Un anno di guerra: la linea d’ombra Russia-Ucraina
Non crediamo mai abbastanza a ciò in cui non crediamo (M. Conte S. 2004) Difficile ed arduo argomentare qualcosa di sensato nell’incoerenza di una guerra dove politica, rispetto e diritti sono messi da parte. Nel dubbio se la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi -nelle parole del generale von Clausewitz (1832)- poiché esauritosi il tempo nell’ascolto […]
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VI edizione del MEET Film Festival: fino al 1° marzo sarà possibile per scuole, università e registi indipendenti inviare i propri materiali audiovisivi.
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Hacker e libertà
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A un anno dalla pubblicazione dell'illustrazione sull'invasione Russa in Ucraina, Boban Pesov pubblica un nuovo capolavoro:
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Un anno di guerra in Ucraina: la parola d’ordine è ‘donare’
Un anno di guerra in Ucraina pone la domanda: ‘che fare’ e quale strategia adottare per la pace. Le molte sanzioni economiche contro la Russia non hanno dato risultati brillanti, se non quello di ipotizzare una guerra continua e di lungo periodo. Anche l’Unione Europea rischia di appiattirsi sulla sola soluzione belligerante anche per il […]
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Bavaglio e retate di oppositori; Tunisia a un passo dal default
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 24 febbraio 2023 – La “rivoluzione dei Gelsomini”, che nel 2011 pose fine dopo 24 anni al regime dispotico di Zine Ben Alì, è un ricordo sbiadito. La Tunisia è oggi un paese in profonda crisi gestito con il pugno di ferro dal presidente della Repubblica Kaies Saied.
Il golpe silenzioso
Eletto a furor di popolo nell’ottobre del 2019 come indipendente, due anni dopo Saied ha realizzato un vero e proprio autogolpe. In nome della stabilità, nel 2021 il presidente ha esautorato il governo e congelato il parlamento, attribuendosi pieni poteri. Nel luglio 2022, sfruttando la sua popolarità ma soprattutto la distanza siderale della popolazione dalla politica, Saied è riuscito a far approvare un nuovo testo costituzionale che concede alla Presidenza ampissimi poteri.
Se a pronunciarsi sul nuovo testo fondamentale fu solo il 30% degli elettori, nelle scorse settimane ancora meno cittadini hanno votato nelle due tornate (17 dicembre 2022 e 29 gennaio) delle elezioni legislative: solo l’11% degli aventi diritto ha messo la scheda nell’urna.
La popolarità di Saied è ancora superiore al 50%, dicono i sondaggi, ma è in calo visto soprattutto il rapido deterioramento della situazione economica. Impotente, l’autocrate risponde mettendo il bavaglio all’opposizione e denunciando improbabili complotti. Alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2024 – ammesso che si tengano – Saied non vuole problemi, anche se i sondaggi prevedono per ora una sua netta vittoria.
Un’ondata di arresti
Nei giorni scorsi il capo dello Stato ha avviato una vasta campagna di arresti di esponenti politici, di imprenditori, giudici e giornalisti accusati di «aver cospirato contro la sicurezza dello stato». In manette sono finiti soprattutto leader politici della Fratellanza Musulmana come Abelhamid Jlassi, Faouzi Kammoun e Noureddine Bhiri (ex ministro della Giustizia), vicini al partito di opposizione Ennahda. Ma gli arresti sono trasversali: in carcere sono finiti anche Noureddine Boutar, direttore di “Mosaique Fm” – la radio indipendente più ascoltata del paese spesso critica nei confronti del governo – l’imprenditore Kamal Eltaief, all’epoca vicino al despota Ben Ali e legato agli interessi occidentali e Khayam Turki, esponente del partito socialdemocratico Ettakatol. Mercoledì la Procura Nazionale Antiterrorismo ha ordinato l’arresto di Chaima Aissa, leader del Fronte di Salvezza Nazionale, e di Issam Chebbi, leader del Partito Repubblicano.
Contro gli arresti arbitrati si sono espressi in particolare la Germania e gli Stati Uniti, ma anche l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha espresso preoccupazione per «l’inasprimento della repressione contro gli oppositori politici e i rappresentanti della società civile in Tunisia, soprattutto attraverso le misure adottate dalle autorità, che continuano a minare l’indipendenza della magistratura».
Il portavoce della diplomazia Usa, Ned Price ha affermato che Washington sostiene le aspirazioni del popolo tunisino verso «un sistema giudiziario indipendente e trasparente, in grado di garantire libertà a tutti». «I principi democratici della libertà di espressione, della diversità politica e dello stato di diritto devono essere applicati in un paese democratico come la Tunisia» ha invece sentenziato il portavoce dell’esecutivo tedesco Wolfgang Buechner.
Saied ha risposto per le rime a tutti, soprattutto all’amministrazione Biden. «Che guardino alla loro storia e alla loro realtà, prima di parlare della situazione in Tunisia. Siamo uno stato indipendente e sovrano, non siamo sotto colonizzazione o protettorato. Sappiamo quello che facciamo, gli arrestati sono dei terroristi» ha detto l’uomo forte di Tunisi.
Manifestazione di protesta dei giornalisti
Sindacati in piazza, Tunisi espelle la leader della CES
Contro l’arresto del fondatore di Radio Mosaique a Tunisi hanno manifestato numerosi membri del Sindacato Nazionale dei Giornalisti. «Le autorità vogliono mettere in riga sia i media privati sia quelli pubblici, e l’arresto di Boutar è un tentativo di intimidire l’intero settore» ha denunciato Mahdi Jlassi, presidente del SNJT.
Anche la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (Ces), Esther Lynch, ha invitato il presidente tunisino a rispettare i diritti umani e a smettere di prendere di mira i sindacati. L’appello è giunto il giorno dopo l’espulsione della sindacalista irlandese dal Paese, motivata dalla sua partecipazione a una protesta antigovernativa organizzata a Sfax dall’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt). Il 18 febbraio Saied ha definito la leader sindacale “persona non grata”, ingiungendole di abbandonare la Tunisia entro 24 ore.
La sua partecipazione alle manifestazioni del maggiore sindacato del paese rappresenta, secondo il capo dello Stato, un atto di intollerabile ingerenza negli affari interni del paese. Per il segretario generale dell’Ugtt, Noureddine Taboubi, si sarebbe trattato solo di una dimostrazione di solidarietà.
Il sindacato tunisino, che conta oltre 700 mila iscritti, ha organizzato diverse manifestazioni di lavoratori per protestare contro gli arresti arbitrari. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in otto diverse città, accusando Saied di soffocare le libertà fondamentali, compresi i diritti sindacali. Il vicesegretario generale dell’Ugtt Taher Barbari ha spiegato che le manifestazioni sono una risposta a una situazione politica marcia, ai “discorsi da caserma” e alla nuova legge finanziaria.
«L’Ugtt non può lasciare il Paese nelle mani di un unico decisore e con una Costituzione redatta dal presidente della Repubblica per costruire una nuova dittatura», ha aggiunto.
Il 31 gennaio un dirigente dell’Ugtt, Anis Kaabi, è stato arrestato a seguito di uno sciopero dei lavoratori dei caselli autostradali. A favore della sua liberazione di sono espressi decine di firmatari di un appello – dal Partito Comunista all’Associazione Tunisina per i Diritti e le Libertà passando per il filosofo e antropologo Youssef Seddik e l’attivista Bochra Belhaj Hmida – che denuncia «i tentativi disperati di criminalizzare il lavoro sindacale».
Crisi economica e complotti
Saied afferma che «la libertà di espressione è garantita e non c’è alcun legame con questi arresti, che piuttosto sono legati al complotto e alla corruzione».
Il giro di vite voluto dal presidente si inserisce però in un contesto dominato dalla preoccupazione della popolazione per una crisi economica sempre più grave. Molti prodotti alimentari di base – come lo zucchero, il latte e il caffè – sono diventati inaccessibili a molti tunisini e comunque risultano spesso introvabili. Il paese è privo di significative risorse naturali, è affetto da una siccità sempre più cronica ed è costretto ad importare dall’estero il grano che serve per fare il pane distribuito alla popolazione a prezzi calmierati.
Anche in questo caso, però, Saied si difende agitando un non meglio precisato “complotto”. I beni alimentari di prima necessità «sono disponibili all’interno del mercato tunisino, ma sono registrate delle carenze allo scopo di aggravare la situazione» ha affermato dopo aver però rimosso, all’inizio di gennaio, la ministra del Commercio Fadhila Rebihi.
Saied incontra la premier tunisina
Lacrime e sangue
Giustificazioni del presidente a parte, la situazione economica in Tunisia non era stata così grave dagli anni ’50 del secolo scorso.
L’economia del paese è stata gravemente colpita prima dalla pandemia e poi dalle conseguenze del conflitto in Ucraina. Preoccupa soprattutto l’aumento record del debito che nel 2021 aveva raggiunto quota 40 miliardi di euro e l’80% del Pil. Le agenzie di rating hanno ulteriormente declassato Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di ritardare l’approvazione finale di un prestito di circa 2 miliardi inizialmente previsto il 19 dicembre. A provocare lo stop dell’FMI – che rischia di bloccare i finanziamenti internazionali necessari per evitare il tracollo finanziario del paese – sono stati il ritardo con il quale il governo ha varato la legge Finanziaria e le scarse garanzie fornite.
Se anche a marzo l’istituzione finanziaria gestita da Washington dovesse concedere il prestito, secondo la direttrice generale del Ministero delle Finanze di Tunisi, Ibtisam Ben Aljia, il paese dovrebbe riuscire ad ottenere altri 3 miliardi per mettersi al riparo dal default. Senza la tranche promessa dal FMI anche i creditori europei ed arabi potrebbero tirarsi indietro.
Se il prestito a 48 mesi del FMI non dovesse essere concesso, secondo il vicepresidente della Banca mondiale per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mena), Farid Belha, la Tunisia sarebbe costretta a rinegoziare il suo debito con il Club di Parigi, un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 Paesi più ricchi del mondo. Non saranno certo gli strali di Saied – che ha sollecitato i paesi creditori a cancellare i debiti del paese e a restituire i “fondi saccheggiati” – a placare gli appetiti del Fondo e del Club di Parigi, che in cambio di una dilazione delle rate chiederanno un prezzo alto alla Tunisia. A pagarlo, nel caso, non sarebbe certo il presidente Saied.
Per concedere il prestito, al governo di Tunisi il Fondo Monetarioha già preteso l’eliminazione dei sussidi concessi alla popolazione per l’acquisto di cibo e carburante, il taglio della spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e la protezione sociale, nonché la privatizzazione delle principali aziende pubbliche. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 20 febbraio 2023 – Si fanno ancora attendere le linee guida promesse dal governo de facto dei Talebani per regolamentare il ruolo delle donne nelle Organizzazioni Non Governative e riabilitarle al loro lavoro. Sono trascorse, infatti, tre settimane dalla missione ONU a Kabul dalla quale Martin Griffiths e gli altri delegati erano tornati con “risposte incoraggianti”, così avevano detto, da parte dei ministri talebani. Al centro dell’incontro c’era stata la discussione in merito al divieto per le donne afghane di lavorare nelle ONG, ratificato dal regime il 24 dicembre scorso. La causa della legge era, a detta del regime, il mancato rispetto da parte delle operatrici delle ONG delle norme di abbigliamento imposte dalla sharia.
Dopo il bando emesso dal governo talebano, alcune ONG avevano momentaneamente sospeso le loro attività nel Paese, e per tutte erano seguite ore di gelo di fronte all’incertezza di poter continuare ad adoperare personale femminile per le proprie missioni, ovvero di poter continuare a impiegare, in condizioni di sicurezza, almeno la metà dei propri dipendenti. Al decreto, che aveva gettato nello sconforto la comunità internazionale, aveva poi fatto seguito una correzione del tiro da parte dei Talebani, che avevano escluso dalle destinatarie del bando le donne che operavano negli ospedali e nel settore sanitario. L’International Rescue Committee (IRC), Save the Children e CARE avevano quindi riavviato in parte le proprie attività nel Paese.
Il 24 gennaio scorso, i Talebani avevano ricevuto una delegazione dell’ONU guidata da Martin Griffiths, Sottosegretario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e Presidente dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC), un forum che riunisce i leader di 18 organizzazioni umanitarie. In tale occasione, il governo afghano avrebbe, appunto, dichiarato di essere al lavoro nella redazione di “linee guida”, sic, per regolamentare il lavoro delle donne nelle ONG senza infrangere la legge islamica.
“Un certo numero di leader talebani mi ha detto che l’amministrazione talebana sta lavorando a linee guida che forniranno più chiarezza sul ruolo, la possibilità e auspicabilmente la libertà delle donne di lavorare nel settore umanitario”, aveva dichiarato Griffiths. Una promessa interpretata come un tenue segnale di speranza nonostante la sua vaghezza e malgrado la consapevolezza che un incontro con i leader talebani di Kandahar, roccaforte dei capi spirituali in grado di dire effettivamente l’ultima parola in tema di politica, sarebbe prezioso per sigillare l’accordo sul lavoro delle donne.
Pochi giorni prima, un’altra delegazione ONU aveva raggiunto a Kabul e Kandahar i leader talebani, sempre a proposito del divieto di lavorare nelle ONG per le operatrici afghane. Questa volta a guidarla era stata una donna, Amina Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, accompagnata da Sima Bahous, Direttore Esecutivo dell’Agenzia ONU per le Donne, e da Khaled Khiari, Segretario Generale aggiunto del Dipartimento di Costruzione politica e Operazioni di Pace. Mohammed si era detta “incoraggiata” dalle eccezioni fatte per le operatrici sanitarie, ma al tempo stesso aveva dichiarato che le conversazioni con la controparte erano state particolarmente “difficili”.
A tre settimane dall’ultimo incontro con i rappresentanti dell’ONU, il decalogo che dovrebbe permettere alle donne afghane di tornare a operare nelle ONG senza infrangere le norme di vestiario e di comportamento non è stato apparentemente ancora pubblicato. Le conseguenze dell’allontanamento delle dipendenti dal lavoro di soccorso alla popolazione afghana sono disastrose.
Il bando delle donne dalle attività assistenziali, infatti, colpisce non solo le lavoratrici e le loro famiglie, ma tutte le donne e i bambini destinatari dell’assistenza umanitaria. Le donne afghane, infatti, possono accettare aiuti – denaro, cibo, medicinali, vestiti – solo da altre donne, e comunicare solo con personale femminile.
Secondo i Gruppi di Lavoro sul “Genere nell’Azione Umanitaria” (Giha) e sull’”Accesso Umanitario”, entrambi operanti all’interno delle Nazioni Unite, il decreto di fine dicembre continua a danneggiare il lavoro umanitario e di conseguenza la popolazione afghana. Dalle risposte di un’intervista rivolta a 129 operatori di organizzazioni nazionali e internazionali e agenzie ONU, emerge, infatti, come a tre settimane di distanza dal bando il 93% delle ONG abbia assistito a un deterioramento delle proprie capacità di portare assistenza alle donne afghane.
Secondo l’inchiesta, inoltre, nell’81% delle ONG lo staff femminile non può più recarsi sul posto di lavoro. Al tempo stesso, le attività di protezione specifica per le donne, così come di monitoraggio dei loro bisogni assistenziali, sono state interrotte forzatamente dal bando.
Non è difficile immaginare quale danno stia rappresentando quindi il decreto nelle attività di aiuto in un Paese che attraversa una drammatica crisi dei diritti delle donne e una altrettanto tragica emergenza umanitaria. I numeri della sofferenza del popolo afghano rimangono raccapriccianti, nonostante il progressivo disinteresse di gran parte dei media per le sorti del Paese. Oltre 28 milioni di abitanti, più della metà della popolazione, secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, dipendono dagli aiuti umanitari. Tra questi, 6 milioni di persone, in gran parte bambini, patiscono letteralmente la fame.
Come dichiarato da Save the Children, che ha riavviato solo una parte delle sue attività nel Paese, “il bando alle lavoratrici delle ONG non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore”. “La severità dell’emergenza umanitaria in Afghanistan è qualcosa che non ho mai visto prima”, ha dichiarato il Direttore delle operazioni sul campo della ONG. “Quasi 20 milioni di bambini e adulti stanno affrontando la fame. Molte famiglie vanno avanti a pane e acqua per settimane”. A tutto ciò si aggiunge il freddo, che ancora non dà tregua. “I bambini stanno lottando per sopravvivere a un gelido, terribile inverno. E riscaldare le abitazioni è fuori questione”. Non poteva esserci periodo peggiore per recidere le braccia delle donne dagli aiuti a un Paese distrutto – sempre ammesso che un periodo “migliore” per farlo si possa mai immaginare. Pagine Esteri
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Guerra in Ucraina, un anno di disinformazione: le conseguenze della propaganda russa in Italia
@Giornalismo e disordine informativo
Un anno fa, la Russia di Vladimir Putin negava di voler invadere l’Ucraina. Il timore per questa scelta bellicista del Cremlino circolava da quasi un anno, soprattutto negli ultimi mesi con l’invio delle truppe ai confini con l’Ucraina per quelle che si rivelarono delle finte esercitazioni. L’attacco è stato ampiamente preparato anche dal punto di vista mediatico, con false notizie e depistaggi che fungevano a creare disordine e sfiducia nell’Occidente. Un processo di disinformazione che trovava terreno fertile grazie a due anni di pandemia dove terrore e malumore hanno rafforzato un sentimento contro le istituzioni e la scienza. Non è difficile, infatti, riscontrare come gli scontenti, i No vax e i teorici del complotto si siano facilmente identificati nella propaganda russa chiaramente anti occidentale. Oggi, 24 febbraio 2023, possiamo osservare i frutti della propaganda russa, in particolare in Italia.
L'articolo di @David Puente :mastodon: continua su Open
open.online/2023/02/24/ucraina…
La protesta in Iran non trova convergenze tra le opposizioni all’interno e la diaspora all’estero – huffingtonpost.it
Secondo alcuni analisti, la vera partita per il futuro del Paese potrebbe giocarsi solo nella transizione dopo la scomparsa dell’anziano leader, Ali Khamenei
Ma contro la Repubblica Islamica dell’Iran, quante opposizioni ci sono? E chi parla a chi, e con quali obiettivi? La domanda sorge legittima, dopo mesi di proteste in Iran – che in realtà quasi nessuno in Occidente ha visto in presa diretta, ma solo in forma mediata dalla grande macchina dei social media e dai media professionali che rilanciavano notizie e video fatti circolare in rete.
Il 4 febbraio Mir Hosein Mousavi, primo ministro negli anni ’80 e poi leader dell’Onda Verde del 2009, e agli arresti domiciliari dal 2011, ha lanciato una dichiarazione pubblica che ha subito trovato significativi consensi: secondo l’anziano politico, non vi sono più possibilità di una riforma interna della Repubblica Islamica ma serve un “cambiamento fondamentale” per rispondere alle istanze del movimento Donna Vita Libertà, cambiamento che dovrebbe passare per due referendum e un’assemblea costituente liberamente eletta. A suo avviso bisogna cambiare l’ordine esistente passando prima da un referendum sulla necessità di una nuova Costituzione, e poi tramite un nuovo patto redatto da rappresentanti eletti del popolo di tutte le etnie ed estrazioni politiche e ideologiche, e approvato dalla nazione in un secondo libero referendum.
La sua dichiarazione ha trovato l’appoggio di un gruppo di noti prigionieri politici (fra cui Faezeh Hashemi, figlia dell’ex presidente Rafsanjani) e di almeno 350 tra giornalisti, attivisti e rappresentati della società civile prevalentemente basati in Iran. Inoltre, venti sindacati iraniani attivi nell’organizzare proteste negli ultimi hanno chiesto una rivoluzione sociale contro l’oppressione, la discriminazione, lo sfruttamento e la dittatura. E hanno approvato dodici richieste “minime”, tra cui libertà di parola, pensiero e stampa, libertà di organizzazione politica e rilascio incondizionato di tutti i prigionieri politici. Inoltre, pari diritti di donne e uomini, sicurezza sul lavoro, la fine della distruzione dell’ambiente, la normalizzazione delle relazioni estere, il divieto del lavoro minorile, la confisca dei beni di enti pubblici o privati che si siano appropriati di ricchezze del popolo.
“A differenza di alcune chiamate dall’esterno non chiedono nulla da Paesi stranieri come maggiori sanzioni o l’isolamento per il popolo iraniano” osserva sul suo sito il National Iranian American Council, un think tank statunitense che in passato ha sempre sostenuto l’opportunità di tenere aperti i canali diplomatici con Teheran e quella di ripristinare l’accordo sul suo programma nucleare del 2015, che ne impediva un’eventuale sviluppo in campo militare (l’uscita degli Usa da tale accordo nel 2018 ha innescato la corsa iraniana verso l’arricchimento dell’uranio fino al 60%, contro il 3,67% concordato nell’intesa e molto vicino al 90% necessario per un ordigno). Inoltre, il Niac si è opposto alle pesanti sanzioni economiche imposte negli ultimi quattro anni dagli Usa, in quanto ad esserne vittima sono non le elite al potere ma i comuni cittadini. Nonostante anche il Niac si sia schierato con le proteste di questi mesi in Iran, l’organizzazione è stata oggetto di una potente campagna denigratoria da una parte della diaspora negli Usa, che a sua volta ha una vasta influenza in Europa e in Canada. Campagna che offre la misura di quanto divisa sia l’opposizione iraniana all’estero e invelenito il confronto tra le diverse parti.
Il nodo dell’inserimento dell’Irgc nella lista nera Ue. Esmaeilion, aiuterebbe la rivoluzione
Nel frattempo alcune figure mediaticamente più in vista stanno tentando una difficile unificazione di tale diaspora, e nel contempo premono sui governi europei perché sposino le loro richieste: in primo luogo l’inserimento del Corpo delle Guardie della Rivoluzione (Irgc o Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroristiche di Bruxelles, e l’espulsione degli ambasciatori di Teheran.
Per ora, l’Europa non ha prestato orecchio a nessuna delle due richieste, limitandosi ad un quinto round di sanzioni mirate contro singoli individui ed enti iraniani per il ruolo giocato nella dura repressione delle ultime proteste, che ha portato a un totale di 196 individui e 33 enti sanzionati. Per ora non vi sono le condizioni legali per la designazione dei Pasdaran a organizzazione terroristica, ha spiegato la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock per conto del Consiglio a Bruxelles. Il governo tedesco, da parte sua, ha appena espulso parte del personale diplomatico iraniano a Berlino per la recente condanna a morte per terrorismo di un cittadino irano-tedesco, Jamshid Sharmand, a Teheran.
Inutile dunque, ai fini della misura contro i Pasdaran, anche la manifestazione della diaspora raccoltasi proprio a questo scopo lunedì scorso a Bruxelles. In prima linea Masih Alinejad, giornalista e attivista con base a New York, e l’irano-canadese Hamed Esmaeilion, padre e marito di due delle 176 vittime dell’abbattimento dell’aereo civile ucraino, il PS752, colpito per colpevole errore dai missili della contraerea dei Pasdaran l’8 gennaio 2020 nei cieli di Teheran. Masih Alinejad aveva appena partecipato con Reza Pahlavi, principe erede della monarchia rovesciata dalla rivoluzione del 1979, alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, dove per la prima volta non è stato invitato alcun rappresentante del governo di Teheran, nonostante sia un attore centrale degli equilibri regionali.
Ma che significato e soprattutto quali tangibili effetti potrebbe avere la designazione dei Pasdaran nella lista nera europea, dato che questi sono già in quella degli Stati Uniti dal 2019 senza che vi sia stato alcuna apparente contenimento delle attività delle quali sono accusati, in patria e attraverso le milizie filo-iraniane tra Libano, Siria, Iraq, Yemen e Gaza? E se effetti pratici non ve ne fossero, non si rischierebbe con la loro messa al bando la definitiva chiusura di ogni canale diplomatico con Teheran? E non servirebbero, tali canali diplomatici, da una parte al contenimento del programma nucleare di Teheran, dall’altra ad evitare un ulteriore rafforzamento della sua alleanza militare con Mosca, nel pieno del conflitto in Ucraina?
Queste le domande poste a Esmaeilion e Alinejad, ospiti di un incontro svoltosi ieri in Senato su iniziativa della senatrice Antonella Zedda (FdI), della Fondazione Luigi Einaudi e di PaykanArtCar: organizzazione per l’arte e i diritti umani che prende il nome da una storica limousine degli anni Settanta e che è presieduta dall’ambasciatore Mark D.Wallace, già collaboratore del governo di George W.Bush e ora amministratore delegato di United Against Nuclear Iran, del cui advisory board fa parte anche l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi. “L’Irgc è lo strumento dell’oppressione dell’Iran – ha risposto Esmaeilion – uccide, tortura, l’economia è nelle sue mani. Se viene messo nella lista Ue delle organizzazioni terroristiche – ha aggiunto lo scrittore – verrebbe indebolito, e questo sarebbe molto utile per il successo della rivoluzione”. Rispondendo sul rischio che la chiusura di ogni canale diplomatico avvicini i conflitti armati, “non credo che l’alternativa alla diplomazia sia la guerra – ha detto Esmaeilion – . Abbiamo chiesto messaggi politici forti, come espellere gli ambasciatori (cosa diversa dal chiudere le ambasciate), ma non ne abbiamo ancora visti”. “Durante le proteste del novembre 2019 – ha proseguito – sono state uccise decine di minori, nell’aereo abbattuto i bambini erano 29 e tra le vittime degli ultimi mesi di proteste circa 70. “Eppure i canali diplomatici erano aperti, qual è stato dunque il risultato della diplomazia?” Rispondendo poi a chi osservava che anni di pesanti sanzioni economiche contro l’Iran hanno soltanto impoverito gli iraniani in patria, “nessuno ha chiesto di fare pressione sugli iraniani – ha precisato Esmaeilion – ma sanzioni mirate su individui coinvolti in crimini contro l’umanità. Perché, mentre uccidono iraniani innocenti, i loro figli e familiari possono vivere nel lusso in Europa e negli altri Paesi occidentali?”.
Mash Alinejad, benvenuto a ex leader Onda Verde ma se accetta Costituzione secolare
A margine una domanda anche sulle recente dichiarazione pubblica di Mousavi. “La abbiamo attesa da molti anni – ha risposto Alinejad – anche se molti pensano che (l’ex primo ministro, ndr) dovrà rispondere delle sue azioni precedenti in tribunale. Comunque è un passo positivo, che chi ha sostenuto la Repubblica Islamica diserti e voglia avere una nuova Costituzione. Ma deve anche annunciare che serve una democrazia secolare, ciò che vuole la giovane generazione. La cosa più importante è rovesciare il regime, avere una costituzione e una democrazia”.
Masih Alinejad, Hamed Esmaeilion e Reza Pahlavi sono tre degli otto esponenti dell’opposizione all’estero che hanno avuto un recente incontro alla Georgetown University di Washington con lo scopo di creare una piattaforma comune, intorno alla quale unificare una diaspora divisa – un altro soggetto è il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana presieduto da Marjam Rajavi, erede dei Mojaheddin del Popolo e che agisce in autonomia dalle altre forze, che nella maggior parte dei casi ne prendono le distanze. Il testo della piattaforma sarà pronto a breve, ha assicurato Alinejad, oggi ancora a Roma con Esmaeilion per un’altra manifestazione a San Giovanni.
Nel frattempo la Repubblica Islamica ha celebrato il suo 44/o anniversario, a proteste parzialmente sopite, dispensando una controversa amnistia che riguarda anche parte dei manifestanti. Secondo alcuni analisti, la vera partita per il suo futuro potrebbe giocarsi solo nella transizione dopo la scomparsa dell’anziano leader, Ali Khamenei.
Luciana Borsatti, huffingtonpost.it
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Masih Alinejad, chi è per cosa combatte l’attivista iraniana: età e carriera – imtv.it
Oggi (23 febbraio), alle 14.05 su Rai 1, torna come di consueto l’appuntamento con Oggi è un altro giorno, il talk condotto da Serena Bortone che incontra nel suo salotto tanti nuovi ospiti con cui affrontare i grandi temi di attualità: da Francesca Chillemi, a Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento, fino a Paola Comin, Giorgio Gobbi e Riccardo Rossi, passando per Masih Alinejad, giornalista e attivista dei diritti umani. La donna è arrivata a Roma in questi giorni per accendere ancora i riflettori sulle lotta delle donne e la rivoluzione del popolo iraniano, che da mesi combatte per la propria libertà.
Chi è Masih Alinejad: età e lavoro
Masih Alinejad è una giornalista e attivista iraniana, naturalizzata statunitense. Nata a Ghomi nel settembre 1976, ha iniziato la sua carriera lavorando come giornalista nel 2001. I suoi articoli, attraverso i quali si è sempre battuta contro la dittatura della Repubblica islamica in Iran, hanno creato molte polemiche nel Paese tanto da essere perseguitata e minacciata di morte per le sue idee e il suo attivismo a favore dei diritti umani. Nel 2014, inoltre, ha fondato la pagina My Stealthy Freedom, dove invitava le donne iraniane a pubblicare le loro foto senza hijab. Poi, nel 2022 è stato prodotto il docufilm ispirato alla sua storia ed è anche stato pubblico un suo libro, Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran.
Perché Masih Alinejad è stata costretta a fuggire negli Stati Uniti?
A causa degli atti persecutori e alle minacce di morte a lei e alla sua famiglia, è stata costretta, nel 2009, a fuggire negli Stati Uniti dove ora vive a New York sotto scorta, ma il suo sogno è quello di ricongiungersi con i suoi cari in Iran. Ora gira il mondo facendosi portavoce della lotta delle donne e degli uomini che combattono contro il regime islamico, in difesa della loro libertà.
Masih Alinejad in Senato a Roma: le sue parole contro il velo islamico
Dagli Stati Uniti dove vive, Masih Alinejad è arrivata a Roma a febbraio 2023 per incontrare gli iraniani della diaspora e chiedere un concreto sostegno all’Italia sui diritti umani del suo popolo. Insieme a un altro attivista, Hamed Esmaelion, ha parlato al Senato italiano, ospite della fondazione Luigi Einaudi:
Il velo islamico obbligatorio è come il muro di Berlino, se riusciamo ad abbattere questo muro la Repubblica islamica dell’Iran non esisterà più, credo che il velo sia uno dei pilastri principali della dittatura religiosa e che questa rivoluzione guidata dalle donne e sostenuta dagli uomini, sia andata oltre l’hijab. Dico di no all’apartheid di genere voluto da questo regime perché le donne sono stufe di sentirsi dire cosa indossare e quale stile di vita adottare, questo è il XXI secolo e le donne vogliono decidere sul proprio corpo.
Mara Fratus, imtv.it
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Il velo islamico è come il muro di Berlino, abbattiamolo e cadranno gli ayatollah – opinione.it
Lo scorso martedì 21 febbraio, presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, la Fondazione Luigi Einaudi ha organizzato la conferenza “Donne, Libertà, Diritti Umani in Iran”. L’iniziativa, promossa dalla senatrice (FdI) Antonella Zedda, ha visto la partecipazione straordinaria di Masih Alinejad e Hamed Esmaelion: entrambi considerati una minaccia dal regime della Repubblica islamica iraniana in nome del loro attivismo.
Alinejad è famosa per la sua lotta per i diritti delle donne iraniane: la sua battaglia contro il velo obbligatorio è iniziata ben prima delle proteste scoppiate con la morte di Mahsa Amini. Infatti è esule negli Stati Uniti dal 2009. Esmaelion è il portavoce del volo 752AFV Teheran/Kiev, caduto per mano dei Pasdaran l’8 gennaio 2020, subito dopo il decollo, in cui si contarono 170 vittime compreso l’equipaggio.
I due attivisti, prima della tappa italiana, hanno partecipato a Bruxelles alla marcia di circa 30mila persone per chiedere all’Europa di inserire l’Irgc (sigla internazionale che indica i Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroristiche europee, cosa già avvenuta negli Stati Uniti.
Sono arrivati a Roma per incontrare gli iraniani della diaspora e chiedere sostegno all’Italia sui diritti umani e sulle azioni da intraprendere contro Teheran anche in Europa: “Non chiediamo molto all’Italia, solo di stare dalla parte giusta della storia, chiedo all’opinione pubblica italiana di pensare che una delle rivoluzioni più progressiste del mondo è in atto ora in Iran: donne, adolescenti, uomini innocenti vengono uccisi ingiustamente dal proprio governo, se non sosterrete queste sorelle dovrete affrontare questi terroristi sul suolo italiano, sul suolo europeo”, ha detto Alinejad.
Intervistata dai Rainews, Masih Alinejad ha dichiarato: “Il velo islamico obbligatorio è come il muro di Berlino, se riusciamo ad abbattere questo muro la Repubblica islamica dell’Iran non esisterà più, credo che il velo sia uno dei pilastri principali della dittatura religiosa e che questa rivoluzione guidata dalle donne e sostenuta dagli uomini, sia andata oltre l’hijab”. E ancora: “Dico di no all’apartheid di genere voluto da questo regime perché le donne sono stufe di sentirsi dire cosa indossare e quale stile di vita adottare, questo è il XXI secolo e le donne vogliono decidere sul proprio corpo”.
Masih lancia anche un appello sulle divergenze interne iraniane: “È necessario che tutti i gruppi di iraniani in protesta oggi siano uniti contro il nemico comune che è la Repubblica islamica dell’Iran. E per questo dico unitevi, stiamo insieme, battiamoci per la democrazia, cerchiamo di salvare anche il resto mondo da uno dei virus più pericolosi al mondo e cioè l’ideologia islamica, non mi riferisco solo alle donne iraniane ma anche alle afghane, non posso credere che le donne vengano uccise in Iran e che vengano cacciate dalle scuole in Afghanistan”. L’invito finale è di creare un movimento che sia d’esempio “per i leader dei Paesi democratici, organizziamoci, si crei una marcia internazionale per le donne, dobbiamo essere uniti e isolare la Repubblica islamica così come è stato fatto per Vladimir Putin”.
Secondo Hamed Esmaelion è molto importante che la “Holy guard” venga inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche “perché è questo che sono, terroristi, è la loro vera natura”. Le ragioni principali che impedirebbero l’inserimento dei Pasdaran nella lista sarebbero di natura economica e politica: “Alcuni Paesi hanno buone relazioni con l’attuale governo iraniano e probabilmente il cambio di regime spaventa alcuni leader europei, ma noi siamo qui per dire che queste non sono paure reali, gli iraniani sanno benissimo ciò che vogliono e ciò che non vogliono, dopo 115 anni per la lotto per la Democrazia ora è il momento per ottenerla”. Secondo l’attivista il nostro Paese potrebbe fare la sua parte: “L’Italia potrebbe inserire i Pasdaran in questa lista, anche con l’espulsione dell’Ambasciatore iraniano a Roma e di tutti gli oligarchi dell’Iran”.
Le parole della senatrice Antonella Zedda, purtroppo, non hanno risuonato quanto avrebbero dovuto: “Accogliamo la sofferenza del popolo iraniano cui due importanti rappresentanti sono in Italia per cercare di risolvere il grave problema legato ai diritti delle donne e in generale a quelli umani nel loro Paese. Non è un tema di parte, non è un tema solo religioso e non riguarda solo le donne”.
E aggiungiamo noi: non è un tema che può o dovrebbe subire una strumentalizzazione partitica.
Claudia Diaconale, opinione.it
L'articolo Il velo islamico è come il muro di Berlino, abbattiamolo e cadranno gli ayatollah – opinione.it proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Prima attacchi cyber e poi bombe. Il metodo russo in Ucraina secondo Mele
Sono passati quasi tredici anni da quando William J. Lynn III, l’allora sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti, dalle pagine di Foreign Affairs dichiarò pubblicamente che l’America aveva iniziato a considerare il cyber-spazio come un dominio “altrettanto critico per le operazioni militari quanto la terra, il mare, l’aria e lo spazio”. Pochissimi mesi prima, lo Us Cyber command, ovvero il comando militare americano per le operazioni cibernetiche, aveva visto formalmente la luce.
Era il 2010 e il mondo, in quel momento, si accorse ufficialmente della nascita del cosiddetto quinto dominio della conflittualità: il cyber-spazio, appunto. Facendo correre velocemente in avanti il nastro degli eventi, in questi primi tredici anni sono state numerosissime le occasioni in cui si sono potuti registrare, in tempo di pace, attacchi cibernetici di alto profilo, condotti o sponsorizzati da attori statali, nei confronti dei principali operatori che erogano servizi essenziali per lo Stato e per i cittadini. Pochissime, invece, sono le volte in cui le operazioni militari nel e attraverso la dimensione informatica hanno potuto dare realmente prova, in tempo di guerra, della loro utilità e capacità distruttiva. Il triste anniversario del conflitto armato in Ucraina offre la possibilità di valutare, allo stato attuale delle informazioni, quanto la cosiddetta (impropriamente) cyber-war sia davvero reale, nonché i contorni del suo ruolo all’interno dei conflitti armati convenzionali. Possiamo anzitutto osservare – qualora ce ne fosse davvero bisogno – come l’idea che in tempo di guerra le operazioni cibernetiche possano sostituire i bombardamenti aerei, i carri armati, i fucili e più in generale le operazioni militari convenzionali, è semplicemente un atto di pura fantasia.
Le ragioni sono molteplici: dalla relativa temporaneità degli effetti degli attacchi cibernetici rispetto a quelli delle armi convenzionali, passando per la rapida obsolescenza delle cosiddette armi cyber (intimamente legate alla persistenza nel tempo delle vulnerabilità informatiche sfruttate), fino al rischio di colpire bersagli ulteriori e non previsti solo perché in qualche modo interconnessi con il bersaglio principale. I dati su quanto la Russia, successivamente all’invasione armata dell’Ucraina, abbia sfruttato il cyber-spazio per scopi distruttivi, fotografano in maniera cristallina questa condizione.
Nei primi dodici mesi del conflitto, infatti, il governo russo ha utilizzato questa opzione in maniera molto limitata, conducendo principalmente, e spesso con scarso successo, mere operazioni di sabotaggio informatico attraverso l’utilizzo di malware di tipo data wiper, i quali hanno come unico scopo quello di compromettere il corretto funzionamento dei dispositivi colpiti cancellandone le informazioni in modo irrimediabile. Peraltro, a esclusione dell’attacco ai sistemi informatici di Viasat nel giorno dell’invasione, che ha temporaneamente degradato sul terreno le capacità di comunicazione, la maggior parte dei successivi attacchi cibernetici sono stati tutti bloccati o mitigati rapidamente dal governo ucraino, anche grazie all’immediato e costante supporto di alcuni governi occidentali. Nei fatti, quindi, tali attacchi hanno avuto un limitatissimo impatto nell’ambito delle operazioni militari russe. Dalla loro analisi emerge un altro elemento rilevante, ovvero il coordinamento tra attacchi convenzionali e attacchi cibernetici.
Oltre all’attacco contro Viasat, infatti, si può notare una stretta correlazione tra tentativi di sabotaggio informatico e successivi attacchi cinetici (per lo più bombardamenti). Questo schema si è poi ripetuto, nel corso di questi dodici mesi, nelle ondate di attacchi militari a città strategiche come Kiev, Sumy, Zaporižžja, Dnipro e Odessa, solo per citarne alcune. Tale approccio, quindi, appare confermare – ancora una volta – il ruolo del cyberspazio come strumento di supporto o di agevolazione di attacchi cinetici e non come rilevante arma tattica. Infine, il cyber-spazio ha rappresentato senza ombra di dubbio l’effettivo e più importante campo di battaglia per le operazioni di propaganda e disinformazione russa. Il Cremlino, infatti, ha provato fin da subito a creare un vantaggio tattico attraverso gli strumenti della guerra psicologica. Internet e le tecnologie sono stati utilizzati come una straordinaria cassa di risonanza per le fake news.
In conclusione, il ruolo effettivo del cyber-spazio all’interno dei conflitti armati convenzionali sta lentamente emergendo dai contorni vaghi tratteggiati, nel corso degli ultimi anni, dalle esigenze della politica. Questo dominio, com’è evidente, ha assunto finora soprattutto i contorni delle operazioni di Intelligence che sfruttano la tecnologia e Internet sotto la soglia dei margini della guerra, attraverso operazioni di spionaggio e sabotaggio, azioni sotto copertura e di controspionaggio, arricchite da inganno e da moltissima disinformazione. La cyber-war, quindi, resta ancora molto lontana dalla realtà dei campi di battaglia se non per il suo ruolo, seppur utile, di supporto e di agevolazione di attacchi cinetici. Occorre prenderne coscienza quanto prima, per indirizzare al meglio le urgentissime esigenze di difesa e di potenziale contrattacco a livello strategico, operativo e tattico.
Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress
Leland Did It - Hotel Moderno- Dischi Uappissimi 2023
I Leland Did It sono un gruppo che è incapace di fare qualcosa di predeterminato e felicemente ordinato, “Hotel Moderno” è una bellissima testimonianza di caos musicale, di ricerca sonora e di voglia di fare rumore.
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Messaggio di prova da #pixelfed a #lemmy: test di scrittura e di verifica della formattazione nel titolo
Prova di titolo con link
@Test: palestra e allenamenti :-)
Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt.
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Il sacrificio di Carlo Cammeo, ucciso a scuola dai fascisti.
("Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti")
bibliotecabfs.wordpress.com/20…
Per Carlo Cammeo a 100 anni dalla morte
La registrazione dell’incontro sul canale YouTube della Biblioteca Serantini Il 13 aprile 1921 viene assassinato a Pisa Carlo Cammeo (1897-1921), segretario della federazione di Pisa del…Blog della BFS
Littu - Accolti da antiche radici - Autoprodotto 2023
I Littu raccontano i giganteschi cicli che vivono la Terra e i suoi abitanti, con i riti che servono per compenetrare e farsi partecipi della natura e viceversa. “Accolti da antiche radici” è un titolo molto azzeccato,
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Ha preso il via il progetto "Unreal Engine for School", l'iniziativa finanziata dal Piano Nazionale Cinema e Immagini per la scuola promosso dal MIM e dal Ministero della Cultura.
Info ▶️ https://cinemaperlascuola.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Ha preso il via il progetto "Unreal Engine for School", l'iniziativa finanziata dal Piano Nazionale Cinema e Immagini per la scuola promosso dal MIM e dal Ministero della Cultura. Info ▶️ https://cinemaperlascuola.Telegram
Sonno. - Supervoids
Torniamo con grande gioia a parlare di una delle etichette del sottobosco musicale italiano e più precisamente ligure, ovvero di Musica Orizzontale, una delle parabole più interessanti ed eretiche uscite dall’estremo ponente ligure.
@Musica Agorà #musica #idm #elettronica
Sonno. - Supervoids - 2023
Torniamo con grande gioia a parlare di una delle etichette del sottobosco musicale italiano e più precisamente ligure, ovvero di Musica Orizzontale, una delle parabole più interessanti ed eretiche uscite dall’estremo ponente ligure. Sonno.Massimo Argo (In Your Eyes ezine)
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Nelle scuole romane un bambino su cinque non sa scrivere in corsivo. La ricerca condotta da un gruppo di studiosi della Sapienza, dell'Umberto I e del Bambin Gesù.
@Notizie dall'Italia e dal mondo
In questo 21,6% rientrano anche bambini disgrafici o con disturbi più ampi, come per esempio il disturbo di coordinazione motoria.
La tanto citata tecnologia - tablet, smartphone e computer - ha invece un ruolo limitato nello sviluppo della capacità di scrivere in corsivo: "L'uso massiccio e continuato di dispositivi elettronici può certamente condurre allo sviluppo di disturbi come deficit d'attenzione, ma ha molta meno attinenza con la scrittura".
cc @Scuola - Gruppo Forum @Maria Chiara Pievatolo @Andrea Mariuzzo @Bibliogadda
romatoday.it/attualita/corsivo…
Un bambino su cinque nelle scuole romane non sa scrivere in corsivo
La ricerca condotta da un gruppo di studiosi della Sapienza, dell'Umberto I e del Bambin Gesù. Nella percentuale rientrano anche piccoli che nascondono disturbi...Andrea Barsanti (RomaToday)
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Oggi alle 10.30, nella Sala Koch di Palazzo Madama, prende il via l'iniziativa “L'Ora di Costituzione”.
Tema della lezione, i principi fondamentali della Costituzione italiana (artt. 1 - 12).
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🚦Le evidenze scientifiche sono tutte a favore del #NutriScore. Di @MDfreerider sul @fattoalimentare
NUTRI-SCORE CONTRO NUTRINFORM BATTERY: COSA DICE LA SCIENZA?
Lo Stato Italiano ha già fatto una scelta di campo: tutelare gli interessi dell’industria a discapito della promozione della salute, della prevenzione del sovrappeso-obesità, malattie cardiovascolari e tumori. In Italia grazie alla massiccia propaganda sono tutti (tranne Il Fatto Alimentare e qualche associazione di consumatori) contro il Nutri-Score. L’industria alimentare per mantenere lo status quo vuole un consumatore disinformato, manipolabile e manipolato dalla pubblicità che in Italia non ha alcun limite (gli alimenti spazzatura vengono pubblicizzati in tutte le ore del giorno e in programmi per bambini).
Giovedì 23 febbraio il secondo e ultimo webinar del ciclo "Let's debate in English", dedicato all'approfondimento della metodologia didattica del debate in lingua inglese.
Info ▶️ indire.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Giovedì 23 febbraio il secondo e ultimo webinar del ciclo "Let's debate in English", dedicato all'approfondimento della metodologia didattica del debate in lingua inglese. Info ▶️ https://www.indire.Telegram
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Dal 23 febbraio iniziano gli appuntamenti con L'Ora di Costituzione!
L'iniziativa sostenuta dal Senato prevede un ciclo di incontri, una volta al mese, con alcuni costituzionalisti che illustreranno i principali articoli della Carta agli studenti.
Messina Denaro, borghesia mafiosa e 41 bis | Comune-info
«Un’ampia conversazione con Umberto Santino, fondatore e direttore dello straordinario Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”. Santino – tra i primi, già negli anni Settanta, ad approfondire il concetto di borghesia mafiosa, oggi al centro delle attenzioni con l’arresto di Matteo Messina Denaro – ragiona delle trasformazioni della lotta a Cosa nostra, riprende il significato dell’espressione “mafia finanziaria” e spiega il suo punto di vista sul 41 bis e sul caso di Alfredo Cospito.»
Carnevale
La vicenda dei giornalisti italiani cui è stato revocato l'accredito o semplicemente è stato impedito di entrare in Ucraina. Di @Vincenzo_vita su @art_ventuno
@Giornalismo e disordine informativo
La prevista conferenza stampa di Giorgia Meloni, attesa in queste ore a Kiev dopo la visita di Biden, sarà l’occasione per sollevare il problema: quali sono le accuse mosse dai servizi segreti nei riguardi di chi non fa propaganda, bensì informazione sulla guerra? Vale anche in tale circostanza la solita terribile strategia del segreto, in base alla quale i misfatti e le atrocità non devono venire a conoscenza dell’opinione pubblica?
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#Risentiamoli Cypress Hill - Black Sunday
“Black sunday” è stato il secondo disco del gruppo hip hop americano Cypress Hill, pubblicato il 20 luglio del 1993 da Ruffhouse e Columbia Records. Grande successo commerciale, “Black sunday” è un gigante dell’hip-hop, un monolite che diverte ancora a trent’anni esatti di distanza.
iyezine.com/risentiamoli-cypre…
#Risentiamoli Cypress Hill - Black Sunday - 2023
"Black sunday" è stato il secondo disco del gruppo hip hop americano Cypress Hill, pubblicato il 20 luglio del 1993 da Ruffhouse e Columbia Records.Massimo Argo (In Your Eyes ezine)
La sinistra liberal progressista cancella l'idea stessa di sinistra | Kulturjam
«C’è oggi una sinistra liberal progressista che non ha niente a che fare con quella tradizione nel suo complesso, una sinistra neoliberale che tutta la sinistra, in tutte le sue varianti, ha sempre combattuto e che ha chiamato “destra”.
Ad accomunarla è l’odio con tutto ciò che è storia e ha storia, un odio verso la vita che nelle tradizioni prende forme, evolve, cresce. Il disprezzo verso le comunità, il tentativo di imporre un individualismo è isola, pensando che esista una sola forma di legame, quello che produce il consumo.»
the men
Tutte caratteristiche che ho ritrovato in "New York City", nuovo album dei garage rockers statunitensi Men, sulle scene da ormai tre lustri e giunti oggi al nono album ufficiale, uscito a inizio mese su Fuzz Club Records (e che segna il debutto del quartetto di Brooklyn sull'etichetta inglese) e arrivato a tre anni dall'ultima fatica discografica "Mercy".
iyezine.com/the-men-new-york-c…
THE MEN - NEW YORK CITY - 2023
Tutte caratteristiche che ho ritrovato in "New York City", nuovo album dei garage rockers statunitensi Men, sulle scene da ormai tre lustri e giunti oggi al nono album ufficiale, uscito a inizio mese su Fuzz Club Records (e che segna il debutto del q…Reverend Shit-Man (In Your Eyes ezine)
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La scoperta di Antonio Gramsci - Giovanni D'Anna
Sin dai primissimi giorni del suo rientro in Italia, Togliatti iniziò una incessante opera di “divulgazione” della figura gramsciana
HO PERSO IL GUSTO, NON HA SAPORE
A scoppio ritardato scrivo anche io qualcosa di non-necessario su Sanremo.
Quest’anno non c’è stata una canzone che mi ha colpito particolarmente. È vero che a più riprese mi sono addormentato davanti alla TV, ma le esibizioni che perdevo, le recuperavo il giorno dopo su RaiPlay.
Ho visto qualche gag simpatica (gli interventi del solito immarcescibile Fiorello) e qualche piacevole sorpresa (Paola Egonu è stata la co-conduttrice più spontanea, paradossalmente anche quando leggeva). In generale però lo spettacolo mi è sembrato un po’ troppo costruito e in alcuni momenti anche un po’ stucchevole. Sarà che con il passare degli anni trovo sempre più noiose le confessioni e le prediche televisive fatte da chi ha il cXXo al caldo.
Per attirare l’attenzione su di sé, qualche artista ha azzardato – o “ha simulato” – uno scandaloso passionale colpo di testa: prendere a calci le rose, allungare il brodo all'infinito obbligando il pubblico a cantare un ritornello che non conosce, strusciarsi e baciarsi con l’influencer di turno, ecc... Ma dopo decenni di TV spazzatura oramai siamo tutti vaccinati (compreso i bambini) e la provocazione è diventata “Mission: impossible”.
Con questo non voglio dire che il Sanremo che ho visto sia tutto da buttare. Ci mancherebbe. Si sono esibiti anche dei bravi artisti. Qualcuno si è impegnato e ha fatto anche bene, tuttavia a distanza di una settimana dalla chiusura di Sanremo Venti23 (chiamarlo duemilaventitré non è più di moda) ricordo soprattutto due cose: la sanguigna “American Woman” di Elodie e Big Mama (per la cronaca: alla fine della canzone si sono baciate anche loro, ma nessuno ha montato polemiche) e la superba “Quello che non c’è” di Manuel Agnelli e gIANMARIA.
Lo so che sono di parte, perché adoro quella canzone e quel disco. E’ vero che gIANMARIA sembrava un pulcino bagnato, ma la performance di Manuel Agnelli e di Fabio Rondanini, batterista dei Calibro 35, è stata strepitosa.
Ma questo è camminare alto sull’acqua e su quello che non c’è.
Siamo tutti supereroi
Tra il 2006 e il 2007 uscì uno degli archi narrativi più belli, secondo me, dell’universo Marvel: Civil War. Qualcuno magari avrà visto l’omonimo film, che però non c’entra niente.
Oggi voglio raccontarvi questa storia perché ha molto a che fare con la realtà che ci circonda e con l’attualissima diatriba tra chi vorrebbe incatenarci tra mille algoritmi e sistemi di sorveglianza di massa e chi invece preferirebbe semplicemente essere libero. C’è molto da imparare anche dai fumetti.
Civil War è una storia che parla di libertà, di privacy e dell’ingerenza arbitraria del governo. Potremmo dire che Civil War descrive ciò di cui parliamo ogni settimana su Privacy Chronicles.
I veri supereroi sono iscritti a Privacy Chronicles
Civil War, la storia
Tutto iniziò con una squadra di giovani supereroi, i New Warriors. I sei si trovavano a Stamford, in Connecticut, per girare un reality-show chiamato “Superhuman High”. Durante le riprese vennero a sapere che nella città si trovava anche un gruppo di super-criminali, la Skeletal League, che proprio in quei giorni stavano progettando di rapinare una banca. L’occasione sembrò ghiotta per aumentare il rating televisivo del reality-show, così i New Warriors decisero di attaccare e cercare di catturare la Skeletal League in diretta TV.
Purtroppo le cose non andarono come previsto. Durante i combattimenti uno dei supercriminali — Nitro — provocò un’esplosione proprio nel mezzo della città, che distrusse diversi quartieri e anche una scuola, uccidendo più di 600 persone — tra cui molti bambini.
Il drammatico episodio fu presto strumentalizzato dalla politica per attaccare tutti i supereroi che fino a quel momento agivano in modo indisturbato e spesso anonimo nel territorio degli Stati Uniti. Nel giro di pochissimo tempo il governo presentò un nuovo disegno di legge, chiamato Superhuman Registration Act.
L’atto, se approvato, avrebbe obbligato ogni “superumano” a registrarsi presso il governo e rendere nota la sua identità. Questo avrebbe consentito alle autorità di regolamentare le attività dei “supereroi”, supervisionarli, e — se necessario — sanzionarli. Il dibattito fu subito infuocato.
Da una parte c’era chi, come Tony Stark (Iron Man), prese subito le parti del governo. Secondo lui il Registration Act era semplicemente un atto dovuto. Un gesto di civiltà. La legge e la supervisione del governo avrebbero responsabilizzato tutti i supereroi, che quindi avrebbero smesso di agire in modo indipendente e al di fuori della legge.
Stark voleva evitare a tutti i costi il ripetersi di incidenti come quelli di Stamford ed era convinto che questo sarebbe stato possibile grazie a una forte legislazione per delimitare e regolamentare il campo d’azione dei supereroi.
Scansiona il QR Code col tuo wallet LN preferito oppure clicca qui!
Dall’altra c’erano invece persone convinte che il Registration Act non fosse altro che un modo per violare le libertà fondamentali dei superumani, costringendoli a rivelare le loro identità segrete e rinunciare a ogni indipendenza.
Il principale sostenitore di questa tesi era Steve Rogers (Captain America). Secondo lui i supereroi avevano il dovere di agire moralmente e responsabilmente, ma come individui e non come macchine controllate dallo Stato. Steve credeva che il Registration Act avrebbe tolto ogni libertà di autodeterminazione ai supereroi, consegnando invece al governo il potere di manipolarli per finalità politiche.
I mass media, il pubblico e diversi gruppi di supereroi si divisero presto in due fazioni: da una parte quella pro-governo, capitanata pubblicamente da Tony Stark; dall’altra quella “ribelle”, condotta da Steve Rogers.
Le due forze in campo divennero sempre più violente, fino a sfociare in una violenta guerra civile tra alcuni gruppi di supereroi fedeli a Tony Stark o Steve Rogers. La battaglia finale, che vide diversi feriti e morti, portò alla sconfitta di Captain America, che venne catturato e arrestato in quanto leader della fazione ribelle e anti-governativa.
L’arco narrativo si chiude con l’emblematica morte di Captain America, ucciso da un cecchino mentre veniva accompagnato in manette sulla scalinata del tribunale dove avrebbe dovuto essere giudicato per i suoi crimini durante la guerra civile.
Insieme a lui, morivano anche le speranze di libertà dei superumani, ormai condannati alla schedatura governativa.
Qualche anno dopo gli eventi di Civil War si scoprì che il governo degli Stati Uniti da molto tempo era infiltrato fino alle sue posizioni apicali da agenti HYDRA (i nazisti dell’universo Marvel), e che il Superhuman Registration Act fu in verità un piano dei nazisti per sorvegliare e controllare i supereroi — unico vero ostacolo ai loro piani.
Tony Stark o Steve Rogers?
Il mondo è in piena guerra civile. Proprio come raccontavano i fumetti Marvel 17 anni fa, anche oggi siamo circondati da due fazioni capitanate da vari Tony Stark e Steve Rogers. E come in Civil War, anche oggi la fazione vincente è quella dei Tony Stark.
Noi non abbiamo un Superhuman Registration Act, ma sistemi e leggi che Steve Rogers non avrebbe mai immaginato nel 2007. Schemi globali di identità digitale; sorveglianza totale delle comunicazioni; progetti per lo sviluppo di monete digitali di Stato e sorveglianza finanziaria; sistemi decisionali automatizzati e social scoring ; scatole nere obbligatorie sulle nostre auto…
L’effetto è lo stesso, anzi peggiore: sorveglianza totale delle nostre identità e delle nostre azioni. Per il “bene comune”.
I Tony Stark del mondo ci dicono che l’anonimato e la privacy devono essere combattuti, perché deresponsabilizzano le persone. Essere anonimi è pericoloso; la libertà è pericolosa. Tenere alla propria privacy significa avere qualcosa da nascondere, o essere dei criminali.
Questi sono convinti di essere circondati da imbecilli senza alcuna moralità né principi. Il prossimo è un potenziale criminale o qualcuno talmente inaffidabile da non poter neanche gestire la sua stessa vita. E come Tony Stark, credono di essere tra i pochi illuminati a poter guidare il gregge con quel bastone chiamato governo. La legge è uno strumento di dominio per la creazione di una “società migliore”, a loro immagine e somiglianza.
E poi ci sono gli Steve Rogers. Loro sono convinti che l’essere umano abbia in sé tutti gli strumenti per agire moralmente, in modo autonomo e libero — senza per questo essere perseguito. Queste persone sanno che per agire moralmente, bisogna prima essere liberi. Che ogni individuo ha il diritto di creare la sua strada e agire secondo i suoi principi; che non può esserci alcuna libertà senza privacy, e che il governo non è altro che uno strumento di controllo delle persone per fini politici (di specifici gruppi di potere). Sì, la libertà è sporca. È caotica. A volte, pericolosa. Ma non importa.
Paradimatico di questo pensiero è il celebre discorso di Steve Rogers a Peter Parker proprio durante la Civil War. Probabilmente uno dei migliori di tutto l’universo Marvel:
Non importa ciò che dice la stampa. Non importa ciò che dicono i politici o le masse.
Non importa se l'intero Paese decide che qualcosa di sbagliato è qualcosa di giusto.
Questa nazione è stata fondata su un principio sopra ogni altro: la necessità di difendere ciò in cui crediamo, senza tener conto delle probabilità o delle conseguenze. Quando le masse, la stampa e il mondo intero ti dicono di muoverti, il tuo compito è di piantarti come un albero accanto al fiume della verità e dire a tutto il mondo -
'No, muovetevi voi.’
Tu, da che parte stai?
Firenze: le foibe furono una vendetta
A #Firenze hanno intitolato ai "#martiri delle #foibe" uno slargo con un muro sbrecciato lordo di #graffiti, usato come parcheggio e come ricettacolo per i cassonetti della spazzatura.
Un gesto più di scherno che di omaggio.
Ogni tanto qualcuno spezza o danneggia in altro modo la targa con il nome, che nel febbraio 2023 è stato sostituita per la terza volta almeno.
Giusto in tempo perché venisse corretta con la scritta "#Vendetta".
Una valutazione gelida e realistica. Imporre a Firenze i piagnistei della propaganda difficilmente avrebbe portato a risultati diversi: in città è diffusa da decenni, specie tra le persone serie, la propensione a non sentire alcuna appartenenza per lo stato che occupa la penisola italiana e a comportarsi di conseguenza nei confronti dei suoi propagandisti.
Pubblicata #ThePETGuide, la guida dell' ONU sulle tecnologie di miglioramento della #privacy per operare statistiche ufficiali
Agli Uffici nazionali di statistica (NSO) sono affidati dati che hanno il potenziale per guidare l'innovazione e migliorare i servizi nazionali, la ricerca e i benefici sociali. Tuttavia, c'è stato un aumento delle minacce informatiche sostenute, reti complesse di intermediari motivati a procurarsi dati sensibili e progressi nei metodi per reidentificare e collegare i dati a individui e tra più fonti di dati. Le violazioni dei dati erodono la fiducia del pubblico e possono avere gravi conseguenze negative per individui, gruppi e comunità.
Le statistiche ufficiali sono una fonte attendibile di informazioni per i governi di tutto il mondo per prendere decisioni informate e basate sui dati. Pertanto, l'ampiezza delle informazioni viene raccolta da una serie di fonti di dati come indagini sulle famiglie e sulle imprese, censimenti della popolazione, economici o agricoli, una varietà di registri amministrativi o persino dati del settore privato. Tali fonti di dati sono gli input per la compilazione di statistiche e indicatori sull'economia, l'ambiente e la società. In molti modi, le statistiche ufficiali offrono un'istantanea dello sviluppo e del tasso di progresso di un paese. Naturalmente, quanto più dettagliato è il livello dei dati di input, tanto più sfumate possono essere le statistiche ufficiali. Tuttavia, la raccolta, il trattamento e la diffusione di dati spesso sensibili devono proteggere la privacy delle persone e delle imprese. Inoltre, considerando gli uffici nazionali di statistica (NSO) come parte degli ecosistemi di dati nazionali e internazionali, gli NSO potrebbero potenzialmente condividere molti più dati se in grado di proteggere la loro privacy. Questo inevitabile compromesso è il fulcro di questo documento, o più concisamente: come possiamo utilizzare la tecnologia per mitigare i rischi per la privacy e fornire garanzie dimostrabili sulla privacy durante l'intero ciclo di raccolta, elaborazione, analisi e distribuzione di informazioni potenzialmente sensibili.Questo documento esplora gli attuali approcci alla protezione dei dati (ad esempio, l'anonimizzazione dei dati, il calcolo delle parti di input, i controlli e gli accordi contrattuali) e le relative limitazioni. Al fine di facilitare la sperimentazione su progetti pilota e una collaborazione efficace su casi d'uso del "mondo reale", il Task Team delle tecniche di tutela della privacy delle Nazioni Unite ha fondato il laboratorio PET delle Nazioni Unite.
Vengono introdotte due grandi categorie di PET (ad es. privacy di input, privacy di output), tra cui calcolo multipartitico sicuro, crittografia omomorfica, privacy differenziale, dati sintetici, apprendimento distribuito, zero-knowledge proof e ambienti di esecuzione attendibili.
Vengono presentati studi di casi dettagliati che comprendono una vasta gamma di casi d'uso in tutti i settori, sfruttano combinazioni di PET e coinvolgono la collaborazione tra le parti (come più NSO che lavorano insieme, NSO che lavorano con altre agenzie governative e NSO che lavorano con organizzazioni del settore privato). Quindici casi di studio descrivono implementazioni che si trovano nella fase concettuale o pilota e tre che sono state implementate in ambienti di produzione.
Questo documento fornisce una panoramica delle attività di definizione degli standard e identifica diversi nuovi standard rilevanti per il trattamento dei set di dati, compresi gli standard in fase di sviluppo e alcuni che sono un prodotto del principio di precauzione applicato alla definizione degli standard per l'intelligenza artificiale (IA).
Data l'espansione dell'attività che si occupa di PET e il contesto in cui possono essere applicati, gli standard sono presentati in due parti. La prima identifica gli standard essenziali con sezioni sulla crittografia e sulle tecniche di sicurezza. Il secondo considera gli standard indirettamente correlati che potrebbero influenzare l'ambiente - tecnico e organizzativo - in cui i PET possono essere implementati, con argomenti secondari su cloud computing, big data, governance, intelligenza artificiale e qualità dei dati. Per coloro che sono interessati al "quadro più ampio", è disponibile una sezione aggiuntiva sugli standard correlati.
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La povertà educativa in Italia è un problema, ma si potrebbe risolvere | L'Indipendente
"In un Paese con disparità territoriali profonde, un forte multiculturalismo di seconda generazione (sono circa 1,3 milioni i bambini stranieri o italiani per acquisizione) si auspica un intervento puntuale e ottimizzato, su strutture, personale e approcci. Non si tratta solo di risanare il giovane patrimonio umano in contesti periferici e creare un nuovo ecosistema di servizi per l’infanzia, adeguato alle nuove generazioni; occorre, come individuato dall’Osservatorio, considerare i giovani come risorse e non solo fasce da tutelare, attuare un cambiamento partecipativo e di ascolto, indirizzando i fondi alle reali necessità che chiede il nostro futuro."
La coscienza morta
Si applica anche a noi, adesso.
"From the accumulated evidence one can only conclude that conscience as such had apparently got lost in Germany, and this to a point where people hardly remembered it and had ceased to realize that the surprising "new set of German values" was not shared by the outside world. This, to be sure, is not the entire truth. For there were individuals in Germany who from the very beginning of the regime and without ever wavering were opposed to Hitler; no one knows how many there were of them — perhaps a hundred thousand, perhaps many more, perhaps many fewer — or their voices were never heard. They could be found everywhere, in all strata of society, among the simple people as well as among the educated, in all parties, perhaps even in the ranks of the N.S.D.A.P."
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"E tutto sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il “nuovo sistema di valori” tedesco non era condiviso dal mondo esterno. Naturalmente, questo non vale per tutti
i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa quanti fossero (forse centomila, forse molti di piu, forse molti di meno) poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce. Potevano trovarsi dappertutto, in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito nazista."
Fr.#20 / Di artiste e prostitute digitali
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Artiste di strada, ma digitali
In questi giorni sono venuto a conoscenza di un fenomeno peculiare che ha preso piede in Cina. Non saprei esattamente come definirlo, quindi faccio prima a farvelo vedere:
Cosa sta succedendo? Quelle sono delle ragazze che stanno cantando, scherzando e chattando coi loro fan online. In streaming, sul marciapiede.
Perché? Beh, pare che sia merito di un nuovo algoritmo.
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La piattaforma cinese di streaming che usano queste ragazze infatti è dotata di un sistema di localizzazione che permette agli utenti di cercare streamer nelle loro vicinanze. Questo significa che chi fa streaming in zone più ricche avrà evidentemente una probabilità più alta di ricevere donazioni cospicue rispetto a chi invece si limita a streamare da casa sua, magari in un quartiere povero.
Ecco allora spiegato il motivo per cui decine di ragazze decidono di lavorare in strada piuttosto che nella comodità delle loro stanze.
La peculiarità è che molte di loro, come spiegato da Naomi Wu, non sono in condizioni di povertà. Anzi, spesso hanno un lavoro normale che fanno durante il giorno. D’altronde, l’attrezzatura che alcune si portano dietro è anche abbastanza costosa.
Insomma, non bisogna fare confusione: queste ragazze sono più vicine a delle artiste di strada che a delle mendicanti. La differenza, rispetto agli artisti di strada tradizionali, è che le loro performance vengono viste e apprezzate da remoto, da persone a 500 metri da loro o dall’altra parte della Cina.
Questo caso peculiare può insegnarci una cosa: gli incentivi funzionano. Funzionano così bene che una professione nata grazie al digitale si sta trasformando in uno strano ibrido phygital che incentiva decine di ragazze a mettersi in strada con luci e strumenti per lo streaming.
Forse bisognerebbe iniziare a riflettere sul potere diretto e indiretto che questi algoritmi hanno sulla nostra vita, e soprattutto ponderare sulle attuali e future capacità dei nostri governi di influenzare il comportamento di milioni di persone semplicemente attraverso sistemi di economia comportamentale e ingegneria sociale — come quelli già sperimentati anche in Italia.
Prostitute digitali, conseguenze reali
Sempre rimanendo nel tema delle nuove professioni digitali, vale la pena riportare una notizia di questi giorni che arriva dagli Stati Uniti: pare che a una ragazza, modella su OnlyFans, sia stata negata la Visa per l’accesso agli Stati Uniti.
La Visa è in pratica un’autorizzazione che deve avere chiunque voglia viaggiare verso gli Stati Uniti e che viene allegata al passaporto. In alcuni casi, quando sussistono situazioni particolari, la Visa può essere negata. Ad esempio nel caso in cui la persona abbia ricevuto condanne o sia accusata di altre attività illecite, come il contrabbando.
Oppure, come successo per la ragazza in questione, se la persona ha realizzato attività di prostituzione durante i 10 anni precedenti alla richiesta di Visa o se il suo viaggio sia in qualche modo finalizzato a compiere atti di prostituzione.
Non voglio entrare nella diatriba infinita sul considerare o meno l’attività su OnlyFans al pari della prostituzione, ma a quanto pare le autorità degli Stati Uniti la considerano tale. Ciò che conta qui è la capacità delle autorità governative di sorvegliare e analizzare i motivi del viaggio di una persona straniera, le sue attività professionali (magari anche secondarie) e il suo passato — fino a dieci anni prima!
Non mi stupisce che gli Stati Uniti facciano tali discriminazioni: è noto che i collettivisti-statalisti confondono sempre (volontariamente) il piano della moralità con quello della legalità. E questo impatta la libertà delle persone.
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Questo caso dovrebbe esserci d’esempio per comprendere i rischi derivanti proprio da queste capacità di sorveglianza dei nostri governi. I nostri dati saranno usati contro di noi. Sempre. E questo è anche il motivo per cui bisogna rigettare con forza qualsiasi proposta di identità digitale. Se ci riescono ora, figuriamoci cosa potranno fare con un sistema di identità digitale connesso a tutto ciò che siamo e facciamo.
Insomma, se proprio vuoi fare la modella su OnlyFans sappi che potresti essere considerata una prostituta a tutti gli effetti. Nulla in contrario, ma forse sarebbe il caso di imparare il valore dello pseudoanonimato e provare a considerare piattaforme e sistemi di pagamento alternativi che lasciano poche tracce, come Bitcoin. È chiaro che intermediari fiat come OnlyFans o come le piattaforme di pagamento non hanno assolutamente a cuore la riservatezza dei loro clienti.
Meme del giorno
Citazione del giorno
"Every form of happiness is private. Our greatest moments are personal, self-motivated, not to be touched. The things which are sacred or precious to us are the things we withdraw from promiscuous sharing.”
Ayn Rand
Articolo consigliato
La moralità dell'anonimato
Anonymity is dead, long live the anonimous! L’anonimato è morto, la privacy è morta. E anche noi, nel lungo periodo, siamo tutti morti. Se siete d’accordo, oggi inizierei così per parlare di un tema che stranamente non avevo ancora trattato su queste pagine: la moralità dell’anonimato…
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6 days ago · 5 likes · 2 comments · Matte Galt
Twitter Files: dalla censura politica al ban di Trump
Nelle scorse settimane Elon Musk ha distribuito ad alcuni giornalisti migliaia di documenti e comunicazioni riservate di Twitter. L’analisi di questi documenti ha dato vita a un piccolo cataclisma.
Le prime notizie che arrivano dai “Twitter Files” raccontano di inquietanti scoperte sui meccanismi di “moderazione” della piattaforma, tra top manager e team di moderazione palesemente politicizzati e sistematiche ingerenze da parte delle agenzie di intelligence. La storia raccontata finora dai giornalisti che hanno messo mano ai Twitter Files, attraverso dei lunghi thread pubblicati proprio su Twitter, parte dal 2020 e arriva fino ai giorni nostri.
Il materiale pare sia molto, e c’è sicuramente ancora tanto da raccontare, ma oggi voglio dare la possibilità ai lettori di farsi un’idea, ripercorrendo insieme le parti più rilevanti di tutta la vicenda.
Iniziamo.
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Gli strumenti di Twitter
Come racconta Matt Taibbi nel primo thread sui Twitter Files, nel corso del tempo Twitter fu costretta a sviluppare e costruire degli strumenti di censura che durante i primi anni di vita della piattaforma erano invece assenti.
Presto molte persone si resero conto della potenza di questi strumenti, e pian piano furono messi a disposizione di autorità governative ed esponenti di partiti politici che di volta in volta chiedevano alla piattaforma di rimuovere contenuti sgraditi. Nel 2020 le richieste di questo tipo erano praticamente una prassi consolidata.
Questi strumenti di “moderazione” erano a disposizione, in teoria, di ogni parte politica. Il problema è che sembra che non ci fossero dei canali ufficiali a cui fare riferimento, ma che fosse invece un’attività che veniva fatta attraverso contatti personali con dipendenti interni di Twitter.
Perché dico che è un problema? Dovete sapere che prima dell’arrivo di Elon Musk e dei licenziamenti collettivi, più del 98% dei dipendenti di Twitter erano dichiaratamente Democratici (cioè progressisti di sinistra) — come mostrano dai dati riportati da Matt Taibbi nel suo primo thread.
Per un mero dato statistico, i Democratici avevano quindi molte più possibilità di ottenere la rimozione di contenuti rispetto ai Repubblicani.
Prima di continuare…
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La censura arbitraria dei progressisti
La giornalista Bari Weiss, nel secondo thread dedicato ai Twitter Files conferma poi ciò che molti “complottisti” dicevano da tempo, nonostante le dichiarazioni pubbliche contrarie da parte di Vijaya Gadde: sì, lo shadow ban esiste.
Il team di moderazione di Twitter aveva infatti l’abitudine di creare delle vere e proprie blacklist di utenti a cui limitare la visibilità e la reach dei contenuti.
Il gruppo interno che gestiva questo tipo di censura era chiamato “Strategic Response Team - Global Escalation Team”. Nel gruppo, dice Bari Weiss, c’erano Vijaya Gadde (Legal, Policy, and Trust) e Yoel Roth (Trust & Safety), oltre ai CEO — prima Jack Dorsey e poi Parag Agrawal.
Gli account più colpiti da queste blacklist e shadowban erano quelli di persone della destra conservatrice e in generale account con opinioni contrarie a quelle progressiste in merito a questioni riguardanti LGBT o sulle elezioni presidenziali del 2020.
Un esempio paradigmatico fu quello di Chaya Raichik, “Libs of TikTok” (che seguo con molto piacere, anche su substack), che solo all’inizio del 2022 fu bannata per ben sei volte. Nel suo caso il pregiudizio politico era evidente: non solo l’account veniva sospeso arbitrariamente, ma Twitter non fece nulla per bannare le persone che doxxarono l’indirizzo di residenza di Chaya e che regolarmente la minacciavano di morte. Se non sbaglio, qualcuno di quei post è ancora online.
Le motivazioni che sostenevano la maggior parte delle censure di post e sospensione degli account erano puramente politiche, in base alle idee dei team di moderazione e dei manager come Yoel Roth.
Proprio lui scrisse nel 2021: “The hypothesis underlying much of what we’ve implemented is that if exposure to, e.g., misinformation directly causes harm, we should use remediations that reduce exposure, and limiting the spread/virality of content is a good way to do that”.
Cosa si intende Roth per “misinformation”? Ovviamente, tutto ciò che è contrario alla narrativa Dem e alle sue personalissime idee.
Al contrario di quanto pubblicamente affermato da Twitter nel corso degli anni, molte delle scelte di rimozione di contenuti non erano fatte sulla base di elementi oggettivi, ma in base a interpretazioni personali degli executives e dei team di moderazione, per poi essere giustificate di volta in volta con le policy più adeguate.
Un chiaro esempio dell’arbitrarietà e dei pregiudizi dei team di moderazione viene da uno scambio tra Yoel Roth e un collega il 7 gennaio 2021, in cui discutono su come “moderare” il movimento “#stopthesteal”, che durante l’elezione del 2020 sosteneva ci fossero gravi irregolarità nel processo elettorale, soprattutto per quanto riguarda i voti via posta.
Il movimento, ritenuto fonte di disinformazione, venne presto censurato da Twitter. L’obiettivo in quel caso era duplice: da una parte censurare i post degli esponenti del movimento, e dall’altra lasciare libertà al “counterspeech”, cioè ai post dei progressisti di sinistra che usavano lo stesso hashtag per sostenere tesi contrarie.
Un altro esempio di arbitrarietà e faziosità politica arriva da queste comunicazioni del 7 di gennaio 2021 (24 ore prima del ban di Trump), in cui il team di moderazione si trova a discutere perfino su come punire gli utenti che ripostavano foto dei tweet di Trump senza alcun intento politico, ma per criticare le scelte di moderazione di Twitter, come in questo caso:
Il ban di Trump
La terza, quarta e quinta parte dei Twitter Files affrontano invece gli eventi che portarono l’8 gennaio 2021 al ban di Trump — il caso di deplatforming più famoso e più grave al mondo. La storia prosegue con i contributi di Matt Taibbi e Michael Shellenberger, che offrono uno spaccato sui mesi e giorni precedenti al ban di Trump.
Già dai primi mesi del 2020 Twitter era un insieme scomposto di sistemi di sorveglianza e di censura automatizzati e persone con il potere di censurare arbitrariamente chiunque (beh, non proprio chiunque) sulla base di pregiudizi puramente ideologici e politici.
Come se questo non bastasse, man mano che le elezioni si avvicinavano gli executives di alto livello come Yoel Roth iniziavano ad intrattenere sistematicamente relazioni con FBI e varie altre agenzie federali come l’Homeland Security e la National Intelligence. Era in questi incontri che spesso si decideva come e quali tweet censurare. Principalmente, ça va sans dire, di Trump e altri account Repubblicani — che in quel periodo erano molto attivi per denunciare problemi col processo elettorale.
A conferma della frequenza e normalità degli incontri ci sono alcuni scambi tra il team marketing di Twitter e il Policy Director Nick Pickles. Il team chiedeva se fosse possibile descrivere il processo di moderazione di Twitter come un misto di “machine learning, human review e partnership con esperti”, a cui Nick rispose: “non so se definirei FBI e DHS come esperti”.
La pressione politica fuori e dentro Twitter in quel periodo si poteva tagliare con il coltello.
In questo periodo Trump era già stato sospeso diverse volte. Secondo le policy di Twitter, ci sono una serie di “strike” prima che l’account possa essere bannato definitivamente. A Trump ne rimaneva uno; un’ultima violazione, di una qualsiasi policy interna, avrebbe causato il suo ban definitivo.
Trump però non era una persona qualunque. I suoi tweet avevano un valore “pubblico” non indifferente. La questione era nota anche internamente a Twitter, che infatti ha una “public interest policy” che prevede delle eccezioni in caso di violazioni per tweet e account che abbiano un certo valore nell’interesse pubblico.
Proprio per questo, il 7 gennaio 2021 l’onnipresente Yoel Roth scrive a un collega che nel caso di Trump l’idea era quella di "bypassare le tutele del “public interest e fare in modo che potesse essere bannato alla prima violazione di una qualsiasi policy interna". La decisione ai piani alti era già presa da tempo. Trump doveva essere bannato, bisognava solo trovare una qualsiasi giustificazione.
La pressione interna in quei giorni era altissima. Vi ricordo che molti dipendenti in Twitter erano progressisti democratici, che dopo gli eventi del 6 gennaio ce l’avevano a morte con Trump e con chiunque la pensasse diversamente da loro (ma questo è ricorrente). Nelle chat interne circolavano affermazioni come queste:
“Non capisco la decisione di non bannare Trump data la sua istigazione alla violenza”
“Dobbiamo fare la cosa giusta e bannare il suo account”
“Ha chiaramente tentato di sovvertire il nostro ordine democratico… se non è questo un buon motivo per bannarlo, non so cosa possa esserlo”
Come riporta di nuovo Bari Weiss nella quinta parte dei Twitter Files, l’8 gennaio 2021 — a poche ore dal ban di Trump — il Washington Post pubblicò perfino una lettera aperta firmata da 300 dipendenti di Twitter che chiedevano a Jack Dorsey di bannare per sempre Trump — a prescindere da qualsiasi valutazione di merito.
Quel giorno Trump postò due volte:
Poche ore dopo il primo tweet Vijaya Gadde scrisse in una chat interna: “potremmo interpretare ‘American Patriots […] will not disrespected or treated unfairly in any way, shape or form’ come una istigazione alla violenza”.
L’istigazione alla violenza sarebbe stato l’ultimo strike necessario per bannare Trump definitivamente. L’interpretazione però era controversa e neanche Vijaya era sicura di questa strada. Sempre nella stessa chat qualcuno disse che “American Patriot” poteva essere inteso come un chiaro riferimento ai manifestanti violenti di Capitol Hill (6 gennaio 2021) e questo avrebbe causato la violazione della “Glorification of Violence policy”.
Insomma, non c’era più alcun criterio di valuazione, se non la fantasia dei moderatori nell’interpretare il contesto del tweet di Trump. La tensione era talmente alta che nelle ore successive al tweet Trump venne definito come il leader di un’organizzazione terroristica — comparabile perfino a Hitler.
Alla fine anche la “leadership” di Twitter dovette cedere alle pressioni, sia interne che esterne, e Trump venne bannato definitivamente a causa della supposta violazione della policy contro l’istigazione alla violenza.
Social Network… o strumento di sorveglianza dell’intelligence?
Il sesto e ultimo (per ora) thread sui Twitter Files, scritto poche ore prima dell’uscita di questa newsletter, mostra come le agenzie di intelligence, in particolare FBI e DHS, avessero da tempo rapporti continuativi, amichevoli e molto stretti con diversi referenti di Twitter. Uno su tutti Yoel Roth, che tra gennaio 2020 e novembre 2022 pare che abbia scambiato più di 150 email con l’FBI.
Ma l’FBI non si limitava a interagire con Twitter. L’agenzia aveva istituito una vera e propria task force di sorveglianza e analisi di post e account sulla piattaforma. L’ingerenza arrivava a tal punto da chiedere “informalmente” a Twitter i dati di localizzazione degli account flaggati — senza alcun mandato né indagine che giustificasse questa richiesta.
Contrasto al terrorismo? Indagini su crimini federali? Niente di tutto questo: pura sorveglianza e censura politica in materia elettorale. Venivano colpiti perfino di account satirici. Ma è questo il mandato dell’FBI? E davvero siamo disposti ad accettare un abuso di potere di questo tipo?
Un commento
La storia dei Twitter Files non è ancora finita, e certamente ci sono ancora molte domande che meritano risposta. Che dire di tutta la censura sul covid? Solo da poco Twitter ha annunciato di aver disattivato i filtri automatizzati su quei contenuti. E che dire di tutti gli account che sono stati ingiustamente silenziati e shadow-bannati da gennaio 2021 a oggi? Che ruolo ha avuto l’intelligence americana nella gestione occidentale della pandemia e nel flusso delle informazioni?
Politici e intellettuali, per lo più di sinistra, da anni tentano di persuaderci del bisogno di combattere la disinformazione. Ci dicono che è pericolosa, che bisogna proteggere le persone. Ma da cosa?
In un mondo dove tutto ormai è relativo e non esiste più alcun criterio oggettivo — in cui un giudice della Corte Suprema è incapace perfino di dare una definizione di donna; in cui per mesi si è detto tutto e il contrario di tutto su COVID e vaccini… cosa significa disinformazione?
La verità è che la lotta alla "disinformazione" non esiste. Esiste però una chiara volontà di censurare opinioni e idee che non siano aderenti all’ideologia dominante. Perché l’informazione è potere. Chi controlla l’informazione controlla le idee, che come sappiamo sono più potenti dei proiettili.
Controllare l’informazione serve per plasmare una narrativa capace di rendere le persone sempre più dipendenti dal sistema; convincerle a subire qualsiasi angheria e limitazione di libertà — per il loro bene. Non c’è nulla di nuovo, è così che i governi creano una massa di zombie pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di sentirsi al sicuro.
È il modello cinese, quel modello che fin dal 1997 punisce chiunque diffonda informazioni potenzialmente sovversive dell’ordine stabilito. Il modello che i progressisti di tutto il mondo, da Washington a Bruxelles, vogliono applicare ai social network. Il Digital Services Act — non mi stancherò mai di ripeterlo — è questa cosa qua.
Allora oggi dobbiamo chiederci: perché mai qualcuno dovrebbe avere il potere di decidere fino a che punto può spingersi il pensiero prima di diventare illegale? E che impatto ha la censura (e l’annessa sorveglianza di massa) sul nostro mondo? Quanto di ciò che stiamo vivendo in questi anni è frutto dell’evoluzione naturale degli eventi e quanto invece è conseguenza del controllo e della manipolazione delle informazioni da parte di un nucleo ristretto di persone?
Leggi la seconda parte dei Twitter Files
Twitter Files: depistaggi politici e psy-ops
In queste settimane numerosi giornalisti sono alle prese con documenti e comunicazioni riservate di Twitter diffusi da Elon Musk. Li chiamano “Twitter Files”. I primi cinque Twitter Files hanno rivelato i meccanismi interni alla moderazione di Twitter, tra manager politicizzati con deliri di onnipotenza e interferenze da parte dell’intelligence. Oggi sc…
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2 months ago · 2 likes · Matte Galt


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