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Unione Popolare aderisce e invita a partecipare a tutte le iniziative territoriali indette dal coordinamento Europe for peace dal 23 al 26 febbraio. Il 25 fe

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Meno festa, più guerra. La Danimarca dice “no”


Il governo della Danimarca, impegnato nel sostegno militare a Kiev, vuole cancellare una festività per aumentare le spese militari e pensa alla leva obbligatoria femminile. Sindacati e sinistre scendono in piazza L'articolo Meno festa, più guerra. La Dan

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 13 febbraio 2023 – Ormai, ovunque, la parola d’ordine è aumentare le spese militari, e per trovare risorse aggiuntive molti governi non si fanno scrupoli a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare. Alcuni esecutivi, poi, pur di fare cassa orchestrano soluzioni “creative”.

Via il “Grande giorno della preghiera”
È il caso del nuovo governo danese che, pur di rastrellare fondi da destinare al bilancio della Difesa, ha deciso di abolire lo “store bededag”, il “Grande giorno della preghiera”.
La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, due formazioni rispettivamente di centrodestra e di centro – ha inserito la cancellazione della festività nel programma di governo, insieme ai tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati.
L’esecutivo assicura che la misura porterebbe a maggiori introiti per lo stato di 430 milioni di euro, che permetterebbero al paese di portare la spesa militare al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza Atlantica – già nel 2030, raggiungendo l’obiettivo con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato nel marzo 2022 da socialdemocratici, Partito Socialista-Popolare, Liberali e Conservatori.
Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla “minaccia russa” e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. A gennaio, tra l’altro, un rapporto semestrale della NATO criticava la Danimarca per non aver investito sufficienti risorse nelle sue forze armate.

La Danimarca dice no
Ma il disegno di legge presentato dalla coalizione di governo ha scatenato nel piccolo paese nordico una levata di scudi generalizzata. Secondo un recente sondaggio ben il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti.
Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.

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La protesta dei sindacati
In piazza sono scesi, soprattutto, i militanti della FH, la Confederazione dei Sindacati, un’organizzazione che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste.
La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Genera indignazione il fatto che l’esecutivo abbia scelto di penalizzare la classe lavoratrice per recuperare risorse da destinare alla spesa bellica.
«Non credo sia un problema dover lavorare un giorno in più. Stiamo affrontando enormi spese per la difesa e la sicurezza» ha detto Mette Frederiksen presentando al parlamento il proprio programma di governo. Ma i sindacati insistono nel difendere un giorno di riposo, per quanto la Danimarca sia tra i paesi europei in cui si lavora meno ore. «Abbiamo bisogno di tempo per riprenderci fisicamente e mentalmente, e per concentrarci sulle nostre famiglie e su noi stessi» ha spiegato all’emittente pubblica danese DR un educatore che partecipava alla manifestazione.
Inoltre, ha accusato la segretaria generale della Confederazione dei Sindacati Lizette Risgaard, la decisione del governo attacca il “modello danese”, nel quale la retribuzione e l’orario di lavoro vengono regolati da accordi bilaterali negoziati dalle organizzazioni dei lavoratori e da quelle degli imprenditori, senza l’intervento dello stato. Anche i sindacati dei dipendenti del settore militare hanno protestato contro il provvedimento.

Il no all’escalation
Non mancano poi gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali l’aggiunta di una giornata lavorativa permetterebbe di generare maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone, attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero assai più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Oltretutto nelle scorse settimane, nel tentativo di ammorbidire i sindacati, l’esecutivo ha offerto un aumento dei salari dello 0,45% come compensazione per la perdita di un giorno di ferie pagate.
Una parte dell’opinione pubblica, poi, sia per motivi etici sia politici, rimane contraria all’aumento della spesa militare, anche se alcuni dei partiti della sinistra l’hanno sostenuto nella precedente legislatura e, assieme alle opposizioni di destra, hanno presentato per gonfiare comunque il budget della Difesa che non prevede l’abolizione di una delle undici festività annuali.
Molti manifestanti, domenica scorsa, portavano cartelli che recitavano «Dì no alla guerra».
Il quotidiano Politiken, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un “autogol incomprensibile” il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Già dieci anni fa un altro governo, sempre a guida socialdemocratica, tentò di eliminare lo “store bededag” ma dovette rinunciare a causa delle forti proteste.

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Militari dell’esercito danese

Sostegno a Kiev e coscrizione obbligatoria per le donne
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli anche a sei chilometri di distanza.
Come se non bastasse, in un’intervista alla tv pubblica danese, il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen ha affermato che il governo intende imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate.
Attualmente, le donne possono entrare nell’esercito solo su base volontaria mentre se vengono scelti tramite un sistema a sorteggio, gli uomini sono obbligati a prestare il servizio militare; normalmente la naia dura quattro mesi, ma in alcune circostanze può arrivare fino a dodici. Nei fatti, sebbene la legge consenta alle forze armate di imporre il servizio militare, attualmente solo l’1% degli effettivi delle forze armate del paese nordico viene arruolato in questo modo. Evidentemente l’esecutivo sta pensando di aumentare questa quota.
In Europa solo due paesi prevedono la coscrizione militare obbligatoria per le donne: la Norvegia dal 2013 e la Svezia dal 2018. – Pagine Esteri

5533488* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Andrea Russo
@Andrea non so come funzioni e quanto duri la leva militare in Danimarca, ma la leva obbligatoria femminile mi sembra una stronzata.
Diverso sarebbe la possibilità di istituire e promuovere un vaido addestramento periodico e breve e soprattutto non obbligatorio per tutti i cittadini. Maschi e femmine


ARABIA SAUDITA. Condanne a morte e carcere duro per chi si oppone a NEOM


Il Centro per i diritti umani Alqst denuncia che 47 membri della tribù Howeitat sono stati arrestati e condannati a pesanti pene detentive, 3 a morte, per essersi opposti allo sgombero dalle loro case per far posto alla megalopoli progettata dal principe

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 21 febbraio 2023 – Gli Howeitat nella regione nordoccidentale dell’Arabia saudita ci vivono da secoli. Da prima che i Saud, adottato il wahhabismo, si proclamassero unilateralmente custodi di Mecca e Medina e realizzassero poi le loro ambizioni territoriali grazie al petrolio e agli appetiti del colonialismo occidentale. E credevano di poter continuare la loro tranquilla esistenza in quell’area lontana dallo sfarzo edilizio e tecnologico delle grandi città saudite. Non avevano fatto i conti con i progetti oltremodo ambiziosi del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs), di fatto già alla guida del regno, uno che non si fa scrupoli quando deve liberarsi di chi prova ad ostacolare il suo cammino. Lo provano gli arresti qualche anno fa di decine di principi e membri della sua famiglia e nel 2018 l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi di cui è ritenuto il mandante da più parti, anche dalla Cia. Un rapporto, The Dark Side of Neom, dell’organizzazione per i diritti umani araba Alqst, pubblicato il 16 febbraio, denuncia che circa 47 membri della tribù Howeitat sono stati arrestati con l’accusa di resistenza allo sgombero dall’area in cui è in costruzione la megalopoli Neom, il più faraonico dei progetti avviati dall’erede al trono saudita per soddisfare la sua mania di grandezza.

Quindici membri della tribù, rivela Alqst, sono stati condannati a pene che vanno da 15 fino a 50 anni di carcere, otto sono stati rilasciati dalla detenzione, altri 19 sono detenuti in attesa di verdetto. Lo scorso ottobre un tribunale saudita aveva condannato a morte tre Howeitat: Shadli, Atallah e Ibrahim al Howeiti. Tutti e tre si erano espressi contro lo sfratto della loro tribù decisa dalle autorità saudite per far posto a Neom. «Queste sentenze scioccanti – ha scritto Alqst – mostrano le misure crudeli che le autorità saudite sono disposte a prendere pur di punire i membri della tribù Howeitat che hanno protestato contro lo sgombero forzato dalle loro case». Tutto è cominciato nel marzo 2020 quando le forze speciali saudite fecero irruzione nelle case di coloro che si opponevano allo sgombero. Venti Howeitat furono ammanettati per aver protestato contro l’arresto di un ragazzino. Poi Abdul Rahim al Howeiti, attivista dei diritti della sua tribù, fu ucciso a colpi di arma da fuoco poco dopo aver realizzato video su quanto stava accadendo. Suo nipote Ahmed al Huwaiti venne arrestato e condannato prima a cinque anni e poi in appello a 21 anni di carcere per «aver cercato di destabilizzare e lacerare il tessuto sociale e la coesione nazionale». Maha al Huwaiti è stata arrestata nel febbraio 2021 per aver twittato sull’aumento del costo della vita e pianto la morte di al Huwaiti. Inizialmente è stata condannata a un anno di reclusione poi in appello a tre anni. Nell’agosto 2022 è stata processata nuovamente per le stesse accuse e punita con 23 anni di prigione.

Il rapporto rileva che la repressione e le pene detentive si sono fatte più dure in coincidenza con la riabilitazione da parte dell’Occidente di Mohammed bin Salman per l’omicidio di Jamal Khashoggi. «La correlazione è chiara. Più Mbs viene riabilitato più le cose peggiorano», ha dichiarato a un giornale online Lina al Hathloul, attivista saudita dei diritti umani e responsabile delle comunicazioni di Alqst. Al Hathloul ha fatto notare che in seguito alle visite ufficiali in Arabia saudita dell’ex primo ministro britannico Boris Johnson e del presidente degli Stati uniti Joe Biden c’è stata «un’ondata di esecuzioni» e di «condanne a lunghe detenzioni senza precedenti».

Neom costerà 500 miliardi di dollari, sarà 33 volte più grande di New York e si estenderà per 170 chilometri in linea retta nella provincia di Tabuk. Avrà anche una stazione sciistica, Trojena, unica candidata per i Giochi asiatici invernali del 2029. L’Arabia saudita sarà il primo paese del Medio oriente ad ospitarli. Il resort dovrebbe essere completato nel 2026 e offrirà sci all’aperto, un lago d’acqua dolce artificiale e una riserva naturale. Di fronte ai tanti miliardi che saranno investiti per Neom, alle famiglie Howeitat sono state fatte promesse di risarcimento mai mantenute. Le autorità hanno respinto le richieste di chi voleva essere reinsediato nelle immediate vicinanze delle loro case offrendo loro 620.000 riyal (150mila euro) per essere ricollocati più lontano. In realtà, ha riferito Alqst, ai destinatari sono dati solo 17.000 riyal (4200 euro). Così la maggior parte degli sfrattati è stata costretta ad acquistare case nelle aree più povere e degradate della provincia di Tabuk.

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AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani


Erano state promesse alla fine di gennaio a una delegazione delle Nazioni Unite e dovrebbero regolamentare il ruolo delle donne nelle ONG, dalle quali sono state bandite alla fine del 2022. L'articolo AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guid

di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 20 febbraio 2023 – Si fanno ancora attendere le linee guida promesse dal governo de facto dei Talebani per regolamentare il ruolo delle donne nelle Organizzazioni Non Governative e riabilitarle al loro lavoro. Sono trascorse, infatti, tre settimane dalla missione ONU a Kabul dalla quale Martin Griffiths e gli altri delegati erano tornati con “risposte incoraggianti”, così avevano detto, da parte dei ministri talebani. Al centro dell’incontro c’era stata la discussione in merito al divieto per le donne afghane di lavorare nelle ONG, ratificato dal regime il 24 dicembre scorso. La causa della legge era, a detta del regime, il mancato rispetto da parte delle operatrici delle ONG delle norme di abbigliamento imposte dalla sharia.

Dopo il bando emesso dal governo talebano, alcune ONG avevano momentaneamente sospeso le loro attività nel Paese, e per tutte erano seguite ore di gelo di fronte all’incertezza di poter continuare ad adoperare personale femminile per le proprie missioni, ovvero di poter continuare a impiegare, in condizioni di sicurezza, almeno la metà dei propri dipendenti. Al decreto, che aveva gettato nello sconforto la comunità internazionale, aveva poi fatto seguito una correzione del tiro da parte dei Talebani, che avevano escluso dalle destinatarie del bando le donne che operavano negli ospedali e nel settore sanitario. L’International Rescue Committee (IRC), Save the Children e CARE avevano quindi riavviato in parte le proprie attività nel Paese.

Il 24 gennaio scorso, i Talebani avevano ricevuto una delegazione dell’ONU guidata da Martin Griffiths, Sottosegretario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e Presidente dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC), un forum che riunisce i leader di 18 organizzazioni umanitarie. In tale occasione, il governo afghano avrebbe, appunto, dichiarato di essere al lavoro nella redazione di “linee guida”, sic, per regolamentare il lavoro delle donne nelle ONG senza infrangere la legge islamica.

“Un certo numero di leader talebani mi ha detto che l’amministrazione talebana sta lavorando a linee guida che forniranno più chiarezza sul ruolo, la possibilità e auspicabilmente la libertà delle donne di lavorare nel settore umanitario”, aveva dichiarato Griffiths. Una promessa interpretata come un tenue segnale di speranza nonostante la sua vaghezza e malgrado la consapevolezza che un incontro con i leader talebani di Kandahar, roccaforte dei capi spirituali in grado di dire effettivamente l’ultima parola in tema di politica, sarebbe prezioso per sigillare l’accordo sul lavoro delle donne.

Pochi giorni prima, un’altra delegazione ONU aveva raggiunto a Kabul e Kandahar i leader talebani, sempre a proposito del divieto di lavorare nelle ONG per le operatrici afghane. Questa volta a guidarla era stata una donna, Amina Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, accompagnata da Sima Bahous, Direttore Esecutivo dell’Agenzia ONU per le Donne, e da Khaled Khiari, Segretario Generale aggiunto del Dipartimento di Costruzione politica e Operazioni di Pace. Mohammed si era detta “incoraggiata” dalle eccezioni fatte per le operatrici sanitarie, ma al tempo stesso aveva dichiarato che le conversazioni con la controparte erano state particolarmente “difficili”.

A tre settimane dall’ultimo incontro con i rappresentanti dell’ONU, il decalogo che dovrebbe permettere alle donne afghane di tornare a operare nelle ONG senza infrangere le norme di vestiario e di comportamento non è stato apparentemente ancora pubblicato. Le conseguenze dell’allontanamento delle dipendenti dal lavoro di soccorso alla popolazione afghana sono disastrose.

Il bando delle donne dalle attività assistenziali, infatti, colpisce non solo le lavoratrici e le loro famiglie, ma tutte le donne e i bambini destinatari dell’assistenza umanitaria. Le donne afghane, infatti, possono accettare aiuti – denaro, cibo, medicinali, vestiti – solo da altre donne, e comunicare solo con personale femminile.

Secondo i Gruppi di Lavoro sul “Genere nell’Azione Umanitaria” (Giha) e sull’”Accesso Umanitario”, entrambi operanti all’interno delle Nazioni Unite, il decreto di fine dicembre continua a danneggiare il lavoro umanitario e di conseguenza la popolazione afghana. Dalle risposte di un’intervista rivolta a 129 operatori di organizzazioni nazionali e internazionali e agenzie ONU, emerge, infatti, come a tre settimane di distanza dal bando il 93% delle ONG abbia assistito a un deterioramento delle proprie capacità di portare assistenza alle donne afghane.

Secondo l’inchiesta, inoltre, nell’81% delle ONG lo staff femminile non può più recarsi sul posto di lavoro. Al tempo stesso, le attività di protezione specifica per le donne, così come di monitoraggio dei loro bisogni assistenziali, sono state interrotte forzatamente dal bando.

Non è difficile immaginare quale danno stia rappresentando quindi il decreto nelle attività di aiuto in un Paese che attraversa una drammatica crisi dei diritti delle donne e una altrettanto tragica emergenza umanitaria. I numeri della sofferenza del popolo afghano rimangono raccapriccianti, nonostante il progressivo disinteresse di gran parte dei media per le sorti del Paese. Oltre 28 milioni di abitanti, più della metà della popolazione, secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, dipendono dagli aiuti umanitari. Tra questi, 6 milioni di persone, in gran parte bambini, patiscono letteralmente la fame.

Come dichiarato da Save the Children, che ha riavviato solo una parte delle sue attività nel Paese, “il bando alle lavoratrici delle ONG non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore”. “La severità dell’emergenza umanitaria in Afghanistan è qualcosa che non ho mai visto prima”, ha dichiarato il Direttore delle operazioni sul campo della ONG. “Quasi 20 milioni di bambini e adulti stanno affrontando la fame. Molte famiglie vanno avanti a pane e acqua per settimane”. A tutto ciò si aggiunge il freddo, che ancora non dà tregua. “I bambini stanno lottando per sopravvivere a un gelido, terribile inverno. E riscaldare le abitazioni è fuori questione”. Non poteva esserci periodo peggiore per recidere le braccia delle donne dagli aiuti a un Paese distrutto – sempre ammesso che un periodo “migliore” per farlo si possa mai immaginare. Pagine Esteri

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John Fante – Aspetta Primavera, Bandini


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#Risentiamoli Cypress Hill - Black Sunday


“Black sunday” è stato il secondo disco del gruppo hip hop americano Cypress Hill, pubblicato il 20 luglio del 1993 da Ruffhouse e Columbia Records. Grande successo commerciale, “Black sunday” è un gigante dell’hip-hop, un monolite che diverte ancora a trent’anni esatti di distanza.

iyezine.com/risentiamoli-cypre…



La sinistra liberal progressista cancella l'idea stessa di sinistra | Kulturjam

«C’è oggi una sinistra liberal progressista che non ha niente a che fare con quella tradizione nel suo complesso, una sinistra neoliberale che tutta la sinistra, in tutte le sue varianti, ha sempre combattuto e che ha chiamato “destra”.

Ad accomunarla è l’odio con tutto ciò che è storia e ha storia, un odio verso la vita che nelle tradizioni prende forme, evolve, cresce. Il disprezzo verso le comunità, il tentativo di imporre un individualismo è isola, pensando che esista una sola forma di legame, quello che produce il consumo.»

kulturjam.it/costume-e-societa…



Oggi, alle 12.00, si terrà al Ministero dell’Istruzione e del Merito la presentazione del programma della sesta edizione di Fiera Didacta Italia, il più importante appuntamento fieristico dedicato all’istruzione e all’innovazione scolastica.


In Cina e Asia – Un piano per aggirare gli Usa nella corsa ai chip


In Cina e Asia – Un piano per aggirare gli Usa nella corsa ai chip semiconduttori
I titoli di oggi:
Chip war, gli accademici cinesi elaborano un piano per aggirare gli Usa
Emergenza climatica, 50% del Pil cinese a rischio entro 2050
Boom di transiti all'aeroporto di Hong Kong
Pacifico, Pechino sceglie il suo rappresentante d'area
Dove sono finiti i dati delle app anti-Covid cinesi?

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Tutto o quasi quello che c’è da sapere sulla saga del pallone- spia


Tutto o quasi quello che c’è da sapere sulla saga del pallone- spia pallone-spia
Se pensiamo che gli ultimi tre anni sono iniziati prima con una pandemia, poi con una guerra e adesso con gli Ufo, possiamo convenire che la realtà ha ormai superato ogni più raffinata e nefasta immaginazione. Non parliamo di alieni, o come commentato dall’ufficio stampa della Casa Bianca “non ci sono indicazioni di attività extraterrestre”. Si tratta invece di “oggetti ...

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#uncaffèconLuigiEinaudi☕ – Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia…


Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia. Nei consessi internazionali, l’Italia non chiederà diritto ad avere materie prime a prezzi di favore, che sarebbe elemosina avvilente e servile, ma diritto a comprare liberamente dappertutto le mater
Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia. Nei consessi internazionali, l’Italia non chiederà diritto ad avere materie prime a prezzi di favore, che sarebbe elemosina avvilente e servile, ma diritto a comprare liberamente dappertutto le materie prime a prezzo di mercato.

da Lineamenti di una politica economica liberale, Movimento Liberale Italiano, 1943

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



the men


Tutte caratteristiche che ho ritrovato in "New York City", nuovo album dei garage rockers statunitensi Men, sulle scene da ormai tre lustri e giunti oggi al nono album ufficiale, uscito a inizio mese su Fuzz Club Records (e che segna il debutto del quartetto di Brooklyn sull'etichetta inglese) e arrivato a tre anni dall'ultima fatica discografica "Mercy".
iyezine.com/the-men-new-york-c…

@Musica Agorà

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Cuba, un paese di 11 milioni di persone, è sotto un embargo illegale da parte del governo degli Stati Uniti da oltre sei decenni. Nonostante questo embargo, i


Esplosivo


L’arma del debito è puntata contro di noi. Da molto tempo e per nostra responsabilità. Dovendo ora aumentare il debito per comprare armi, ottemperando a un obbligo di sicurezza e corresponsabilità Nato, abbiamo la possibilità di non essere il bersaglio, m

L’arma del debito è puntata contro di noi. Da molto tempo e per nostra responsabilità. Dovendo ora aumentare il debito per comprare armi, ottemperando a un obbligo di sicurezza e corresponsabilità Nato, abbiamo la possibilità di non essere il bersaglio, ma di potere prendere la mira.

Dovendo far crescere la spesa per la difesa dall’1.38% del Prodotto interno lordo ad almeno il 2%, così come stabilito in sede Nato nel 2014, e così come è ora saggio e urgente che sia, perché la guerra che la Russia ha scatenato in Ucraina comporta il trasferimento di armi e lo sguarnirsi degli arsenali, dovendo, quindi, affrontare una spesa che era prevista, ma ora non rinviabile, il ministro della difesa, Guido Crosetto, ha chiesto che quei soldi non siano contabilizzati ai fini del patto di stabilità. Se tale richiesta fosse accolta sarebbe per noi un danno. Dobbiamo chiedere e proporre molto di più.

I celebri e vituperati “parametri europei” non solo sono l’ultimo dei problemi, ma comportano un vantaggio, giacché sono i cardini di una protezione. Più alto è il rischio di speculazione sul debito nazionale, più alto il valore della protezione. Potere fare debiti in deroga a quei parametri non è un privilegio, ma una fregatura, proprio perché aggira la protezione. Di quel debito aggiuntivo non dovremmo discutere con la Commissione Ue, ma dovremmo comunque chiederlo al mercato e adeguatamente remunerarlo. Non c’è alcun vantaggio. Mentre l’aumento delle spese per la difesa è una necessità che risponde ad una preziosa unità europea, che ha un alto valore sia politico che morale. E siccome non siamo una parte del mondo senza produttori di sistemi d’arma e tecnologia d’avanguardia, quel che dovremmo proporre è mettere a sistema quel mondo produttivo, lavorare all’eliminazioni delle sovrapposizioni disfunzionali e alimentarlo con investimenti europei, retti da debito comune. Non sarebbe una furbata per non fare debito italiano, ma una spinta seria alla difesa comune. Che, in ambito Nato, è anche la sola possibile e immaginabile.

Il governo Meloni avrebbe qualche credibilità in più, per proporlo. A partire da tre premesse. 1. In campagna elettorale FdI è stata la sola forza di destra (a parte Azione la sola in generale) ad opporsi agli scostamenti di bilancio, mentre gli altri reclamavano debito aggiuntivo per distribuire quattrini. Come è noto FdI ha trionfato e gli altri tonfato. 2. Ereditati i conti dal governo Draghi s’è posto in coerenza, tanto che nessuno ha potuto seriamente avanzare dubbi di affidabilità e lo spread se ne è stato a cuccia. 3. È stato capace di due scelte coraggiose e giuste: a. cancellare la sospensione delle accise sui carburanti (salvo pasticciare nel decreto); b. cancellare lo sconto in fattura e la cessione del credito di quella roba allucinante con denominazione circense, ovvero il “superbonus 110%”.

Naturale che avrebbero accusato il governo del caro carburanti, anche se i prezzi calavano. Naturale che ora si paventi la morte del mercato edilizio, che dopo essere stato a lungo drogato non potrà non avere una crisi d’astinenza. (Dei 372.303 cantieri aperti solo 51.247 sono relativi a condomini e di 65.2 miliardi di investimento ammessi solo 30.4 riguardano condomini, il resto sono ville ed edifici unifamiliari, quindi gli immobili che se ne sono giovati sono pochi e moltissimi a favore di soggetti che avrebbero potuto spendere da soli, invece si sono usati soldi del contribuente e alimentato l’inflazione favorendo la crescita dei prezzi). Queste cose il governo ha avuto il coraggio di farle e ciò rende credibile la proposta cui si faceva cenno, non intestandola a chi sa solo spendere soldi che non ha.

Il “dettaglio” è che sia la difesa europea che il debito condiviso rispondono ai nostri interessi, ma sono anche potenti vettori di maggiore e indissolubile unità europea. Sarebbe interessante, sarebbe esplosivo e rigenerativo veder realizzare questo disegno da chi lo avversò. Ma Brexit è lì a dimostrare quanto fosse folle.

La Ragione

L'articolo Esplosivo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Ecco perché, da liberali, siamo al fianco delle donne iraniane


Una società è libera più sono libere le donne, e anche noi in Italia siamo stati a lungo in ritardo. Il cammino verso l’abolizione della Sharia è lungo e tortuoso, ma le iraniane vanno difese ora In Ucraina combattiamo, per interposta nazione, una guerra

Una società è libera più sono libere le donne, e anche noi in Italia siamo stati a lungo in ritardo. Il cammino verso l’abolizione della Sharia è lungo e tortuoso, ma le iraniane vanno difese ora


In Ucraina combattiamo, per interposta nazione, una guerra in difesa dei principi liberali su cui si fondano i nostri sistemi democratici e nei quali si identifica la nostra civiltà. Si tratta dei medesimi principi che ispirano i diritti in difesa dei quali si battono le donne iraniane.

In una prospettiva liberale, infatti, non esistono i generi così come non esistono le caste, i censi, le classi, i monopoli e i depositari di Verità assolute: tutti hanno gli stessi diritti, tutti devono avere le stesse possibilità. Pensiero liberale e diritti democratici hanno percorso a braccetto la Storia degli ultimi tre secoli e la questione femminile ne è stata una delle bandiere. Già nel 1869 John Stuart Mill contestava “la servitù” femminile e inseriva nella narrazione liberale l’uguaglianza tra i sessi e i diritti politici delle donne. Fu una grande intuizione, essendo oggi piuttosto evidente come la condizione femminile sia tra i più efficaci indicatori del grado di liberalismo di ogni società: più le donne sono libere, più è liberale la società di cui quelle donne fanno parte.

È dunque naturale che la Fondazione Luigi Einaudi si trovi oggi in prima fila nel denunciare la violenza con cui il regime iraniano sta reprimendo una pacifica e incomprimibile richiesta di libertà. La libertà delle donne di svelarsi. Di mostrare, cioè, ciascuna il proprio volto, dunque di essere riconosciute come individui, dunque di essere titolari di diritti civili e politici. E di conseguenza di essere libere di scegliere, di muoversi, di parlare, di crescere culturalmente, spiritualmente e socialmente. Si tratta di diritti umani, diritti né maschili né femminili.

Con l’obiettivo di tenere desta l’attenzione delle istituzioni e dei media italiani ed europei, la Fondazione Luigi Einaudi terrà domani in Senato una conferenza stampa alla quale parteciperanno importanti personalità e organizzazioni della dissidenza iraniana. Con l’occasione, presenteremo un Manifesto in difesa dei diritti e delle libertà delle donne iraniane che da domani ciascuno potrà firmare sul sito www.fondazioneluigieinaudi.it.

Invochiamo la parità di genere e la libertà personale, ma siamo consapevoli di quanto lungo e tortuoso sia il cammino che abbiamo di fronte. Ne siamo consapevoli perché conosciamo la storia e l’influenza che le religioni da sempre esercitano sui fatti storici e sui processi sociali.

Come italiani, e dunque come cattolici, non possiamo dimenticare quanto, e quanto a lungo, il pregiudizio nei confronti delle donne abbia ispirato la nostra cultura e di conseguenza le nostre leggi. “La donna è l’ostacolo principale sulla via che conduce a Dio”, diceva sant’Agostino. E per secoli sia la Chiesa sia lo Stato hanno fatto di quel pregiudizio la Regola.

In Italia, le donne hanno avuto riconosciuto il diritto di voto solo nel 1945; il reato di adulterio, punito per la donna con un anno di reclusione, è stato abolito solo nel 1968; il delitto d’onore, cioè le attenuanti per l’uxoricida dell’adultera, e il matrimonio riparatore, cioè la norma del codice penale che cancellava la colpa dello stupratore che sposava la vittima, sono stati abrogati solo nel 1981. Quarant’anni fa appena.

Molto, in questo ritardo, ha contato la profondità in cui sono depositati nelle viscere della nostra nazione quegli antichi codici patriarcali per millenni tipici della storia umana, e di quella dei popoli meridionali in modo particolare. Moltissimo ha contato l’influenza culturale e politica della Chiesa cattolica. Una Chiesa da tempo disarmata e priva di poteri temporali, eppure a lungo capace di influenzare le coscienze, la società e le scelte del decisore politico.

Il principio della separazione tra Chiesa e Stato è entrato sin dal Settecento nella nostra cultura giuridica e politica ed è stato ufficializzato nel 1929 con i Patti Lateranensi, ma ha impiegato altri sessant’anni per allentare la presa sulle libertà civili individuali e in modo particolare su quelle femminili.

È bene rammentarlo. È bene rammentarlo perché se questa è la storia dell’Italia non si può chiedere troppo alla storia dell’Iran. Una repubblica islamica fondata sulla Sharia. Cioè sulla sottomissione dello Stato alla Chiesa, della Legge alla Verità, dell’uomo a Dio e della donna all’uomo.

Inutile giraci girarci attorno: la Sharia, soprattutto nell’interpretazione retriva che ne danno i mullah iraniani, non è compatibile con i principi liberali. Chiederne, oggi, il superamento sarebbe ingenuo, pretendere che il regime iraniano sospenda la repressione e assicuri alle donne la libertà di manifestare pacificamente per l’affermazione dei propri diritti è doveroso. Un dovere che confidiamo sia avvertito come tale da tutti i governi e da tutte le organizzazioni nazionali ed internazionali che amano definirsi liberali e/o democratiche.

Huffington Post

L'articolo Ecco perché, da liberali, siamo al fianco delle donne iraniane proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Lezioni dagli Usa per una Difesa europea. La riflessione di Preziosa e Velo


Il centro dell’Europa si è spostato nel tempo verso est e l’agenda della sicurezza è diventata ancora più urgente. In Europa si è aperto un dibattito sullo spirito del Trattato di Maastricht. Il rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell ha sp

Il centro dell’Europa si è spostato nel tempo verso est e l’agenda della sicurezza è diventata ancora più urgente. In Europa si è aperto un dibattito sullo spirito del Trattato di Maastricht. Il rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell ha spiegato che l’Europa “non vuole costruire un esercito europeo al singolare” ma la “interoperabilità degli eserciti”.

Lo spirito di Maastricht

Secondo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo spirito di Maastricht era costituito dall’obiettivo dello sviluppo nella stabilità. Questa visione però, riduce il Trattato a un contenuto economico. In realtà Maastricht fu tutt’altro. Il Trattato definì l’euro come una moneta federale e Il carattere costituzionale del documento fu prevalente rispetto alla sua definizione economica. Il Trattato di Maastricht ha affrontato un problema apparentemente insolubile: sancire la nascita dell’euro in assenza di un consenso generale dei membri e di uno Stato europeo compiuto.

Il Trattato ha consentito di costruire l’Unione monetaria europea rispettando il principio costituzionale dell’unificazione europea costituito dalla sussidiarietà. Un ordine costituzionale sussidiario richiede che la moneta non debba essere utilizzata per centralizzare il potere e la stabilità monetaria rappresenta lo strumento per raggiungere questo obiettivo. Maastricht ha affrontato un problema nuovo: una moneta che non fosse controllata dalle istituzioni europee ma che rispondesse a regole costituzionali.

Oggi assistiamo al tentativo di centralizzare il governo dell’Unione europea da parte della Commissione, mentre la Banca centrale europea difende l’ordine costituzionale e ostacola le politiche inflazionistiche a tutti i livelli dell’Unione europea. La moneta europea poteva avere il consenso dei Paesi membri in quanto non realizzava un accentramento di potere a livello europeo. L’Unione monetaria ha così segnato una tappa fondamentale nella evoluzione del modello federale europeo.

Gli Stati membri al momento di rinunciare alla sovranità monetaria hanno voluto tutelarsi dagli effetti negativi possibili. In campo monetario l’unica soluzione praticabile era costituita dalla definizione di uno statuto della Banca centrale europea che limitasse drasticamente la sua discrezionalità, in modo specifico limitando la possibilità di drenare risorse dai cittadini degli Stati membri alle autorità europee attraverso lo strumento del signoraggio. Alla Commissione europea è stata preclusa la possibilità di intervenire nella gestione della Banca centrale europea. Si tratta oggi di valutare se questa soluzione, sancita dal Trattato di Maastricht, conservi validità.

L’ordine federale e il centralismo

Il dibattito oggi apertosi in Europa sull’opportunità di modificare o meno il dettato del Trattato di Maastricht pone in discussione l’alternativa fra confederazione e federalismo, fra ordine federale e centralismo. Questo dibattito si è sviluppato anche negli Stati Uniti, dal diciottesimo secolo sino ad oggi. La costituzione americana, nata con l’indipendenza alla fine del diciottesimo secolo, ha assunto il valore di ordine federale di riferimento. Ricordiamo che Altiero Spinelli ha scritto il Manifesto di Ventotene, sulla base dei contenuti de The Federalist che illustra il dibattito costituente svoltosi negli Stati Uniti.

Oggi l’alternativa fra federalismo e centralismo è in discussione nell’Unione europea in quanto la necessità di potenziare la difesa è emersa con le tensioni a livello internazionale. L’opzione che L’Unione europea deve oggi considerare non è costituita dalla validità o meno del Trattato di Maastricht, ma dal proprio posizionamento a livello internazionale. Il dibattito corrente non riconosce quale sia la vera portata delle decisioni che debbono essere adottate.

Il processo di centralizzazione negli Stati Uniti è avvenuto soprattutto modificando la Costituzione materiale più della Costituzione formale originaria. Questa è la differenza profonda fra Spinelli, fedele alla lezione della Costituzione originaria degli Stati Uniti, e Jean Monnet, sempre attento al ruolo svolto dalle modificazioni della Costituzione materiale, dell’Unione europea e degli Stati Uniti. L’Unione monetaria è stata realizzata secondo una Costituzione federale.

La moneta e la finanza come strumenti di accentramento

La Costituzione federale dell’Unione monetaria ha potuto affermarsi sia per la rinuncia europea di finanziare un esercito al livello degli altri Stati continentali sia per la rinuncia a utilizzare la moneta e la finanza come strumenti di potere internazionale. Grazie a ciò, l’euro, all’indomani della sua creazione, ha raggiunto in breve tempo l’importanza di seconda moneta di riserva e di pagamento a livello internazionale. La emissione di titoli di debito era preclusa dai trattati europei in essere. La Commissione europea ha sostenuto l’opportunità di emettere eurobonds. Questa possibilità ha trovato realizzazione per fronteggiare solo crisi temporanee, ma non è stata oggetto di consenso, da parte dei Paesi membri dell’Unione europea, per finanziare politiche centralizzatrici.

L’Unione europea superpotenza versus “Forza gentile”

Oggi l’Unione europea può perseguire il modello attuale statunitense, riposizionarsi come potenza internazionale, organizzare un esercito di potenza pari agli eserciti dei Paesi di dimensioni continentale, modificare radicalmente il Trattato di Maastricht e sviluppare un elevato accentramento. Un modello alternativo può fondarsi sulla ricerca di un ruolo di “Forza gentile” come teorizzato da Tommaso Padoa Schioppa, tutelando lo spirito di Maastricht e rafforzando il modello federale. L’esercito europeo, per essere coerente con questa seconda alternativa, potrebbe organizzarsi sul modello adottato dagli Stati Uniti, un modello dualistico costituito da un piccolo esercito europeo e dal mantenimento di una guardia nazionale da parte dei Paesi membri dell’Unione europea.

È stato il ruolo internazionale degli Stati Uniti che determinerà poi un incremento graduale del centralismo lungo tutto il ventesimo secolo con le Presidenze di Theodore Roosevelt e Franklin Delano Roosevelt. L’Europa non ha avuto la necessità di organizzare un esercito europeo in quanto la sua difesa era garantita dagli Stati Uniti. Ciò ha consentito all’Europa di sviluppare il processo di unificazione senza ricorrere alla centralizzazione, dandosi come regola costituzionale fondamentale la sussidiarietà. Sarebbe un errore di portata storica rinnegare Maastricht e trasformare l’Unione europea in superpotenza, con livelli di centralismo sempre maggiori.


formiche.net/2023/02/lezioni-u…



La scoperta di Antonio Gramsci - Giovanni D'Anna


Sin dai primissimi giorni del suo rientro in Italia, Togliatti iniziò una incessante opera di “divulgazione” della figura gramsciana

gramscionline.org/2020/09/29/g…

#gramsci



I falsari di André Gide


Primo e unico vero romanzo di André Gide, “I falsari” (1925) è un atto d’accusa nei confronti della letteratura per la mancanza di coraggio, lo scarso approfondimento e l’essere complice nella costruzione della menzogna; sorprendente e affascinante, diverso da qualsiasi altra cosa, mette in scena le vicende di un gruppo di personaggi disparati, moltiplicando i punti di vista, i generi e le linee narrative secondarie, distaccandosi così dalla tradizionale narrazione lineare.

iyezine.com/i-falsari-di-andre…

@L’angolo del lettore

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#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.



Gli adulti che questa mattina al liceo Michelangiolo di Firenze hanno aggredito studenti di un collettivo antifascista con inaudita violenza, hanno un volto ben


HO PERSO IL GUSTO, NON HA SAPORE


A scoppio ritardato scrivo anche io qualcosa di non-necessario su Sanremo.
Quest’anno non c’è stata una canzone che mi ha colpito particolarmente. È vero che a più riprese mi sono addormentato davanti alla TV, ma le esibizioni che perdevo, le recuperavo il giorno dopo su RaiPlay.
Ho visto qualche gag simpatica (gli interventi del solito immarcescibile Fiorello) e qualche piacevole sorpresa (Paola Egonu è stata la co-conduttrice più spontanea, paradossalmente anche quando leggeva). In generale però lo spettacolo mi è sembrato un po’ troppo costruito e in alcuni momenti anche un po’ stucchevole. Sarà che con il passare degli anni trovo sempre più noiose le confessioni e le prediche televisive fatte da chi ha il cXXo al caldo.
Per attirare l’attenzione su di sé, qualche artista ha azzardato – o “ha simulato” – uno scandaloso passionale colpo di testa: prendere a calci le rose, allungare il brodo all'infinito obbligando il pubblico a cantare un ritornello che non conosce, strusciarsi e baciarsi con l’influencer di turno, ecc... Ma dopo decenni di TV spazzatura oramai siamo tutti vaccinati (compreso i bambini) e la provocazione è diventata “Mission: impossible”.

Con questo non voglio dire che il Sanremo che ho visto sia tutto da buttare. Ci mancherebbe. Si sono esibiti anche dei bravi artisti. Qualcuno si è impegnato e ha fatto anche bene, tuttavia a distanza di una settimana dalla chiusura di Sanremo Venti23 (chiamarlo duemilaventitré non è più di moda) ricordo soprattutto due cose: la sanguigna “American Woman” di Elodie e Big Mama (per la cronaca: alla fine della canzone si sono baciate anche loro, ma nessuno ha montato polemiche) e la superba “Quello che non c’è” di Manuel Agnelli e gIANMARIA.
Lo so che sono di parte, perché adoro quella canzone e quel disco. E’ vero che gIANMARIA sembrava un pulcino bagnato, ma la performance di Manuel Agnelli e di Fabio Rondanini, batterista dei Calibro 35, è stata strepitosa.
Ma questo è camminare alto sull’acqua e su quello che non c’è.



Siamo tutti supereroi


Quando le masse, la stampa e il mondo intero ti dicono di muoverti, il tuo compito è di piantarti come un albero accanto al fiume della verità e dire a tutto il mondo - 'No, muovetevi voi.’

Tra il 2006 e il 2007 uscì uno degli archi narrativi più belli, secondo me, dell’universo Marvel: Civil War. Qualcuno magari avrà visto l’omonimo film, che però non c’entra niente.

Oggi voglio raccontarvi questa storia perché ha molto a che fare con la realtà che ci circonda e con l’attualissima diatriba tra chi vorrebbe incatenarci tra mille algoritmi e sistemi di sorveglianza di massa e chi invece preferirebbe semplicemente essere libero. C’è molto da imparare anche dai fumetti.

Civil War è una storia che parla di libertà, di privacy e dell’ingerenza arbitraria del governo. Potremmo dire che Civil War descrive ciò di cui parliamo ogni settimana su Privacy Chronicles.

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I veri supereroi sono iscritti a Privacy Chronicles

Civil War, la storia


Tutto iniziò con una squadra di giovani supereroi, i New Warriors. I sei si trovavano a Stamford, in Connecticut, per girare un reality-show chiamato “Superhuman High”. Durante le riprese vennero a sapere che nella città si trovava anche un gruppo di super-criminali, la Skeletal League, che proprio in quei giorni stavano progettando di rapinare una banca. L’occasione sembrò ghiotta per aumentare il rating televisivo del reality-show, così i New Warriors decisero di attaccare e cercare di catturare la Skeletal League in diretta TV.

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Purtroppo le cose non andarono come previsto. Durante i combattimenti uno dei supercriminali — Nitro — provocò un’esplosione proprio nel mezzo della città, che distrusse diversi quartieri e anche una scuola, uccidendo più di 600 persone — tra cui molti bambini.

Il drammatico episodio fu presto strumentalizzato dalla politica per attaccare tutti i supereroi che fino a quel momento agivano in modo indisturbato e spesso anonimo nel territorio degli Stati Uniti. Nel giro di pochissimo tempo il governo presentò un nuovo disegno di legge, chiamato Superhuman Registration Act.

L’atto, se approvato, avrebbe obbligato ogni “superumano” a registrarsi presso il governo e rendere nota la sua identità. Questo avrebbe consentito alle autorità di regolamentare le attività dei “supereroi”, supervisionarli, e — se necessario — sanzionarli. Il dibattito fu subito infuocato.

Da una parte c’era chi, come Tony Stark (Iron Man), prese subito le parti del governo. Secondo lui il Registration Act era semplicemente un atto dovuto. Un gesto di civiltà. La legge e la supervisione del governo avrebbero responsabilizzato tutti i supereroi, che quindi avrebbero smesso di agire in modo indipendente e al di fuori della legge.

Stark voleva evitare a tutti i costi il ripetersi di incidenti come quelli di Stamford ed era convinto che questo sarebbe stato possibile grazie a una forte legislazione per delimitare e regolamentare il campo d’azione dei supereroi.

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Dall’altra c’erano invece persone convinte che il Registration Act non fosse altro che un modo per violare le libertà fondamentali dei superumani, costringendoli a rivelare le loro identità segrete e rinunciare a ogni indipendenza.

Il principale sostenitore di questa tesi era Steve Rogers (Captain America). Secondo lui i supereroi avevano il dovere di agire moralmente e responsabilmente, ma come individui e non come macchine controllate dallo Stato. Steve credeva che il Registration Act avrebbe tolto ogni libertà di autodeterminazione ai supereroi, consegnando invece al governo il potere di manipolarli per finalità politiche.

I mass media, il pubblico e diversi gruppi di supereroi si divisero presto in due fazioni: da una parte quella pro-governo, capitanata pubblicamente da Tony Stark; dall’altra quella “ribelle”, condotta da Steve Rogers.

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Le due forze in campo divennero sempre più violente, fino a sfociare in una violenta guerra civile tra alcuni gruppi di supereroi fedeli a Tony Stark o Steve Rogers. La battaglia finale, che vide diversi feriti e morti, portò alla sconfitta di Captain America, che venne catturato e arrestato in quanto leader della fazione ribelle e anti-governativa.

L’arco narrativo si chiude con l’emblematica morte di Captain America, ucciso da un cecchino mentre veniva accompagnato in manette sulla scalinata del tribunale dove avrebbe dovuto essere giudicato per i suoi crimini durante la guerra civile.

Insieme a lui, morivano anche le speranze di libertà dei superumani, ormai condannati alla schedatura governativa.

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Qualche anno dopo gli eventi di Civil War si scoprì che il governo degli Stati Uniti da molto tempo era infiltrato fino alle sue posizioni apicali da agenti HYDRA (i nazisti dell’universo Marvel), e che il Superhuman Registration Act fu in verità un piano dei nazisti per sorvegliare e controllare i supereroi — unico vero ostacolo ai loro piani.

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Tony Stark o Steve Rogers?


Il mondo è in piena guerra civile. Proprio come raccontavano i fumetti Marvel 17 anni fa, anche oggi siamo circondati da due fazioni capitanate da vari Tony Stark e Steve Rogers. E come in Civil War, anche oggi la fazione vincente è quella dei Tony Stark.

Noi non abbiamo un Superhuman Registration Act, ma sistemi e leggi che Steve Rogers non avrebbe mai immaginato nel 2007. Schemi globali di identità digitale; sorveglianza totale delle comunicazioni; progetti per lo sviluppo di monete digitali di Stato e sorveglianza finanziaria; sistemi decisionali automatizzati e social scoring ; scatole nere obbligatorie sulle nostre auto…

L’effetto è lo stesso, anzi peggiore: sorveglianza totale delle nostre identità e delle nostre azioni. Per il “bene comune”.

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I Tony Stark del mondo ci dicono che l’anonimato e la privacy devono essere combattuti, perché deresponsabilizzano le persone. Essere anonimi è pericoloso; la libertà è pericolosa. Tenere alla propria privacy significa avere qualcosa da nascondere, o essere dei criminali.

Questi sono convinti di essere circondati da imbecilli senza alcuna moralità né principi. Il prossimo è un potenziale criminale o qualcuno talmente inaffidabile da non poter neanche gestire la sua stessa vita. E come Tony Stark, credono di essere tra i pochi illuminati a poter guidare il gregge con quel bastone chiamato governo. La legge è uno strumento di dominio per la creazione di una “società migliore”, a loro immagine e somiglianza.

E poi ci sono gli Steve Rogers. Loro sono convinti che l’essere umano abbia in sé tutti gli strumenti per agire moralmente, in modo autonomo e libero — senza per questo essere perseguito. Queste persone sanno che per agire moralmente, bisogna prima essere liberi. Che ogni individuo ha il diritto di creare la sua strada e agire secondo i suoi principi; che non può esserci alcuna libertà senza privacy, e che il governo non è altro che uno strumento di controllo delle persone per fini politici (di specifici gruppi di potere). Sì, la libertà è sporca. È caotica. A volte, pericolosa. Ma non importa.

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Paradimatico di questo pensiero è il celebre discorso di Steve Rogers a Peter Parker proprio durante la Civil War. Probabilmente uno dei migliori di tutto l’universo Marvel:

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Non importa ciò che dice la stampa. Non importa ciò che dicono i politici o le masse.

Non importa se l'intero Paese decide che qualcosa di sbagliato è qualcosa di giusto.

Questa nazione è stata fondata su un principio sopra ogni altro: la necessità di difendere ciò in cui crediamo, senza tener conto delle probabilità o delle conseguenze. Quando le masse, la stampa e il mondo intero ti dicono di muoverti, il tuo compito è di piantarti come un albero accanto al fiume della verità e dire a tutto il mondo -

'No, muovetevi voi.’

Tu, da che parte stai?





Mentre in UE l'identità digitale è tra i temi nodali, l'Italia sta facendo morire #SPID, la conquista più importante per la nostra cittadinanza digitale.
Perché da noi l'unica #eutanasialegale è quella sui nostri diritti...
Di @Luke_like su @wireditalia
wired.it/article/spid-c…

Immagine/foto

Gabriel reshared this.



Con la scomparsa di Maurizio Scaparro la cultura italiana perde un punto di riferimento. Lo ricordo non solo come amico ma anche come compagno di strada e uomo

sergiej reshared this.



Oggi il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha incontrato al Ministero il Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola (Fonags), per istituire un Tavolo permanente di confronto tra le associazioni delle famiglie e…


I due Hotel Francfort di David Leavitt


Dopo sei anni di silenzio, nel 2013 Leavitt torna con “I due Hotel Francfort”, un romanzo ambientato nel giugno del 1940, sui modi in cui le persone possono cambiare in circostanze eccezionali e non essere più le stesse.

È la fotografia di un’Europa alla viglia del disastro, che fa fatica a tenere in vita gli ultimi equilibri mentre dai confini di molte nazioni risuonano colpi di mortaio; una storia immersa nell’atmosfera tanto precaria quanto seducente del neutrale porto di Lisbona, città affollata di espatriati preoccupati di quello che stanno per perdere, in attesa di essere portati in salvo a New York dalla nave SS Manhattan. @L’angolo del lettore

iyezine.com/i-due-hotel-francf…

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Firenze: le foibe furono una vendetta


A #Firenze hanno intitolato ai "#martiri delle #foibe" uno slargo con un muro sbrecciato lordo di #graffiti, usato come parcheggio e come ricettacolo per i cassonetti della spazzatura.
Un gesto più di scherno che di omaggio.
Ogni tanto qualcuno spezza o danneggia in altro modo la targa con il nome, che nel febbraio 2023 è stato sostituita per la terza volta almeno.
Giusto in tempo perché venisse corretta con la scritta "#Vendetta".
Una valutazione gelida e realistica. Imporre a Firenze i piagnistei della propaganda difficilmente avrebbe portato a risultati diversi: in città è diffusa da decenni, specie tra le persone serie, la propensione a non sentire alcuna appartenenza per lo stato che occupa la penisola italiana e a comportarsi di conseguenza nei confronti dei suoi propagandisti.



YO LA TENGO – THIS STUPID WORLD


iyezine.com/yo-la-tengo-this-s…

Questa prima parte di 2023, per fortuna, non ci sta riservando soltanto addii dolorosi a musicisti amati (Van Conner, Tom Verlaine e altri) ma anche eccellenti ritorni discografici, e uno di questi, senza dubbio, è rappresentato dal nuovo disco degli statunitensi Yo La Tengo, ormai veterani indie rockers sulle scene da quasi quattro decadi, che hanno dato alla luce il loro diciassettesimo album ufficiale, “This stupid world“. @Musica Agorà

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi il decreto che ridisegna in parte la governance del #PNRR, presentato dal Ministro per gli Affari Europei Raffaele Fitto.
#pnrr

Poliverso & Poliversity reshared this.



Pubblicata #ThePETGuide, la guida dell' ONU sulle tecnologie di miglioramento della #privacy per operare statistiche ufficiali


Il task team UNCEBD Privacy Enhancing Techinques ha pubblicato un pamphlet con metodologie e approcci per mitigare i rischi per la privacy quando si utilizzano dati sensibili o riservati, che sono collettivamente indicati come tecnologie di miglioramento della privacy (PET).

@Etica Digitale

Agli Uffici nazionali di statistica (NSO) sono affidati dati che hanno il potenziale per guidare l'innovazione e migliorare i servizi nazionali, la ricerca e i benefici sociali. Tuttavia, c'è stato un aumento delle minacce informatiche sostenute, reti complesse di intermediari motivati ​​a procurarsi dati sensibili e progressi nei metodi per reidentificare e collegare i dati a individui e tra più fonti di dati. Le violazioni dei dati erodono la fiducia del pubblico e possono avere gravi conseguenze negative per individui, gruppi e comunità.

Le statistiche ufficiali sono una fonte attendibile di informazioni per i governi di tutto il mondo per prendere decisioni informate e basate sui dati. Pertanto, l'ampiezza delle informazioni viene raccolta da una serie di fonti di dati come indagini sulle famiglie e sulle imprese, censimenti della popolazione, economici o agricoli, una varietà di registri amministrativi o persino dati del settore privato. Tali fonti di dati sono gli input per la compilazione di statistiche e indicatori sull'economia, l'ambiente e la società. In molti modi, le statistiche ufficiali offrono un'istantanea dello sviluppo e del tasso di progresso di un paese. Naturalmente, quanto più dettagliato è il livello dei dati di input, tanto più sfumate possono essere le statistiche ufficiali. Tuttavia, la raccolta, il trattamento e la diffusione di dati spesso sensibili devono proteggere la privacy delle persone e delle imprese. Inoltre, considerando gli uffici nazionali di statistica (NSO) come parte degli ecosistemi di dati nazionali e internazionali, gli NSO potrebbero potenzialmente condividere molti più dati se in grado di proteggere la loro privacy. Questo inevitabile compromesso è il fulcro di questo documento, o più concisamente: come possiamo utilizzare la tecnologia per mitigare i rischi per la privacy e fornire garanzie dimostrabili sulla privacy durante l'intero ciclo di raccolta, elaborazione, analisi e distribuzione di informazioni potenzialmente sensibili.

Questo documento esplora gli attuali approcci alla protezione dei dati (ad esempio, l'anonimizzazione dei dati, il calcolo delle parti di input, i controlli e gli accordi contrattuali) e le relative limitazioni. Al fine di facilitare la sperimentazione su progetti pilota e una collaborazione efficace su casi d'uso del "mondo reale", il Task Team delle tecniche di tutela della privacy delle Nazioni Unite ha fondato il laboratorio PET delle Nazioni Unite.

Vengono introdotte due grandi categorie di PET (ad es. privacy di input, privacy di output), tra cui calcolo multipartitico sicuro, crittografia omomorfica, privacy differenziale, dati sintetici, apprendimento distribuito, zero-knowledge proof e ambienti di esecuzione attendibili.

Vengono presentati studi di casi dettagliati che comprendono una vasta gamma di casi d'uso in tutti i settori, sfruttano combinazioni di PET e coinvolgono la collaborazione tra le parti (come più NSO che lavorano insieme, NSO che lavorano con altre agenzie governative e NSO che lavorano con organizzazioni del settore privato). Quindici casi di studio descrivono implementazioni che si trovano nella fase concettuale o pilota e tre che sono state implementate in ambienti di produzione.

Questo documento fornisce una panoramica delle attività di definizione degli standard e identifica diversi nuovi standard rilevanti per il trattamento dei set di dati, compresi gli standard in fase di sviluppo e alcuni che sono un prodotto del principio di precauzione applicato alla definizione degli standard per l'intelligenza artificiale (IA).

Data l'espansione dell'attività che si occupa di PET e il contesto in cui possono essere applicati, gli standard sono presentati in due parti. La prima identifica gli standard essenziali con sezioni sulla crittografia e sulle tecniche di sicurezza. Il secondo considera gli standard indirettamente correlati che potrebbero influenzare l'ambiente - tecnico e organizzativo - in cui i PET possono essere implementati, con argomenti secondari su cloud computing, big data, governance, intelligenza artificiale e qualità dei dati. Per coloro che sono interessati al "quadro più ampio", è disponibile una sezione aggiuntiva sugli standard correlati.

Qui il link per scaricare la guida

Scarica la guida



La povertà educativa in Italia è un problema, ma si potrebbe risolvere | L'Indipendente

"In un Paese con disparità territoriali profonde, un forte multiculturalismo di seconda generazione (sono circa 1,3 milioni i bambini stranieri o italiani per acquisizione) si auspica un intervento puntuale e ottimizzato, su strutture, personale e approcci. Non si tratta solo di risanare il giovane patrimonio umano in contesti periferici e creare un nuovo ecosistema di servizi per l’infanzia, adeguato alle nuove generazioni; occorre, come individuato dall’Osservatorio, considerare i giovani come risorse e non solo fasce da tutelare, attuare un cambiamento partecipativo e di ascolto, indirizzando i fondi alle reali necessità che chiede il nostro futuro."

lindipendente.online/2023/02/1…



Oggi si celebra “M’illumino di Meno”, la Giornata Nazionale che Rai Radio2 con il programma Caterpillar organizza annualmente per diffondere la cultura della sostenibilità ambientale e del risparmio delle risorse.


La coscienza morta


Si applica anche a noi, adesso.

"From the accumulated evidence one can only conclude that conscience as such had apparently got lost in Germany, and this to a point where people hardly remembered it and had ceased to realize that the surprising "new set of German values" was not shared by the outside world. This, to be sure, is not the entire truth. For there were individuals in Germany who from the very beginning of the regime and without ever wavering were opposed to Hitler; no one knows how many there were of them — perhaps a hundred thousand, perhaps many more, perhaps many fewer — or their voices were never heard. They could be found everywhere, in all strata of society, among the simple people as well as among the educated, in all parties, perhaps even in the ranks of the N.S.D.A.P."
---
"E tutto sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il “nuovo sistema di valori” tedesco non era condiviso dal mondo esterno. Naturalmente, questo non vale per tutti
i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa quanti fossero (forse centomila, forse molti di piu, forse molti di meno) poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce. Potevano trovarsi dappertutto, in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito nazista."



Fr.#20 / Di artiste e prostitute digitali


Nel frammento di oggi: nuove professioni digitali, con conseguenze reali / Meme e citazione del giorno.

Aspetta un attimo!


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Artiste di strada, ma digitali


In questi giorni sono venuto a conoscenza di un fenomeno peculiare che ha preso piede in Cina. Non saprei esattamente come definirlo, quindi faccio prima a farvelo vedere:

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Cosa sta succedendo? Quelle sono delle ragazze che stanno cantando, scherzando e chattando coi loro fan online. In streaming, sul marciapiede.

Perché? Beh, pare che sia merito di un nuovo algoritmo.

Non farti fregare dall’algoritmo, iscriviti a Privacy Chronicles.

La piattaforma cinese di streaming che usano queste ragazze infatti è dotata di un sistema di localizzazione che permette agli utenti di cercare streamer nelle loro vicinanze. Questo significa che chi fa streaming in zone più ricche avrà evidentemente una probabilità più alta di ricevere donazioni cospicue rispetto a chi invece si limita a streamare da casa sua, magari in un quartiere povero.

Ecco allora spiegato il motivo per cui decine di ragazze decidono di lavorare in strada piuttosto che nella comodità delle loro stanze.

La peculiarità è che molte di loro, come spiegato da Naomi Wu, non sono in condizioni di povertà. Anzi, spesso hanno un lavoro normale che fanno durante il giorno. D’altronde, l’attrezzatura che alcune si portano dietro è anche abbastanza costosa.

Insomma, non bisogna fare confusione: queste ragazze sono più vicine a delle artiste di strada che a delle mendicanti. La differenza, rispetto agli artisti di strada tradizionali, è che le loro performance vengono viste e apprezzate da remoto, da persone a 500 metri da loro o dall’altra parte della Cina.

Questo caso peculiare può insegnarci una cosa: gli incentivi funzionano. Funzionano così bene che una professione nata grazie al digitale si sta trasformando in uno strano ibrido phygital che incentiva decine di ragazze a mettersi in strada con luci e strumenti per lo streaming.

Forse bisognerebbe iniziare a riflettere sul potere diretto e indiretto che questi algoritmi hanno sulla nostra vita, e soprattutto ponderare sulle attuali e future capacità dei nostri governi di influenzare il comportamento di milioni di persone semplicemente attraverso sistemi di economia comportamentale e ingegneria sociale — come quelli già sperimentati anche in Italia.

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Prostitute digitali, conseguenze reali


Sempre rimanendo nel tema delle nuove professioni digitali, vale la pena riportare una notizia di questi giorni che arriva dagli Stati Uniti: pare che a una ragazza, modella su OnlyFans, sia stata negata la Visa per l’accesso agli Stati Uniti.

La Visa è in pratica un’autorizzazione che deve avere chiunque voglia viaggiare verso gli Stati Uniti e che viene allegata al passaporto. In alcuni casi, quando sussistono situazioni particolari, la Visa può essere negata. Ad esempio nel caso in cui la persona abbia ricevuto condanne o sia accusata di altre attività illecite, come il contrabbando.

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Oppure, come successo per la ragazza in questione, se la persona ha realizzato attività di prostituzione durante i 10 anni precedenti alla richiesta di Visa o se il suo viaggio sia in qualche modo finalizzato a compiere atti di prostituzione.

Non voglio entrare nella diatriba infinita sul considerare o meno l’attività su OnlyFans al pari della prostituzione, ma a quanto pare le autorità degli Stati Uniti la considerano tale. Ciò che conta qui è la capacità delle autorità governative di sorvegliare e analizzare i motivi del viaggio di una persona straniera, le sue attività professionali (magari anche secondarie) e il suo passato — fino a dieci anni prima!

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Non mi stupisce che gli Stati Uniti facciano tali discriminazioni: è noto che i collettivisti-statalisti confondono sempre (volontariamente) il piano della moralità con quello della legalità. E questo impatta la libertà delle persone.

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Questo caso dovrebbe esserci d’esempio per comprendere i rischi derivanti proprio da queste capacità di sorveglianza dei nostri governi. I nostri dati saranno usati contro di noi. Sempre. E questo è anche il motivo per cui bisogna rigettare con forza qualsiasi proposta di identità digitale. Se ci riescono ora, figuriamoci cosa potranno fare con un sistema di identità digitale connesso a tutto ciò che siamo e facciamo.

Insomma, se proprio vuoi fare la modella su OnlyFans sappi che potresti essere considerata una prostituta a tutti gli effetti. Nulla in contrario, ma forse sarebbe il caso di imparare il valore dello pseudoanonimato e provare a considerare piattaforme e sistemi di pagamento alternativi che lasciano poche tracce, come Bitcoin. È chiaro che intermediari fiat come OnlyFans o come le piattaforme di pagamento non hanno assolutamente a cuore la riservatezza dei loro clienti.

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"Every form of happiness is private. Our greatest moments are personal, self-motivated, not to be touched. The things which are sacred or precious to us are the things we withdraw from promiscuous sharing.”

Ayn Rand

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La moralità dell'anonimato

Anonymity is dead, long live the anonimous! L’anonimato è morto, la privacy è morta. E anche noi, nel lungo periodo, siamo tutti morti. Se siete d’accordo, oggi inizierei così per parlare di un tema che stranamente non avevo ancora trattato su queste pagine: la moralità dell’anonimato…
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6 days ago · 5 likes · 2 comments · Matte Galt



Twitter Files: dalla censura politica al ban di Trump


Comunicazioni e documenti riservati per scoprire il sistema di censura e di sorveglianza segreta dentro Twitter - tra manager con deliri di onnipotenza e agenti dell'FBI.

Nelle scorse settimane Elon Musk ha distribuito ad alcuni giornalisti migliaia di documenti e comunicazioni riservate di Twitter. L’analisi di questi documenti ha dato vita a un piccolo cataclisma.

Le prime notizie che arrivano dai “Twitter Files” raccontano di inquietanti scoperte sui meccanismi di “moderazione” della piattaforma, tra top manager e team di moderazione palesemente politicizzati e sistematiche ingerenze da parte delle agenzie di intelligence. La storia raccontata finora dai giornalisti che hanno messo mano ai Twitter Files, attraverso dei lunghi thread pubblicati proprio su Twitter, parte dal 2020 e arriva fino ai giorni nostri.

Il materiale pare sia molto, e c’è sicuramente ancora tanto da raccontare, ma oggi voglio dare la possibilità ai lettori di farsi un’idea, ripercorrendo insieme le parti più rilevanti di tutta la vicenda.

Iniziamo.

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Gli strumenti di Twitter


Come racconta Matt Taibbi nel primo thread sui Twitter Files, nel corso del tempo Twitter fu costretta a sviluppare e costruire degli strumenti di censura che durante i primi anni di vita della piattaforma erano invece assenti.

Presto molte persone si resero conto della potenza di questi strumenti, e pian piano furono messi a disposizione di autorità governative ed esponenti di partiti politici che di volta in volta chiedevano alla piattaforma di rimuovere contenuti sgraditi. Nel 2020 le richieste di questo tipo erano praticamente una prassi consolidata.

Questi strumenti di “moderazione” erano a disposizione, in teoria, di ogni parte politica. Il problema è che sembra che non ci fossero dei canali ufficiali a cui fare riferimento, ma che fosse invece un’attività che veniva fatta attraverso contatti personali con dipendenti interni di Twitter.

Perché dico che è un problema? Dovete sapere che prima dell’arrivo di Elon Musk e dei licenziamenti collettivi, più del 98% dei dipendenti di Twitter erano dichiaratamente Democratici (cioè progressisti di sinistra) — come mostrano dai dati riportati da Matt Taibbi nel suo primo thread.

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Per un mero dato statistico, i Democratici avevano quindi molte più possibilità di ottenere la rimozione di contenuti rispetto ai Repubblicani.

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La censura arbitraria dei progressisti


La giornalista Bari Weiss, nel secondo thread dedicato ai Twitter Files conferma poi ciò che molti “complottisti” dicevano da tempo, nonostante le dichiarazioni pubbliche contrarie da parte di Vijaya Gadde: sì, lo shadow ban esiste.

Il team di moderazione di Twitter aveva infatti l’abitudine di creare delle vere e proprie blacklist di utenti a cui limitare la visibilità e la reach dei contenuti.

Il gruppo interno che gestiva questo tipo di censura era chiamato “Strategic Response Team - Global Escalation Team”. Nel gruppo, dice Bari Weiss, c’erano Vijaya Gadde (Legal, Policy, and Trust) e Yoel Roth (Trust & Safety), oltre ai CEO — prima Jack Dorsey e poi Parag Agrawal.

Gli account più colpiti da queste blacklist e shadowban erano quelli di persone della destra conservatrice e in generale account con opinioni contrarie a quelle progressiste in merito a questioni riguardanti LGBT o sulle elezioni presidenziali del 2020.

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Un esempio paradigmatico fu quello di Chaya Raichik, “Libs of TikTok” (che seguo con molto piacere, anche su substack), che solo all’inizio del 2022 fu bannata per ben sei volte. Nel suo caso il pregiudizio politico era evidente: non solo l’account veniva sospeso arbitrariamente, ma Twitter non fece nulla per bannare le persone che doxxarono l’indirizzo di residenza di Chaya e che regolarmente la minacciavano di morte. Se non sbaglio, qualcuno di quei post è ancora online.

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Le motivazioni che sostenevano la maggior parte delle censure di post e sospensione degli account erano puramente politiche, in base alle idee dei team di moderazione e dei manager come Yoel Roth.

Proprio lui scrisse nel 2021: “The hypothesis underlying much of what we’ve implemented is that if exposure to, e.g., misinformation directly causes harm, we should use remediations that reduce exposure, and limiting the spread/virality of content is a good way to do that”.

Cosa si intende Roth per “misinformation”? Ovviamente, tutto ciò che è contrario alla narrativa Dem e alle sue personalissime idee.

Al contrario di quanto pubblicamente affermato da Twitter nel corso degli anni, molte delle scelte di rimozione di contenuti non erano fatte sulla base di elementi oggettivi, ma in base a interpretazioni personali degli executives e dei team di moderazione, per poi essere giustificate di volta in volta con le policy più adeguate.

Un chiaro esempio dell’arbitrarietà e dei pregiudizi dei team di moderazione viene da uno scambio tra Yoel Roth e un collega il 7 gennaio 2021, in cui discutono su come “moderare” il movimento “#stopthesteal”, che durante l’elezione del 2020 sosteneva ci fossero gravi irregolarità nel processo elettorale, soprattutto per quanto riguarda i voti via posta.

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Il movimento, ritenuto fonte di disinformazione, venne presto censurato da Twitter. L’obiettivo in quel caso era duplice: da una parte censurare i post degli esponenti del movimento, e dall’altra lasciare libertà al “counterspeech”, cioè ai post dei progressisti di sinistra che usavano lo stesso hashtag per sostenere tesi contrarie.

Un altro esempio di arbitrarietà e faziosità politica arriva da queste comunicazioni del 7 di gennaio 2021 (24 ore prima del ban di Trump), in cui il team di moderazione si trova a discutere perfino su come punire gli utenti che ripostavano foto dei tweet di Trump senza alcun intento politico, ma per criticare le scelte di moderazione di Twitter, come in questo caso:

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Il ban di Trump


La terza, quarta e quinta parte dei Twitter Files affrontano invece gli eventi che portarono l’8 gennaio 2021 al ban di Trump — il caso di deplatforming più famoso e più grave al mondo. La storia prosegue con i contributi di Matt Taibbi e Michael Shellenberger, che offrono uno spaccato sui mesi e giorni precedenti al ban di Trump.

Già dai primi mesi del 2020 Twitter era un insieme scomposto di sistemi di sorveglianza e di censura automatizzati e persone con il potere di censurare arbitrariamente chiunque (beh, non proprio chiunque) sulla base di pregiudizi puramente ideologici e politici.

Come se questo non bastasse, man mano che le elezioni si avvicinavano gli executives di alto livello come Yoel Roth iniziavano ad intrattenere sistematicamente relazioni con FBI e varie altre agenzie federali come l’Homeland Security e la National Intelligence. Era in questi incontri che spesso si decideva come e quali tweet censurare. Principalmente, ça va sans dire, di Trump e altri account Repubblicani — che in quel periodo erano molto attivi per denunciare problemi col processo elettorale.

A conferma della frequenza e normalità degli incontri ci sono alcuni scambi tra il team marketing di Twitter e il Policy Director Nick Pickles. Il team chiedeva se fosse possibile descrivere il processo di moderazione di Twitter come un misto di “machine learning, human review e partnership con esperti”, a cui Nick rispose: “non so se definirei FBI e DHS come esperti”.

La pressione politica fuori e dentro Twitter in quel periodo si poteva tagliare con il coltello.

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In questo periodo Trump era già stato sospeso diverse volte. Secondo le policy di Twitter, ci sono una serie di “strike” prima che l’account possa essere bannato definitivamente. A Trump ne rimaneva uno; un’ultima violazione, di una qualsiasi policy interna, avrebbe causato il suo ban definitivo.

Trump però non era una persona qualunque. I suoi tweet avevano un valore “pubblico” non indifferente. La questione era nota anche internamente a Twitter, che infatti ha una “public interest policy” che prevede delle eccezioni in caso di violazioni per tweet e account che abbiano un certo valore nell’interesse pubblico.

Proprio per questo, il 7 gennaio 2021 l’onnipresente Yoel Roth scrive a un collega che nel caso di Trump l’idea era quella di "bypassare le tutele del “public interest e fare in modo che potesse essere bannato alla prima violazione di una qualsiasi policy interna". La decisione ai piani alti era già presa da tempo. Trump doveva essere bannato, bisognava solo trovare una qualsiasi giustificazione.

La pressione interna in quei giorni era altissima. Vi ricordo che molti dipendenti in Twitter erano progressisti democratici, che dopo gli eventi del 6 gennaio ce l’avevano a morte con Trump e con chiunque la pensasse diversamente da loro (ma questo è ricorrente). Nelle chat interne circolavano affermazioni come queste:

“Non capisco la decisione di non bannare Trump data la sua istigazione alla violenza”

“Dobbiamo fare la cosa giusta e bannare il suo account”

“Ha chiaramente tentato di sovvertire il nostro ordine democratico… se non è questo un buon motivo per bannarlo, non so cosa possa esserlo”

Come riporta di nuovo Bari Weiss nella quinta parte dei Twitter Files, l’8 gennaio 2021 — a poche ore dal ban di Trump — il Washington Post pubblicò perfino una lettera aperta firmata da 300 dipendenti di Twitter che chiedevano a Jack Dorsey di bannare per sempre Trump — a prescindere da qualsiasi valutazione di merito.

Quel giorno Trump postò due volte:

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Poche ore dopo il primo tweet Vijaya Gadde scrisse in una chat interna: “potremmo interpretare ‘American Patriots […] will not disrespected or treated unfairly in any way, shape or form’ come una istigazione alla violenza”.

L’istigazione alla violenza sarebbe stato l’ultimo strike necessario per bannare Trump definitivamente. L’interpretazione però era controversa e neanche Vijaya era sicura di questa strada. Sempre nella stessa chat qualcuno disse che “American Patriot” poteva essere inteso come un chiaro riferimento ai manifestanti violenti di Capitol Hill (6 gennaio 2021) e questo avrebbe causato la violazione della “Glorification of Violence policy”.

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Insomma, non c’era più alcun criterio di valuazione, se non la fantasia dei moderatori nell’interpretare il contesto del tweet di Trump. La tensione era talmente alta che nelle ore successive al tweet Trump venne definito come il leader di un’organizzazione terroristica — comparabile perfino a Hitler.

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Alla fine anche la “leadership” di Twitter dovette cedere alle pressioni, sia interne che esterne, e Trump venne bannato definitivamente a causa della supposta violazione della policy contro l’istigazione alla violenza.

Social Network… o strumento di sorveglianza dell’intelligence?


Il sesto e ultimo (per ora) thread sui Twitter Files, scritto poche ore prima dell’uscita di questa newsletter, mostra come le agenzie di intelligence, in particolare FBI e DHS, avessero da tempo rapporti continuativi, amichevoli e molto stretti con diversi referenti di Twitter. Uno su tutti Yoel Roth, che tra gennaio 2020 e novembre 2022 pare che abbia scambiato più di 150 email con l’FBI.

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Ma l’FBI non si limitava a interagire con Twitter. L’agenzia aveva istituito una vera e propria task force di sorveglianza e analisi di post e account sulla piattaforma. L’ingerenza arrivava a tal punto da chiedere “informalmente” a Twitter i dati di localizzazione degli account flaggati — senza alcun mandato né indagine che giustificasse questa richiesta.

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Contrasto al terrorismo? Indagini su crimini federali? Niente di tutto questo: pura sorveglianza e censura politica in materia elettorale. Venivano colpiti perfino di account satirici. Ma è questo il mandato dell’FBI? E davvero siamo disposti ad accettare un abuso di potere di questo tipo?

Un commento


La storia dei Twitter Files non è ancora finita, e certamente ci sono ancora molte domande che meritano risposta. Che dire di tutta la censura sul covid? Solo da poco Twitter ha annunciato di aver disattivato i filtri automatizzati su quei contenuti. E che dire di tutti gli account che sono stati ingiustamente silenziati e shadow-bannati da gennaio 2021 a oggi? Che ruolo ha avuto l’intelligence americana nella gestione occidentale della pandemia e nel flusso delle informazioni?

Politici e intellettuali, per lo più di sinistra, da anni tentano di persuaderci del bisogno di combattere la disinformazione. Ci dicono che è pericolosa, che bisogna proteggere le persone. Ma da cosa?

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In un mondo dove tutto ormai è relativo e non esiste più alcun criterio oggettivo — in cui un giudice della Corte Suprema è incapace perfino di dare una definizione di donna; in cui per mesi si è detto tutto e il contrario di tutto su COVID e vaccini… cosa significa disinformazione?

La verità è che la lotta alla "disinformazione" non esiste. Esiste però una chiara volontà di censurare opinioni e idee che non siano aderenti all’ideologia dominante. Perché l’informazione è potere. Chi controlla l’informazione controlla le idee, che come sappiamo sono più potenti dei proiettili.

Controllare l’informazione serve per plasmare una narrativa capace di rendere le persone sempre più dipendenti dal sistema; convincerle a subire qualsiasi angheria e limitazione di libertà — per il loro bene. Non c’è nulla di nuovo, è così che i governi creano una massa di zombie pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di sentirsi al sicuro.

È il modello cinese, quel modello che fin dal 1997 punisce chiunque diffonda informazioni potenzialmente sovversive dell’ordine stabilito. Il modello che i progressisti di tutto il mondo, da Washington a Bruxelles, vogliono applicare ai social network. Il Digital Services Act — non mi stancherò mai di ripeterlo — è questa cosa qua.

Allora oggi dobbiamo chiederci: perché mai qualcuno dovrebbe avere il potere di decidere fino a che punto può spingersi il pensiero prima di diventare illegale? E che impatto ha la censura (e l’annessa sorveglianza di massa) sul nostro mondo? Quanto di ciò che stiamo vivendo in questi anni è frutto dell’evoluzione naturale degli eventi e quanto invece è conseguenza del controllo e della manipolazione delle informazioni da parte di un nucleo ristretto di persone?

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Leggi la seconda parte dei Twitter Files


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