponibilità di nuovi dati. La sua recente pubblicazione punta proprio a gettare le basi per questo tipo di misurazione. La ricerca affronta uno dei compiti più complessi dell’osservazione astronomica: studiare il moto degli oggetti celesti, un campo noto come astrometria. I quasar, che si trovano a milioni o addirittura miliardi di anni luce dalla Terra, sono tra le fonti luminose più distanti e brillanti dell’universo. Tuttavia, la loro luce, nel lungo viaggio verso di noi, non segue necessariamente un percorso perfettamente rettilineo.

Eventuali onde gravitazionali che increspano lo spazio-tempo possono deviarne la traiettoria, facendo apparire – dal nostro punto di vista – che questi quasar oscillino leggermente nel cielo, come se partecipassero a un’oscillazione cosmica. Come spiega lo stesso Darling, «Se si vivesse per milioni di anni e si potessero osservare questi movimenti incredibilmente piccoli, si vedrebbero questi quasar agitarsi avanti e indietro».

O almeno, questa è la teoria. In pratica, gli scienziati hanno finora faticato a osservare questi movimenti per due motivi principali: da un lato, perché si tratta di moti estremamente difficili da rilevare – servirebbe una precisione circa dieci volte superiore a quella necessaria per osservare dalla Terra la crescita di un’unghia umana sulla Luna – e dall’altro, perché la Terra stessa è in movimento. Il nostro pianeta orbita intorno al Sole a una velocità di circa 107mila chilometri all’ora, mentre il Sole sfreccia nella Via Lattea a circa 828mila chilometri all’ora, orbitando attorno al centro della galassia. Per rilevare il segnale delle onde gravitazionali, è dunque necessario separare il moto della Terra da quello apparente dei quasar.

Per avviare questo processo, Darling ha utilizzato i dati del satellite Gaia, dell’Agenzia spaziale europea. Dal suo lancio, avvenuto nel 2013, Gaia ha permesso di raccogliere osservazioni dettagliate di oltre un milione di quasar in circa tre anni. Darling ha analizzato queste osservazioni, suddividendo i quasar in coppie e misurando con estrema precisione come ciascuna coppia si muoveva rispetto all’altra.

I risultati finora ottenuti non sono ancora sufficientemente dettagliati da dimostrare in modo definitivo che le onde gravitazionali influenzano il moto apparente dei quasar. Tuttavia, secondo lo stesso autore, si tratta di un passo importante: comprendere la fisica delle onde gravitazionali potrebbe aiutare gli scienziati a ricostruire l’evoluzione delle galassie e a verificare le ipotesi fondamentali sulla gravità.

E presto, Darling potrebbe ricevere un aiuto significativo. Nel 2026, il team di Gaia prevede di pubblicare altri cinque anni e mezzo di osservazioni sui quasar, offrendo così una nuova e preziosa serie di dati che potrebbe rivelare i segreti del fondo di onde gravitazionali dell’universo.

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Quanta “vita” rimane all’universo?



Decenni di incertezze e dubbi sulla fatidica domanda “quando finirà l’universo?” potrebbero aver finalmente trovato una risposta. Una possibile soluzione al quesito è infatti presentata in una ricerca pubblicata la settimana scorsa sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, firmata da un team di tre studiosi della Radboud Universiteit di Nimega (Paesi Bassi): l’esperto di buchi neri Heino Falcke, il fisico quantistico Michael Wondrak e il matematico Walter van Suijlekom. Il lavoro dei tre scienziati segue le orme di un loro precedente articolo: pubblicato nel 2023, dimostrava chenon solo i buchi neri ma anche altri oggetti celesti compatti, come le stelle di neutroni, possono “evaporare” mediante un fenomeno analogo a quello della radiazione di Hawking. La pubblicazione aveva destato parecchie domande all’interno della comunità scientifica, incentrate soprattutto sulla durata del processo. Nel articolo della scorsa settimana i tre ricercatori chiariscono le perplessità, illustrando i risultati delle nuove scoperte.

Il decadimento dell’universo, stando alla nuova stima, potrebbe verificarsi tra circa 1078 anni, il tempo che occorre ai corpi celesti più persistenti – le nane bianche – per decadere attraverso la radiazione di Hawking. Un periodo lunghissimo ma conunque enormemente inferiore rispetto a quello proposto da studi precedenti, che fissavano la vita delle nane bianche a circa 101100 anni. «La fine ultima dell’universo arriverà assai prima del previsto, ma fortunatamente richiederà comunque molto tempo», rassicura Falcke, primo autore dello studio.


Rappresentazione artistica del decadimento di una stella di neutroni. Crediti: Radboud Universiteit

I calcoli messi a punto dagli studiosi si basano sulla reinterpretazione di un concetto rivoluzionario qual è quello della radiazione di Hawking. Nel 1975, l’astrofisico Stephen Hawking avanzò l’ipotesi che – diversamente da quanto sugeriva la teoria della relatività di Albert Einstein – particelle e radiazioni potessero, in alcuni casi specifici, fuoriuscire da un buco nero: se sull’orizzonte degli eventi si forma una coppia di particelle temporanee, può succedere che, prima della loro fusione, una venga inghiottita dalla singolarità e l’altra riesca a fuoriuscire. La radiazione di Hawking non ha sostituito del tutto i risultati della relatività generale, ma li ha essenzialmente estesi al contesto più ampio della fisica quantistica. La novità apportata dallo scienziato britannico ha come principale conseguenza il fatto che i buchi neri sono in grado di emettere radiazione e, quindi, seppur molto lentamente, decadono.

Lo studio della Radboud Universiteit propone due ulteriori aspetti rilevanti. Innanzitutto, il processo di radiazione di Hawking riguarda corpi molto diversi tra di loro, ma dotati di un campo gravitazionale. Interessante è, inoltre, il fatto che il tempo di decadimento dipende soltanto dalla densità dell’oggetto che si sta analizzando. Tali caratteristiche hanno portato a una coclusione che ha sorpreso gli stessi autori dello studio: stelle di neutroni e buchi neri stellari impiegano il medesimo tempo per decadere, ovvero circa 1067 anni. Avendo i buchi neri un campo di gravità molto intenso, si credeva che potessero “evaporare” in maniera più rapida. «I buchi neri non hanno superficie», spiega però Wondrak, «dunque sono capaci di riassorbire parte della propria radiazione, inibendo il processo».

A completamento del lavoro di ricerca, già che c’erano i tre studiosi hanno calcolato anche il tempo necessario a un essere umano per evaporare attraverso una radiazione simile a quella di Hawking, ottenendo un valore che si attesta sui 1090 anni. Naturalmente, osservano gli autori dello studio, ci sono altri processi che potrebbero portare alla scomparsa dell’umanità più in fretta di quanto suggeriscano i loro calcoli.

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Prime immagini di singoli atomi in libertà



I fisici del Massachusetts Institute of Technology (Mit) hanno catturato per la prima volta immagini di singoli atomi che interagiscono liberamente nello spazio. Queste immagini mostrano correlazioni tra particelle libere, previste dalla teoria ma mai osservate direttamente, offrendo una nuova finestra sui fenomeni quantistici.


Utilizzando la microscopia con risoluzione a singolo atomo, i gas quantistici ultrafreddi composti da due tipi di atomi mostrano correlazioni spaziali nettamente diverse: i bosoni a sinistra mostrano un raggruppamento, mentre i fermioni a destra presentano un comportamento di anti-raggruppamento. Crediti: Sampson Wilcox

Il risultato, pubblicato su Physical Review Letters, è stato possibile grazie all’impiego di una tecnica innovativa – sviluppata dai ricercatori stessi – nella quale una nuvola di atomi viene lasciata libera di muoversi, poi congelata per un istante grazie a un reticolo di luce. Un laser illumina gli atomi sospesi, rivelandone la posizione precisa. Questo approccio, noto come microscopia con risoluzione atomica, consente di visualizzare singoli atomi e le loro interazioni.

Un atomo misura circa un decimo di nanometro, ossia è un milione di volte più piccolo dello spessore di un capello, ed è governato dalle leggi della meccanica quantistica, che ne rendono difficile la localizzazione esatta. Le tecniche convenzionali mostrano l’intera nuvola di atomi, ma non i singoli componenti. Come spiega il fisico Martin Zwierlein, «è come vedere una nuvola nel cielo, ma non le singole gocce».

Usando questa tecnica, i ricercatori hanno osservato direttamente bosoni e fermioni mentre interagivano nello spazio libero, un passo cruciale per comprendere fenomeni come la superconduttività. In particolare, Zwierlein e colleghi hanno fotografato per la prima volta una nube di bosoni composta da atomi di sodio. A basse temperature, una nube di bosoni forma il cosiddetto condensato di Bose-Einstein, uno stato della materia in cui tutti i bosoni condividono lo stesso stato quantico. Ketterle del Mit è stato uno dei primi a produrre un condensato di Bose-Einstein, di atomi di sodio, per il quale ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2001.

Il gruppo di Zwierlein è riuscito a “fotografare” i singoli atomi di sodio all’interno della nube e a osservare le loro interazioni quantistiche. Da tempo si prevede che i bosoni si “raggruppino” tra loro, avendo una maggiore probabilità di trovarsi l’uno vicino all’altro. Questo raggruppamento è una conseguenza diretta della loro capacità di condividere la stessa onda di de Broglie. Tale carattere ondulatorio è stato previsto per la prima volta dal fisico Louis de Broglie, che in parte ha dato il via alla meccanica quantistica moderna.

Il team ha anche fotografato una nuvola composta da due diversi tipi di atomi di litio. Ciascun tipo è un fermione, e come tali, i fermioni tendono naturalmente a respingersi. Tuttavia, alcuni fermioni possono interagire fortemente con altri di tipo diverso. Durante l’acquisizione delle immagini, i ricercatori hanno osservato che i due tipi di fermioni interagivano tra loro e formavano coppie, un meccanismo noto da tempo in teoria, ma mai osservato direttamente fino a ora.

Secondo i ricercatori, queste immagini rendono visibili concetti finora solo teorici. In futuro, la tecnica potrebbe permettere di esplorare stati quantistici ancora più complessi, come quelli dell’effetto Hall quantistico, tuttora poco compresi.

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Sotto Venere, qualcosa si muove



Venere possiede una superficie geologicamente molto complessa, disseminata di strutture di origine tettonica e/o vulcanica, sia di forme familiari che insolite. Tra queste, forse le più distintive, e allo stesso tempo enigmatiche, sono le formazioni geologiche quasi circolari chiamate dagli esogeologi corone.

Scoperte negli anni ’80 nelle immagini dell’orbiter Pioneer Venus e nei dati delle due sonde gemelle Venara 15 e 16, le corone coprono il 9,5 per cento dell’intera superficie del pianeta. A oggi se ne conoscono 740, suddivise in vari gruppi e tipologie sulla base della topografia, distribuzione spaziale e proprietà, sebbene quelle ufficialmente denominate attraverso il processo di nomenclatura planetaria dello US Geological Survey siano 347.


Secondo una nuova ricerca, le corone di Venere, ampie formazioni geologiche presenti sulla superficie del pianeta, continuerebbero a essere modellate da processi tettonici. Le corone oggetto dello studio includono le corone Artemis, Quetzalpetlatl, Bahet e Fotla, visibili nell’immagine in questo ordine a partire dall’angolo in alto a sinistra e procedendo in senso orario. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

La loro formazione, un processo che chiama in causa la convezione del mantello e le interazioni pennacchio/litosfera, avviene in seguito alla risalita di magma dal sottosuolo. Secondo questo modello, a livello di particolari punti della superficie chiamati punti caldi, hot spot, in inglese, colonne di lava sarebbero risalite dalle profondità del pianeta, sollevando la crosta. Quando il materiale si è raffreddato, la litosfera (lo strato comprendente la crosta del pianeta e la parte più superficiale del suo mantello) sarebbe parzialmente collassato, creando le forme circolari osservate oggi.

Un team di ricercatori guidato dal Nasa Goddard Space Flight Center ha ora analizzato decine di queste strutture sul pianeta, scoprendo, sotto alcune di esse, prove di un’attività tettonica in corso, che sta modellando le corone venusiane.


Illustrazione artistica della Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere. Il vulcanesimo attivo e la subduzione fanno si che la crosta sprofondi all’interna del pianeta, creando queste depressioni. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Peter Rubin

Nello studio, i cui risultati sono pubblicati su Science Advances, i ricercatori hanno preso in esame in totale 75 strutture coronali. Tra queste, c’è la corona di Artemide: con un diametro di 2.500 chilometri, la più vasta delle corone presenti sul pianeta. Utilizzando sofisticati modelli geodinamici tridimensionali, gli scienziati hanno simulato vari scenari di formazione di queste formazioni geologiche. Successivamente, hanno confrontato i risultati ottenuti con i dati di gravità globale e di topografia raccolti oltre trent’anni fa dalla missione Magellano della Nasa. I risultati delle indagini hanno indicato che ben 52 delle 75 corone oggetto dello studio mostravano la presenza di anomalie termiche tipiche delle interazioni pennacchio-litosfera: la firma lasciata dalla recente, e forse ancora in corso, risalita di materiale verso la superficie.

«Le corone sono strutture di dimensioni molto grandi, presenti in numero elevato su Venere» sottolinea Anna Gülcher, geofisica dell’Università di Berna, in Svizzera, e co-autrice della pubblicazione. «I risultati del nostro studio ci permettono di affermare con buona probabilità che diversi processi attivi e in corso stiano guidando la loro formazione; processi che crediamo possano essere avvenuti anche nelle prime fasi della storia della Terra».

La domanda che si sono posti a questo punto gli scienziati è che tipo di interazioni tra il mantello e la litosfera guidino queste risalite di magma sulla superficie venusiana per produrre le corone. Ulteriori simulazioni hanno permesso di scartare diverse ipotesi, e appurare che il modello che meglio spiega la geodimamica e le firme di gravità è quello della subduzione, un processo che avviene anche sulla Terra, sebbene con modalità differenti.


Illustrazione che mostra diversi tipi di attività tettonica che si ritiene siano ancora attivi sotto le corone di Venere. Nella parte superiore sono rappresentati il “gocciolamento della litosfera” (a sinistra) e la “subduzione” (a destra). In basso, due scenari in cui materiale caldo proveniente da pennacchi del mantello risale e preme contro la litosfera, potenzialmente innescando fenomeni vulcanici in superficie. Secondo i ricercatori, un ruolo chiave nella formazione delle corone è giocato dalla subduzione. Crediti: Anna Gülcher

Subdurre significa letteralmente portare una cosa sotto un’altra. Dal punto di vista geologico, sul nostro pianeta la subduzione avviene quando il bordo di una placca tettonica scivola sotto la placca adiacente, con il conseguente trascinamento di questa nel mantello. Man mano che il materiale roccioso sprofonda, la roccia si fonde, per essere poi eventualmente riciclata in superficie attraverso le bocche dei vulcani. Su Venere, sebbene non vi sia una vera e propria tettonica a placche, a produrre le corone sarebbe qualcosa del genere, ma con un meccanismo diverso. In questo scenario, la risalita di un pennacchio di roccia fusa dal mantello verso la litosfera causerebbe un rigonfiamento della superficie, provocando l’espansione della crosta interessata verso i lati. Questo movimento laterale farebbe collidere la roccia superficiale con quella circostante, causandone la subduzione – ovvero lo sprofondamento verso il basso – e producendo le corone.

Lo studio si aggiunge ad altre ricerche che hanno identificato sul pianeta diversi siti tettonicamente attivi, suggerendo un’attività geologica più simile alla Terra di quanto si ritenesse in passato, concludono i ricercatori. Nonostante questo cambio di prospettiva, lo stato attuale della tettonica di Venere rimane in gran parte sconosciuto. Tuttavia, sono in programma diverse nuove missioni per approfondirne la comprensione. Veritas della Nasa ed EnVision dell’Esa sono tra queste. I dati che ci restituiranno avranno un livello di dettaglio senza precedenti rispetto alla risoluzione ottenuta con la missione Magellano, rendendo possibili analisi mirate di strutture di origine tettonica e vulcanica non possibili fino ad ora.

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