Digital Service Package: come regolare le piattaforme digitali?
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Un’Ucraina forte è la migliore soluzione al problema europeo della Russia
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Il Cile al voto per una delle costituzioni più avanzate del mondo
di Emanuele Profumi* –
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – Da Santiago del Cile. Il 4 di Settembre ci sarà uno dei Plebisciti più importanti della storia del Cile. Come quando nell’Ottobre del 1988 il 56% dei cileni decise di impedire a Pinochet di restare al potere sino al 1997, o quando, solo due anni fa, l’80% decideva di archiviare la Costituzione forgiata in dittatura e applicata paradossalmente con il ritorno alla democrazia negli anni ‘90. Questa volta si tratta di approvare o rifiutare il lavoro che per un anno hanno svolto i 155 padri e madri costituenti eletti nella “Convencion Constitucional” sulla base di liste civiche, in maggioranza indipendenti rispetto ai partiti politici ed espressione di un largo consenso territoriale.
Il nuovo progetto di costituzione ha tutte le carte in regola per essere una delle Carte Magne più avanzate del mondo in materia di diritti umani, parità di genere, diritti della natura, ordinamento plurinazionale, come si può leggere sin dal primo articolo: “Il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”. L’impianto complessivo è volto alla creazione di una nuova forma di Welfare State, dove l’educazione, la sanità e il sistema pensionistico diventino pubblici e di qualità, arricchito da nuovi diritti, nati dalle ultime grandi questioni epocali sostenute da profondi e ampli movimenti della società. Sopratutto la crisi ecologica e la richiesta di una reale parità di genere. Si introducono, infatti, per esempio, il diritto all’eguaglianza di genere (art.25) e il diritto all’aborto (art. 61), oppure il diritto alla giustizia ambientale (art. 108) e quello ai beni comuni naturali (art. 134-39).
Tuttavia, ormai da mesi, tutti i sondaggi di opinione indicano che la maggioranza della popolazione non accetta la nuova proposta. Forse per paura, forse per incomprensione, forse per manipolazione mediatica o perché semplicemente si sta proponendo un nuovo patto sociale e politico troppo innovativo (il famoso passo più lungo della gamba). Fatto sta che, ad oggi, la vittoria del “Rechazo” è un reale problema per chi vuole fortemente abbandonare l’eredità velenosa di Pinochet, ossia la sua costituzione, croce senza delizia degli ultimi trent’anni.
Nonostante tutto, Maria Elisa Quinteros Cáceres, medico e ricercatrice universitaria eletta come indipendente nel distretto 17 (Maule Nord), e diventata la seconda “Presidenta” della Convencion Constitucional dopo la mapuche Elisa Loncon, quando la incontriamo è pacata e tranquilla. Sicura della bontà del lavoro svolto e convinta che la popolazione cilena sarà in grado di comprendere anche quello che, sino ad oggi, sembra generare maggiore avversione.
Maria Elisa Quinteros Cáceres
Michelle Bachelet (Presidente dal 2014 al 2018, ndr), ha messo in piedi una “Riforma costituzionale partecipata” a cui hanno aderito attivamente 220 mila persone in tutto il Paese. Niente di paragonabile ai quasi due milioni che complessivamente hanno partecipato alla scrittura della nuova Carta Magna. Non le sembra, in ogni caso, che quella riforma abbia aiutato l’attuale processo costituente?
Credo di sì, sebbene quel processo sia stato guidato principalmente da alcuni gruppi sociali. Non c’è stata una vera e propria partecipazione di massa. È stato espressione di una specie di élite politica, che aveva accesso ad internet. Gli accademici, come me, hanno partecipato molto, così come molti dirigenti delle organizzazioni sociali e sindacali. La Presidenta non ha avuto neanche la possibilità di inviare in tempo i risultati di quella riforma, e non c’è stata una vera e propria rappresentanza di tutti i settori della società. Tra l’altro, per lei era molto complicato poterla implementare per via della composizione delle forze parlamentari: nonostante avesse appoggio popolare, non aveva la forza politica per poterla sostenere. Detto questo, credo che è stata molto importante, e va considerata il preambolo di quello che alla fine è successo, e in cui ancora ci troviamo.
Sembra che, dopo l’inizio delle grandi manifestazioni dell’Estallido Social del 2019, fonte principale di tutto il nuovo processo costituente, sono stati creati dei “Cabildos” (Consigli territoriali, ndr), dove, principalmente, sorge con forza la richiesta di una nuova costituzione. Non è così?
Dopo i primi momenti, in cui abbiamo vissuto una specie di shock, in cui non si sapeva bene perché stavamo manifestando e perché lo facevamo tutti giorni, e non c’era nessun tipo di leader, maschile o femminile, perché era un movimento acefalo, con il passare dei giorni, in ogni città del Paese si cominciano a creare dei dibattiti pubblici nei Cabildos. Vivo a tre ore da Santiago, e nella mia città è stata la federazione degli studenti a organizzarli. Molte persone vi parteciparono, e proprio loro hanno riassunto le conclusioni del dibattito pubblico. Tuttavia, è a partire dalle marce che si è cominciato a parlare della necessità di una nuova costituzione. Progressivamente è risultato chiaro che quella era la richiesta più forte che si stava generando nelle manifestazioni di protesta.
Lei è stata una delle principali rappresentanti della Convencion Constitucional, ci potrebbe spiegare in poche parole perché è così importante approvare il nuovo testo costituzionale?
Storicamente è molto importante, perché in Cile esiste ancora una costituzione che ha un’origine illegittima, dato che è stata scritta quando ancora c’era la dittatura. Ed è stata imposta con la forza al popolo, scritta da soli uomini, scelti personalmente da Pinochet, senza alcuna forma di rappresentanza e priva di qualsiasi prospettiva democratica. Una costituzione che si concentra principalmente sull’acquisizione di un modello economico che perde di vista qualsiasi forma di umanità, e i diritti fondamentali che invece avevano altre costituzioni precedenti. La nuova costituzione, al contrario, è la prima ad essere stata scritta grazie ad un processo democratico, scelto dalla cittadinanza, con una rappresentanza paritaria di donne, scranni riservati, e con la presenza di cittadini indipendenti dai partiti. Inoltre, è molto importante anche dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità di base della popolazione. Nel 2019 abbiamo manifestato pacificamente per chiedere dei miglioramenti fondamentali della nostra condizione di vita, ossia per il rispetto dei diritti sociali, assenti nell’impianto giuridico della vecchia costituzione, tutta concentrata sulle libertà e che, alla fine, ha portato allo sviluppo di una società segnata da una terribile diseguaglianza sociale. Nonostante il Cile sia un Paese in cui ci sono dei redditi molto elevanti, la diseguaglianza è abissale. Tutto ciò impone necessariamente un cambio.
Nella vostra proposta costituzionale emergono alcune importanti novità storiche. Secondo lei quali sono le più rilevanti?
Indipendentemente dal risultato del 4 di Settembre, che ovviamente spero sia positivo, se lo vediamo come un processo storico, il fatto che la popolazione si è riunita a parlare di politica, è qualcosa che non ha precedenti nella storia della Post-Dittatura. Penso che questo ci cambierà enormemente come società. La società si sta rendendo conto che, quando ci riuniamo, uomini e donne, il potere è nostro, ce lo abbiamo noi. Anche se, va sempre ricordato che il costo di tutto questo è stato molto alto, vista la tremenda violazione dei diritti umani che abbiamo subito durante tutto questo percorso. Ciò che è maggiormente rilevante, quindi, è questa partecipazione popolare insieme alla consacrazione dell’articolo 1. Il cuore della proposta è quello di trasformare uno Stato assente in uno “Stato sociale e democratico di diritto”. Sappiamo bene che è un cammino lungo, che vi si dovrà arrivare, e che non è il risultato di una magia. Ma abbiamo altrettanto chiaramente la speranza che l’unione popolare che si è creata, ed è presente, la possiamo mantenere nel tempo e usarla per incidere a diversi livelli. Per esempio, nel mio caso, come indipendente, lo potrò fare sia a livello dell’organizzazione sociale sia a livello dell’Università, anche se non a livello della politica dei partiti. La novità di questa nuova costituzione, non a caso, è che non teme il popolo che l’ha proposta. A differenza della costituzione del 1980, ancora vigente, che non vuole che il popolo si impegni e si interessi degli affari pubblici, per garantire una “democrazia sorvegliata”. La nostra costituzione, invece, sostiene lo spazio della partecipazione. Non solo nella forma del controllo politico, ma dal punto di vista della buona fede delle proposte che arrivano dalla cittadinanza. Perché anche ai cittadini e alle cittadine comuni possono sorgere delle buone idee politiche, quando ci riuniamo. Inoltre, anche il tema della parità di genere è nuovo nel mondo. Sicuramente frutto della sensibilizzazione femminista, e del lavoro de “Lastesis” (gruppo cileno femminista che fondò la canzone “Un violador en tu camino”, diventata virale nel mondo, ndr). Oltre a questo sicuramente è rilevante la decentralizzazione regionale e la preoccupazione per l’ambiente, perché nel nuovo testo, finalmente, si riconosce che dipendiamo dalla natura. Questi sono i principali aspetti della nuova Carta, come viene ben sintetizzato dall’articolo 1.
Mi sembra che lo stesso si possa dire della centralità che rivestono i diritti umani, non è così?
Sì. Perché è parte della nostra storia. Prima di tutto dato quanto successo con i popoli originari, poi con la dittatura, e, in ultimo, con la repressione dei giovani manifestanti del 2019. I diritti umani saranno al centro dello Stato e del suo “che fare”. Come si vede chiaramente per quanto riguarda la formazione delle forze di sicurezza, interne ed esterne: i diritti umani sono al centro della formazione delle forze di polizia e delle forze armate. Tutto questo è il frutto di ciò che abbiamo vissuto. Credo che le costituzioni siano il riflesso di quello che una società è, e per questo per la società cilena è stato importante poter implementare questo tema.
La “defensoria del pueblo” (istituzione autonoma dallo Stato che servirà a sanzionare lo Stato e i privati che si macchieranno di crimini contro i diritti umani, ndr) e la “defensoria de la naturaleza” (istituzione autonoma che farà lo stesso in relazione ai diritti della natura e ai diritti ambientali), mi sembra siano altre due novità degne di nota, non trova?
Certo. Per fare in modo che quei diritti non restino solo sulla carta, abbiamo dovuto pensare a istituzioni in grado di garantirli. Oltre alle modifiche che abbiamo apportato al sistema giudiziario, con queste due istituzioni sappiamo ora a chi ci possiamo rivolgere in caso di problemi. Perché attualmente, come cittadini, “facciamo rimbalzare la palla”, come diciamo qui (giriamo come trottole, ndr), ossia chiediamo alle istituzioni di intervenire, e queste ci rimandano sempre a qualche altra istituzione, senza poter concludere nulla. Nessuna ci sostiene veramente. Tra l’altro, siccome è un processo economicamente dispendioso, alla fine molti si arrendono. Non hanno la capacità economica per riuscire a fare giustizia. Queste innovazioni garantiranno quei diritti fondamentali.
Lei pensa che grazie al nuovo testo si potranno finalmente abbandonare i frutti velenosi del patto Post-dittatoriale? Mi riferisco in particolare all’economia neoliberista e allo Stato repressivo, che sono stati al centro delle proteste dell’Estallido Social.
La costituzione è solo un inizio. Per rendere reale quanto c’è scritto dipende moltissimo da cosa farà la classe politica e da cosa faremo noi cittadini. Innanzitutto ciò dipenderà se riusciremo a lasciarci alle spalle l’idea che la politica è negativa, perché, secondo la mia percezione, la maggioranza del popolo cileno si definisce come a-politico. Si dice spesso: “Non voglio entrare in questioni politiche”, “non mi interessa”. Ma tutto ciò sta cambiando, anche se è un cambiamento lento. Per poter arrivare a fare quello che lei mi sta domandando, dovranno succedere un paio di cose: prima di tutto che esista una connessione tra la nostra classe politica e la gente, la base. Basti ricordare che pochissime persone militano nei partiti e che esiste una grande scollamento tra la base e il vertice, e che questo è parte della profonda crisi politica e sociale che viviamo. In secondo luogo, c’è bisogno di rafforzare la partecipazione. Che la gente possa partecipare. E non mi riferisco al fatto che tutti diventino militanti di qualche partito, ma che lo facciano attraverso i meccanismi di partecipazione che abbiamo creato a tutti i livelli dello Stato (comunale, regionale, etc), o attraverso le istanze della democrazia diretta, per superare la visione negativa della politica che è anche il frutto di quello che voleva la dittatura nei confronti della popolazione. Le persone che partecipavano “troppo” alla politica dovevano essere de-politicizzati. Siamo diventati il riflesso di tutte le politiche neoliberiste che implementate durante quel periodo, ma anche di quelle implementate durante il ritorno alla democrazia, perché, alla fine, la costituzione del 1980 è diventata effettiva in democrazia. Insomma, penso che ci sia ancora moltissimo da fare e che non si risolve tutto il 4 di Settembre. Tuttavia, se vinceremo, sarà possibile continuare a lavorare per fare in modo che questi cambiamenti siano effettivi nei prossimi dieci anni. O forse qualcosa di più.
Quindi ciò che unisce i due problemi è che hanno portato alla de-politicizzazione della cittadinanza.
Esatto. È quello che ho vissuto come studente: c’era davvero poca partecipazione alle federazioni degli studenti. Non c’erano manifestazioni, come se non esistesse nessun problema. Questo continua ad accadere. Qualche anno fa le federazioni erano ancora molto politicizzate, anche se in termini di partito. Oggi sono presenti molti più studenti indipendenti in queste federazioni. Si vede che esiste una trasformazione. Penso che tale situazione potrebbe ancora cambiare in positivo, ma, per il momento, l’interesse della cittadinanza è ancora molto basso quando si tratta di affari pubblici, nella ricerca del bene comune o nella comprensione che quando si partecipa si possono ottenere dei miglioramenti sociali. Temo che su questo non abbiamo ancora fatto progressi, e che sia il frutto della visione neoliberista della società, dato che il neoliberismo, e il suo individualismo, ha lasciato un’impronta profonda.
Il fatto di aver avuto un’assemblea costituente senza che venissero meno gli altri poteri istituiti, come il parlamento e il governo, non è qualcosa di strano per un processo costituente?
No… è che è la unica che abbiamo avuto sino ad ora… quindi non possiamo compararla con nient’altro. Le altre costituzioni sono state generate in contesti molto distinti (in dittatura, dopo una guerra civile, etc). Almeno, per quanto riguarda il processo cileno, mi sembra che sia stato naturale che essa si sia affiancata ad altri poteri. È come quando uno nasce: il contesto è quello che è, non lo puoi decidere. Sicuramente è stato complesso. Soprattutto per la presenza del settore più conservatore, che ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione, che sono super concentrati. Abbiamo avuto tutto contro, a dir la verità. Ma questo, mi sembra, è ciò che il popolo cileno ha sempre vissuto: affrontare le cose difficili. Non ci è mai successo di ottenere quello di cui avevamo bisogno in maniera semplice. Lo abbiamo visto con la dittatura, ed è chiaro se guardiamo a tutta la nostra storia. Insomma, è stato complicato perché il governo di Piňera ci ha reso la vita molto difficile. Mentre con il secondo governo la relazione è diventata semplicemente più cordiale. Tuttavia penso di poter dire che l’autonomia del nostro potere, quello della Convenzione, è stata difesa durante tutto il processo.
In molti articoli della vostra proposta esiste un comma finale che rimanda il grosso dell’organizzazione giuridica al lavoro del potere legislativo. Questa costituzione permette una larga e importante interpretazione della sua lettera da parte del potere politico. Ciò potrebbe generare dei problemi?
A me non sembra. Questa è una “costituzione civica”. Quando si dovranno generare le leggi ordinarie, dovranno rispettare lo spirito che la informa. Sebbene non mi occupi di diritto, mi sembra che si possa dire che le leggi dovranno essere armonizzate a questo. La classe politica dovrà essere sufficientemente preparata per comprendere lo spirito con cui abbiamo redatto l’impianto delle norme. Tra l’altro, tutto è ormai registrato. Le discussioni, gli atti. Nessuno potrà dire: “Non ho ben capito in che termini interpretare questa o quella norma”. Dato che vengo dall’Università, posso dire senza problemi che per poter fare bene il proprio lavoro, uno si deve informare, studiare e poi, soltanto alla fine, realizzare il lavoro. In effetti, quello che lei sottolinea è stato oggetto di una lunga discussione. Alla fine abbiamo pensato che la cosa necessaria è che si riesca a superare la “democrazia della sfiducia”, che vige oggi, per arrivare ad una “democrazia della fiducia”. Ciò può succedere, però, solo se la classe politica sarà all’altezza: facendola finita con la corruzione, dando risposte alle necessità delle persone. Avevamo tutti lo sguardo incatenato, e pensavamo che nulla si potesse modificare, all’inizio. Poi, il senso comune e il dialogo tra di noi ci ha portato alla convinzione che la democrazia debba continuare il suo cammino, e che le generazioni del futuro potranno fare in modo che le proprie necessità vengano accolte, perché la società sarà distinta da qui ai prossimi dieci o quindici anni. Quindi, personalmente, vedo questo aspetto del testo costituzionale come un vantaggio, e non come un problema. Sempre che i cittadini e le cittadine siano all’altezza della sfida.
Perché è così importante la plurinazionalità dello Stato che voi proponete?
In Cile siamo tutti meticci, proprio come nell’attuale Latinoamerica, e abbiamo un debito nei confronti dei popoli originari, eliminati dallo Stato cileno per varie generazioni. A volte sono state annichiliti interi popoli originari, che il resto della popolazione sente vicini: durante l’Estallido, non a caso, tutte le marce avevano le bandiere mapuches. Basta rivedersi le foto. Esiste una vicinanza con queste popolazioni. I gruppi più conservatori non hanno questa prospettiva. Non hanno vicini mapuches, perché vivono in certe comunità isolate rispetto a queste realtà, dove si concentrano lo stesso tipo di persone. Che vanno alla stessa scuola sin da piccoli. Esiste, insomma, un’interessante endogamia in questa parte della popolazione, che non accetta la plurinazionalità. Quello che stiamo proponendo è necessario per migliorare in termini di pace sociale. Per farlo dobbiamo accettare la nostra diversità, e migliorare nel riconoscimento dei diritti dei popoli originari. Nonostante il Cile abbia sottoscritto il “Convenio del 2008” (Convenio 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro, che riconosce l’esistenza e i diritti dei popoli originali e tribali, ndr), lo ha fatto alla maniera cilena: solo un po’, quello che è possibile. Per noi, invece, maggiore è il riconoscimento e la partecipazione, maggiore saranno i miglioramenti in termini di pace sociale.
Ci sono diversi modi per affrontare il conflitto e la marginalizzazione nei confronti dei popoli originari. Perché avete assunto la plurinazionalità e non un’altra maniera di affrontare il problema?
Penso che, in questo senso, sarebbe interessante analizzare i programmi che hanno portato avanti i candidati poi eletti come rappresentanti costituenti. La maggior parte di loro includevano il riconoscimento della plurinazionalità nel programma. In molti casi, come nel mio, questa proposta è il frutto di un lavoro di base. Abbiamo partecipato a cabildos, riunioni, momenti di riflessione sul metodo, prima di poter definire il programma elettorale. Se uno osserva i cabildos del 2019, e poi quelli alla base dell’elezione dei rappresentanti convenzionali, si rende conto che è stata una proposta popolare, espressa chiaramente. Quindi non è solo una nostra idea, come convenzionali, ma espressione di una volontà popolare.
Nonostante questo, sembra che il dibattito mediatico sull’elezione del 4 di Settembre sia principalmente incentrato sulla proposta della Plurinazionalità, che è quella che maggiormente viene rifiutata. Come mai?
Penso che l’agenda pubblica sia portata avanti dai mezzi di comunicazione di massa. Dato che in Cile esiste un’importante concentrazione del potere mediatico, non esiste pluralismo dei mezzi di comunicazione, perché 4 o 5 famiglie tra le più ricche del Paese hanno in mano l’80% del sistema mediatico, si genera una vicinanza tra potere politico, economico e mediatico. Ma non c’è niente di nuovo sotto il sole. Lo sappiamo da tempo. Da prima dell’Estallido. Questa sensazione di rifiuto e di razzismo che oggi è ben presente, non è casuale. Non è un’opinione del popolo, in generale. Penso che sia voluta. Per esempio, ero nella Pintana (comuna di Santiago del Cile, ndr), e nessuno esprimeva questa opinione. Al contrario, in questa comuna si fanno pubblicamente delle attività mapuches. Penso che esista uno scollamento con la realtà, e che si diffonda la paura e, a livello politico, la dottrina dello shock (teorizzata da Naomi Klein, ndr). Insomma, penso che esistano molte variabili che possano spiegare tutto questo, ma non è quello che si vede nelle strade, o nel dialogo popolare. Sino ad oggi ho fatto oltre settanta dibattiti pubblici territoriali, e non ho mai visto ciò che viene rappresentato a livello mediatico. Bisognerebbe vedere, tra l’altro, come sono stati costruiti i sondaggi. Mi sembra che stia succedendo quello che è successo nell’Estallido e nel Plebiscito d’ingresso (quello che ha deciso di mettere in piedi la Convencion Costitucional e archiviare la costituzione di Pinochet, ndr), ossia che i mezzi d’informazione siano ben scollegati dalla realtà sociale e dalla gente comune.
Sebbene non sono affatto contrario alla plurinazionalità, mi sembra che l’attuale testo potrà incorrere in un problema importante. Da un lato la costituzione definisce e garantisce l’autonomia territoriale, culturale, sociale, e politica delle comunità, mentre, dall’altro, le sottomette ad alcuni principi generali, come i diritti umani, gli strumenti democratici e il principio di partecipazione egualitaria. Potrebbe accadere in futuro, per questo, che l’autonomia politica di alcune comunità non sia esattamente conforme a quei diritti, al processo e ai principi democratici. Se dovesse passare questo nuovo testo costituzionale, pensa che tutto ciò potrà comportare un problema e generare alcuni conflitti?
Non credo sarà così problematico. I popoli originali hanno delle loro specifiche e molto interessanti forme di autonomia politica. E stiamo parlando di un 12% della popolazione, quindi di un gruppo che non è maggioritario. Ciò di cui abbiamo bisogno è che possano vedere riconosciuti i loro diritti e ottenere una parità di condizioni rispetto al resto della popolazione. Non lo vedo problematico anche perché l’autonomia sarà in qualche misura limitata. In generale, tra l’altro, bisogna ricordare che i popoli originari hanno collaborato con lo Stato, meno una parte del popolo mapuche, che è da sempre il più agguerrito. Sono cileni, come noi. Amano questo Paese e ne rispettano le tradizioni. Ballano la cueca (ballo tradizionale cileno, ndr) e rispettano la bandiera nazionale. Solo per quella parte dei mapuches che portano avanti un conflitto per via di molteplici fattori, e che sono concentrati in una parte determinata del Paese, potrebbe valere il discorso. Con loro è difficile che ci sia un dialogo, e anche questo governo ha avuto difficoltà a averlo. Il resto dei popoli vivono in pace, in povertà, marginalizzati. Sono vittime del razzismo. Hanno bisogno di uscire da questa condizione, e la proposto avanza positivamente su questo terreno. Per abbandonare la povertà e l’alcolismo, prodotti della mancanza di rispetto nei confronti delle loro cosmovisioni da parte dello Stato e del resto del popolo cileno, c’è bisogno di questa proposta. Sono popoli molto rispettosi con il fatto di condividere la parola. Lo posso dire direttamente, visto che ne ho avuto esperienza diretta al momento della “consultazione indigena” (momento di consultazione dei popoli originari rispetto alla nuova costituzione, ndr). Loro si sono fidati della nostra gestione per portare a termine la consultazione, nonostante la paura ancestrale di essere usati dagli altri. Collaborarono. E l’esercizio della parola, il parlare, è super importante per loro.
Da molti mesi, tutte le inchieste mostrano che vincerà il “rechazo” il 4 di Settembre. Si può spiegare come l’effetto della manipolazione e della distorsione del sistema mediatico, come nel caso della Plurinazionalità, oppure qualcosa di reale ed aderente alla popolazione cilena viene effettivamente mostrato?
Sicuramente ci sono molte persone che vivono bene sotto la vecchia costituzione e non vogliono cambiare. La vecchia è stata sancita con un Plebiscito fraudolento. Adesso è venuto il tempo di poter raggiungere un’altra forma di accordo sociale. Sicuramente questo gruppo che vuole conservare la vecchia ha usato la paura e la menzogna per convincere il resto della popolazione, e influire nella loro scelta. È un settore importante, che confonde altri gruppi sociali, che non hanno potuto realmente leggere la nuova proposta, anche perché esiste un problema importante di analfabetismo nel Paese. Ciò fa sì che non si acceda alla proposta in modo egualitario. Inoltre, come ricordavo, esiste un gruppo apolitico della popolazione, che non si interessa, né cerca di informarsi, a cui si può arrivare solo con il porta a porta. Però, oltre a questo, è un fatto che gli incontri pubblici a favore della nuova costituzione non trovino spazio nel sistema mediatico. Se durante la dittatura si usava il boicotoggio ufficiale delle iniziative democratiche, oggi si usa l’omissione. Basti pensare anche ai programmi tv dove si ripete sempre lo stesso ritornello e non c’è vera discussione, o peggio, si costruisce un conflitto fittizio attorno alle proposte. Se noi che siamo a favore siamo stanchi di tutto questo, immaginiamoci l’intera popolazione come può reagire. Qui diciamo: “Il popolo lo aiuta il popolo”. Penso che succederà la stessa cosa che è accaduta nel Plebiscito che ha dato vita al processo costituente: vedo ovunque cittadini e cittadine impegnati che cercano di informare, che donano il loro tempo a disposizione alla campagna per l’Apruebo. Per parlare con gli altri, per fare il porta a porta, o organizzare le piazze. Ciò succede alla base della società. Sono in molti ad andare alle attività che si stanno organizzando. Molti ripetono ciò che dice la televisione, all’inizio di questi incontri, è vero. Ma va anche detto che alcuni giornalisti main stream cominciano ad avere un altro atteggiamento, e smentiscono le menzogne che sono circolate sulla nuova costituzione. Da parte nostra facciamo campagna spiegando gli articoli con il testo alla mano. Non ci inventiamo nulla. Quello che ho visto è che le persone se ne vanno più tranquille da questi incontri, con la voglia di informarsi di più e di mettersi a leggere. Perciò ho fiducia nel lavoro di base, e continuo a nutrire speranza. La stessa di sempre.
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*Emanuele Profumi è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista freelance. Insegna Scienze della Politica all’Università di Viterbo. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le “Inchieste politiche”) sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012).
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Ucraina 6 mesi dopo: a che punto è la notte?
Sul terreno due eserciti che sempre più assomigliano a due pugili sfiniti che non aspettano altro che la campana. La Russia guarda al cessate-il-fuoco sulle posizioni raggiunte. Kiev sa che solo la guerra può ancora mantenere l’Ucraina libera
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Torno con le mie mirabolanti domande di #mastoaiuto sul tema #informatica e #WebDesign. L'argomento di oggi è il tema scuro nei siti e nell'interfaccia del computer/cellulare. O come lo chiamano in modo tutto figo #DarkMode.
Io mi sento più rilassato quando lavoro con il tema scuro su progetti grafici o scrittura. Mi aiuta a concentrarmi meglio su quello che sto facendo. Ma quando si tratta di #accessibilità mi viene un dubbio enorme: se faccio un sito con tema scuro, accontento tutti i lettori?
Io ho sempre fatto attenzione a non usare mai lo sfondo totalmente nero #000 con testi totalmente bianchi #fff perché anche solo pensarlo mi si bruciano le retine. Ho sempre fatto una mediazione di grigi o comunque colori complementari che abbiano lo stesso un elevato contrasto, ma più morbido. Ho già chiesto ad alcune persone con difficoltà di lettura come si trovassero con i miei siti e hanno risposto che riescono a leggere senza affaticarsi. Ma l'esperienza di persone che si conta sulle dita di una mano non fa statistica.
Ora, questo approccio che a me piace è sempre stato venduto anche come ecologico perché inciderebbe meno sull'energia impiegata dal monitor, con gran gioia della bolletta, della batteria e dell'ambiente stesso. Ma è davvero così?
Leggo articoli online che si contraddicono, perciò mi piacerebbe sentire il parere da gente vera come voi. In realtà un tema chiaro incide poco o nulla sulle performance e quindi è meglio stare più leggeri per non mettere in difficolta i lettori online, oppure c'è un vero e tangibile risparmio energetico e quindi è buono l'impegno nel fare temi scuri ma il più possibile accessibili?
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A Taranto dal 26 AL 29 agosto, la “CONVOCATORIA ecologista”: ambiente e giustizia sociale
della redazione
Pagine Esteri, 25 luglio 2022 – Si terrà dal 26 al 29 agosto a Taranto la CONVOCATORIA ECOLOGISTA, campeggio organizzato da una rete di realtà del Sud Italia (Raggia Tarantina, Cooperativa Sociale Robert Owen, Movimento No Muos, Laboratorio Politico Iskra, con la partecipazione di Ecologia Politica Network). Quest’anno alla sua prima edizione, l’iniziativa prende le mosse da una visione dell’ecologia improntata alle lotte per la giustizia sociale. A partire da una riflessione sulle cause storico-politiche della marginalizzazione del Sud come imprescindibili per guardare alla crisi ecologica, la CONVOCATORIA estenderà il dibattito al tema della solidarietà internazionale e della costruzione di strategie comuni, accogliendo attiviste e attivisti dal Mediterraneo.
Parteciperanno gruppi dalla Palestina, dal Kurdistan, dall’Egitto, al fine di aprire un fronte di progettualità condivisa. Questo percorso intende affrontare molti degli aspetti socio-politici che si interconnettono nella questione ecologica: la condizione del margine come territorio di resistenza, l’Occupazione [materiale e ontologica], l’appropriazione coloniale di pratiche e saperi, le lotte transfemministe, le autonomie. Uno dei punti di riferimento nella costruzione del campeggio è stata l’esperienza della COP26 di Glasgow, dove una mobilitazione dalla portata impressionante ha reso manifesta l’esistenza di un movimento ecologista mondiale guidato dal Sud Globale.
La CONVOCATORIA intende guardare a questo movimento promuovendone le premesse e le pratiche, condividendo tutte quelle forme di collettività basate sulla resistenza anti-coloniale e anti-capitalista. Le realtà coinvolte sono attive nelle lotte per la sovranità, come il Mesopotamian Ecology Movement, nella solidarietà internazionale, come la Boycott, Divestment and Sanctions, nella decolonizzazione dei sistemi architettonici, come DAAR – Decolonizing Architecture Art Research.
Taranto è uno dei contesti simbolo della violenza sociale ed ecologica che ha dominato il Sud Italia attraverso i processi di industrializzazione, militarizzazione, espropriazione delle comunità. In questo senso la CONVOCATORIA pone l’identità tarantina come anello di congiunzione tra territori in cui colonizzazione interna, ecocidio, disgregazione sociale appartengono a uno stesso spettro di oppressione in cui rivendicare forme di emancipazione attraverso un percorso collettivo.ù
Diversi eventi preparatori stanno accompagnando l’organizzazione del campeggio. Il 9 luglio scorso il Movimento No Muos ha presentato il dossier ‘”Università e Guerra”, esito di un’inchiesta sulle affiliazioni delle università italiane con l’industria bellica internazionale e con centri di ricerca a loro volta implicati – con un focus su Israele, Turchia e Stati Uniti. Il 30 luglio prossimo Federica De Rosa presenterà il volume “Laboratorio Favela” – testi e discorsi di Marielle Franco – che ripercorre il pensiero dell’attivista e politica brasiliana assassinata nel 2018 (presso il collettivo transfemminista Le Mele di Artemisia). Il 6 agosto si terrà un’assemblea pubblica di lancio che aprirà un dialogo tra le realtà promotrici e il territorio.
Le tre giornate dell’incontro alterneranno presentazioni, laboratori e momenti plenari presso la Cooperativa Sociale Robert Owen, sede della CONVOCATORIA, concludendosi con una marcia popolare il 28 agosto. Questo ritiro di dibattito e progettualità tra movimenti e soggetti territoriali avrà quindi come linea direttrice l’idea che il superamento del modello estrattivista non può essere immaginato se non a partire da un processo che unisca le diverse lotte sociali, e metta al centro l’interdipendenza di località e globalità. Un processo che si faccia portavoce dell’urgenza di “inventare, ri-articolare e contaminarci attraverso le plurime pratiche ed azioni dirette che ci permettono di resistere alla fine del mese e alla fine del mondo.”
convocatoria-ecologista-tarant…
facebook.com/events/s/convocat…
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La guerra russo – ucraina oggi varca i sei mesi
La contabilità imprevedibile del tempo di una guerra che ha mutato i fini del conflitto, ha travolto la relazione storica di due popoli, messo a grave rischio l’ordine internazionale
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LIBRI. I racconti da non perdere di “Io, lui e Muhammad Ali”
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 20 agosto 2022 – In un’estate oramai quasi agli sgoccioli, il libro di Randa Jarrar, “Io, lui e Muhammad”, è una scoperta imperdibile, uno scrigno prezioso di storie da portarsi dietro su spiagge afose, scogliere impervie o città plumbee svuotate dalle ferie d’agosto, per leggere, ad esempio, di qualcuno che ci rassomiglia:
“Vengono in Egitto d’estate; vengono con le loro macchine in affitto e portano le loro famiglie e comprano ombrelloni e sdraio da spiaggia; portano costumi e teli da mare e creme per la pelle per non bruciarsi. Mi fanno ridere”.
Fa ridere, Randa Jarrar, in ciascuno dei suoi tredici racconti, fortunatamente pubblicati in Italia da Racconti Edizioni nel febbraio 2022 nell’efficace traduzione di Giorgia Sallusti. La sua è quella che si può definire una “penna felice”, arguta e raffinata, comica e delicata al tempo stesso quando c’è da dipingere la tragedia. Il ritmo è incalzante, le storie si succedono velocemente, i personaggi si rincorrono in una giostra dalla quale il lettore non vorrebbe più scendere. Non solo perché si diverte, non solo perché la narrazione scorre con uno stile brillante e lineare, ma anche perché in ogni pagina le contraddizioni della storia contemporanea, i conflitti generazionali e di genere, il macigno delle discriminazioni e delle ipocrisie sociali emergono sotto il respiro di una rarissima intelligenza.
Randa Jarrar intinge la penna nell’autobiografia: un padre palestinese e una madre egiziana, che l’hanno fatta nascere a Chicago. Vissuta tra il Kuwait, l’Egitto e l’arido Texas, adesso la sua casa è Los Angeles, dove partecipa spesso a show televisivi come stand up comedian – oltre a scrivere sul New York Times Magazine, Guernica e altre riviste. I suoi racconti si dipanano intorno alla sua geografia: i personaggi vivono negli Stati Uniti, in Egitto, in Palestina, volano dal Kuwait per inseguire il sogno americano, rimpiangono Gaza, prendono aerei per riconsegnare le ceneri dei loro genitori all’ombra delle piramidi. Ciascuno di loro si sente in qualche modo straniero, o estraneo a qualcosa, sempre incompleto, talvolta letteralmente spezzato a metà.
I protagonisti sono quasi tutte donne, ma non solo. Se è vero che Jarrar indaga prevalentemente il femminile, quando sceglie dei protagonisti maschili si tratta di uomini che non hanno paura di mostrare la loro sensibilità, di piangere davanti ai propri figli e alle proprie mogli, di svelarsi fragili in società fallocentriche. E’ in questo il fulcro della questione di genere, anche in questa raccolta, e non nello sbilanciare la narrazione solo a favore di uno dei due poli (un bipolarismo, tra l’altro, che per l’autrice non esiste).
I protagonisti, ad ogni modo, sono tutti sconfitti dalla grande e dalla piccola storia che ancora, però, resistono, vacillando sul ring prima che si concluda l’ultimo round. Ogni personaggio sta combattendo una battaglia, in un mondo tanto ingiusto da sconfinare a volte nel disgustoso, nel quale è stato suo malgrado gettato come oppresso, come eterno emigrato, come donna e dunque essere umano di serie B, come diverso. Nessuno si lamenta, però, nei racconti di Jarrar: tutti continuano a correre, che sia su una bicicletta in un mercato di Alessandria in cui gli uomini allungano sguardi famelici o nel traffico arabo, in cui si può solo urlare al volante, incastrarsi in ingorghi senza soluzione e rischiare di inchiodare una bambina sotto alle ruote della propria auto.
Le donne del libro sono una costellazione di personaggi indimenticabili che raccontano frammenti di vita con voce ironica, tagliente, sincera. Sfidano le ipocrisie delle società in cui sono calate, quella orientale quanto quella occidentale, e ne svelano le oscenità. Qualcuna di loro accetta di tenere un bambino con un bianco ubriacone che la definisce “arabica”, a costo di rinunciare per sempre alla sua famiglia di origine. Scopre di essere stata ripudiata per essere rimasta incinta fuori dal matrimonio tramite una lettera in cui il padre cita alcuni versi del poeta palestinese Mahmud Darwish. Questa la reazione:
“Io sono incinta e tu mi citi Darwish?”. Stavo tremando.
“Sei tu quella incinta (…). Chi ha il diritto di essere furioso? Non tu, mia cara”.
Era definitivo. Bambino = niente famiglia = niente soldi per il college = sono morta. Niente bambino = di nuovo famiglia. Non mi è mai piaciuta questa famiglia, comunque, perciò scelgo il bambino”.
Nella società patriarcale del Medio Oriente come degli Stati Uniti, le donne di Jarrar sono inevitabilmente spesso sconfitte, sempre oppresse, ma mai vittime. Sono loro a calzare i guantoni da boxe e ad affrontare i loro mariti, senza mai emularne la vacua virilità. Chi fa da portaborse all’anziana scrittrice femminista ne resta, infatti, delusa come da un uomo. Nessuna nei racconti ambisce a diventare uomo, a godere di privilegi conquistati con l’inganno. La femminilità è esplorata con sensualità, e a qualsiasi latitudine le protagoniste non celano un sano e disinvolto interesse per il sesso, indagato più spesso mediante l’autoerotismo o tramite rapporti omoerotici, consumati tra le mura domestiche con la connivenza di qualche imam, piuttosto che insieme a uomini completamente ignari dei desideri sessuali delle donne.
Non sono blasfeme le protagoniste dei racconti, è il mondo che è “senza dio” a causa della sua ipocrisia. La religione delle donne di Jarrar è la sincerità. Le “fa ridere” che ciò che le circonda non ne sia all’altezza. Dicono, ad esempio:
“Ho bisogno di essere in grado dire all’unico Dio nel giorno del giudizio (il tono è estremamente sarcastico, ndr), quando striscerò fuori dalla tomba e sarò tutta sola e frammenti di cielo si abbatteranno su di me, che- insomma, bello – io ci ho provato”.
Oppure:
“«Gesù ama i Palestinesi» ha detto Dorothy. La tavolata è ammutolita. Noi siamo il tipo di musulmani che prega per le agevolazioni fiscali (Baba), i giochi del Nintendo DS (Jaseem), i libri anatomici da colorare (Waseem), la fica (Abe), e per una coscienza libera da ogni senso di colpa che mi permetta di andare via da questa cazzo di casa (Vostra Devota)”.
L’invasione del Kuwait, la guerra in Iraq, il crollo delle Torri Gemelle (due dita tese al cielo in segno di vittoria abbattute in un giorno), l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza: i toni vivaci e l’ironia sorprendente con cui Jarrar mette insieme i tasselli del suo mosaico non tralasciano mai che le piccole battaglie dei protagonisti si consumano in un mondo violento e inospitale. Anche quando affronta esplicitamente la politica, lo fa con originalità. La scrittura di Jarrar riesce a essere credibile anche quando per raccontare l’esodo palestinese fa parlare un falco tenuto prigioniero in un carcere in Turchia perché accusato di spionaggio per conto degli Israeliani. Non un cedimento nella tensione narrativa che faccia dubitare della veridicità del racconto dell’uccello.
Anche il dramma di sentirsi stranieri, diseredati dalla propria terra, privati di una definita identità nazionale, filo conduttore di tutto il libro, trova l’apice nell’ultimo racconto: una donna per metà umana e per metà stambecco. Una creatura mitologica che si sente sempre spezzata, proprio come una donna figlia di due arabi ma cresciuta in America, finché non avviene una presa di consapevolezza:
“Non c’è unità nella dualità. Niente è uno e niente è doppio. Tu sei entrambi”.
Le donne di Jarrar si sussurrano queste verità mentre raccolgono il bucato in una lavanderia a gettoni, mentre restano intrappolate nel traffico, mentre il mondo che hanno intorno continua a sgretolarsi. La loro forza vacilla sul ring ma non crolla. Hanno il coraggio di sferrare ganci da fare invidia a Muhammad Ali, ma non dimenticano la delicatezza, non si scordano la luna. Nel primo racconto la piccola Qamar (luna), nome maschile in arabo ma scelto qui per una bambina, una notte è stata quasi sul punto di afferrarla, sul tetto di casa sua, ma poi si è addormentata proprio sul più bello. Nessuna protagonista, però, si è lasciata alle spalle quell’antico sogno: anche se stritolate da tabù e pregiudizi, anche se sole e deluse, le donne di Randa Jarrar possono ancora prendersi la luna.
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GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.
Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.
Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).
Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.
Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili. Pagine Esteri
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Esercito israeliano fa irruzione e chiude le 6 ong palestinesi che accusa di “terrorismo”
AGGIORNAMENTO ORE 20
IL COMUNICATO DI AOI – CINI – Link2007 – Piattaforma delle ONG Italiane in Mediterraneo e Medio Oriente
Amnesty International Italia – Assopace Palestina – Rete italiana Pace e Disarmo
Attacco israeliano contro organizzazioni della società civile palestinese: il governo intervenga tempestivamente
Le Organizzazioni, Reti e Piattaforma firmatarie di questo appello, sollecitate dalle organizzazioni italiane operanti in Palestina, esprimono condanna e grande preoccupazione per il gravissimo atto di violenza avvenuto questa mattina, 18 agosto, che ha visto l’esercito israeliano fare irruzione negli uffici delle sei ONG palestinesi (Al-Haq, Bisan Center for Research and Development, Defence for Children International-Palestine, the Union of Agricultural Work Committees e la Union of Palestinian Women’s Committees) designate dal Ministero della Difesa israeliano quali organizzazioni terroristiche il 19 ottobre 2021 e, successivamente, dal Comandante Militare il 3 novembre 2021.
I militari hanno sequestrato computer e materiale e sigillato le porte dei sei uffici, tutti situati a Ramallah, affiggendovi un ordine di chiusura permanente, firmato dal Comandante dell’Esercito Israeliano in Cisgiordania. Il provvedimento afferma che negli uffici di queste organizzazioni vengono svolte attività illegali.
In questi mesi, nessuna prova è stata fornita dal Governo israeliano a sostegno della designazione delle sei ONG quali organizzazioni terroristiche, nonostante le ripetute richieste espresse sia dalle ONG stesse che da numerosi Governi e istituzioni internazionali.
Anche il Governo italiano, insieme ad altri otto governi di Paesi membri della Unione Europea, ha pubblicamente dichiarato che, in assenza di prove concrete, la solida collaborazione con sei organizzazioni che da decenni sono impegnate ad altissimo livello per la difesa e la promozione dei diritti umani nel Territorio Palestinese Occupato sarebbe continuata.
Riteniamo che gli avvenimenti di questa mattina siano un affronto da parte del Governo di Israele e una reazione inaccettabile alle legittime prese di posizione dei nove governi europei, che peraltro sono del tutto simili a quelle adottate dagli stessi Stati e dall’Unione Europea in passato in situazioni analoghe di mancato rispetto degli standard internazionali di protezione dei diritti umani.
L’attacco a chi difende e promuove il rispetto dei diritti umani delegittima l’utilizzo dei mezzi pacifici e legali per la risoluzione del conflitto, di fatto rafforzando le posizioni più estremiste in un momento di preoccupante escalation di violenza, che lascia la popolazione civile su entrambi i fronti ulteriormente vulnerabile.
Nel riaffermare con forza il sostegno a fianco delle sei ONG palestinesi e la estrema preoccupazione per l’incolumità di colleghi e colleghe che vi lavorano, le organizzazioni firmatarie di questo comunicato chiedono un intervento immediato del Governo italiano, che preveda:
- La Convocazione immediata dei rappresentanti delle Autorità Diplomatiche israeliane perché riferiscano sul caso
- La reiterazione dell’impegno pubblicamente espresso lo scorso 12 luglio a continuare a sostenere le sei ONG palestinesi, e le ONG italiane che vi collaborano, anche attraverso finanziamenti della Cooperazione Italiana
- La denuncia di questi fatti come parte della politica di Israele volta ad imbavagliare la società civile palestinese, ad utilizzare le misure antiterrorismo in modo arbitrario e strumentale, al solo scopo di silenziare il dissenso e ostacolare l’azione dei difensori dei diritti umani e ad intimidire la popolazione, con il risultato di negare l’esercizio del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Tale denuncia, e la richiesta ufficiale di recedere da questi abusi, rientra negli obblighi che il diritto internazionale pone in capo agli Stati terzi a fronte della violazione di norme imperative, come nel caso di specie
- Una presa di posizione chiara e misure concrete da parte del Governo italiano e della Unione Europea mirate a indurre Israele a porre fine alle pratiche discriminatorie e di oppressione che, come denunciato anche da Amnesty International e dalla ONG israeliana B’Tselem costituiscono un sistema di apartheid contro la popolazione palestinese tutta nel Territorio Occupato e in Israele.
AGGIORNAMENTO ORE 17.30
I rappresentanti di una ventina di paesi europei, tra i quali l’Italia, hanno fatto visita oggi ad al Haq in una dimostrazione di solidarietà all’ong e alle altre cinque organizzazioni per i diritti umani palestinesi chiuse la scorsa notte dall’esercito israeliano
AGGIORNAMENTO ORE 14
IL COMMENTO DELLA DEPUTATA LAURA BODRINI, Presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo.
“Solidarieta’ alle 6 ong palestinesi vittime di una violenta irruzione nelle loro sedi da parte dell’esercito israeliano allo scopo di interrompere ogni loro attivita’. Queste organizzazioni, impegnate nella difesa dei diritti umani, sono state accusate dal governo israeliano di sostegno al terrorismo, senza che sia mai stata fornita alcuna prova. L’Unione Europea, gli Stati Uniti e molti altri Paesi con cui le ong tutt’ora collaborano, hanno sollecitato a piu’ riprese il governo israeliano a dimostrare con prove concrete l’ipotesi di reato mossa nei loro confronti, senza tuttavia avere alcuna risposta. Il mese scorso, una nota congiunta dei ministeri degli Esteri di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia ha annunciato che questi Stati non ritengono “terroristiche” le 6 ong palestinesi. Questa operazione militare assume dunque le sembianze di un vero e proprio attacco, ingiustificabile nella scelta e brutale nelle modalita’. La comunita’ internazionale si attivi per interrompere da subito questo accanimento che ormai perdura da mesi. La lotta al terrorismo e’ cosa ben diversa dalla persecuzione di organizzazioni non governative che si impegnano per difendere la vita e i diritti delle persone”.
AGGIORNAMENTO 18 AGOSTO 2022 ORE 8
L’esercito israeliano ha fatto irruzione negli uffici delle 6 ong palestinesi per i diritti umani – tra cui Al Haq, Addameer e Bisan – che aveva dichiarato illegali ad ottobre per presunti “legami con il terrorismo”. I soldati hanno lasciato un ordine militare che dichiara le ong illegali e chiuse, sigillando le porte dei loro uffici in Cisgiordania. Qualche giorno fa il ministro della difesa israeliano Gantz aveva ratificato in via definitiva il suo provvedimento sulle ong nonostante le critiche registrate a livello internazionale.
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PER APPROFONDIRE IL TEMA VI INVITIAMO A LEGGERE L’ARTICOLO CHE PAGINE ESTERI PUBBLICO’ LO SCORSO OTTOBRE DOPO LA DECISIONE PRESA DAL MINISTRO DELLA DIFESA ISRAELIANO.
della redazione
Pagine Esteri, 23 ottobre 2021 – Attacco frontale alle ong palestinesi per la tutela dei diritti umani, alcune delle quali operano da decenni e godono di ampio riconoscimento internazionale. Ieri il ministro della difesa israeliano, Benny Gantz, ha proclamato ufficialmente sei di queste ong “organizzazioni terroristiche” poiché, a suo dire, sono espressione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – un partito di sinistra, di orientamento marxista, presente con tre deputati nel Consiglio legislativo palestinese – che Israele considera un gruppo terroristico.
Spiccano i nomi di Addameer, che assiste i prigionieri politici palestinesi, e di Al-Haq, un’organizzazione che lavora da decenni con le Nazioni Unite. Nell’elenco sono incluse anche Defense for Children International-Palestine, Union of Agricultural Workers, Bisan Center for Research and Development, Union of Palestinian Women Committees. Nei mesi scorsi con la stessa motivazione era stata ugualmente descritta come una “organizzazione terroristica” anche l’associazione Samidoun che diffonde informazioni sui detenuti politici.
La dichiarazione di Gantz è volta a mettere al bando queste ong palestinesi e autorizza l’esercito a chiudere i loro uffici, a sequestrare i loro beni e ad arrestare e incarcerare il loro personale. Infine, vieta il finanziamento alle loro attività. Quest’ultimo aspetto ha una particolare importanza per i rapporti internazionali di queste ong palestinesi. Con ogni probabilità il passo del ministro israeliano spingerà varie istituzioni e ong internazionali, in particolare quelle occidentali, a cessare qualsiasi sostegno ad Addameer, al Haq e alle altre ong colpite dal provvedimento. “È un attacco sfacciato, una pericolosa escalation che minaccia di paralizzare completamente il lavoro della società civile palestinese nell’opporsi all’abuso dei diritti umani”, ha commentato Omar Shakir, responsabile di Israele e Palestina per Human Rights Watch. Anche Amnesty International ha protestato con forza e condannato la decisione di Gantz.
Addameer fornisce assistenza gratuita e consulenza legale ai prigionieri palestinesi, centinaia dei quali sono detenuti nelle carceri israeliane senza processo e senza accuse formali. Documenta anche altre violazioni e mette in evidenza i maltrattamenti dei minori palestinesi. Al-Haq, ong storica della società civile palestinese, ricerca e documenta violazioni del diritto internazionale umanitario nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Il gruppo afferma di documentare le violazioni “indipendentemente dall’identità dell’autore”.
La dichiarazione di Gantz è stata denunciata anche dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem. “E’ una mossa che caratterizza i regimi totalitari” – ha scritto B’Tselem in un comunicato – “Ma la guerra non è pace, l’ignoranza non è potere e l’attuale governo (israeliano) non è un governo di cambiamento bensì un governo di continuazione del violento regime di apartheid che è in vigore da molti anni tra il mare e il fiume Giordano. B’Tselem è solidale con i nostri colleghi palestinesi, orgoglioso del nostro lavoro congiunto con loro nel corso degli anni e continuerà a farlo”.
Una reazione è giunta anche Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che, ha dichiarato, richiederà maggiori informazioni sulla designazione di “organizzazione terroristica” per le ong palestinesi decise dal ministro Gantz. “Il governo israeliano non ci ha avvertito in anticipo”, ha precisato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “Crediamo che il rispetto dei diritti umani, le libertà fondamentali e una società civile forte siano di fondamentale importanza per una governance responsabile e reattiva”, ha aggiunto. Parole che possono essere interpretate come un raro rimprovero statunitense al governo israeliano. Pagine Esteri
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Gmail creates “Spam Emails”, despite CJEU judgment
Gmail crea "email di spam", nonostante la sentenza della CGUE Oggi noyb.eu ha presentato una denuncia contro Google all'Autorità francese per la protezione dei dati (CNIL). Il gigante tecnologico ha ripetutamente ignorato la sentenza della Corte di giustizia europea (CJEU) sul marketing diretto
Elezioni 2022: tra porcate e demenza strutturale
A destra lo stupro innalzato a atto di propaganda politica; a sinistra la politica ridotta a gioco del monopoli solo per conquistare posti
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Nicaragua: la rivoluzione rapita… e trasformata in tirannia congelata
La vicenda di Monsignor Álvarez ha attirato l'attenzione internazionale. Conseguenza forse imprevista e che potrebbe trasformarsi in un grave problema per il regime
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USA: Donald Trump VS Liz Cheney, 1 a 0
La sconfitta di Liz Cheney nelle primarie per le elezioni di midterm ha destato attenzione anche nella stampa italiana. Figlia di Dick Cheney, Vicepresidente negli anni di George W. Bush (2001-2008) e figura importante dell’establishment repubblicano, Liz Cheney siede alla Camera dei rappresentanti per il collegio unico del Wyoming dal gennaio 2017, dopo avere vinto [...]
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I potenziali esiti della guerra in Ucraina
Come inquietante corollario dei 20 anni di crisi trascorsi dal 2001 al 2021, il significato della guerra in Ucraina in corso non può essere sottovalutato. Questo conflitto rappresenta la svolta geopolitica più sismica del secolo in corso per diversi motivi: l’equilibrio di potere globale all’interno del sistema internazionale è in gioco in questo confronto estremamente [...]
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Cina – Stati Uniti: nessuna nuova Guerra Fredda
Settantacinque anni fa, questo luglio, il diplomatico statunitense George Kennan pubblicò il suo saggio fondamentale su ‘Foreign Affairs’ introducendo l’idea di ‘contenimento’. In ‘The Sources of Soviet Conduct’, Kennan sostenne una politica di contenimento contro l’espansionismo sovietico. Mentre alcuni a Washington si preparano per una nuova Guerra Fredda con la Cina, il modello dell’era Kennan [...]
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L’offerta saudita-egiziana per la Coppa del Mondo potrebbe far sembrare l’esperienza del Qatar una passeggiata
A prima vista, una potenziale offerta di Arabia Saudita ed Egitto, due dei peggiori violatori dei diritti umani al mondo, insieme alla Grecia, per ospitare la Coppa del Mondo 2030 suona come un invito a un perfetto fiasco di pubbliche relazioni. Questo è senza dubbio vero se si guarda al Qatar tre mesi prima dell’inizio [...]
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Presentazione del libro “Cronache dal passato. Palermo 1860. Intrighi, Segreti. Misteri” a Villa Piccolo
Presentazione del libro di Anna Maria Corradini, presso Villa Piccolo a Capo d’Orlando.
Dialoga con l’Autrice Milena Romeo.
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Piano inclinato
O non se ne parla o ci si tiene sul vago. A scorrere i programmi dei partiti sembra che il solo problema legato al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) sia riuscire a spendere i soldi. C’è anche chi, dopo essersi speso nel criticare le istituzioni europee, ma volendo incassare la posta di quei fondi, pensa d’essere ficcante osservando che la parte prevalente è in prestito. Come se fosse un diritto avere regali, posto che ci sono anche soldi regalati, laddove non è un diritto neanche disporre di prestiti a tassi agevolati. Perché quel prestito lo riceviamo a un tasso, quindi un costo, nel tempo, inferiore a quello che paghiamo normalmente. Sottolineare che è un prestito segnala confusione d’idee. C’è dell’altro, a inclinare il piano.
Nel programma del centro destra si legge l’impegno (e vorrei vedere) al <<pieno utilizzo>> dei fondi europei, aggiungendo che, <<in accordo con la Commissione europea>>, taluni aspetti andranno rivisti. A dar voce a questo concetto è stata Giorgia Meloni. Come speso capita, alla ricerca di caratterizzarsi e con gli avversari alla ricerca dell’errore, le cose prendono a torcersi, tanto che Enrico Letta è intervenuto subito dopo dicendo che non si può rivedere l’impianto. Solo i dettagli, aggiunge Paolo Gentiloni, membro della Commissione. Fermi, state discutendo del nulla, perché: 1. che i piani possano essere rivisti, alla luce di cambiamenti intercorsi, è scritto nelle regole; 2. proprio per la natura dei cambiamenti non significa che modifichi il progetto, ma aggiusti l’attuazione; 3. se chi vuole aggiustamenti li propone in accordo con la Commissione, né potrebbe essere diversamente, state dicendo la stessa cosa, con il cipiglio di chi si rimbrotta.
Sarebbe bello e civile un impegno collettivo, coerente con i programmi presentati: affermiamo che chiunque vinca darà attuazione al Pnrr. Non lo diranno, troppo civile. Ma c’è dell’altro, su cui tacciono, che inclina ancor di più il piano.
Il tema non è (solo) quello degli impegni presi con le autorità europee, cui dobbiamo quelle disponibilità, venir meno ai quali sarebbe un micidiale rogo della credibilità nazionale. Il tema è che, fin dall’inizio, è stato chiarito che l’efficacia di quella imponente spesa, per investimenti, dipende dalla capacità e tempestività nell’accompagnarla con le riforme. Ed è qui che siamo messi male.
Perché se, in piena campagna elettorale, si parla di scuola con riferimento pressoché esclusivo a stabilizzazioni e stipendi, se si parla dei quattrini da spendere in digitalizzazione senza aggiungere un pensiero che sia uno sulla didattica digitale (ad esempio la valorizzazione degli insegnanti migliori, socializzando le loro lezioni, o facendo sparire il mercato assurdo dei libri di testo) butta male. Se si parla di fisco per dire che “deve diminuire la pressione fiscale”, concetto vacuo che può essere attributo a diversi, oppure per proporre flat tax con diverse aliquote, che è come volere millepiedi bipedi, o, ancora, per proporre patrimoniali e regalare salari costruiti con meno prelievi, senza una parola su coperture e costi, siamo messi male. Se si parla di pensioni non per equilibrare un sistema che contiene una terribile ingiustizia a carico dei giovani, ma per promettere di poterci andare prima e fregarli meglio, siamo messi peggio.
La politica latita proprio sulla parte di Pnrr che le compete, quella della produzione parlamentare e governativa. Serve a niente e significa anche meno affermare, come si legge in diversi programmi: occorre fare le riforme che gli italiani aspettano da anni. Primo, perché mi devi dire quali e come, chi ci perde e chi ci guadagna. Secondo, perché chi lo scrive si trova in quel posto da lunga pezza, sicché porta la sua parte di responsabilità per il tempo e i quattrini che si sono persi. Molte riforme non si sono fatte perché i “vincitori”, a destra e sinistra, erano diversi e avversari fra loro. Tal quale quello che ripropongono. E il piano diviene scosceso.
La Ragione
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Gli Stati Uniti e l’influenza russa in America Latina
Come gli Stati Uniti dovrebbero rispondere all'influenza russa in America Latina. Washington ha bisogno di un piano a lungo termine per il reimpegno in America Latina
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Angola, elezioni 2022: una gara senza gara per l’MPLA
Le elezioni parlamentari di fatto presidenziali si preannunciano non corrette con l'MPLA al potere destinato a vincere
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Piantare miliardi di alberi per combattere l’effetto serra
“Questo Ferragosto 2022 sarà ricordato sia per il caldo torrido che ha raggiunto temperature insostenibili, sopra i 40° provocando grande siccità, che per il vento assassino a 140 all’ora con trombe d’aria che hanno sconvolto vaste zone del nostro territorio: mai vista una cosa del genere!” : chi parla è Gianni, uno degli abitanti di Grassina, [...]
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Amazzonia. La compagnia petrolifera contro la creazione di riserve indigene
Survival International – Comunicato stampa
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La compagnia petrolifera anglo-francese Perenco sta premendo sul governo del Perù affinché sia cancellata la proposta di creazione di una riserva per le tribù incontattate del Napo-Tigre, nel nord dell’Amazzonia peruviana.
La compagnia vuole infatti poter continuare le sue attività di trivellazione nella zona, mettendo in estremo pericolo le tribù incontattate che vi vivono.
La compagnia diretta da François Perrodo, pilota automobilistico amatoriale e tra gli uomini più ricchi di Francia, conta una lunga storia di denunce per gravi danni all’ambiente e alle comunità locali, in Africa e in America Latina – e le sue operazioni sono notoriamente riservate.
La Perenco si oppone alla creazione della riserva Napo-Tigre da anni, e la recente istanza legale di opposizione alla creazione della nuova riserva non è un’azione isolata. Insieme ad autorità della regione di Loreto e a portatori di grandi interessi petroliferi e del gas, la compagnia è coinvolta anche in una campagna pubblica contro la creazione e protezione delle riserve indigene.
Ad esempio, in aprile hanno chiesto al governo di abrogare la legge nazionale per la protezione dei popoli indigeni in isolamento (conosciuta in Perù come legge PIACI); negano costantemente l’esistenza dei popoli incontattati; e, ai primi di agosto, il Governatore di Loreto ha scritto al governo chiedendo “l’annullamento dell’intero iter PIACI”.
François Perrodo incontra l’allora Presidente del Perù Alan Garcia. © Sepres
Le organizzazioni ORPIO, AIDESEP e Survival International hanno espresso la loro profonda preoccupazione in relazione a questi attacchi.
“La Perenco viola e disprezza i diritti umani dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in isolamento” ha dichiarato Apu Jorge Pérez, presidente di AIDESEP, l’Organizzazione indigena dell’Amazzonia peruviana.
Immagini aeree di case di popoli incontattati nell’area Napo-Tigre, Perù. © ORPIO
Il 25 luglio scorso, dopo anni di lotte da parte delle organizzazioni indigene, la Commissione incaricata della creazione della Riserva ha finalmente riconosciuto l’esistenza delle tribù incontattate di Napo-Tigre.
Un passo fondamentale per la tutela dell’area che ha richiesto quasi 20 anni e che oggi è messo a rischio dalla richiesta della Perenco e dalla campagna del governo regionale, compromettendo ancora una volta la sopravvivenza dei popoli incontattati, i più vulnerabili del pianeta.
“Adesso che ha finalmente riconosciuto in modo ufficiale l’esistenza delle tribù incontattate di Napo-Tigre, il Perù non può voltare loro le spalle” ha dichiarato Teresa Mayo, ricercatrice di Survival International. “Il governo ha l’obbligo di agire tempestivamente per la creazione e protezione della riserva. Non gli permetteremo di cedere di nuovo alle pressioni delle aziende, per quanto potenti siano.”
François Perrodo, direttore della compagnia Perenco, con una delle automobili della sua vasta collezione personale. © Facebook
– Survival ha scritto al Presidente di Perenco, François Perrodo, ma ad oggi non ha ottenuto risposta.
– Nel dicembre 2019, ORPIO e Survival hanno diffuso per la prima volta fotografie aeree dei popoli incontattati di Napo-Tigre, rendendo la loro esistenza innegabile. Inoltre, sono state presentate più di 400 prove scientifiche, tra cui anche dichiarazioni giurate di residenti locali.
– L’azienda Barrett Resources, che operava nel territorio di Napo-Tigre prima di Perenco, aveva confermato l’esistenza di tribù incontattate nella zona.
– La compagnia petrolifera spagnola Repsol si ritirò dall’area dopo un’indagine del Consiglio etico del Ministero delle Finanze norvegese che portò al ritiro degli investimenti fatti dal Fondo pensionistico nazionale norvegese nella compagnia, per violazioni dei diritti dei popoli incontattati. Ciò nonostante, il Perù ha assegnato nuovamente le concessioni sul lotto petrolifero, alla Perenco.
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GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.
Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.
Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).
Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.
Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili. Pagine Esteri
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TURCHIA-SIRIA. Erdogan pronto a riconciliarsi con Assad. Damasco alza l’asticella
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 22 agosto 2022 – La protesta ad Al Bab e nel resto dei territori siriani occupati dalla Turchia va avanti già da un po’. Da quando il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha parlato della necessità che Damasco e l’opposizione raggiungano una soluzione politica e scrivano una nuova costituzione. Parole nuove per Ankara che, dopo il 2011, ha fatto di tutto abbattere il presidente Bashar Assad. Ha accolto tre milioni di profughi della guerra in Siria, ha finanziato e addestrato una milizia mercenaria siriana impiegandola anche in Libia e contro le popolazioni curde. Ha fatto della provincia siriana di Idlib una sorta di protettorato a disposizione di milizie anti-Assad di ogni tipo, anche jihadiste e qaediste. Ora, per la prima volta, teorizza una soluzione che lasci al potere il presidente siriano.
Erdogan sta mollando i «ribelli» siriani che per dieci anni lo hanno servito puntualmente ricevendo in cambio promesse di ogni tipo, a cominciare dall’abbattimento del «regime». Bashar Assad però ha resistito, grazie all’appoggio militare e politico di Vladimir Putin, alleato/avversario di Erdogan. È rimasto al potere e ha ripreso gran parte del territorio siriano. Ankara ha capito di aver perduto la battaglia. Così, imitando la politica estera di Putin prima della guerra contro l’Ucraina – amici di tutti, nemici di nessuno (ad eccezione di Kiev) –, Erdogan ora stringe la mano a tutti: agli ex rivali sauditi, agli influenti emiratini, ai monarchi del Golfo. E ha riallacciato pieni rapporti con Israele, per anni bersaglio dei suoi attacchi. Non è un mistero che il presidente turco, alle prese con una pesante crisi economica e il declino del suo partito Akp, spera di recuperare consensi grazie ai ricavi derivanti da possibili intese con Israele per portare gas all’Europa.
Che Ankara abbia passato il Rubicone è stato chiaro quando Bulent Orakoglu, editorialista del giornale Yeni Safak, molto vicino a Erdogan, ha descritto i siriani che protestano ad Azaz, Jarablus e Tal Abyad, non più come degli alleati, bensì come degli «individui con le mani sporche…provocatori espulsi a causa dei crimini che avevano commesso in Turchia e infiltrati del regime e del Pkk». La scorsa settimana lo stesso Erdogan rispondendo a una domanda sul dialogo con la Siria al ritorno dal vertice a Leopoli, ha affermato che «il dialogo politico e la diplomazia tra Stati non possono mai essere interrotti …Dobbiamo fare ulteriori passi con la Siria. Facendoli romperemo molti giochi nell’intera regione».
Si è riferito non solo all’aiuto Usa ai curdi siriani ma anche al coordinamento tra Damasco e i vertici delle Sdf curde avviato dopo la minaccia di un’altra offensiva turca nel Rojava. Da parte sua Bashar Assad alza l’asticella, vuole il ritiro totale delle forze turche di occupazione in Siria e non si sente obbligato a riconciliarsi con l’opposizione che per dieci hanno ha trovato ospitalità in Turchia e con le milizie armate e finanziate da Ankara. Putin, dopo il summit di Sochi del 5 agosto con Erdogan, gli ha chiesto di non opporsi a un possibile vertice con il leader turco. In una intervista, il presidente siriano ha replicato «Dico che non sarei onorato di farlo…Tuttavia se incontrarlo porterebbe risultati favorevoli alla Siria, allora va fatto». Assad in realtà il summit con Erdogan lo vuole, sa bene che la riconciliazione con la Turchia significherebbe per lui la vittoria definitiva.
Erdogan punta a demolire l’autogoverno curdo nel nord-est della Siria e ad avviare il rimpatrio dei rifugiati siriani che sono considerati un peso da molti turchi e che potrebbero pesare sul risultato del partito Akp alle elezioni del 18 giugno 2023. Vuole inoltre lungo il confine con la Siria un’ampia “zona di sicurezza” – così la chiamano in Turchia – sgomberata dalle Sdf. In gioco c’è la sopravvivenza politica di Erdogan. L’economia turca, il cui successo per lunghi anni ha favorito quello personale del presidente, è in caduta libera. Il risentimento contro i profughi è alle stelle e le aggressioni ai siriani sono sempre più frequenti. L’opposizione da tempo sostiene che non appena salirà al potere, “manderà a casa i siriani”, quindi, la normalizzazione con Assad è diventata quasi obbligata per Erdogan, se vuole alimentare di sue speranze di riconferma al potere. Pagine Esteri
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La fame in Sri Lanka: una catastrofe che ci riguarda
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 8 agosto 2022 – I distributori di carburante sono chiusi, le case e gli uffici restano al buio per molte ore al giorno. Nella capitale Colombo, fuori dalle farmacie i pazienti depennano dalla lista della spesa i farmaci ai quali possono rinunciare, per ognuno di quelli salvavita tirano un sospiro pensando al riso o al latte che per alcuni giorni non potranno permettersi. Tre persone su quattro, ogni giorno, sono costrette a saltare un pasto. Lo Sri Lanka è affondato in una disastrosa crisi economica, la peggiore dal 1948, anno della sua indipendenza.
Il debito estero ammonta a oltre 51 miliardi di dollari e lo Sri Lanka ha dovuto dichiarare il fallimento: le sue riserve di valuta estera sono esaurite. Lontano dai riflettori internazionali, un Paese di 22 milioni di abitanti, con una popolazione istruita e con un reddito pro-capite tra i più alti dell’Asia meridionale, è scivolato nella catastrofe, fino a dover dichiarare la bancarotta. L’Onu chiede “immediata attenzione globale” per la crisi economica del Paese.
I tre mesi neri dello Sri Lanka – La catabasi dello Sri Lanka è stata lenta e inesorabile. Il debito che cresceva, le coltivazioni che non producevano più a sufficienza beni di sussistenza, il carburante che scarseggiava insieme a tutti gli altri prodotti di importazione che il Paese non poteva più permettersi: negli ultimi tre mesi, la situazione è precipitata.
In notti concitate di telefonate e riunioni segrete, nel mese di aprile il gabinetto del premier Rajapaksa si è rapidamente svuotato. A dimettersi anche il governatore della banca centrale, da settimane impegnato a rifiutare le proposte di aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale. All’ennesima dimissione, quella del nuovo ministro delle finanze, nominato solo ventiquattro ore prima, è stato dichiarato lo stato di emergenza. Sono seguite settimane di proteste, i cittadini affamati raccolti nelle strade chiedevano pane, carburante e un nuovo governo: la polizia rispondeva con una repressione sempre più violenta, uccidendo almeno dieci manifestanti e ferendone centinaia. L’ordine era – e rimane – quello di sparare a vista contro “chiunque costituisca un pericolo”.
A inizio maggio è intervenuta l’Onu, allarmata dalla “crisi umanitaria” nel Paese, con il 75% della popolazione ridotta alla fame. Il 9 maggio, il primo ministro Mahinda Rajapaksa si è dimesso da primo ministro ed fuggito a Singapore. A luglio, anche il Presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, fratello dell’ex primo ministro, ha rassegnato le sue dimissioni ed è fuggito alle Maldive. Il palazzo presidenziale è stato preso d’assalto dai manifestanti, che si sono fatti immortalare mentre si tuffavano nelle sue piscine e mettevano a ferro e fuoco le sue camere da letto. Gli è succeduto un veterano della politica di Colombo, Ranil Wickremesinghe.
Il vecchio e il nuovo – Per decenni, lo Sri Lanka è stato amministrato da un governo ultranazionalista a conduzione familiare. Una vera dinastia, quella dei Rajapaksa, che ha controllato il Paese dal 2004. Mahinda Rajapaksa è stato Primo ministro nel 2004, poi Presidente per dieci anni, poi di nuovo Primo ministro dal 2018 al 2022. Suo fratello Gotabaya lo ha affiancato come Ministro della Difesa per un decennio e dal 2019 è stato Presidente. Due altri fratelli della famiglia Rajapaksa hanno ricoperto posizioni di potere nello stesso ventennio. Durante la guerra civile, i Rajapaksa furono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità a causa della violentissima repressione di cui furono autori contro la formazione ribelle delle Tigri Tamil. Su di loro, anche dopo la riappacificazione del Paese, continuarono ad allungarsi le ombre delle accuse di corruzione e di omicidi e sparizioni di oppositori politici, attivisti e giornalisti. Il soprannome di Gotabaya divenne “terminator”.
Dopo quasi diciott’anni al potere, a luglio la famiglia Rajapaksa è stata costretta ad abbandonare il Paese. Il popolo in rivolta accusava il governo di essere il responsabile della catastrofe dello Sri Lanka, a causa della corruzione e delle politiche economiche e agricole dei Rajapaksa di questi anni.
I nuovi volti al governo non sono, però, molto incoraggianti. Il nuovo Presidente, Ranil Wickremesinghe, non è certo un neofita: veterano dell’estrema destra, per sei volte primo ministro, protagonista della guerra civile e delle violenze contro i ribelli Tamil. Una storia molto familiare, per la popolazione. Fresco di nomina, come da tradizione Rajapaksa, ha scelto un suo vecchio amico come primo ministro, Dinesh Gunawardena, un fedelissimo del vecchio governo. Ha poi confermato lo stato di emergenza nel Paese: l’esercito è stato mandato nelle strade a reprimere nel sangue qualsiasi tentativo di protesta. Sul Paese è calato definitivamente il buio.
Le cause di una tragedia annunciata – I fratelli Rajapaksa sono considerati i prinicipali responsabili della crisi economica del Paese. La dinastia al potere ha accumulato debiti esteri, principalmente con Cina e India. Circa il 10 per cento del debito estero locale dello Sri Lanka è detenuto da Pechino, un creditore non certo affabile, che negli anni ha moltiplicato i suoi interessi e che adesso pretende risarcimenti immediati. Che Colombo non può certo offrire, dal momento che, dopo aver contratto la metà dei suoi debiti vendendo titoli di stato in valuta estera, se n’è trovato completamente sprovvisto. A inizio anno, degli oltre 51 miliardi di dollari che doveva restituire ai suoi creditori, le casse dello Sri Lanka ne possedevano a malapena uno.
Nelle mani dei Rajapaksa, tutto sembrava possibile in nome della liberalizzazione del mercato e dei fondi provenienti dai Paesi più ricchi: ai loro conoscenti venivano garantiti appalti per infrastrutture finanziate a suon di debiti. Adesso molte di loro sono ancora cantieri aperti, cattedrali a cielo aperto in un Paese alla fame.
Tra le cause della crisi, c’è poi la guerra russo-ucraina, che ha messo in crisi i Paesi ricchi ma ha completamente prostrato i Paesi a medio e basso reddito, che ancora stavano facendo i conti con le conseguenze della pandemia e addirittura della crisi economica del 2008. In Sri Lanka, l’emergenza da Covid19 aveva già determinato un danno disastroso all’economia, con un taglio netto a uno dei suoi settori principali, il turismo. La scarsità di materie prime, nel mercato di Colombo ormai completamente dipendente dalle importazioni, ha spinto le banche a contrarre nuovi vincoli con i suoi creditori.
La crisi dello Sri Lanka è, però, anche una crisi agro-alimentare, che affonda le sue radici ancora una volta nelle scelte dell’ex governo di Colombo ma che riguarda anche le nostre tavole, principalmente quelle dei ceti abbienti dell’Occidente democratico. Secondo molti studiosi, a rovinare irrimediabilmente il Paese è stata l’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica che affama i poveri – “Un’applicazione generalizzata del «bio» condannerebbe alla fame la maggioranza dell’umanità”, scriveva qualche settimana fa il giornalista Federico Rampini sulle pagine del Corriere, a proposito di quello che definiva “un piccolo, sporco segreto” della crisi dello Sri Lanka.
Nell’aprile del 2021, all’improvviso, letteralmente dalla sera alla mattina, il governo Rajapaksa annunciò la conversione dell’intero settore agricolo del Paese in agricoltura biologica. A consigliarlo in questa scelta erano stati indubbiamente i suoi soci economici orientali e occidentali, Paesi ricchi attratti dalle potenzialità di mercato dei prodotti biologici. La produzione “bio” attrae molto i ceti abbienti: i prodotti vengono coltivati senza l’uso di sostanze chimiche, non sono contaminati e non contaminano l’ambiente, costituiscono quindi una scelta salutista ed ecologica al tempo stesso. Un lusso virtuoso, in breve, ma adottarla su larga scala in un Paese povero può portarlo alla catastrofe.
E’ quello che è successo in Sri Lanka, dove da un giorno all’altro i contadini sono stati costretti a fare i conti con un nuovo sistema agricolo molto meno produttivo. Non potendo più usare fertilizzanti né pesticidi, i contadini hanno visto i loro campi impoverirsi a vista d’occhio. La produttività si dimezzava nelle loro mani, mentre il governo di Colombo continuava a pretendere il “bio”. Finché tre quarti della popolazione non hanno avuto più di che alimentarsi. Molto prima che il popolo si ribellasse contro la dinastia Rajapaksa, nelle strade erano gli agricoltori a manifestare, chiedendo di poter tornare ai metodi tradizionali di coltivazione e di “salvare il salvabile”. Non sono stati ascoltati.
Quando il governo si è reso conto delle proporzioni della catastrofe “bio”, era troppo tardi. In primavera, il primo ministro aveva annunciato che il Paese sarebbe tornato ad acquistare fertilizzante per l’agricoltura. Una promessa che aveva lasciato impassibili i contadini: non c’era più denaro, in Sri Lanka, neppure per il fertilizzante.
Nella morsa del Fondo Monetario – Per un Paese della nuova via della seta come lo Sri Lanka, i creditori preferenziali sono sempre stati la Cina e l’India. Miliardi di debito sono stati accumulati da Colombo prima che si rendesse conto di non poterli restituire, né di poter fare fronte ai pesantissimi tassi di interesse di Pechino. Sono serviti mesi di proteste, morti per le strade, una crisi di governo e un’intera popolazione in emergenza umanitaria perché Colombo guardasse davanti a sé, verso l’enorme mostro dei propri creditori esigenti.
Per anni il Paese ha rifiutato il dialogo con Il Fondo Monetario Internazionale, ma secondo la nuova leadership non sembrano più esserci alternative. Un inverno cupo si prepara. Come annunciato dai portavoce del governo, la posizione dello Sri Lanka al tavolo delle trattative con il Fondo Monetario Internazionale non potrà che essere di estrema inferiorità e vulnerabilità. Per risanare la sua situazione economica, il Paese sarà costretto ad accettare qualsiasi condizione: privatizzazioni su larga scala, tagli alla previdenza sociale, sudditanza agli interessi delle economie di Stati Uniti ed Europa occidentale. I debiti saranno, insomma, pagati come sempre dagli ultimi, che ne usciranno soltanto più poveri e affamati.
Mai così vicino – Le dimensioni umane della tragedia che il Paese sta affrontando ci coinvolgono senz’altro, ma non è solo per questo che la “catastrofe Sri Lanka” potrebbe insegnarci molto e metterci in guardia. Sul disastro del “biologico”, ad esempio: un lusso della sinistra benestante e al tempo stesso un pericolo umanitario per le economie più povere, se gestito in maniera sprovveduta.
Il caso Sri Lanka costituisce, poi, la punta di un iceberg immenso che la liberalizzazione dei mercati dei Paesi poveri, incoraggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha creato. La fame improvvisa di 21 milioni di persone potrebbe essere un campanello d’allarme potentissimo, se l’Occidente fosse pronto ad ascoltarlo.
Per anni il Paese ha accumulato debiti esteri da Paesi ricchi che li offrivano con tassi di interesse bassissimi, un miraggio per le economie più povere del mondo. I fondi dei creditori ricchi sono liberamente fluiti verso le economie “in crescita” del pianeta, inclusa quella di Colombo, che, però, al primo segnale di cedimento è stata lasciata completamente sola, con debiti e interessi improvvisamente altissimi da pagare.
“Considerato in questa luce, è chiaro che lo Sri Lanka non è solo; semmai, è solo un presagio di una tempesta in arrivo di sofferenza del debito in quelli che gli economisti chiamano i “mercati emergenti””, scrive sul Guardian Jayati Ghosh, professoressa di economia all’Università del Massachusetts. “Il Fondo Monetario Internazionale si lamenta della situazione e non fa quasi nulla, e sia esso che la Banca Mondiale si aggiungono al problema con la loro rigida insistenza sui rimborsi e lo spaventoso sistema di supplementi imposto dal FMI. Mancano in azione il G7 e la “comunità internazionale”, il che è profondamente irresponsabile data la portata del problema e il loro ruolo nel crearlo”.
Secondo Ghosh, lo Sri Lanka non è che l’esempio dello tsunami che si abbatterà su molti altri Paesi vittime della stessa politica economic,a e di conseguenza anche sui Paesi ricchi in Occidente e in Asia. “La triste verità è che il “sentimento degli investitori” si muove contro le economie più povere indipendentemente dalle condizioni economiche reali in determinati Paesi.”, e aggiunge che “il contagio interesserà non solo le economie che stanno già attraversando difficoltà (…) Libano, Suriname e Zambia sono già formalmente inadempienti; La Bielorussia è sull’orlo; e l’Egitto, il Ghana e la Tunisia sono in grave difficoltà di indebitamento”. Una catastrofe annunciata che potrebbe aggredire i Paesi creditori da più fronti. Il potenziale di destabilizzazione politica ed economica delle crisi che l’Occidente ha contribuito a preparare è enorme.
Una fonte diplomatica singalese, intanto, ha anche annunciato “uno tsunami di migranti in Europa”. Nel solo mese di giugno, le richieste di passaporto da parte di cittadini singalesi sono state più di 80.000, quattro volte di più rispetto all’anno precedente. Un’altra delle conseguenze della propria economia con le quali l’Occidente prima o poi dovrà fare i conti.
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Tasse e fisco da cambiare: vecchi problemi antiche ricette
Da anni Techetecheté è il programma più visto del palinsesto estivo. Pescando nel ricco archivio della Rai, questa striscia quotidiana consola gli spettatori con il tepore zuccheroso della nostalgia. In campagna elettorale, i partiti sembrano ispirarsi a quel modello. Rischiamo un autunno con energi e riscaldamento razionati. Veniamo da un’esperienza di pandemia e lockdown di cui porteremo a lungo i segni. Ci viene quotidianamente spiegato che dobbiamo cercare di spendere i fondi del Pnrr, e di farlo nei tempi concordati se non limitando sprechi e spese inutili.
Eppure la campagna elettorale è per ora un juke box di grandi classici: flat tax, patrimoniale, dote giovani, presidenzialismo, eccetera.
I nostri politici non saranno molto creativi, ma l’eterno ritorno di alcune promesse non va preso sotto gamba: da una parte, segnala che quelle promesse non sono mai state mantenute (infatti restano attuali). Dall’altra, se esse hanno ancora presa è perché quei problemi non sono stati risolti nel corso degli anni, fra una elezione e l’altra semplicemente si smette di parlarne. Questo è vero soprattutto in campo fiscale. La proposta del centrodestra di una flat tax, ovvero di un’imposta ad aliquota unica, viene facilmente liquidata come una posticcia reminiscenza reaganiana. Nel 1994, Forza Italia prometteva già una semplificazione del sistema fiscale (da 200 a 10 imposte) e una aliquota unica «al 30%». Nella legislatura del centrodestra, il governo fece approvare una delega (2004) che avrebbe dovuto portare a due soli scaglioni dell’imposta sul reddito, 23 e 33%. Nell’ultima campagna elettorale (2018), la Lega proponeva, come fa ora, una flat tax al 15%, mentre Forza Italia si fermava su un valore più alto, il 23% del reddito.
Il guaio è che la pressione fiscale pesava per il 40% del Pil nel 1994, quando il Cavaliere propose per la prima volta il passaggio a una aliquota unica; era scesa, di poco, al 39,5% nel 2001 e nel 2021 è stata del 43,5%. Se dovessimo ragionare sul numero dei tributi, difficilmente avremmo l’impressione di un trentennio di grandi semplificazioni.
In compenso, il sistema fiscale ha una sua fisionomia che tutti sappiamo essere problematica ma a cui non mette mano nessuno. Anzitutto, è molto oneroso per chi lavora: come ricorda un rapporto della Commissione finanze della Camera, «l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro, che include anche i contributi sociali versati dal datore e dal lavoratore, è stata pari nel 2018 al 42,7 per cento (la terza più alta), a fronte di una media del 38,6 per cento per l’area dell’euro».
Contro l’ipotesi di una aliquota proporzionale, in molti sbandierano il requisito costituzionale della progressività del nostro Fisco: ma più che progressivo il sistema è opaco. Non è detto che due persone che hanno lo stesso reddito paghino le stesse imposte, dipende da come ciascuno dei due è capace di navigare il vasto mare di detrazioni e deduzioni. Le «spese fiscali» in Italia contavano, nel 2020, di 602 voci. Più in generale, gli interventi che sono stati fatti, negli ultimi vent’anni, vanno tutti nella direzione di definire dei «regimi di eccezione», che coincidono con attività che si ritiene auspicabile vengano intraprese, e dunque coi gruppi sociali che le presidiano.
L’imposta ad aliquota unica non basta, è stato detto più volte, a «semplificare» il sistema. È vero. Ma essa rappresenterebbe quello che non si è fatto in questi anni: cioè una riforma ambiziosa, del tipo che in qualche modo costringe a mettere ordine. È probabile che la moltiplicazione delle spese fiscali sia un effetto collaterale inevitabile della nostra democrazia. Rappresenta il tentativo della classe politica di rispondere a domande specifiche, che le vengono sottoposte da questo o quel gruppo d’interesse. Proprio per questo, però, varrebbe la pena intraprendere una drastica revisione di quelle che ci sono: ne verranno delle altre, lo sappiamo, ma intanto facciamo pulizia.
Il rischio della campagna elettorale Techetecheté è confondere le cose di cui si parla da anni con quelle che effettivamente sono state fatte, e alla fine indurci a cambiare canale, un po’ stufi di rivedere sempre le stesse scene. Se il centrodestra parla di nuovo della flat tax, il centrosinistra di nuovo le oppone i medesimi argomenti di cinque anni fa. Sarebbe incostituzionale: in realtà, non è vero, è il sistema fiscale nel suo complesso che deve essere progressivo non l’aliquota della singola imposta (altrimenti sarebbero incostituzionali anche la cedolare secca o l’imposta sulle plusvalenze finanziarie). È iniqua. Non si può fare. Ce l’ha l’Ungheria di Orbán (ma anche la Lituania e la Georgia antiputiniane e, per la verità, la Bolivia di Evo Morales).
In questa cacofonia di vecchie canzoni, si rischia di perdere di vista il punto. La pressione fiscale in Italia è ancora troppo alta oppure no? Lo è nonostante l’ampio ricorso al deficit di bilancio che sposta le tasse sulle spalle dei nostri figli? Come fare per non ritrovarci di nuovo, fra cinque anni, con gli stessi problemi e le stesse promesse?
Corriere della Sera, 22 agosto 2022
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I partiti fragili
C’erano una volta i partiti. Erano associazioni e si erano sviluppate con la conquista del suffragio universale, che aveva portato alla cittadinanza attiva milioni di persone. Nel secondo dopoguerra, quasi il 9 per cento della popolazione italiana con più di 14 anni era iscritto a un partito. Avevano poderose articolazioni territoriali, organizzazioni laterali giovanili e organizzazioni collaterali. Riunivano ogni due o tre anni i rappresentanti degli iscritti in congressi dove si scontravano correnti, si presentavano mozioni contrapposte, si votava sui programmi e sulle persone. La Democrazia cristiana ha avuto per molti anni fino a due milioni di iscritti (anche se talvolta i tesseramenti erano «gonfiati»), distribuiti in più di un migliaio di sezioni; un congresso, che
si riuniva ogni due o tre anni, composto di rappresentanti degli iscritti e di rappresentanti dei parlamentari; un consiglio nazionale di circa duecento componenti, che si riuniva tre o quattro volte per anno; una direzione di una trentina di membri, che si riuniva ogni mese; numerose organizzazioni collaterali. Il Partito comunista aveva dimensioni e articolazione simili.
Ha avuto in qualche anno fino a due milioni e mezzo di iscritti, un numero di cellule oscillante tra 30 e 60 mila e di sezioni tra 7 e 16 mila, e i suoi organi collegiali erano altrettanto, se non più attivi, di quelli democristiani. Il Partito socialista, pur se di dimensioni più ridotte quanto a iscritti, aveva una vita interna altrettanto democratica. Insomma, per quasi cinquanta anni della storia repubblicana, i partiti hanno rispecchiato la frase pronunciata da Piero Calamandrei alla Assemblea costituente il 4 marzo 1947: «una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti».
Se allora era iscritto ai partiti quasi il 9 per cento della popolazione con più di 14 anni, oggi è solo poco più dell’1 per cento che si iscrive ai partiti. Anche i votanti diminuiscono (mentre la popolazione è aumentata): nel secondo dopoguerra si recava alle urne circa il 93 per cento degli aventi diritto al voto; la percentuale è scesa ora al 73 per cento, e tende a diminuire. Le stesse basi dei partiti diventano fluide: agli iscritti si aggiungono gli esterni, si tende ad assimilare elettori ed eletti, si distinguono iscritti e militanti. Si diffondono quelli che sono stati definiti «falsi antidoti»: le «agorà» diventano succedanei delle sezioni; «primarie aperte» prendono il posto di scelte fatte dagli iscritti. C’è chi si iscrive temporaneamente, per far vincere un candidato a elezioni interne. Il dirigente di un partito ha segnalato recentemente il fenomeno di adesioni per motivi di gestione del potere, più che per motivi ideali. La struttura dei partiti è quella propria delle oligarchie. Quando si debbono formare le liste, una volta frutto di faticose riunioni degli organi collegiali, in periferia e al centro, si riuniscono ora i pochi stretti collaboratori del «leader», che scelgono all’interno e all’esterno dei partiti (i «candidati civici»), che vengono «paracadutati» in uno o più collegi (il moto della politica è dal basso verso l’alto, mentre qui la tendenza si inverte).
Da un sondaggio di due anni fa emerge che solo il 9 per cento della popolazione ha fiducia nei partiti. Questo è confermato anche dai pochi che contribuiscono al loro finanziamento: solo poco più del 3 per cento dei contribuenti destina ai partiti il 2 per mille e sono poco più di 7 mila le persone che danno ai partiti donazioni liberali. Quanto alla vita interna, gli statuti dei partiti sono stati definiti «simulacri formali»; i programmi non nascono da dibattiti interni, ma sono commissionati ad esperti capaci di sfiorare il ridicolo inserendo il tonno rosso nel programma; i plebisciti prendono il posto delle elezioni; gli organi di garanzia non sono pienamente indipendenti; l’organizzazione è verticalizzata, intorno a un «leader»; persino i siti dei partiti dicono pochissimo, facendo apparire modelli quelli della tanto vituperata burocrazia.
Il Pd ha un segretario che non è passato al vaglio di un congresso nazionale, ma che ha preparato le liste dei candidati alle elezioni nazionali, mentre ha due ex segretari che hanno traslocato in altre formazioni (fenomeno unico al mondo, credo). La Lega dovrebbe tenere un congresso nazionale ogni tre anni: la scadenza è dicembre di quest’anno, ma non sono ancora cominciate le «conte» provinciali, ed è difficile che si possa svolgere a quella data. Il Movimento 5 Stelle ha svolto le «parlamentarie», ma meno della metà degli iscritti si è espresso.
Tutti questi dati mostrano che è in corso una vera e propria agonia dei partiti. Questi sono «fragili, volatili, inconsistenti», come ha scritto Mauro Calise, che ha studiato a lungo la forma partito. Stiamo vivendo una «recessione democratica», ma non della democrazia statale, bensì della sua principale componente, che si riflette sulla democrazia nazionale. La politica attiva, che era impegno di molti, è ora diventata cosa di pochi. Gli elettori vanno in numeri sempre più ridotti alle urne non perché siano indolenti o disinteressati (la partecipazione politica passiva è quasi dieci volte più alta di quella attiva), ma perché i partiti offrono loro scelte sempre più ridotte (un nome, una lista bloccata, nessuna possibilità di esprimere preferenze), mentre consentono ai candidati di presentarsi in più collegi, decidendo poi quale scegliere. I partiti, fatti di vertici, mostrano incapacità di interrogare le istanze popolari e di offrire una sintesi delle soluzioni. Vengono chiamati forze politiche, ma non sono né forze, né politiche. Contano solo in quanto occupano le istituzioni.
Passata la fase elettorale, ai partiti si impone una duplice riflessione. La prima riguarda i modi per assicurare la democrazia nel loro interno. La costituzione tedesca richiede ai partiti di darsi ordinamenti democratici. Quella italiana richiede ai sindacati di rispettare la democrazia al loro interno (ma questi non lo fanno), mentre ai partiti impone solo di competere con metodo democratico. Per anni, si è tentato di stabilire per legge che i partiti debbono rispettare principi democratici. Ma i partiti potrebbero provare a farlo autonomamente. Seconda riflessione: cercare di capire come può servire a rendere più democratici i partiti la democrazia digitale, imparando dagli errori del Movimento 5 Stelle e cercando di coniugare la democrazia ottocentesca con quella del nuovo millennio e di trasformare le comunità virtuali in comunità di interessi e di idealità. Come può essere democratico lo Stato, se non lo sono i partiti, che rappresentano ancora il principale strumento di democratizzazione dello Stato?
Corriere della Sera, 22 agosto 2022
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Elezioni 2022: da Lollo a Meloni, la propaganda che infinocchia
Attenti, cari concittadini, attenti alla propaganda: vi stanno infinocchiando
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Elezioni 2022: ogni partito dà il peggio di sé. E’ la ‘peste italiana’
Quello che scorre sotto i nostri occhi è un film perfetto che descrive e 'giustifica' l’antipolitica
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Ubuntu: quando le lettere cambieranno il mondo
Dal 18 al 30 giugno 2022 è allestita all’Accademia di Belle Arti di Catania una mostra itinerante di Armando Milani, co-curata da Gianni Latino, intitolata Ubuntu. All’inaugurazione è stato presente il graphic design che forse più di tutti in Italia ha parlato, col segno, la lingua della pace, dei diritti civili, della tolleranza, dell’ecumenismo e del cosmopolitismo tra i popoli. Nell’occasione Milani ha tenuto una lectio magistralis seguitissima da un folto pubblico di studenti e follower.
Ubuntu è una parola di origine sudafricana che Nelson Mandela ebbe a pronunciare molte volte nella sua lotta epica contro l’apartheid. In estrema sintesi essa significa: io sono perché Noi siamo. Un messaggio di fraternità universale che Milani ha interpretato con due segni semplicissimi e di immediata leggibilità: un cuore rosso appuntato in una graffetta. L’icona che ne deriva è solo la punta dell’iceberg, perché la serie di manifesti presenti in mostra vi è intimamente consonante: un miscuglio di ‘cambi’ enigmistici in cui la sostituzione di una lettera, la sua sottrazione oppure l’aggiunta modificano il significato delle parole migrandole verso una dimensione pacifista. È il caso della A di War che una colomba in volo sottrae al lemma trascinandola verso l’alto, verso lo spazio vuoto in Pe_ce che così, compiutamente, diventa Peace (2005).
Nell’opera di Milani la parola è il segno grafico che modifica lo statuto del nostro essere al mondo, una chiara ‘poesia visiva’, saremmo portati a dire se lo stesso autore non si sottraesse alla natura poetica dei suoi interventi. Egli precisa e rivendica, invece, la sola forza del segno grafico, la sua chiarezza, l’immediata sua comprensione se e quando esso si spoglia d’ogni artificioso intendimento, rimanendo nudo e immanente a se stesso. Si prenda la E che percorre tutte le parole maggiormente significanti l’Unione Europea (2004): happinEss, pEace, tolErance, poEtry, resEarch, culturE, valuEs, Ethics, naturE; Milani le dispone una sotto l’altra formando un binario campito d’azzurro, come una via serena verso l’unità continentale. Oppure, per sottrazione, si prenda The forgoTTen conTinenT (2011), manifesto campito di nero (nero d’Africa > nero di lutto) il quale denuncia i milioni di bambini che ogni anno muoiono di stenti nel continente africano. Le t che diventano croci vi sono disseminate come su un cimitero australe.
Le meditazioni linguistiche di Armando Milani fanno parte di una campagna etica generazionale che potrebbe annoverare artisti come Oliviero Toscani, se non fosse che il medium del fotografo milanese è quasi interamente votato al marketing del brand Benetton. Oppure il Robert Indiana di Love, che negli anni sessanta elaborava una delle sculture maggiormente iconiche del secondo novecento, partendo da lettere-objet trouvé tinte di rosso. Anche in quel caso il valore fondamentale della scultura si rafforzava per via di scostamenti linguistici minimi: quella O che piega d’un lato, O, conferendo alla parola ‘amore’ un valore universalmente riconoscibile.
La tappa catanese, magistralmente allestita da Armando Milani e Gianni Latino, si arricchisce del contributo grafico di dieci docenti e quaranta allievi dei bienni specialistici di Design per l’editoria e di Design della comunicazione visiva, portando al numero di ottanta gli originari trenta manifesti. La mostra rafforza la vocazione internazionale che l’Accademia di Belle Arti etnea va costruendo da qualche tempo a questa parte. È la giusta direzione da intraprendere in una stagione fondamentale per l’affermazione culturale dell’Alta Formazione Artistica e Musicale in Italia.
Note immagine: Armando Milani all'ABACatania durante la lectio magistralis del 18 giugno 2022, mostra al pubblico il prototipo di Ubuntu.
Ph. Alessandro Spitale
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Il gas viene in aiuto del Sud Europa, e anche di Meloni
Per una volta, a Bruxelles, sono i Paesi mediterranei ad avere il coltello dalla parte del manico. Il che sarà utile anche per una eventuale Meloni premier
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Indo-Pacifico: la Germania cambia passo
L’Europa ha combattuto una guerra persa nel riaffermare la sua posizione nell’Indo-pacifico, ulteriormente aggravata dalla limitata capacità economica e militare nel garantire i propri interessi nella regione. Le conseguenze delle due grandi guerre hanno visto un programma obbligato di ripensamento e ricostruzione, con capacità limitate nel riorientare le sue strategie sulle sue ex colonie. La [...]
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I diritti delle minoranze come arma e l’invasione russa dell’Ucraina
Il rispetto dei diritti delle minoranze resta di fondamentale importanza e può essere considerato un parametro relativo al grado in cui un Paese si impegna a rispettare i diritti umani nel loro insieme. Infatti, il persistere di tendenze negative in merito al rispetto dei diritti delle minoranze razziali, etniche, culturali o linguistiche potrebbe essere un [...]
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Andrea
in reply to Maurizio Carnago • •@bluoltremauri
Partiamo dalla cosa più semplice:
A quanto so, non ci sono problemi di accessibilità riguardo i temi scuri.
Le persone che proprio non li sopportano possono usare le opzioni del browser per forzare il tema chiaro (almeno, quelli che lo hanno ossia i desktop - assicurati che sul tuo sito funzioni la modalità lettura di quelli mobile).
Io so che bisogna assicurarsi che il contrasto sia chiaro e accessibile: in questo senso: bianco su nero o nero su bianco sono uguali.
Qui trovi linee guida di accessibilità web in generale: developer.mozilla.org/en-US/do…
Quanto a risparmio energetico, gli sfondi scuri possono essere peggio:
Testo chiaro su sfondo scuro è più difficile da leggere, perché, nonostante il contrasto (quello effettivo) sia uguale, c'è meno luce che finisce nei tuoi occhi (indipendentemente dal tipo di superficie contenente il testo, che sia un display o un pezzo di carta), e si fa più fatica a distinguere le lettere. Chiamiamo la quantità di luce che finisce negli occhi "contrasto percepito".
Non solo questo:
Considerando che maggiore è il contrasto sia effettivo che percepito e meglio si legge, e il contrasto è maggiore quando la differenza tra zone chiare e scure è più accentuata...
A parità di illuminazione ambientale, e parlando di schermi che producono la propria luce che finisce negli occhi di chi legge, in ogni caso per leggere meglio (fino a un certo punto, ad esempio sei in una stanza buia, luminosità al massimo è insopportabile) si dovrebbe sempre alzare l'illuminazione dello schermo per avere buon contrasto percepito, ma:
- Su schermi OLED, dove i pixel neri sono spenti, il contrasto effettivo tra zone nere e bianche è sempre più alto di un LCD; alzare la luminosità aumenta tanto il consumo energetico su sfondo chiaro, ma su sfondo scuro il consumo è trascurabile
- Su schermi LCD, dove i pixel neri in realtà sono semplicemente "chiusi", e fanno passare meno della retroilluminazione (meno, ma non niente, e puoi vedere chiaramente che una schermata 100% nera su un LCD in realtà si vede grigina luminescente!); alzare la luminosità comporta sempre lo stesso consumo energetico, MA, il contrasto effettivo su un LCD è sempre più basso di un OLED perché i pixel neri fanno trapelare luce, e considerando che in ogni caso per vedere meglio bisogna avere sia buon contrasto percepito che effettivo... su un LCD finirai con l'alzare la luminosità su sfondo scuro per migliorare entrambi i contrasti, quindi addirittura a consumare più energia di quanta ne consumeresti per leggere un testo nero su bianco con lo stesso livello di comfort!
Spero di averti fatto capire - sto qua degli sfondi chiari o scuri su schermi diversi meriterebbe un articolo di blog...
E ora che ti ho detto tutto questo, però:
A meno che il sito non debba avere i colori che ha per una scelta artistica (ma in quel caso, di nuovo, assicurati almeno che l'HTML del tuo sito sia buono e quindi analizzabile dalle modalità di lettura dei browser, chi non sopporta il tuo tema potrà leggere con quella), se la tua scelta è puramente pratica.. allora non decidere tu, usa CSS per far decidere al browser (e al sistema operativo) di chi visita la tua pagina: usa le media query per dichiarare un tema chiaro, e un tema scuro. Fine.
Vedi developer.mozilla.org/en-US/do…
Un esempio:
/* Tema chiaro, predefinito */
body {
background-color: #FFFFFF;
color: #000000;
}
/* Tema scuro, secondario - Usato solo dai browser supportati (tutti quelli aggiornati, da anni) e che hanno preferenza di tema scuro */
@media (prefers-color-scheme: dark) {
body {
background-color: #000000;
color: #FFFFFF;
}
}
Si può volendo anche invertire il tutto, mettendo come predefiniti (specificati senza media query) i colori scuri, e specificando con @media (prefers-color-scheme: light) i colori chiari per chi preferisce quelli.
Maurizio Carnago
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