GIAPPONE. Dietro la pistola di Yamagami, un problema sociale
Due colpi per uccidere il più influente leader politico giapponese degli ultimi anni, a cui mancavano solo quattro giorni per diventare il più longevo. A spararli un 41enne, Tetsuya Yamagami, nella cui casa è stato trovato altro esplosivo, e che tempo fa era membro della Japan Self-Defense Forces, il corpo dell’elite militare dell’esercito nipponico. Ma forse non importa più di tanto chi li ha sparati – visto anche che il killer ha specificato che non ha agito per “motivazioni politiche – perché presto o tardi, il Giappone si sarebbe potuto trovare di fronte a una tragedia simile. Forse sarebbero cambiati i protagonisti, l’occasione, ma è noto che l’estremo conservatorismo di parte non indifferente della società giapponese abbia prodotto negli anni parecchi casi di assassini motivati da follia o depressione, che hanno mietuto non poche vittime. Colpa anche dello stigma nei confronti di chi si affida a psicologi e psicoterapisti, etichettato come “debole”. Così il Giappone, dal punto di vista delle armi da fuoco uno dei paesi più sicuri con quasi zero vittime di arma da fuoco , deve comunque fare i conti con eventi di questo tipo perché incapace di gestire una polveriera instabile e pronta a esplodere: quella di chi soffre di disturbi psicologici e psichiatrici.
Certo va dato atto che proprio leggi repressive come quelle giapponesi hanno fatto del Sol Levante un paese sicuro in termini di sparatorie. Sicuramente molto più del loro alleato, gli Stati Uniti, che soltanto il 4 di Luglio, festa nazionale, hanno registrato almeno 220 vittime, tra cui le 7 vittime del killer di Highland Park. Ma negli Stati Uniti, paradossalmente, è più semplice comprare un fucile d’assalto che una bottiglia di liquore. In Giappone il percorso per poter possedere un’arma da fuoco è fatto di 13 step che includono visite medico psicologiche, interrogatori della polizia, iscrizioni a gruppi controllati e qualificati di cacciatori o amatori e corsi obbligatori di gestione e manutenzione delle armi. Inoltre la possibilità di aprire negozi dedicati è estremamente limitata – circa 3 ogni prefettura – e vige l’obbligo di restituire arma e licenza dopo la morte del possessore, vale a dire una pistola non può essere ereditata e trasmessa all’interno di una famiglia. Dei soli 20 arresti in Giappone nel 2020 per possesso illegale di armi, 12 erano legate al fenomeno delle gang.. Grazie alle norme introdotte da questa legge del 1956, per quanto in seguito resa meno stringente, il Giappone mantiene il rischio di sparatorie a punti 0.02, mentre negli Stati Uniti l’indice è decisamente più alto. Gli Usa guidano infatti la classifica dei paesi industrializzati per numero di decessi dovuti ad omicidio, staccando gli altri con 4.12. Per capirsi in l’Italia, che pure si trova al quinto posto, l’indice di rischio è 0.35.
Questo controllo serrato funziona molto bene per gestire il traffico e l’uso di armi, e l’omicidio di Abe è più una conferma che un’eccezione. L’intervento della sicurezza dopo i due colpi ha evitato altre vittime, Yamagami non ha potuto utilizzare un’arma regolare, ma ha invece costruito in casa la pistola con cui ha sparato. Il capo della polizia di prefettura Tomoaki Onizuka ha detto di “sentire un grave responsabilità” per l’accaduto, ammettendo falle nel piano di sicurezza. Ma era lo stesso Abe a preferire misure meno stringenti, per incoraggiare i “bagni di folla” che portano elettori alle urne. Anche oggi, dopo la morte di Abe anzi forse proprio anche grazie ad essa, milioni di giapponesi si sono presentati ai seggi per eleggere i 125 rappresentanti delle Camera bassa del parlamento giapponese. E hanno così regalato a Kishida, delfino di Abe, 75 seggi che gli permettono di blindare la maggioranza che gli serve per governare serenamente. Il partito dell’ex premier assassinato e il Nippon Ishin no Kai (Partito Giapponese per il rinnovamento) sono le due falangi politiche dell’ala destra che grazie alla promessa di emendare la costituzione pacifista – un programma molto sostenuto da Abe – stanno ora guadagnando punti secondi i primi exit poll. Sicuramente, la tragica fine di uno dei simboli del Sol Levante degli ultimi anni ha incentivato questo risultato.
Del vero killer in realtà non si parla molto. E non si intende Yamagami, di cui man mano vengono fuori maggiori dettagli: disoccupato dopo un periodo in azienda a seguito del servizio militare, la madre forse seguace di una setta religiosa (alcune fonti citano la Chiesa del reverendo Moon) a cui avrebbe fatto una troppo generosa donazione, dilapidando i propri risparmi e innescando la molla omicida di Yamagami. Il vero killer è probabilmente una deriva psicologica che accomuna Yamagami ad altri soggetti in Giappone. Le descrizioni dei colleghi di lavoro parlano di un uomo laconico, che non interagiva se non per motivi strettamente legati al lavoro e passava la pausa pranzo mangiando in macchina. Un parente invece parla di come la famiglia di Yamagami si sia sfasciata in seguito alle donazioni della madre. Se l’associazione fosse confermata, il rapporto con Abe nato nell’immaginazione di Yamagami potrebbe essere plausibile. Il reverendo Moon è stato il fondatore, nel 1954, della Chiesa dell’Unificazione, una setta basata su un’interpretazione peculiare della Bibbia e che proprio a Nara, dove si è svolto l’ultimo atto della vita di Abe, ha una propria sede. Il nonno di Abe, criminale di guerra di classe A per crimini perpetrati contro prigionieri di guerra (anche coreani vista l’occupazione del territorio coreano durante la seconda guerra mondiale) ma soprattutto primo ministro dal 1957, aveva preso contatti con la setta per avere un “cuneo” strategico in corea del Sud. Nella mente confusa di Yamagami, la figura del nonno dell’ex primo ministro nipponico e di Abe stesso potrebbero essersi sovrapposte, facendo di Abe il responsabile dello sfascio della famiglia dell’attentatore. Anche la particolare dottrina della setta, secondo la quale le disgrazie dell’individuo sono causate da colpe pregresse degli antenati, potrebbe aver spinto il già non equilibrato Yamagami a cercare vendetta.
Il problema è che di persone come Yamagami, in Giappone, non si sa quale sia l’esatto numero. Dal 2021 la salute mentale e la prevenzione dei suicidi sono diventati un tema di attualità, anche a seguito del propagarsi di disturbi depressivi e dissociativi associabili ai diversi lockdown. Inoltre ha un nome giapponese, hikikomori, la sindrome sempre più diffusa di ritiro sociale e autoisolamento, diffusa propria nel Sol Levante e stimata in mezzo milione circa di pazienti, prevalentemente uomini tra i 15 e i 39 anni. Ma i dati potrebbero essere sottostimati, perché possono passare anni prima della presa di coscienza e della richiesta di aiuto dei soggetti. La morale tradizionale ultraconservatrice, fondata sui cardini di onore e reputazione e addizionata al senso di fallimento che la crisi economica e i conseguenti licenziamenti hanno generato, ha portato a un aumento dei suicidi, con una “discriminazione di genere”: se infatti i suicidi tra gli uomini sono leggermente diminuiti, nel 2021 (ultimo dato pubblicato) quelli delle donne, cioè quelle tra di cittadini più propense ad essere licenziate o a lasciare il lavoro per occuparsi di attività di cura della famiglia, sono aumentati per il secondo anno di seguito. Nel Sol Levante secondo solo agli Stati Uniti tra i paesi del G7 quanto a tasso di suicidi, non è la prima volta che la follia di un singolo porta a tragedie collettive. E il caso di Abe non è nemmeno l’evento più tragico degli ultimi anni, considerando il numero di vittime. Solo nel 2019 un incendio doloso aveva ucciso 36 persone alla Kyoto Animation, innescato da un 41enne già noto per disturbi psichici e per un tentativo di rapina con arma bianca.
Quali che siano i progetti del governo giapponese, la salute mentale e la gestione dei rischi ad essa connessi dovrebbe essere al primo posto nella sua agenda. Soprattutto dopo il tragico epilogo della vita del suo ex premier Shinzo Abe.
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INTERVISTA. Tony Abu Akleh: «Gli Usa hanno tradito Shireen. Vogliamo dirlo a Biden»
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 luglio 2022 – Si chiama Anton ma per tutti è Tony. E da due mesi è il portavoce della sua famiglia, Abu Akleh, che non si rassegna e chiede giustizia per sua sorella Shireen, nota giornalista palestinese, con passaporto statunitense, uccisa sul colpo due mesi fa, l’11 maggio, da un proiettile mentre per la sua emittente, Al Jazeera, seguiva un’incursione di reparti speciali dell’esercito israeliano a Jenin. Tony rispondendo alle nostre domande non nasconde il suo stato d’animo, un misto di frustrazione e delusione. «Le inchieste svolte dalla Cnn e altri giornali americani – ci dice – come dall’Autorità nazionale palestinese e dall’Onu non lasciano dubbi: dicono tutte che Shireen è stata uccisa da spari giunti dagli israeliani. E a nostro avviso sono stati intenzionali. Ci aspettavamo perciò che gli Stati uniti, di cui siamo cittadini, affermassero in maniera netta e chiara che mia sorella, una civile innocente, una giornalista, è stata colpita da spari israeliani mentre svolgeva il suo lavoro di informazione e che la sua morte è un crimine non può restare impunito. E invece…».
Tony non ha peli sulla lingua: «quella che hanno svolto una settimana fa gli esperti americani – spiega – sul proiettile che ha ucciso Shireen non è stata una perizia ma un’operazione politica. Non hanno riferito i risultati di una indagine tecnica, come ci aspettavamo. Piuttosto hanno emesso un comunicato politico per salvaguardare Israele e gli interessi americani. Ma noi non ci rassegneremo». Tony ci ripete che gli Abu Akleh faranno il possibile per ottenere un’indagine internazionale. E che sono intenzionati ad incontrare Joe Biden quando la prossima settimana sarà in Israele e nei Territori palestinesi occupati. «L’ambasciata Usa tace, non abbiamo più avuto contatti dal giorno precedente a quello della cosiddetta perizia» prosegue «per gli Stati uniti la faccenda è chiusa, per noi no! Shireen avrà giustizia».
Gli Abu Akleh hanno indirizzato una lettera all’Amministrazione Biden in cui definiscono l’uccisione di Shireen non un incidente causato da un proiettile vagante, come sostengono Israele e gli Stati uniti, bensì un «omicidio extragiudiziale» eseguito da soldati israeliani. Rivolgendosi al presidente americano, aggiungono che «la sua Amministrazione ha completamente fallito nel soddisfare le aspettative minime di una famiglia in lutto…gli Stati uniti si sono mossi per la cancellazione di qualsiasi illecito da parte delle forze israeliane» e non hanno condotto proprie indagini ma si sono limitati a «riassumere e adottare l’indagine delle autorità israeliane». «La sua Amministrazione – concludono – ha ritenuto necessario perpetuare la conclusione infondata e dannosa che l’omicidio non sia stato intenzionale, scegliendo apparentemente l’opportunità politica rispetto alla responsabilità effettiva per l’uccisione di un cittadino statunitense da parte di un governo straniero». Alla fine della lettera chiedono a Biden di incontrarli.
Non si può escludere del tutto che questo incontro possa avvenire. Forse non sarà più di una stretta di mano e qualche frase di cordoglio da parte del presidente Usa. Ma la possibilità è remota. Biden arriverà mercoledì in Israele non per accusarlo dell’omicidio di una giornalista ma per rassicurarlo della protezione militare americana e dell’alleanza con Washington. Non solo. Potrebbe avere in tasca un’intesa preliminare per la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’Arabia saudita. E dovrebbe dare la sua benedizione al programma di difesa aerea integrata tra Israele e i suoi alleati arabi contro l’Iran. Proprio con Teheran al centro dei suoi pensieri, Biden visiterà alcuni apparati di sicurezza israeliani presso la base aerea di Palmachim, una batteria missilistica Iron Dome, il sistema di difesa laser Iron Beam.
Venerdì incontrerà a Betlemme il presidente dell’Anp Abu Mazen al quale non garantirà alcun appoggio politico ma solo un pacchetto di misure economiche e qualche gesto simbolico. Biden quindi andrà all’aeroporto Ben Gurion da dove partirà per l’Arabia saudita dove parteciperà al vertice del GCC+3 a Gedda con i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo: Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati insieme a Iraq, Egitto e Giordania. Pagine Esteri
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YEMEN. Le mine antiuomo fanno strage di civili e bambini
della redazione con informazioni di Save the Children
Pagine Esteri, 8 luglio 2022 – Le mine antiuomo e gli ordigni inesplosi sono stati i più grandi assassini di bambini nello Yemen da quando è stata annunciata una tregua ad aprile. Lo denuncia Save the Children. L’aumento delle morti a causa di queste armi si considera sia dovuto al trasferimento delle famiglie in aree precedentemente inaccessibili a seguito della diminuzione delle ostilità. Una nuova analisi dell’Organizzazione mostra che le mine antiuomo e le munizioni inesplose sono state responsabili di oltre il 75% di tutte le vittime di guerra tra i bambini, uccidendone e ferendone più di 42 tra aprile e la fine di giugno.
Da quando è iniziata la tregua dopo sette anni di conflitto, il numero di vittime legate al conflitto armato è diminuito in modo significativo, con 103 civili uccisi in conflitto negli ultimi tre mesi, mentre nei tre mesi precedenti la tregua sono stati uccisi 352 civili. Tuttavia, gli incidenti relativi alle mine antiuomo e agli ordigni inesplosi sono continuati a un livello simile, con una media stimata di un incidente al giorno, che ha provocato la morte di 49 civili tra cui almeno otto bambini. Nei tre mesi precedenti la tregua, 56 civili sono stati uccisi da mine e ordigni inesplosi.
I resti esplosivi della guerra rimangono una minaccia ereditata dai combattimenti, rappresentando un pericolo duraturo per i civili in tutto il Paese anche dopo la cessazione delle ostilità. I bambini, in particolare, hanno una maggiore vulnerabilità agli ordigni inesplosi e alle mine antiuomo a causa della percezione del basso rischio e dell’elevata curiosità. Inoltre, il senso di relativa sicurezza ha portato a una maggiore mobilità tra i civili, in particolare tra gli sfollati, che potrebbero sentirsi sicuri di tornare nelle aree in cui le ostilità si sono attenuate.
“Anche se i combattimenti sono stati meno frequenti negli ultimi mesi, i residuati bellici esplosivi continuano a mietere vittime quotidianamente. Le mine antiuomo e le munizioni inesplose rappresentano una grave minaccia per tutti nello Yemen, in particolare per i bambini, che sono curiosi per natura, vogliono esplorare il loro mondo e conoscerlo. E quando vedono qualcosa di brillante o interessante, non possono trattenersi dal toccarlo. Ecco perché così tanti bambini sono stati uccisi o feriti in incidenti di ordigni inesplosi. Raccolgono l’oggetto sconosciuto pensando che sia un giocattolo, solo per scoprire che si tratta di una bomba a grappolo inesplosa. Cresce ancora di più nella stagione delle piogge, quando la terra si bagna e le mine sepolte nelle secche possono andare alla deriva in aree precedentemente ritenute sicure. Nelle ultime due settimane, abbiamo visto molte segnalazioni di adulti e bambini uccisi o mutilati mentre svolgevano le faccende quotidiane, come andare a prendere l’acqua, lavorare nelle loro fattorie o prendersi cura del loro bestiame. Non c’è un posto sicuro per i bambini nello Yemen, nemmeno quando il pericolo dei combattimenti è diminuito. I bambini in Yemen hanno sopportato per troppo tempo violenze sbalorditive e immense sofferenze e, a meno che le parti in guerra e la comunità dei donatori non diano la priorità alla protezione dei bambini, la triste eredità del conflitto li perseguiterà per gli anni a venire”, dichiara Rama Hansraj, direttore di Save the Children in Yemen.
Save the Children chiede alle parti in guerra un impegno urgente e pieno per la bonifica delle mine e degli ordigni inesplosi e invita ad adottare misure pratiche e immediate per ridurre l’impatto crescente di questi esplosivi. L’Organizzazione chiede inoltre alla comunità dei donatori di sostenere l’ampliamento e la fornitura delle attrezzature tecniche necessarie per la marcatura e lo sgombero degli ordigni e delle mine inesplose, in modo che i bambini e le loro comunità siano consapevoli del rischio e siano maggiormente in grado di mitigarlo in sicurezza. Pagine Esteri
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Onu: in sei mesi 60 palestinesi uccisi in Cisgiordania e Gerusalemme Est, +46% rispetto al 2021
della redazione –
Pagine Esteri, 7 luglio 2022 – Erano in centinaia ieri ai funerali di Rafiq Ghannam, il palestinese di 20 anni ucciso durante un blitz dell’esercito israeliano nella cittadina di Jabaa a sud di Jenin, in Cisgiordania. Testimoni hanno raccontato che Ghannam è stato colpito davanti casa mentre erano in corso scontri tra soldati e giovani manifestanti. Per il portavoce militare israeliano, Ghannam era un ricercato e sarebbe stato abbattuto dal fuoco dei soldati perché avrebbe cercato di sottrarsi all’arresto. I media palestinesi ieri riferivano anche di decine di arresti effettuati dalle forze di occupazione nel corso della notte nei villaggi palestinesi nel nord della Cisgiordania e intorno a Ramallah.
Quella di ieri è la seconda uccisione di un abitante di Jabaa in due giorni. Prima di Ghannam era stato colpito a morte Kamel Alawneh. Domenica scorsa l’Onu ha riferito che da gennaio a giugno, 2022 esercito e polizia di Israele hanno ucciso oltre 60 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est, il 46% in più rispetto alla prima metà dello scorso anno. Nel 2021 sono stati uccisi 78 palestinesi e 24 del 2020. Questi numeri includono anche alcuni palestinesi armati rimasti uccisi in scontri con l’esercito o dopo aver compiuto attacchi. Tra questi i responsabili degli attentati compiuti in Israele tra marzo e maggio che hanno causato 18 morti.
Intanto l’agenzia di stampa statunitense Associated Press ha inaugurato la sua nuova sede a Gaza, un anno dopo la distruzione dei suoi uffici in un attacco della aviazione israeliana. Secondo Israele nell’edificio, sede anche di altri mezzi d’informazione come Al Jazeera, operavano uomini del movimento islamico Hamas. Ma non ha mai fornito le prove della sua tesi contestata dai giornalisti della Ap e di altri media.
A Gaza, come nel resto dei Territori palestinesi occupati, hanno destato curiosità e una certa sorpresa le immagini provenienti dall’Algeria – in festa per il 60esimo anniversario della sua storica indipendenza dal colonialismo francese – della stretta di mano tra il presidente dell’Anp Abu Mazen e del leader del movimento islamico Hamas, Ismail Haniyeh. I due non si incontravano da anni. Tuttavia, il gesto distensivo tra i due leader rivali, di fatto nemici, è avvenuto solo per l’insistenza della presidenza algerina e non pare destinato a favorire il riavvicinamento le due parti. Hamas e il partito Fatah, spina dorsale dell’Anp, sono ai ferri corti da anni e nulla lascia immaginare l’avvio di un negoziato per la riconciliazione. Tutti i tentativi in quella direzione fatti negli anni passati sono falliti finendo per allargare la distanza tra le due parti.
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ILARIA ALPI. Assassinato il capro espiatorio Hashi Omar Hassan
di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 7 luglio 2022 – Un’autobomba è esplosa a Modagiscio uccidendo Hashi Omar Hassan, il quarantunenne somalo che nel ‘98 fu incriminato per le morti della giornalista Ilaria Alpi e del suo collega Miran Hrovatin a Bosaso. Il testimone chiave dell’accusa, Ahmed Ali Rage, solo nel 2015 confessò di aver fatto il suo nome in cambio di denaro, quando Hassan aveva già trascorso nel carcere di Padova più di 16 anni. Fu risarcito dallo Stato Italiano per aver scontato una pena ingiusta con 3milioni e 181mila euro. Ma dal primo giorno della sua assoluzione, sapeva che tornare in Somalia gli sarebbe potuto costare la vita.
Da quanto riporta il sito somalo Garowe, nessuna milizia ha rivendicato il gesto, ma non è da escludere che l’attacco sia stato organizzato dal movimento islamico “Al-Shabaab”, storica cellula somala di Al-Qaida. Uno dei due legali di Hashi Omar, Antonio Moriconi, ha dichiarato alla stampa italiana che a parer suo, dietro l’attentato ci sarebbero stati dei tentativi di estorsione da parte di gruppi terroristici, venuti a conoscenza dell’enorme cifra di risarcimento ottenuta da poco, e che Hassan voleva investire nel settore dell’import-export. Lo avrebbe fatto “per migliorare la stabilità politica della Somalia”, all’interno del suo clan, l’abgal, attualmente vicino al governo, e che all’epoca dei viaggi di Ilaria Alpi a Mogadiscio veniva organizzato dall’ex- Presidente del Governo di transizione somala, Ali Mahdi.
Ali Madhi Mohammed e il suo oppositore, Mohammed Farah Aidid, furono entrambi sospettati di aver cospirato per l’uccisione della giornalista e del cineoperatore. Al centro delle ricerche investigative di Ilaria e Miran, quelle a cui si riconducono i motivi delle loro assassinio, c’erano i rapporti tra servizi segreti e istituzioni italiane con l’ex dittatore Mohammed Siad Barre; le successive operazioni di cooperazione dell’ONU allo scoppio della guerra civile; e conseguentemente, il traffico di rifiuti radioattivi che i signori della guerra accettavano di smaltire in cambio di armi clandestine, soprattutto a fronte dell’embargo sulle armi del gennaio ’92. Mentre il governo di transizione poteva rafforzare la propria autorità dal contrabbando di armi, i gruppi islamisti si accaparravano una percentuale del traffico illegale perseguendo una guerra civile che divise in due aree Mogadiscio.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2003, in un report in merito alle violazioni dell’embargo sulle armi in Somalia, osservava che il traffico di cannoni anticarro, mitragliatrici pesanti, fucili d’assalto, pistole, bombe e munizioni che arrivava al Porto di Bosaso era in crescente aumento già dagli anni settanta. L’ex Unione Sovietica, dal ‘73 al ’77, esportò ben 260milioni di dollari in armi; l’Italia, dal ‘78 al 1982 ne esportò da sola 380milioni. Dagli anni ’80, anche Stati Uniti d’America e China favorivano la dittatura somala con ingenti regali bellici. Dal gennaio 1992, l’embargo è sempre stato raggirato dai somali con la complicità e gli interessi anche di Egitto, Etiopia, Eritrea, Sudan, Djibouti e Yemen.
Pochi giorni prima di morire, Ilaria aveva conosciuto il Sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor. È ancora possibile ritrovare online l’intervista con cui chiedeva, con destrezza, cosa ne era stato della nave cargo della Shifco – l’azienda peschiera italiana, con a bordo soldati italiani e croati, sequestrata al Porto di Bosaso, uno snodo cruciale per i traffici somali. La gran parte delle riprese di Miran di quella intervista sarebbero andate disperse, non senza manovre rocambolesche che sin da subito hanno fatto presagire il depistaggio delle indagini, per culminare in una epopea giudiziaria che ancora non ha un finale.
Ad oggi, anche le violazioni dell’embargo sulle armi non trovano un epilogo. È del 5 luglio la notizia dell’emittente televisivo somalo “Al-Arabya”, dove si denunciava il sequestro di due barche yemenite che trasportavano armi al gruppo terroristico “Al-Shabaab”. Le barche sarebbero risultate di proprietà di un contrabbandiere somalo, Ahmed Matan, che già in passato avrebbe fornito materiale esplosivo allo stesso gruppo terroristico probabilmente direzionandole al Golfo di Aden.
La tragica storia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sembrava non poter più interferire con quella di Hashi Omar Hassan, e invece nella morte raccontano entrambe la stessa disgrazia, quella del traffico di armi a Mogadiscio. Pagine Esteri
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GIAPPONE. Dietro la pistola di Yamagami, un problema sociale
Due colpi per uccidere il più influente leader politico giapponese degli ultimi anni, a cui mancavano solo quattro giorni per diventare il più longevo. A spararli un 41enne, Tetsuya Yamagami, nella cui casa è stato trovato altro esplosivo, e che tempo fa era membro della Japan Self-Defense Forces, il corpo dell’elite militare dell’esercito nipponico. Ma forse non importa più di tanto chi li ha sparati – visto anche che il killer ha specificato che non ha agito per “motivazioni politiche – perché presto o tardi, il Giappone si sarebbe potuto trovare di fronte a una tragedia simile. Forse sarebbero cambiati i protagonisti, l’occasione, ma è noto che l’estremo conservatorismo di parte non indifferente della società giapponese abbia prodotto negli anni parecchi casi di assassini motivati da follia o depressione, che hanno mietuto non poche vittime. Colpa anche dello stigma nei confronti di chi si affida a psicologi e psicoterapisti, etichettato come “debole”. Così il Giappone, dal punto di vista delle armi da fuoco uno dei paesi più sicuri con quasi zero vittime di arma da fuoco , deve comunque fare i conti con eventi di questo tipo perché incapace di gestire una polveriera instabile e pronta a esplodere: quella di chi soffre di disturbi psicologici e psichiatrici.
Certo va dato atto che proprio leggi repressive come quelle giapponesi hanno fatto del Sol Levante un paese sicuro in termini di sparatorie. Sicuramente molto più del loro alleato, gli Stati Uniti, che soltanto il 4 di Luglio, festa nazionale, hanno registrato almeno 220 vittime, tra cui le 7 vittime del killer di Highland Park. Ma negli Stati Uniti, paradossalmente, è più semplice comprare un fucile d’assalto che una bottiglia di liquore. In Giappone il percorso per poter possedere un’arma da fuoco è fatto di 13 step che includono visite medico psicologiche, interrogatori della polizia, iscrizioni a gruppi controllati e qualificati di cacciatori o amatori e corsi obbligatori di gestione e manutenzione delle armi. Inoltre la possibilità di aprire negozi dedicati è estremamente limitata – circa 3 ogni prefettura – e vige l’obbligo di restituire arma e licenza dopo la morte del possessore, vale a dire una pistola non può essere ereditata e trasmessa all’interno di una famiglia. Dei soli 20 arresti in Giappone nel 2020 per possesso illegale di armi, 12 erano legate al fenomeno delle gang.. Grazie alle norme introdotte da questa legge del 1956, per quanto in seguito resa meno stringente, il Giappone mantiene il rischio di sparatorie a punti 0.02, mentre negli Stati Uniti l’indice è decisamente più alto. Gli Usa guidano infatti la classifica dei paesi industrializzati per numero di decessi dovuti ad omicidio, staccando gli altri con 4.12. Per capirsi in l’Italia, che pure si trova al quinto posto, l’indice di rischio è 0.35.
Questo controllo serrato funziona molto bene per gestire il traffico e l’uso di armi, e l’omicidio di Abe è più una conferma che un’eccezione. L’intervento della sicurezza dopo i due colpi ha evitato altre vittime, Yamagami non ha potuto utilizzare un’arma regolare, ma ha invece costruito in casa la pistola con cui ha sparato. Il capo della polizia di prefettura Tomoaki Onizuka ha detto di “sentire un grave responsabilità” per l’accaduto, ammettendo falle nel piano di sicurezza. Ma era lo stesso Abe a preferire misure meno stringenti, per incoraggiare i “bagni di folla” che portano elettori alle urne. Anche oggi, dopo la morte di Abe anzi forse proprio anche grazie ad essa, milioni di giapponesi si sono presentati ai seggi per eleggere i 125 rappresentanti delle Camera bassa del parlamento giapponese. E hanno così regalato a Kishida, delfino di Abe, 75 seggi che gli permettono di blindare la maggioranza che gli serve per governare serenamente. Il partito dell’ex premier assassinato e il Nippon Ishin no Kai (Partito Giapponese per il rinnovamento) sono le due falangi politiche dell’ala destra che grazie alla promessa di emendare la costituzione pacifista – un programma molto sostenuto da Abe – stanno ora guadagnando punti secondi i primi exit poll. Sicuramente, la tragica fine di uno dei simboli del Sol Levante degli ultimi anni ha incentivato questo risultato.
Del vero killer in realtà non si parla molto. E non si intende Yamagami, di cui man mano vengono fuori maggiori dettagli: disoccupato dopo un periodo in azienda a seguito del servizio militare, la madre forse seguace di una setta religiosa (alcune fonti citano la Chiesa del reverendo Moon) a cui avrebbe fatto una troppo generosa donazione, dilapidando i propri risparmi e innescando la molla omicida di Yamagami. Il vero killer è probabilmente una deriva psicologica che accomuna Yamagami ad altri soggetti in Giappone. Le descrizioni dei colleghi di lavoro parlano di un uomo laconico, che non interagiva se non per motivi strettamente legati al lavoro e passava la pausa pranzo mangiando in macchina. Un parente invece parla di come la famiglia di Yamagami si sia sfasciata in seguito alle donazioni della madre. Se l’associazione fosse confermata, il rapporto con Abe nato nell’immaginazione di Yamagami potrebbe essere plausibile. Il reverendo Moon è stato il fondatore, nel 1954, della Chiesa dell’Unificazione, una setta basata su un’interpretazione peculiare della Bibbia e che proprio a Nara, dove si è svolto l’ultimo atto della vita di Abe, ha una propria sede. Il nonno di Abe, criminale di guerra di classe A per crimini perpetrati contro prigionieri di guerra (anche coreani vista l’occupazione del territorio coreano durante la seconda guerra mondiale) ma soprattutto primo ministro dal 1957, aveva preso contatti con la setta per avere un “cuneo” strategico in corea del Sud. Nella mente confusa di Yamagami, la figura del nonno dell’ex primo ministro nipponico e di Abe stesso potrebbero essersi sovrapposte, facendo di Abe il responsabile dello sfascio della famiglia dell’attentatore. Anche la particolare dottrina della setta, secondo la quale le disgrazie dell’individuo sono causate da colpe pregresse degli antenati, potrebbe aver spinto il già non equilibrato Yamagami a cercare vendetta.
Il problema è che di persone come Yamagami, in Giappone, non si sa quale sia l’esatto numero. Dal 2021 la salute mentale e la prevenzione dei suicidi sono diventati un tema di attualità, anche a seguito del propagarsi di disturbi depressivi e dissociativi associabili ai diversi lockdown. Inoltre ha un nome giapponese, hikikomori, la sindrome sempre più diffusa di ritiro sociale e autoisolamento, diffusa propria nel Sol Levante e stimata in mezzo milione circa di pazienti, prevalentemente uomini tra i 15 e i 39 anni. Ma i dati potrebbero essere sottostimati, perché possono passare anni prima della presa di coscienza e della richiesta di aiuto dei soggetti. La morale tradizionale ultraconservatrice, fondata sui cardini di onore e reputazione e addizionata al senso di fallimento che la crisi economica e i conseguenti licenziamenti hanno generato, ha portato a un aumento dei suicidi, con una “discriminazione di genere”: se infatti i suicidi tra gli uomini sono leggermente diminuiti, nel 2021 (ultimo dato pubblicato) quelli delle donne, cioè quelle tra di cittadini più propense ad essere licenziate o a lasciare il lavoro per occuparsi di attività di cura della famiglia, sono aumentati per il secondo anno di seguito. Nel Sol Levante secondo solo agli Stati Uniti tra i paesi del G7 quanto a tasso di suicidi, non è la prima volta che la follia di un singolo porta a tragedie collettive. E il caso di Abe non è nemmeno l’evento più tragico degli ultimi anni, considerando il numero di vittime. Solo nel 2019 un incendio doloso aveva ucciso 36 persone alla Kyoto Animation, innescato da un 41enne già noto per disturbi psichici e per un tentativo di rapina con arma bianca.
Quali che siano i progetti del governo giapponese, la salute mentale e la gestione dei rischi ad essa connessi dovrebbe essere al primo posto nella sua agenda. Soprattutto dopo il tragico epilogo della vita del suo ex premier Shinzo Abe.
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M5S e il gemito chiassoso di un partito in dissoluzione
Che cosa mai può determinare la caduta del Governo ad opera degli stellini è difficile vederlo
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Ucraina: la beffa di Wimbledon
Era, tutto sommato, uno spettacolo strano. La vincitrice del Ladies’ Singles per Wimbledon 2022 aveva tutte le credenziali che altrimenti le avrebbero garantito l’esclusione. Essendo nata in Russia, le testate giornalistiche britanniche hanno esaminato con cautela la decisione dell’All England Club di bandire i giocatori russi ma consentire a Elena Rybakina di giocare. Sky News [...]
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Biden ‘risposa’ l’Arabia Saudita … con la Cina nel letto
Gli USA pronti a un 'patto di cooperazione strategica per la difesa vincolante' in cambio una collaborazione tattica contro Russia e Cina nel breve periodo
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Chiedi chi era Angelo Guglielmi
Guglielmi, Direttore di Rai3 e molto altro
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La Cina è la prossima nella lista della NATO?
Il vertice dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) tenutosi a Madrid lo scorso giugno ha rafforzato la posizione storica della Russia come principale avversario del blocco, ma ha anche segnato altri importanti cambiamenti nella geopolitica globale. Sebbene tutti gli occhi fossero puntati sulla guerra in Ucraina e persino sul via libera della Turchia per [...]
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Cina: la trappola del debito per i Paesi BRI
E' facile vedere come il rapido abbassamento delle barriere commerciali possa minare le industrie locali nei Paesi BRI e far scattare la trappola del deficit commerciale
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L’agenda di Biden per il Medio Oriente aumenta i rischi di guerra
Il rafforzamento dei regimi repressivi e sconsiderati in Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti non è nell'interesse degli Stati Uniti, né promuoverà una maggiore stabilità nella regione, anzi
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Ucraina: Occidente militarista bypassando la democrazia
La guerra in Ucraina ha infranto l’immobilità della storia e ha costretto il mondo a muoversi verso tensioni politiche e geopolitiche. Alcuni Paesi sono stati persino costretti a riconsiderare le loro identità estere e di sicurezza, nonché il loro ruolo nelle relazioni internazionali. Finlandia e Svezia, ad esempio, sono tra i Paesi che si stanno [...]
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L’arma energetica di Putin: l’Europa si prepari al ricatto russo del gas
Da metà giugno, il produttore russo Gazprom ha ridotto i flussi di gas attraverso il corridoio Nord Stream 1 verso la Germania di circa il 60% delle quantità contrattuali giornaliere, spingendo il governo federale di Berlino ad alzare il livello di allarme per allertare (il secondo su tre livelli) e per prepararsi al peggio a [...]
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L’arma energetica di Putin: l’Europa deve essere pronta al ricatto russo del gas
Da metà giugno, il produttore russo Gazprom ha ridotto i flussi di gas attraverso il corridoio Nord Stream 1 verso la Germania di circa il 60% delle quantità contrattuali giornaliere, spingendo il governo federale di Berlino ad alzare il livello di allarme per allertare (il secondo su tre livelli) e per prepararsi al peggio a [...]
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Spazio: Copasir, molte buone intenzioni ma l’Italia ha bisogno di maggiori attenzioni
Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha approvato la ‘Relazione sul dominio aerospaziale quale nuova frontiera della competizione geopolitica’, un documento di sette capitoli stesi dopo 13 audizioni tra cui il Ministro per l’Innovazione Vittorio Colao, il Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana Giorgio Saccoccia, il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, Gen. di squadra aerea [...]
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In assenza di un divieto esplicito, le telecamere cinesi trovano il modo di restare in gara per gli appalti pubblici della videosorveglianza.
«L’ultima gara #Consip per la #videosorveglianza non mette divieti espliciti. In lizza ci sono anche impianti prodotti da #Dahua, colosso del Dragone. Che ha una strategia per affrontare gli eventuali paletti alla tecnologia made in China»
L'articolo di Raffaele #Angius e Luca #Zorloni su #Wired denuncia tutta l'incoerenza o l'ignoranza (o la malafede) di un apparato incapace di comprendere come si subisce l'egemonia tecnologica altrui.
wired.it/article/telecamere-ci…
Telecamere cinesi negli uffici pubblici, l'Italia chiude un occhio
L’ultima gara Consip per la videosorveglianza non mette divieti espliciti. In lizza ci sono anche impianti prodotti da Dahua, colosso del Dragone. Che ha una strategia per affrontare gli eventuali paletti alla tecnologia made in ChinaRaffaele Angius (Wired Italia)
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Ucraina: regioni occupate dalla Russia a rischio di infezioni ed epidemie
Circa il 20% dell’Ucraina è attualmente sotto l’occupazione russa. Insieme alle pressioni su questioni militari e sui diritti umani che questa situazione crea, l’invasione in corso della Russia ha anche prodotto una serie di sfide per la salute pubblica che richiedono un’urgente attenzione internazionale. Uno dei problemi principali che devono affrontare le autorità ucraine è [...]
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Gli americani non sono contenti della visita di Biden in Medio Oriente
L'attenzione alla sicurezza israeliana «non sembra aiutare Biden a vendere il suo viaggio»
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Collasso economico senza il gas russo in Europa - Contropiano
«Il piano italiano prevede che se la Russia dovesse sospendere in via definitiva le forniture di gas alla Ue (a cui l’anno scorso aveva assicurato il 44% del suo fabbisogno), il governo sarebbe costretto a far scattare la fase di emergenza. Secondo quanto riportato dal quotidiano La Repubblica, il piano prevede una serie di interventi che vanno dal “razionamento” del gas alle industrie energivore al maggior utilizzo delle centrali a carbone per la produzione di elettricità. Ma anche l’introduzione di politiche di austerity dei consumi: riscaldamento più contenuto, con tagli fino a due gradi della temperatura nelle abitazioni e negli uffici, risparmi sull’illuminazione pubblica, con orario ridotto di accensione dei lampioni sulle strade.
E l’emergenza durererebbe fino a quando il gas russo non sarà sostituito da forniture provenienti da altri Paesi produttori. Le previsioni più ottimistiche parlano del 2024, quelle più pessimistiche vanno oltre. Le sanzioni alla Russia si confermano una scelta suicida.»
Elie Kedourie – Nazionalismo
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Fulvio Ronchi: quattro mostre lasciate in eredità
Morto improvvisamente un creativo rigoroso figlio della Scuola grafica dell’Umanitaria. Grandi maestri, grandi esperienze, progetti da continuare
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LogoLogoLogoLogo THE QUEEN IS DEAD VOLUME 61 – INDUS VALLEY KINGS / MIRROR QUEEN / FATSO JETSON / DEEP SPACE MASK
Puntata psichedelica e di musica onirica. Si comincia con i newyorchesi Indus Valley Kings e il loro gran bel stoner metal. continuando con l'hard rock psichedelico venato di NWOBHM dei concittadini Mirror Queen. Ci spostiamo poi in California a Palm Desert da dove sono partiti i Fatso Jetson, qui catturati dal vivo in Italia nel 2013.
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 Il Ministro Patrizio Bianchi alla presentazione dei risultati #INVALSI2022
🔸 Protocollo d’intesa con Unione Nazionale Pro Loco d’Italia
🔸…
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Se questo è un uomo di Primo Levi
Dalla prefazione del ’47, dell’autore: A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, (…), allora, al termine della catena, sta il Lager.
iyezine.com/se-questo-e-un-uom…
Se questo è un uomo di Primo Levi
Se questo è un uomo di Primo Levi : Dalla prefazione del ’47, dell’autore: A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”.In Your Eyes ezine
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Asini
Guardi la scuola e vedi l’abisso. Non si tratta solo di strutture, organizzazione o spesa, perché l’abisso più preoccupante è quello morale. Ciò che inquieta non è la politica parolaia, a sua volta ricettacolo di titolati senza formazione e non titolati dotati di furbizia e insulsa logorrea. A inquietare è lo sguardo rivolto verso le famiglie, verso gli studenti, verso quanti stanno ricevendone un danno enorme e sembrano gradirlo come un dono.
Una asineria dimentica di Lucignolo, dimentica del riscatto del suo amico, dimentica del dolore. Ammesso e non concesso si sia mai letto il libro, si sappia della morte che coglie il primo e della degradazione cui è destinato il secondo. I più son paghi del cartone animato, senza insegnamento, senza morale, senza sacrificio. E il risultato è qui, in questi numeri che condiscono il mondo dei diritti senza doveri.
Leggiamoli, ma non prendiamoci in giro: il Covid non c’entra nulla. Due anni di scuola frastagliata, di digitale paleolitico, hanno aggravato le disparità. Ma di poco, di un nulla. Il problema c’era prima ed è ancora tutto lì.
In questi giorni i maturandi ottengono la loro licenza si scuola media superiore. Saranno promossi in massa, come è tradizione, da lustri. Ma i dati Invalsi dicono che la metà di loro dovrebbe essere bocciata, perché incapaci di compitare, di calcolare per non dire di esprimersi o capire una lingua straniera. Il loro titolo è la certificazione di una presa in giro. Ma questo è nulla, il peggio è ancora nascosto dietro il macigno della metà analfabeta.
Solo il 52% è in grado di leggere e capire l’italiano. Ma quella è la media nazionale. È il 63% nel Nord Est e Nord Ovest; il 51 al Centro; il 40 al Sud; il 38 a Sud e Isole. Qui il 62% avrà un titolo senza sapere leggere e capire. Solo il 50% sa decentemente far di conto, ma è la media nazionale. 63 nel Nord Ovest; 66 nel Nord Est; 48 al Centro; 37 al Sud; 33 Sud e Isole. E se disaggregate quei dati non solo per macro aree, ma andando provincia per provincia e città per città, trovate sempre lo stesso risultato: gli svantaggi culturali, sociale ed economici si accrescono con la scuola anziché diminuire.
Chi è in vantaggio lo sarà di più, chi è indietro anche. Se solo il 38% è in grado di ascoltare e capire l’inglese (elementare) state sicuri che la pressoché totalità di quella minoranza è composta da ragazzi le cui famiglie li hanno spediti all’estero in vacanza. Questo è il feroce classismo della scuola pubblica italiana, generato dall’assenza di meritocrazia e selettività. Che manca fra i banchi, ma anche fra le cattedre.
Serve a nulla spendere di più o assumere di più, devi capovolgere quel che alla scuola chiedi: che chi vale vada avanti, non che si promuovano tutti. Abbiamo fior d’insegnanti bravi e dediti al loro lavoro, ma non li distinguiamo dagli ignoranti incattedrati e solitamente anche assenti. Abbiamo fior di ragazzi di valore, ma se partono svantaggiati li lasciamo dove si trovano.
Ma, ed è qui la bancarotta morale, non sono le famiglie a reclamare formazione e selezione, non sono gli studenti a pretendere insegnanti all’altezza. Le aspettative puntano alla promozione senza valorizzazione. I genitori hanno smesso di fare i genitori e sono divenuti gli amici o i nonni molli dei figli. Ovvio che non si deve generalizzare, ma è sicuro che quei risultati portano a un generale decadimento, solo temporaneamente anestetizzato dalla spesa pubblica improduttiva e assistenzialista.
Dovremmo mettere quei numeri dentro una sola banca dati, controllare quali docenti migliorano la condizione dei discenti e promuoverli, pagarli di più, aprire una concorrenza fra loro e mandare a casa gli altri. Perché il loro contratto sicuro non vale la sicura fregatura a un ragazzo lasciato ignorante. Dovremmo usare quei dati per indirizzare i soldi, che è poi il solo modo per rendere evidente che l’ignoranza impoverisce. Li usiamo per contare gli asini, ragliando al punto da dimenticarcene in poche ore.
L'articolo Asini proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Smaltire
Il provvedimento non ha fatto notizia, non ha destato clamore, magari pensando che si tratti dell’ennesimo codicillo per maniaci del diritto amministrativo. Che, di suo, assopisce il pubblico. Ma è una colpevole sottovalutazione, perché dietro l’apparente tecnicismo si cela un mondo e si dischiude una prospettiva.
Prima particolarità: s’interviene per decreto legge. In questo caso varato dal Consiglio dei Ministri di giovedì 7 luglio. Non una novità, oramai si legifera quasi solo per decreto legge. Solo che è una stortura, una anomalia, nonché una responsabilità di forze politiche che dei provvedimenti di legge fanno oggetto di propagande tribali, ma raramente di decisioni finali. Il decreto in questione interviene su un tema giurisdizionale, il che amplifica l’anomalia.
Da noi qualsiasi atto amministrativo è appellabile al Tribunale amministrativo regionale, che può decidere di sospenderlo in attesa di discuterlo. Non annoiatevi, è anche divertente: la settimana scorsa il Tar pugliese aveva sospeso la realizzazione di un nuovo nodo ferroviario, perché l’apposito comitato locale aveva lamentato possibili danni a taluni ulivi e carrubi.
Al prossimo frontale sul binario unico nessuno se ne ricorderà. Ma già alla fine del 2021, sempre per decreto, il governo aveva avvertito che per le gare relative ai fondi europei, al Pnrr, il Tar avrebbe dovuto fare in fretta. Mica si possono perdere soldi perché ci vuol tempo a decidere! Giusto. Giovedì è andato oltre: neanche li si può perdere per i ricorsi amministrativi sui lavori legati al Pnrr, quindi, come per le gare, fate in fretta: prima udienza utile dopo trenta giorni.
Al Tar, però, non langue solo l’Italia del Pnrr, ci s’impantana tutta. E intervenire per decreto su una questione di giustizia ha dell’ardito. Siccome, però, sappiamo che è necessario, siccome il sistema non funziona: amen. Ma, allora, procediamo anche oltre.
Solo a Roma, che annega nel pattume, mandare fuori l’indifferenziata che non si riesce a trattare costa 180 milioni l’anno. Nei termovalorizzatori, che non ci sono, si smaltisce il 6% della spazzatura, contro il 60 di Parigi, il 58 di Londra e il 46 di Berlino. L’Italia è costantemente sotto procedura d’infrazione per l’inciviltà delle discariche.
Usiamo i sistemi più dannosi per l’ambiente e più costosi per i cittadini (che non evadono). Non è neanche una generica vergogna, ma una puteolente schifezza. E non prendiamoci in giro: non si è in grado di provvedere, mancando coraggio, capacità e inceppandosi tutto nei ricorsi. E allora che eccezione sia e facciamola finita: commissario unico per la monnezza, decisioni centralizzate, soldi non distribuiti, ma investiti. E se qualcuno ricorre al Tar: si sbrighi, un mese o viene smaltito.
Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti, ricorda quel che qui abbiamo tante volte scritto: parliamo di siccità, ma intanto i nostri acquedotti perdono il 42% dell’acqua che trasportano, facendone scempio e spreco, contro l’8% tedesco; la materia è gestita da una giungla di 2.500 operatori pubblici incapaci di investire, talché a quello dedichiamo la metà della media europea.
Un letterale colabrodo senza speranza. Anche qui: basta. S’è santificata la spartitocrazia municipalizzata con apposito referendum demagogico, è ora di raccontare la verità agli italiani, responsabili dell’abboccare a tutte le minchionerie. Commissario unico etc. etc..
So benissimo che lo stato d’eccezione porta male, che il diritto non può essere storto senza conseguenze profonde e il mercato violentato senza generare bastardi, ma il fallimento del tutto fermo in tribunale è talmente evidente da far dire: non sblocchiamo solo il Pnrr (che è già tanto), disincagliamo l’Italia e aiutiamola a smaltire la lunga sbornia di costosa incapacità. E facciamolo ora, prima che tutto torni nelle mani di falso bipolarismo e vera inconcludenza.
L'articolo Smaltire proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Casino per soldi veri in Italia con il ritorno al giocatore migliore
Giocare al casinò online è un’attività molto diffusa che attira giocatori di ogni tipo. Per quanto sia innegabile che il gioco d’azzardo procura forti emozioni e divertimento anche senza promettere premi in denaro, quando si ha la possibilità di portare a casa soldi è indubbiamente più divertente. Per questo motivo, quando si sceglie un casino [...]
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Le Grandi Dimissioni, tra favola e realtà
"Non è difficile, in realtà, capire che la favoletta messa in giro da Repubblica e dal Sole24Ore rientra nel solito racconto di un mondo parallelo in cui i giovani non vogliono il posto fisso, la stabilità e il contratto a tempo indeterminato. I giovani di oggi sarebbero dunque dinamici e propensi al cambiamento, proprio per questo presentano le dimissioni quando un mercato del lavoro più flessibile come quello attuale lo consente. Questa storiella è dunque utile ai padroncini italiani per dire che la precarietà è apprezzata dai lavoratori, che avrebbero così la possibilità di cambiare di tanto in tanto, perseguendo le proprie passioni e conciliando meglio la propria attività lavorativa con la propria vita privata, anche accettando retribuzioni più basse! Come abbiamo argomentato, una marea di panzane messe in fila."
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INTERVISTA. Tony Abu Akleh: «Gli Usa hanno tradito Shireen. Vogliamo dirlo a Biden»
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 luglio 2022 – Si chiama Anton ma per tutti è Tony. E da due mesi è il portavoce della sua famiglia, Abu Akleh, che non si rassegna e chiede giustizia per sua sorella Shireen, nota giornalista palestinese, con passaporto statunitense, uccisa sul colpo due mesi fa, l’11 maggio, da un proiettile mentre per la sua emittente, Al Jazeera, seguiva un’incursione di reparti speciali dell’esercito israeliano a Jenin. Tony rispondendo alle nostre domande non nasconde il suo stato d’animo, un misto di frustrazione e delusione. «Le inchieste svolte dalla Cnn e altri giornali americani – ci dice – come dall’Autorità nazionale palestinese e dall’Onu non lasciano dubbi: dicono tutte che Shireen è stata uccisa da spari giunti dagli israeliani. E a nostro avviso sono stati intenzionali. Ci aspettavamo perciò che gli Stati uniti, di cui siamo cittadini, affermassero in maniera netta e chiara che mia sorella, una civile innocente, una giornalista, è stata colpita da spari israeliani mentre svolgeva il suo lavoro di informazione e che la sua morte è un crimine non può restare impunito. E invece…».
Tony non ha peli sulla lingua: «quella che hanno svolto una settimana fa gli esperti americani – spiega – sul proiettile che ha ucciso Shireen non è stata una perizia ma un’operazione politica. Non hanno riferito i risultati di una indagine tecnica, come ci aspettavamo. Piuttosto hanno emesso un comunicato politico per salvaguardare Israele e gli interessi americani. Ma noi non ci rassegneremo». Tony ci ripete che gli Abu Akleh faranno il possibile per ottenere un’indagine internazionale. E che sono intenzionati ad incontrare Joe Biden quando la prossima settimana sarà in Israele e nei Territori palestinesi occupati. «L’ambasciata Usa tace, non abbiamo più avuto contatti dal giorno precedente a quello della cosiddetta perizia» prosegue «per gli Stati uniti la faccenda è chiusa, per noi no! Shireen avrà giustizia».
Gli Abu Akleh hanno indirizzato una lettera all’Amministrazione Biden in cui definiscono l’uccisione di Shireen non un incidente causato da un proiettile vagante, come sostengono Israele e gli Stati uniti, bensì un «omicidio extragiudiziale» eseguito da soldati israeliani. Rivolgendosi al presidente americano, aggiungono che «la sua Amministrazione ha completamente fallito nel soddisfare le aspettative minime di una famiglia in lutto…gli Stati uniti si sono mossi per la cancellazione di qualsiasi illecito da parte delle forze israeliane» e non hanno condotto proprie indagini ma si sono limitati a «riassumere e adottare l’indagine delle autorità israeliane». «La sua Amministrazione – concludono – ha ritenuto necessario perpetuare la conclusione infondata e dannosa che l’omicidio non sia stato intenzionale, scegliendo apparentemente l’opportunità politica rispetto alla responsabilità effettiva per l’uccisione di un cittadino statunitense da parte di un governo straniero». Alla fine della lettera chiedono a Biden di incontrarli.
Non si può escludere del tutto che questo incontro possa avvenire. Forse non sarà più di una stretta di mano e qualche frase di cordoglio da parte del presidente Usa. Ma la possibilità è remota. Biden arriverà mercoledì in Israele non per accusarlo dell’omicidio di una giornalista ma per rassicurarlo della protezione militare americana e dell’alleanza con Washington. Non solo. Potrebbe avere in tasca un’intesa preliminare per la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’Arabia saudita. E dovrebbe dare la sua benedizione al programma di difesa aerea integrata tra Israele e i suoi alleati arabi contro l’Iran. Proprio con Teheran al centro dei suoi pensieri, Biden visiterà alcuni apparati di sicurezza israeliani presso la base aerea di Palmachim, una batteria missilistica Iron Dome, il sistema di difesa laser Iron Beam.
Venerdì incontrerà a Betlemme il presidente dell’Anp Abu Mazen al quale non garantirà alcun appoggio politico ma solo un pacchetto di misure economiche e qualche gesto simbolico. Biden quindi andrà all’aeroporto Ben Gurion da dove partirà per l’Arabia saudita dove parteciperà al vertice del GCC+3 a Gedda con i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo: Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati insieme a Iraq, Egitto e Giordania. Pagine Esteri
L'articolo INTERVISTA. Tony Abu Akleh: «Gli Usa hanno tradito Shireen. Vogliamo dirlo a Biden» proviene da Pagine Esteri.
EGITTO. Il “Dialogo nazionale” secondo il dittatore Al Sisi
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 11 luglio 2022 – Il 5 luglio scorso in Egitto è stato ufficialmente inaugurato il cosiddetto “dialogo nazionale”. Da un’idea del Presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, nasce una piattaforma pubblica che accoglierà rappresentanti della società civile e della politica all’interno della quale si potranno discutere i problemi politici, economici e sociali del Paese. L’obiettivo, secondo le intenzioni dichiarate da Al Sisi, è riaprire un dialogo con i partiti di opposizione e ricevere da loro critiche e proposte di riforme per governare l’Egitto. Una drastica “riforma politica” in quello che Al Sisi ha battezzato come “l’anno della società civile”. “Vogliamo che l’opposizione critichi il nostro lavoro e dica ciò che gli piace, ed è mio dovere rispondere”, così lo ha descritto il suo ideatore.
La proposta era stata lanciata dal Presidente egiziano nell’aprile scorso, nel bel mezzo del banchetto annuale dell’”Iftar della famiglia egiziana”. Durante il pranzo, Al Sisi aveva rivolto un appello a tutti i partiti politici e le correnti giovanili del Paese – eccezion fatta per i Fratelli Musulmani, pochi giorni prima confermati da un tribunale egiziano nella lista dei gruppi terroristici per altri cinque anni – a elaborare insieme, attraverso un dialogo tra maggioranza e opposizione, un nuovo “piano d’azione nazionale”. L’Egitto, aveva dichiarato il Presidente, “accoglie tutti e le differenze d’opinione non rovinano la causa della Nazione”.
Una svolta sotto i migliori auspici quella che aveva annunciato Al Sisi in primavera e che adesso sembrerebbe prendere forma. La riapertura al dialogo ha richiesto un’organizzazione scrupolosa. Il risultato è un apparato complesso in cui le diverse voci del Paese saranno chiamate a confrontarsi secondo le regole di uno Statuto di 19 articoli.
A regolare il dialogo sarà la National Training Academy, un’istituzione di formazione politica diretta dallo stesso Al Sisi. Gli ordini del giorno saranno stabiliti dal coordinatore generale del dialogo nazionale. Per ricoprire l’incarico è stato nominato il capo del sindacato dei giornalisti egiziani, Diaa Rashwan. Una scelta accolta felicemente da molti commentatori in Egitto come prova di un progetto serio e neutrale. E’ stato Rashwan a eleggere, dopo varie consultazioni politiche, i 19 membri del consiglio del dialogo nazionale: tra di loro senatori, avvocati, giornalisti, femministe. Il loro compito sarà quello di selezionare le proposte da portare direttamente alle orecchie di Al Sisi. Per il dialogo nazionale è necessaria, infine, una segreteria tecnica, presieduta da Mahmoud Fawzy, già segretario generale del governo del Consiglio supremo per la regolamentazione dei media.
Il fulcro di questa raffinata organizzazione saranno, di fatto, le sessioni di dibattito pubblico. Queste si terranno presso la National Training Academy di Al Sisi nelle date stabilite dal coordinatore generale. Ufficialmente, tutti sono invitati a candidarsi al dialogo e a partecipare alle sessioni di discussione. Sul sito della Conferenza Nazionale della Gioventù è, infatti, disponibile un modulo che i cittadini possono compilare per registrarsi al dialogo: finora, sarebbero pervenute oltre 700.000 candidature. Non è chiaro, tuttavia, quanti comuni cittadini prenderanno parte al dialogo, e in quali modalità.
Diverse sono state le reazioni dei partiti a questa improvvisa apertura al dialogo con le opposizioni. Alcune formazioni politiche, tra le quali Al-Wafd e il National Progressive Unionist Party, hanno aderito entusiasticamente al progetto. Secondo l’ex candidato alla presidenza del governo, Hamdeen Sabahi, si tratta di un passo avanti: “Il dialogo può consentire il ripristino della pluralità di voci in Egitto, di sapere come essere d’accordo e come dissentire, anche se, affinché il dialogo abbia successo, deve essere organizzato dalla Presidenza”, ha dichiarato a The Africa Report.
Tarek Fahmy, professore di scienze politiche all’Università del Cairo, ha detto ad Al Monitor: “Ci sono diverse condizioni che devono essere soddisfatte affinché il dialogo nazionale possa raccogliere i suoi frutti. Il principale tra questi è che la questione venga presa sul serio”. Attraverso “la partecipazione di tutte le forze politiche, ad eccezione dei Fratelli musulmani”, “il dialogo nazionale alla fine avrà luogo ed è importante che ci siano meccanismi esecutivi affinché si svolga senza intoppi”, secondo lo studioso.
Più cauta è stata la risposta di altri partiti. Dopo diverse consultazioni avvenute nel mese di maggio, serie criticità sono state avanzate dal Movimento Civile Democratico, che riunisce al suo interno sette partiti di opposizione, che ha comunque accettato l’invito al dialogo. “Negli ultimi otto anni, le voci dei partiti politici liberali” ha dichiarato ad Al Monitor il giornalista Khaled Dawoud, ex segretario generale del Partito della Costituzione liberale, “Sono stati messi a tacere in seguito alla detenzione di un numero significativo dei loro membri per le loro opinioni politiche e ideologiche; è giunto il momento di consentire ai partiti liberali di impegnarsi politicamente”.
Non tutti si sono lasciati trascinare dall’entusiasmo per il dialogo politico in Egitto. E’ un’impressione comune, anche al di fuori dei confini egiziani, che le intenzioni reali di Al Sisi non nascano dall’improvviso desiderio di trasformare il suo regime autoritario in un governo democratico. Secondo molti studiosi e analisti, il “nuovo corso” di dialogo politico che la Presidenza del Cairo sembra voler aprire deriva piuttosto dal tentativo di smacchiarsi la coscienza dei propri crimini davanti alla comunità internazionale. La svolta avviene, del resto, in un periodo di estrema difficoltà e di bisogno per l’Egitto, prostrato dalla crisi economica, dal rincaro di materie prime e carburante. Un’immagine edulcorata potrebbe giovare nelle relazioni internazionali – come l’impressione di una distensione del regime potrebbe alleggerire gli animi di un popolo impoverito e arrabbiato.
“Il governo vuole fare un carnevale per mostrare al mondo che abbiamo una democrazia, mentre il regime ha le sue impronte su molti crimini contro il popolo e continua ad arrestare, torturare e detenere egiziani“, ha dichiarato a The Africa Report un vecchio componente dei Socialisti Rivoluzionari, tra i partiti che guidarono la rivoluzione del 2011.
Proprio sulla questione dei detenuti politici in Egitto, il Movimento civile democratico e diverse organizzazioni per i diritti umani, tra le quali Amnesty International e Human Rights Watch, hanno iniziato a fare pressione all’indomani dell’annuncio dell’apertura al dialogo da parte di Al Sisi. Sono, infatti, decine di migliaia i prigionieri per reati d’opinione attualmente rinchiusi nelle carceri egiziane.
Le proposte che sono state redatte dai partiti di opposizione nel loro contenuto e nella ridondanza danno un’idea della situazione sociale e politica e del grado di esasperazione raggiunto nel Paese. Tra i suggerimenti, o meglio gli spunti di discussione, si legge: “Dovrebbe essere definito un calendario per il lavoro della Commissione della grazia, insieme all’annuncio di una sede della Commissione dove le famiglie possano presentare le loro domande di liberazione dei propri cari”; “Amnistia per tutti i casi politici, come quelli accusati di pubblicazione di notizie false e uso improprio dei social media, manifestazioni e raduni”; “Prevenire e criminalizzare l’arresto delle famiglie dei ricercati come strumento di ricatto e vendetta, insieme al loro rilascio immediato”; “Amnistia per i detenuti condannati in un tribunale militare con accuse politiche”; “Indagine su episodi di tortura e processo di valutazione delle sentenze giudiziarie emesse dal 24 luglio 2013 in tutti i casi politici”; “Fine della revoca della cittadinanza egiziana come strumento punitivo per i presunti dissidenti”. Insieme a questi punti, anche proposte di riforme economiche, democratiche e altri aspetti relativi alla tutela dei diritti umani in Egitto. Richieste che recano in sé drammatiche denunce – e che adesso, alla luce del nuovo clima di “dialogo politico”, il Presidente egiziano apparentemente non potrà ignorare nella sua agenda.
Anche Reporters Sans Frontières (RSF) ha colto l’occasione dell’annuncio del dialogo politico per fare pressione sul governo Al Sisi: “RSF chiede al governo egiziano di sbloccare i siti web di notizie e di rilasciare i giornalisti incarcerati nel “dialogo nazionale” che inizia oggi”, si legge in un comunicato del 5 luglio sul sito dell’organizzazione. “Questo dialogo nazionale deve portare a risultati concreti, compreso lo sblocco dei siti di notizie e il rilascio di tutti i giornalisti e blogger”, secondo Sabrina Bennoui, capo dell’ufficio Medio Oriente di RSF. Si intuisce scetticismo da parte di RSF, che, ripercorrendo i primi nove mesi del piano quinquennale annunciato nel settembre 2021 da Al Sisi come “Strategia per i diritti umani”, precisa: “Da allora, cinque giornalisti sono stati rilasciati e uno è stato messo in detenzione, con il risultato che il numero di giornalisti detenuti in Egitto è ora pari a 22. I tribunali egiziani hanno anche denunciato due blogger, Mohamed Oxygen e Alaa Abdel Fattah, e due giornalisti, Hisham Fouad e Alia Awad”. Dati che ancora non permettono di concedere molta fiducia al governo del Cairo in fatto di libertà d’espressione.
Perplessità sono state espresse anche da altre organizzazioni di attivisti. Ferma la denuncia di Human Rights Watch: “L’Egitto sotto il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi sta vivendo una delle peggiori crisi dei diritti umani da molti decenni. Il governo ha cercato di mascherare gli abusi ma non ha preso misure serie per affrontare la crisi. Decine di migliaia di critici del governo, inclusi giornalisti, attivisti pacifici e difensori dei diritti umani, rimangono incarcerati con accuse abusive di “terrorismo”, molti in una lunga detenzione preventiva. Le autorità molestano e trattengono i parenti dei dissidenti all’estero”.
Resta, dunque, da aspettare e stare a vedere in che cosa si tradurrà questo “dialogo nazionale” voluto da Al Sisi e valutare che non sia, come nei presagi del dissidente anonimo dei Socialisti Rivoluzionari, soltanto “un carnevale”, una celebrazione della farsa e del grottesco. Proprio nei giorni dell’apertura del “dialogo”, arriva l’accusa alle autorità egiziane da parte di Amnesty e Human Rights Watch di aver manomesso le indagini sulla morte del ricercatore Ayman Hadhoud, 48 anni, secondo le organizzazioni torturato e ucciso in carcere. E’ del 7 luglio, inoltre, la notizia dell’arresto della blogger e attivista Aya Kamal el-Din, prelevata dalla propria abitazione nella giornata di domenica e, secondo quanto riferito dal suo avvocato, comparsa in una stazione di polizia del Cairo solo due giorni dopo. Un’utente egiziana ha commentato sarcasticamente la notizia sui social scrivendo che l’arresto di Aya Kamal el-Din era un passo necessario ad “aprire la via del dialogo nazionale”.
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giuglionasi
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