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EGITTO-TURCHIA. El Sisi rinuncia alla pace con Erdogan. La sua priorità è il gas


Con un decreto firmato questa settimana, el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. L'Egitto ora punta forte allo sfruttamento e all'esportazione del suo gas. L'articolo EGITTO-TURCHIA. El Sisi rin

della redazione

Pagine Esteri, 15 dicembre 2022 – Resta, almeno per ora, un gesto simbolico senza effetti concreti la stretta di mano che il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi e il leader turco Recep Tayyip Erdogan si sono dati il mese scorso davanti all’emiro Tamim bin Hamad al Thani del Qatar, lasciando presagire una normalizzazione delle relazioni tra Egitto e Turchia. Questa settimana, con l’obiettivo di replicare al memorandum d’intesa tra Tripoli e Ankara nel Mediterraneo, el Sisi a sorpresa ha firmato un decreto che definisce i confini occidentali della Zona economica esclusiva (Zee) dell’Egitto. Il decreto firmato da el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. Si attende ora la risposta turca.

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La mossa unilaterale di el Sisi frena il riavvicinamento con la Turchia in atto da circa un anno. I due paesi sono avversari irriducibili dal giorno del colpo di stato che nel 2013 portò al potere el Sisi e alla rimozione dei Fratelli musulmani alleati di Erdogan. Ma lo sono anche per motivi strategici ed economici poiché hanno forti interessi nello sfruttamento delle ingenti riserve di gas sottomarino nel Mediterraneo orientale.

Il Cairo ha voluto delimitare nel Mediterraneo ciò che ritiene debba essere sotto il suo controllo e rappresenti un interesse nazionale egiziano. Le entrate miliardarie che lascia intravedere nei prossimi anni lo sfruttamento del gas sottomarino di cui anche l’Egitto è ricco – all’enorme giacimento Zohr si è aggiunta la scoperta di recente di quello di Narges IX, di fronte alla città di El Arish (Sinai) -, hanno spinto el Sisi a rompere gli indugi e a inserirsi con prepotenza nel contesto energetico emerso dalla guerra tra Russia e Ucraina e dalle sanzioni occidentali all’energia di Mosca.

A contrapporsi nella regione sono in particolare gli interessi della Turchia e dei Paesi del forum del gas nel Mediterraneo orientale (Emgf: Francia, Cipro, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Autorità nazionale palestinese). Le parti si combattono a suon di definizione delle rispettive acque territoriali e delle Zone economiche esclusive. Adesso è stato il turno dell’Egitto. Allo stesso tempo il Cairo prova ad ostacolare l’EastMed (1), il gasdotto che dovrebbe convogliare il gas di Israele e Cipro verso Italia e Grecia. Meno gas passerà per l’EastMed e più ricaverà l’Egitto con l’esportazione del suo gas liquido prodotto negli impianti di Damietta e Idku (disponibile anche per il passaggio del gas israeliano e cipriota). L’Egitto inoltre sogna di esportare verso l’Europa elettricità prodotta nel suo territorio.

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Un eventuale ridimensionamento del progetto dell’EastMed non dispiace neppure ad Ankara che punta a diventare un hub energetico con gas russo, azero e anche Gnl. La Turchia infatti ha la maggior capacità di rigassificazione della regione. Pagine Esteri

NOTE

1) Il gasdotto del Mediterraneo orientale o semplicemente EastMed è un gasdotto pianificato offshore/onshore per collegare direttamente le risorse energetiche del Mediterraneo orientale alla Grecia continentale attraverso Cipro e Creta. Ancora in fase di progettazione, trasporterà il gas naturale dalle riserve di gas off-shore nel Bacino Levantino in Grecia e, insieme ai gasdotti Poseidon e IGB, in Italia e in altre regioni europee. Avrà una lunghezza di circa 1.900 km, raggiungerà una profondità di tre chilometri e avrà una capacità di 10 miliardi di metri cubi all’anno.

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In Ucraina la Russia è “condannata a vincere”


A dieci mesi dall'invasione dell'Ucraina, la Russia è condannata a vincere lo scontro con l'Alleanza Atlantica. Mosca martella le infrastrutture civili ucraine mentre i combattimenti si intensificano in Donbass, dove tutto è iniziato nel 2014 L'articolo

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – La guerra in Ucraina sta per entrare nel decimo mese ma i combattimenti sembrano tutt’altro che vicini alla conclusione.
Il fronte occidentale continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente Kiev affermando di mirare – come d’altronde ripete quotidianamente Volodymyr Zelensky – alla definitiva sconfitta della Federazione Russa e al completo ritiro delle sue truppe da tutto il territorio ucraino.

La Russia non può perdere
Ma la verità – e lo sanno bene le cancellerie dei paesi aderenti al Patto Atlantico – è che la Russia non può perdere, perché un passo falso in Ucraina potrebbe segnare la fine del potere di Vladimir Putin e gravi conseguenze per la Federazione.
Nei giorni scorsi Zelensky ha affermato che «se morisse Putin la guerra finirebbe», ma non è affatto scontato. Certo, a Mosca potrebbe prevalere la corrente pragmatica dell’establishment, cosciente dei limiti oggettivi della macchina militare e dell’economia russa e magari incline a cercare una ricomposizione con la Nato, alla quale del resto la Russia si era fortemente avvicinata a metà degli anni ’90 del secolo scorso (ai tempi della “Partnership for Peace”), prima che Washington la escludesse e iniziasse l’assedio.
Il contesto internazionale attuale, però, non sembra certo evolvere verso una ricomposizione tra i vari poli della competizione globale tra potenze e blocchi geopolitici. La sconfitta del più consistente tentativo finora intrapreso da Mosca di riprendersi un pezzo importante dello spazio territoriale e geopolitico occupato prima dall’impero russo e poi dall’Urss, costituirebbe un grave shock non solo per l’attuale dirigenza russa ma soprattutto per le correnti ancora più radicali dello scenario politico russo, nel quale nazionalismo e sciovinismo prendono sempre più piede.
In caso di fallimento, è proprio da questi ambienti radicali che dovrebbe difendersi Putin, la cui caduta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da parte della Russia nello strenuo tentativo di evitare un possibile collasso in uno scontro con la Nato sempre più diretto, per quanto per ora combattuto sul suolo ucraino. Le difficoltà di Mosca stanno già creando scompiglio negli “stan” dell’Asia Centrale, dove i vari regimi cercano di limitare la tradizionale influenza russa rafforzando le relazioni economiche e militari con la Cina, la Turchia e i paesi occidentali.

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Qual è l’obiettivo di Mosca?
Non è affatto chiaro, però, cosa Putin consideri sufficiente per dichiararsi vincitore. Nelle prime settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, sembrava che la cosiddetta “operazione militare speciale” puntasse non solo alla conquista del maggior numero di territori possibile ma anche a imporre a Kiev un governo fantoccio o comunque incline ad una trattativa impari con Mosca.
Poi, fallita la presa di Kiev e la decapitazione della leadership ucraina, la strategia del Cremlino sembrava mirare a occupare quantomeno tutta l’Ucraina sud-orientale per conquistare una stabile continuità territoriale con la Crimea e assimilare la maggior parte dei territori abitati dai russofoni, appropriandosi oltretutto delle zone più ricche di risorse naturali e infrastrutture industriali.
Nelle ultime settimane, invece, la strategia di Mosca sembra essere ulteriormente mutata: ora sembra che Putin miri a tenersi almeno alcuni dei territori annessi dopo aver deciso di abbandonare Kherson e le zone sulla sponda destra del fiume Dnipro, la cui difesa sarebbe costata un prezzo eccessivo, puntando nel contempo a fiaccare l’Ucraina per obbligare la sua la leadership a trattare.

Mosca martella città e infrastrutture
A questo mirano gli incessanti e implacabili bombardamenti, con droni e missili, delle infrastrutture civili (soprattutto centrali elettriche e sistemi idrici) e delle città ucraine realizzati dalle forze russe guidate da ottobre dal generale Sergej Surovikin.
Anche se Putin ha avvisato che i bombardamenti delle infrastrutture nevralgiche ucraine continueranno “in risposta” al sabotaggio del ponte di Kerč’ da parte di Kiev, appare evidente che Mosca intende piegare la popolazione civile lasciandola al buio, al freddo e senz’acqua durante il lungo e duro inverno ucraino.
Il premier ucraino Denys Smyhal ha avvisato che se gli attacchi ai sistemi elettrici ed idrici continueranno, il Pil del paese potrebbe crollare quest’anno del 50%.
Una relativa pausa invernale dei combattimenti a terra, inoltre, è utile a Mosca anche per addestrare ed inviare al fronte forze fresche, mobilitate in autunno, e riorganizzarsi logisticamente.

Usa e Ue aumentano aiuti e forniture militari
Per tentare di impedire il collasso dell’Ucraina l’Unione Europea si è impegnata a fornire a Kiev, nel corso del 2023, un pacchetto di aiuti pari a 18 miliardi, superando il veto del governo ungherese minacciato da Bruxelles del blocco dei fondi europei.
Dopo aver a lungo tentennato, invece, Washington sembra intenzionata ad inviare alcune batterie di Patriot a Kiev per migliorare la difesa antiaerea ucraina almeno sulla capitale del paese. Fornendo i Patriot, in grado di individuare e distruggere aerei e missili nemici anche a notevole distanza (ma non i droni), gli Stati Uniti sperano di diminuire l’intensità dei bombardamenti russi e dare un po’ di respiro a Kiev.
La formazione del personale in grado di utilizzare questo scudo antiaereo, però, è una procedura che richiede mesi; Mosca teme quindi che la Nato decida di far gestire inizialmente i Patriot al proprio personale militare, il che aumenterebbe ulteriormente il grado coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica nel conflitto in corso.
Proprio nei giorni scorsi, d’altronde, il tenente generale Robert Magowan, ex comandante dei Royal Marine di Londra, ha ammesso esplicitamente che alcune unità d’élite della marina britannica hanno partecipato a missioni «ad alto rischio politico e militare» e ad «operazioni segrete» sul suolo ucraino.
Gli Usa – che in totale hanno finora fornito all’Ucraina 19,3 miliardi di aiuti militari – hanno già inviato a Kiev alcuni missili HIMARS, imponendo però agli ucraini di utilizzarli solo per colpire le forze di Mosca sul suolo del paese invaso e non oltre il confine russo.
All’inizio di dicembre, comunque, Kiev ha deciso di bombardare, con droni dell’epoca sovietica potenziati, le basi russe di Ryazan ed Engels e un impianto petrolifero vicino a Kursk, centinaia di chilometri oltre il confine. Se gli attacchi hanno avuto un innegabile effetto psicologico sia in patria sia oltreconfine, la sortita non ha certo inciso sugli equilibri bellici. Mosca ha infatti risposto con massicci bombardamenti lanciando missili di ultima generazione realizzati negli ultimi mesi nonostante l’embargo alla quale la Russia è sottoposta da parte di Usa ed Ue.

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La guerra sarà lunga
Da parte sua la Nato continua a inviare segnali contraddittori. Da una parte frena, tendenzialmente, gli impeti ucraini nel timore che Mosca si convinca ad usare tutti i mezzi a sua disposizione alzando il livello dell’asticella. D’altra parte, però, l’Alleanza Atlantica non ha nessun interesse ad un cessate il fuoco che concederebbe ossigeno a Mosca e potrebbe fomentare le contraddizioni interatlantiche tra Bruxelles – fortemente penalizzata dalla polarizzazione dello scenario mondiale sia sul fronte economico che militare – e Washington e Londra – che invece se ne avvantaggiano.
La Nato sembra puntare ad un lungo conflitto nella speranza non che Kiev cacci definitivamente i russi dal proprio territorio – possibilità alquanto remota – ma che la continuazione dei combattimenti sfianchi a lungo andare la Russia causando una crisi che ridimensioni fortemente le aspirazioni geopolitiche di Mosca.
Parlando al “Consiglio per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani” Putin ha avvisato il popolo russo che la guerra in Ucraina sarà lunga e che sussiste il pericolo che si trasformi in un conflitto nucleare, anche se nessuna delle parti ammette di poter utilizzare per prima l’opzione atomica. Il presidente russo ha però vantato alcuni risultati positivi, come «l’acquisizione di nuovi territori» e il fatto che «il Mar d’Azov è diventato un mare interno della Russia».
Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ammesso che la guerra sarà lunga, insistendo sul fatto che sarà il campo di battaglia a decidere dove e quando si terranno eventuali colloqui di pace, escludendo quindi una trattativa con Mosca. Una trattativa che in realtà esiste già, per quanto dietro i riflettori, come dimostra il recente scambio tra un’atleta statunitense arrestata in Russia per traffico di stupefacenti e Viktor Bout, un ex ufficiale dell’aeronautica sovietica arrestato dagli Usa perché accusato di trafficare armi. A rivelare i contatti tra Russia e USA anche le reazioni infastidite e preoccupate di Kiev dei giorni scorsi; evidentemente gli ucraini temono un accordo tra le potenze nucleari che li bypassi.

Il Donbass sempre più martoriato
Paradossalmente, sia Putin che Stoltenberg hanno convenuto su un fatto che spesso l’informazione e la politica tendono a dimenticare: la guerra in corso non è iniziata il 24 febbraio scorso ma nel 2014, quando con il sostegno della Nato le correnti nazionaliste e scioviniste ucraine presero il potere a Kiev lanciando una “operazione militare speciale” contro le popolazioni russofone del Donbass che si opponevano al nuovo regime, a loro volta sostenute da Mosca che decise di annettersi la Crimea.
Il Donbass rimane il territorio più martoriato nei combattimenti, con le forze russe impegnate da settimane a tentare di strappare a Kiev la città di Bakhmut, strategica per l’eventuale conquista di centri come Kramatorsk, Slovjansk, Lyman e Izium.
Nelle ultime ore sembrerebbe che le forze di Mosca stiano avendo la meglio e stiano lentamente avanzando, dopo che negli ultimi due mesi non si sono registrati cambiamenti significativi della linea del fronte. Dal canto loro, le autorità dell’ormai ex Repubblica Popolare di Donetsk denunciano i più massicci bombardamenti dal 2014, che stanno riducendo le città in macerie e terrorizzando quella parte della popolazione che ha deciso di non evaquare in Russia. – Pagine Esteri

4268883* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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EGITTO-TURCHIA. El Sisi rinuncia alla pace con Erdogan. La sua priorità è il gas


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1) Il gasdotto del Mediterraneo orientale o semplicemente EastMed è un gasdotto pianificato offshore/onshore per collegare direttamente le risorse energetiche del Mediterraneo orientale alla Grecia continentale attraverso Cipro e Creta. Ancora in fase di progettazione, trasporterà il gas naturale dalle riserve di gas off-shore nel Bacino Levantino in Grecia e, insieme ai gasdotti Poseidon e IGB, in Italia e in altre regioni europee. Avrà una lunghezza di circa 1.900 km, raggiungerà una profondità di tre chilometri e avrà una capacità di 10 miliardi di metri cubi all’anno.

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Le questioni di identità all’interno dell’Europa sono state a lungo discusse. Uno studio condotto dal German Marshall Fund (Gmf) cita i risultati dell’Eurobarometro su due domande poste a tutti i Paesi dell’Ue che danno un’idea del motivo per cui i Paesi europei possono o meno voler entrate nell’Ue. I cittadini si identificano in primis come cittadini del proprio Paese o in egual misura come europei? Inoltre, preferirebbero che più decisioni venissero preso a livello dell’Ue? I risultati sono un po’ sorprendenti. I cittadini che si identificano principalmente come cittadini del proprio Paese sono anche i più desiderosi che le decisioni vengano prese a livello centrale nell’Ue. E viceversa: coloro che si sentono tanto europei quanto cittadini del proprio Paese sono anche i meno desiderosi che l’Ue faccia di più.

Questo dato è un po’ controintuitivo, in quanto si potrebbe supporre che la volontà dei cittadini di avere più potere decisionale nell’Ue vada di pari passo con un’identità europea più sviluppata. Questo ci dice, come minimo, che non tutti i Paesi vedono il ruolo dell’Ue allo stesso modo e che non hanno avuto le stesse ragioni per aderire all’Ue e al suo predecessore, la Comunità economica europea.

I Paesi, soprattutto del Nord Europa, che si affidano maggiormente al commercio come importante motore del loro modello economico, sono stati molto propensi a creare un mercato unico. Infatti le regole comuni e l’assenza di frontiere avrebbero incoraggiato un commercio fluido tra le nazioni. Con l’ingresso di altri Paesi nell’Unione, il mercato unico si è ampliato e così anche il raggio d’azione delle grandi nazioni commerciali. Allo stesso tempo, in quanto grande area commerciale, l’Ue si trova in una posizione migliore per negoziare accordi commerciali al di là dei suoi confini con il resto del mondo a nome di tutti i Paesi.

Il passo successivo all’integrazione commerciale è stata l’eliminazione dell’incertezza dei tassi di cambio. La volatilità delle valute nazionali interferiva con il valore di beni e servizi e impediva un commercio senza interruzioni. La creazione di una moneta unica per tutti i Paesi appartenenti al mercato unico avrebbe eliminato la volatilità delle valute. Tuttavia, anziché i grandi Paesi commerciali, fu un altro gruppo di Paesi, quelli con un’inflazione elevata, a voler adottare una moneta unica. Il motivo era quello di “importare” la stabilità dei prezzi dal Nord caratterizzato da una bassa inflazione. La formula della “moneta unica e stabile” era quindi molto più attraente per i Paesi con un’inflazione elevata che per quelli che facevano grande affidamento sul commercio.

Ma al di là delle diverse motivazioni economiche che hanno spinto i Paesi ad aderire all’Ue, la prospettiva di integrarsi in Europa ha fornito una piattaforma di modernizzazione. Per molti, in particolare per i Paesi più piccoli e mal governati, la prospettiva di entrare a far parte di un’unione economica è stata anche una spinta a modernizzare le proprie istituzioni. La cooperazione economica in un quadro comune è un modo per migliorare le strutture di governance. Esistono diverse interpretazioni del significato di «appartenenza all’Europa». Per alcuni Paesi, in particolare per quelli piccoli al confine orientale dell’Ue, dalla Finlandia fino a Cipro, la questione della difesa è molto più rilevante che per quelli della parte occidentale dell’Ue che si affacciano sull’Atlantico.

Quanto più stretta è l’integrazione con l’Ue, tanto maggiore è il senso di questa sicurezza, anche se non è supportata da esplicite disposizioni in materia di sicurezza. Il rapporto dei Paesi scandinavi, un gruppo di economie e società relativamente simili, con l’Ue dimostra questo legame tra una maggiore integrazione e lo sviluppo di un maggiore senso di sicurezza. All’estremità orientale della Scandinavia, la Finlandia è membro dell’Ue e della zona euro. Spostandosi verso ovest, Svezia e Danimarca sono membri dell’Ue, ma non della zona euro e, fino a poco tempo fa, la Danimarca aveva anche un opt-out per la difesa. Più a ovest si trovano Norvegia e Islanda, che non sono membri dell’Ue, ma con essa hanno stretti legami economici e sociali.

Partendo dalla parte orientale della Scandinavia e spostandosi verso ovest, la minaccia alla sicurezza da parte di vicini aggressivi si riduce, così come il grado di integrazione nell’Ue. Infine, oltre alla cooperazione economica, alla governance e alla sicurezza, c’è la questione dei valori. Si tratta di accedere e di adottare un sistema di valori al di là di un quadro giuridico, ed è particolarmente visibile nei Paesi con lo status di candidato.

La concessione dello status di candidato all’Ucraina è stata una grande vittoria per il Paese rispetto all’aggressione russa. L’Ucraina ha avuto accesso al sistema di valori necessario per formare alleanze profonde, e avere alleati forti e pieni di risorse è esattamente ciò di cui un Paese ha bisogno quando la sua sicurezza è compromessa. Questo non è un tentativo esaustivo di discutere cosa significhi l’Ue per ogni Paese, che sia membro attuale o futuro. La direzione in cui l’Ue si evolverà in futuro dipenderà dalla ricerca di un minimo comune denominatore. Tutti concordano sul fatto che il potere dell’Ue dipende dalla capacità di parlare con una sola voce. Non tutti sono d’accordo su quale debba essere questa voce.

Il Sole 24 Ore

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Per le pelli animali le industrie di auto disboscano il Paraguay


Grandi case automobilistiche acquistano pellami da aziende italiane. Queste ultime si riforniscono da allevamenti che occupano illegalmente la terra delle tribù peruviane L'articolo Per le pelli animali le industrie di auto disboscano il Paraguay provien

a cura di Survival International –

Pagine Esteri, 15 dicembre 2022 – Tra la deforestazione illegale del territorio degli Ayoreo Totobiegosode del Chaco paraguaiano, le pelli importate in Italia dal Paraguay, e alcune aziende automobilistiche come BMW e Jaguar Land Rover c’è un legame diretto.

Per realizzare interni, sedili e volanti, infatti, molte case automobilistiche acquistano pellami da due aziende italiane leader del settore: Pasubio Spa e Gruppo Mastrotto Spa. A loro volta, le due aziende si riforniscono da concerie che commerciano con allevamenti colpevoli di occupare la terra ancestrale degli Ayoreo e quella dei loro gruppi isolati e di disboscarla illegalmente mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. Gli Ayoreo sono l’ultimo popolo incontattato del Sud America sopravvissuto al di fuori del bacino amazzonico.

Questo legame è al cuore dell’Istanza depositata oggi da Survival International – in collaborazione e con l’autorizzazione degli Ayoreo Totobiegosode – contro Pasubio, presso il Punto di Contatto Nazionale italiano (PCN) dell’OCSE.

Alcune settimane fa, Survival aveva inviato lettere di diffida a entrambe le società sollecitandole a interrompere queste importazioni. Ma mentre Gruppo Mastrotto ha risposto avviando con Survival un dialogo che è ancora in corso e sarà poi oggetto di valutazione finale, Pasubio ha fatto pervenire solo una breve e sterile comunicazione di discolpa generica, senza mostrare alcuna volontà di confronto. Da qui, la decisione di ricorrere subito all’OCSE contro l’azienda Pasubio.

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Un camion di pelli dell’azienda Chortizer, uno degli allevamenti che occupano e disboscano illegalmente la terra degli Ayoreo Totobiegosode. Immagine tratta dal documentario “South America – Episode 4” di BBC. © Simon Reeve/BBC

Il legame tra le pelli utilizzate nell’industria automobilistica e la distruzione illegale della foresta degli Ayoreo è stato svelato per la prima volta da un’indagine della ONG britannica Earthsight. Risalendo fino all’origine della filiera, nei rapporti Grand Theft Chaco I e Grand Theft Chaco II, Earthsight rivela infatti che quasi tutti i 2 terzi delle pelli esportate dal Paraguay ogni anno nel mondo vanno alle aziende italiane, e principalmente a Pasubio, che dipende per oltre il 90% dei suoi 313milioni di euro di ricavi annuali proprio dall’industria automobilistica.

Nell’Istanza depositata oggi da Survival al PCN, si legge che la Conceria Pasubio sembra non aver rispettato diversi principi contenuti nelle Linee Guida OCSE, tra cui quelli sulla Divulgazione di informazioni (III), sui Diritti umani (IV), sull’Ambiente (VI) e sugli Interessi del consumatore (VIII).

Nell’Istanza, Survival chiede, tra le altre cose, che la multinazionale “accetti di interrompere immediatamente l’importazione di pelli dalle concerie del Paraguay responsabili e/o coinvolte nella deforestazione dell’area protetta degli Ayoreo Totobiegosode. La condotta perpetrata dalla società, infatti, contribuisce ad alimentare la deforestazione illegale e la violazione dei diritti del popolo Ayoreo Totobiegosode, privandolo della foresta da cui dipende per tutte le sue vitali necessità; forzandolo a uscire dalla propria terra in cerca di cibo e cure, e costringendolo a contatti forzati e indesiderati con il mondo esterno – cosa che porterà loro, inevitabilmente, morte e malattie come già accaduto in passato”.

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Namje Picanerai, uomo Ayoreo Totobiegosode, con il nipote. Gli Ayoreo Totobiegosode lottano da oltre 30 anni per la restituzione della loro terra ancestrale, nel Chaco paraguaiano. © Survival

“Il governo paraguaiano ha consegnato la maggior parte del territorio ancestrale degli Ayoreo ad aziende agroindustriali che abbattono la foresta senza sosta: prima tagliano gli alberi preziosi, poi incendiano la foresta e infine introducono il bestiame sulla terra disboscata” ha dichiarato oggi la responsabile della campagna di Survival Teresa Mayo, che recentemente ha visitato le comunità degli Ayoreo Totobiegodose raccogliendo la loro disperata richiesta di sostegno. “Nel frattempo, gli Ayoreo si vedono distruggere i loro mezzi di sostentamento, la salute fisica e mentale, e anche la vita. Ma restano determinati a lottare per continuare ad esistere insieme ai loro parenti incontattati, costretti a vivere in fuga perenne dai bulldozer in oasi di foresta che diventano ogni giorno sempre più piccole.”

“Se gli stranieri continueranno a tagliare gli alberi, i nostri parenti incontattati non sapranno più come sopravvivere… Dobbiamo proteggere la foresta che rimane” ha detto Porai Picanerai, leader Ayoreo Totobiegosode.

“Gli Ayoreo Totobiegosode stanno rischiando il genocidio a causa di una deforestazione selvaggia che è decisamente illegale, ma continua a crescere di pari passo con le importazioni di pelli dell’Italia” ha aggiunto Francesca Casella, direttrice della sede italiana di Survival. “Gli esperti prevedono addirittura che la domanda di pelle per auto aumenterà di oltre il 5% all’anno fino al 2027. Clienti e consumatori finali devono esserne consapevoli, e poiché l’Italia è il più grande acquirente di pelli paraguaiane al mondo, ha il potere e la responsabilità di intervenire smettendo di fare affari con gli allevamenti di bestiame che operano illegalmente all’interno della terra indigena con la connivenza di politici e funzionari corrotti. Non ci si può arricchire sulla pelle degli Ayoreo!”

Gli Ayoreo Totobiegosode lottano per la restituzione delle terre ancestrali dal 1993[/b], anno in cui hanno presentato una formale rivendicazione territoriale al governo.

Nel 2001 il governo del Paraguay ha riconosciuto legalmente un territorio di 550.000 ettari nell’Alto Paraguay come “Patrimonio naturale e culturale del popolo indigeno Ayoreo Totobiegosode” (PNCAT). Tuttavia, ad oggi le autorità hanno trasferito agli Ayoreo titoli di proprietà solo su alcune migliaia di ettari di terra e continuano a violare sia le misure cautelari emesse dalla Commissione Inter-Americana per i diritti umani (IACHR) sul territorio (che richiedono allo Stato del Paraguay di proteggere e tutelare il PNCAT e i gruppi incontattati che vi abitano prevenendo l’ingresso di terzi e contatti indesiderati), sia le risoluzioni emesse nel 2018 dall’Istituto forestale nazionale (INFONA), che rendono inequivocabilmente illegale la deforestazione.

La carne e il pellame del Paraguay sono responsabili, per unità di peso, di più deforestazione di qualsiasi altra materia prima sulla terra (Grand Theft Chaco I, p.36).

L'articolo Per le pelli animali le industrie di auto disboscano il Paraguay proviene da Pagine Esteri.



MIGRANTI. Si torna a respingere al confine italo-sloveno


L'intento del governo Meloni è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque provi di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. L'articolo MIGRANTI. Si torna a respingere al confine ita

di Anna Clementi e Diego Saccora – Associazione Lungo la rotta balcanica

Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – “La Lampedusa del Nord non va sottovalutata e quella delle riammissioni è una delle soluzioni a cui stiamo pensando”. Le parole pronunciate lunedì a Martignacco (Udine) da Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, danno seguito ai recenti ripetuti annunci del governo Meloni sulla riattivazione delle “riammissioni informali” al confine tra Italia e Slovenia sulla base della direttiva firmata da Maria Teresa Sempreviva, capo di gabinetto del Viminale relativa “all’incremento dei flussi migratori della rotta balcanica”.

Ciriani parlando di “Lampedusa del nord” intende l’area del Friuli-Venezia Giulia a ridosso del confine sloveno e definisce riammissioni i respingimenti delle persone operati dalla polizia italiana verso la Slovenia, pratiche che costituiscono una grave violazione dei diritti umani. Il piano del nuovo governo è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque tenti di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. A fronte di un aumento percentuale delle persone prive di regolare permesso di soggiorno intercettate al confine pari al 204% si tiene in secondo piano che il dato numerico sia di 4101 in tutto il 2022.

“Su un piano umano prima ancora che giuridico la notizia della ripresa delle riammissioni informali ha destato un vero e proprio sconcerto” ha dichiarato l’avvocata Caterina Bove dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (Asgi), in una conferenza stampa online organizzata lunedì 13 dicembre dalla rete RiVolti ai Balcani. “Ci è già noto il destino delle persone riconsegnate alla rotta balcanica, destino che le vedrà diventare soggetti o meglio oggetti di riammissioni a catena dall’Italia alla Slovenia, alla Croazia e da lì fino alle porte dell’Unione europea, in Bosnia o in Serbia, un destino che li costringerà ad affrontare di nuovo le violenze perpetrate ai confini croati, nonostante le numerose denunce da parte di tante organizzazioni” e a una sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che nel novembre 2021 ha condannato le stesse autorità croate per la morte della piccola Madina Hussiny, bambina afghana respinta verso la Serbia insieme alla famiglia nel 2017.

Ma lo sgomento, come ci spiega la Bove assieme alla sua collega di Asgi, Anna Brambilla, è anche giuridico. Non sono passati due anni da quando il Tribunale di Roma nel gennaio 2021, a seguito di un ricorso presentato dalle due avvocate, dichiarò illegittime le riammissioni dall’Italia alla Slovenia perchè fondavano la propria base giuridica su di un accordo siglato tra i due Paesi nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento, violando leggi interne, europee e internazionali, oltre ad esporre le persone a “trattamenti inumani e degradanti” lungo i Paesi dei Balcani e a “torture” in Croazia. Nessun rilascio di documentazione scritta, nessuna informativa sui propri diritti, detenzione in una caserma, per poi essere fatti salire su un furgone prima di essere consegnati alle autorità slovene. E spesso da lì, fuori dai confini dell’Unione europea. Dopo la sentenza, le riammissioni, che tra il 2019 e il 2020 hanno costituito l’illegittima base giuridica per il respingimento di oltre 1200 persone verso la Slovenia e molte a catena verso Serbia e Bosnia ed Erzegovina, sono state sospese.

Ma ora il governo sembra di nuovo muoversi in direzione contraria incurante dell’illegittimità di queste pratiche, che rimangono illegali anche nei casi in cui non venga registrata la manifestazione di volontà di richiesta della protezione internazionale. Infatti, come ci ricorda l’avvocata Brambilla, “in Italia le condotte della polizia di frontiera sono già state oggetto di pronunce sia di giudici nazionali sia di corti sovranazionali soprattutto per quanto riguarda il diritto d’informazione”. Pertanto l’assenza della registrazione da parte della polizia della manifestazione di presentare la richiesta di protezione internazionale non significa che la persona non abbia espresso la volontà di chiedere asilo ma può semplicemente essere che non sia stata messa nella condizione di manifestare tale volontà e che non sia stata informata sulle implicazioni in merito.

L’altro rischio è quello dei respingimenti collettivi in cui gruppi di persone vengano respinti, sulla base degli accordi, da un Paese all’altro senza che vi sia una valutazione individuale del singolo caso. “Non si parla mai dei destinatari delle riammissioni” ci ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano Solidarietà.

Ed è proprio delle persone che non dobbiamo mai dimenticarci. Perchè troppo spesso nel botta e risposta alla ricerca della disposizione a sostegno della legittimità o meno di un’azione, si perde di vista il contesto storico, sociale e politico entro il quale ogni singola persona che da anni percorre le rotte lungo i Paesi dei Balcani, dentro e fuori i confini d’Europa, si trova ad affrontare, subendo violenze fisiche e psicologiche. Il diritto negato è la cartina di tornasole di una persona violata. Perchè costretta a vivere rinchiusa in un campo, a sopravvivere in un accampamento informale, quotidianamente respinta nel tentativo di entrare in Unione europea, se non di essere riportata indietro al proprio Paese d’origine o in un Paese terzo dove i diritti e le vite delle persone vengono ancora una volta negati. Violazioni ampiamente documentate da numerose inchieste giornalistiche, tra tutte ricordiamo quelle pubblicate dal collettivo di giornalisti Lighthouse Report in collaborazione con diverse testate europee e quelle raccolte da volontari e attivisti ai confini interni ed esterni dall’Ue contenuti nel “Libro Nero dei respingimenti” prodotto dal Border Violence Monitoring Network. Pagine Esteri

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Dagli al ricco


Le multe fatte ai ricchi siano più care. Questa la nuova frontiera della politica con a cuore il sociale. Uno dei capisaldi della vigorosa scuola “tassazione & rottamazione”: prima faccio la voce grossa e poi ti condono, prima ti stango e poi ti mantengo.

Le multe fatte ai ricchi siano più care. Questa la nuova frontiera della politica con a cuore il sociale. Uno dei capisaldi della vigorosa scuola “tassazione & rottamazione”: prima faccio la voce grossa e poi ti condono, prima ti stango e poi ti mantengo. Il ricco paghi. Ci sono due ragioni per cui questa roba non può funzionare e non funzionerà.

La prima consiste nel fatto che il sistema fiscale progressivo (al crescere del reddito non solo paghi di più, ma con quote crescenti di quel che guadagni) è buono e giusto, nonché previsto dalla Costituzione. Evviva. Tale sistema è ispirato a un principio di solidarietà, che non sempre funziona, ma che può diventare una persecuzione. In Italia sono poco meno di 5 milioni i contribuenti che pagano più di quel che ricevono. Sono gli stessi contribuenti, assieme a molti altri considerati “ricchi” (ci arriviamo) che non hanno accesso a facilitazioni e pagano per intero determinate prestazioni, sanitarie comprese. Ora li si vuole multare più degli altri, con il che si lascia la sgradevole sensazione che si stia dando la caccia al ricco, anziché all’evasore.

Lasciamo perdere le benedizioni e le predestinazioni, talora guadagnare bene può anche solo essere fortuna. Comunque non è una colpa. Non è il ricco ad avere la colpa dell’esistenza del povero, semmai è la socialità assistenzialista e non meritocratica che ostacola il povero (soprattutto suo figlio) che abbia la capacità di superare il ricco (soprattutto suo figlio).

Ma anche volendo dare la caccia ai ricchi, ed è la seconda ragione per cui non funzionerà, sarà solo immaginaria. Fallimentare. Perché i ricchi non esistono, in Italia. A leggere le dichiarazioni Irpef se ne ricava che solo lo 0.24% dei contribuenti dichiarano più di 200mila euro. Ammesso e assolutamente non concesso che 200mila euro lordi di reddito significhi essere ricchi. Sopra 1 milione c’è solo lo 0.01%. Questi ultimi ho come l’impressione che abbiano l’autista e la vettura intestata a una società. Per mettere le multe salate a qualche persona in più si deve considerare ricchi quelli che dichiarano fra i 75mila e i 200mila euro l’anno, così da fustigare il 2.23% dei contribuenti. Una presa in giro. Sotto i 75mila il concetto di ricchezza è da attribuirsi alla fantasia sprovveduta di realtà, posto che il 56.05% dei contribuenti si colloca sotto i 20mila euro l’anno.

Se lasci la vettura in divieto di sosta è giusto che tu sia multato ed è ingiusto che poi ti condonino la multa che non hai pagato. Ma che la macchina del ricco sia un disvalore superiore all’analoga macchina del povero è moralismo da strapazzo. Tale da suggerire la lettura dei profondi pensieri di Superciuk, <<la minaccia alcolica>>, creato da Max Bunker (faceva lo spazzino e amava i ricchi, detestando i poveri perché sporcano di più). A parte la curiosa conseguenza secondo cui le multe al Nord sarebbero più care che al Sud, mi vengono in mente talune ricche città europee, ove non c’è una macchina che sia una fuori dai parcheggi regolari (e a pagamento). Non sarà che a rendere inefficaci le nostre multe siano le rottamazioni reclamate e attuate, piuttosto che la presunta esiguità dell’ammontare?

Ma c’è la più sollazzevole delle implicazioni: la multa all’evasore fiscale sarà più bassa di quella all’onesto contribuente. E in un Paese che ha il record europeo dell’evasione Iva, il che comporta pagamenti non fatturati o registrati, portando con sé evasione sul reddito e sulla previdenza, mi sa che con le multe fustigatrici dei ricchi (inesistenti) si cominci ad esagerare con l’istigazione all’evasione fiscale.

A tal proposito: Meloni ha ragione e sarebbe incostituzionale stabilire il prezzo delle transazioni con carte di credito e debito. Quelle commissioni, però, sono sempre e continuamente scese. Miracolo? No, concorrenza. Come è capitato con le tariffe telefoniche e i biglietti aerei: mercato, concorrenza e controlli. È la socialità del “dagli al ricco” a produrre miseria ed evasione fiscale.

La Ragione

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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – La chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare


… altrimenti, la chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare ed instaurerà l’onnipotenza della burocrazia da Corriere della Sera, 18 agosto 1921 L'articolo #uncaffèconluigieinaudi ☕ – La chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare proviene da Fondazi
… altrimenti, la chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare ed instaurerà l’onnipotenza della burocrazia

da Corriere della Sera, 18 agosto 1921

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



‘Qatargate’, mazzette in cambio di idee: dolo sì, reato forse


C’è una sorta di costante nei commenti e nelle analisi dei nostri politicanti e tirapiedi vari, ma anche nella stampa, specie in ‘quella che conta’ o dice di contare, una costante, dico, nei commenti alla vicenda di Bruxelles. Una vicenda, apparentemente come vedremo, di ordinaria corruzione, volgare come sempre la corruzione, che non è più […]

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Ucraina: a Parigi, una conferenza di ‘non-pace’


‘Solidali con il popolo ucraino’: questo il titolo della conferenza internazionale svoltasi il 13 dicembre a Parigi su invito congiunto del Governo francese e di quello di Kiev. Ha fatto seguito, nel pomeriggio dello stesso giorno, un incontro bilaterale franco-ucraino dedicato alla futura ricostruzione del Paese e al contributo che ad essa potranno dare gli […]

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Il Summit Usa-Africa in corso a Washington cerca di rilanciare una relazione sbiadita, su cui pesa l’influenza crescente di Russia e Cina.


Tavolata numerosaPrimo vertice di sempre tra i 27 capi di stato e di governo dell’Ue e i loro omologhi dell'Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN).


La Germania e il terrorismo statale di destra


“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Una notizia che in questi giorni è passata alquanto collaterale rispetto a temi mediatici più appetibili per l’informazione […]

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Il cross posting di Un Tweet può non funzionare quando si imposta la modalità non elencato


Crea con l'IA un'immagine ispirata a Privacy Chronicles e vinci un abbonamento gratuito!


Sei mesi di abbonamento per il primo classificato, tre mesi per il secondo, un mese per il terzo!

Ciao a tutti,

grazie a un lettore oggi ho scoperto un software di intelligenza artificiale che permette di creare immagini a partire da un prompt umano. Lo strumento è davvero molto potente e l’unico limite è la fantasia.

Questo lettore l’ha usato per chiedere al software di creare delle immagini di copertina per Privacy Chronicles:

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Il software si chiama Midjourney ed è davvero semplice da usare. Bisogna soltanto scaricare Discord, creare un account e poi entrare nel server del bot (discord.gg/midjourney).

Una volta dentro, sarà sufficiente entrare in una delle stanze denominate #newbies e chiedere al bot di creare qualcosa con il comando /imagine. Qui trovate tutte le istruzioni per conoscere le varie configurazioni del bot e avere risultati ottimali, ma in verità non ce n’è neanche bisogno.

Crea un’immagine a tema Privacy Chronicles


Ho giocato anch’io un po’ con il bot, e mi è piaciuto così tanto che ho pensato: hey, perchè non vedere cosa riescono a tirar fuori anche gli altri lettori di Privacy Chronicles?

E allora eccoci qui, vediamo cosa riuscite a tirare fuori dal cappello — o meglio, dall’intelligenza artificiale.

Stimoliamo la fantasia con un po’ di sana competizione tra noi. I lettori che riusciranno a creare l’immagine più bella vinceranno un abbonamento a Privacy Chronicles.

Ecco le regole:

  • Crea un’immagine a tema Privacy Chronicles — cioè un’immagine che raffiguri ciò che per te rappresenta Privacy Chronicles. Senza alcun limite, se non quello di spiegarmi l’immagine se eccessivamente astratta.
  • Inviami via posta elettronica (crypt04n4rch1st@tutanota.com) la tua immagine con titolo “IA prompt PC” (max 1 a persona)
  • Descrivi brevemente l’immagine (anche solo col prompt usato per crearla). Se non la capisco non la prendo in considerazione!

Le prime tre immagini che mi piaceranno di più vinceranno un abbonamento gratuito a Privacy Chronicles, in questi termini:

1° classificato/a: sei mesi di abbonamento gratuito

2° classificato/a: tre mesi di abbonamento gratuito

3° classificato/a: un mese di abbonamento gratuito

N.B. gli abbonati riceveranno un’estensione all’abbonamento già attivo

Verranno prese in considerazione solo le immagini inviate entro le 23:59 del 23 dicembre 2022. Non so quanti di voi parteciperanno a questa piccola gara amichevole, ma siete migliaia e mi ci potrebbe volere del tempo per scegliere i vincitori. Abbiate pazienza 😁

Cercherò comunque di postare le immagini che mi hanno colpito di più sul canale telegram, a prescindere dai primi tre posti. Se non sei ancora iscritto/a, è un buon momento per farlo!

Vi lascio con delle immagini che ho creato oggi e che mi piacciono particolarmente. Al software ho chiesto di immaginare una società in cui le persone sono valutate e punite per ciò che pensano:

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privacychronicles.substack.com…



USA: la guerra dei chip colpisce gli alleati, ma non molto la Cina


Il Bureau of Industry and Security (BIS) del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha implementato fino ad oggi i controlli più completi sulla fabbricazione di semiconduttori e sul supercalcolo. Nel corso dell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha ampliato i propri controlli sull’esportazione di semiconduttori, supercomputer e relativi input e apparecchiature in Cina. Anche la vendita di tecnologie […]

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Venezuela – USA: Biden parli ai venezuelani


Mentre riprendono i negoziati tra il governo venezuelano e l’opposizione, l’amministrazione Biden ha l’opportunità di sostenere accordi sostanziali che possono affrontare i diritti umani e le crisi umanitarie del paese. Farlo, tuttavia, richiederà un maggior grado di coordinamento multilaterale e garantire che il processo coinvolga la società venezuelana, non solo la sua classe politica. Il […]

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Pace in Ucraina: i fantasmi di Versailles


Un cambio di stagione porta un cambio di prospettiva. Con St Martin che appare su un cavallo bianco per segnalare le prime nevicate nell’Europa centrale e orientale, con il medio termine alle spalle e il costo per l’Occidente che cresce come un deficit di bilancio degli Stati Uniti, il discorso si è rivolto alla pace. […]

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MIGRANTI. Si torna a respingere al confine italo-sloveno


L'intento del governo Meloni è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque provi di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. L'articolo MIGRANTI. Si torna a respingere al confine ita

di Anna Clementi e Diego Saccora – Associazione Lungo la rotta balcanica

Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – “La Lampedusa del Nord non va sottovalutata e quella delle riammissioni è una delle soluzioni a cui stiamo pensando”. Le parole pronunciate lunedì a Martignacco (Udine) da Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, danno seguito ai recenti ripetuti annunci del governo Meloni sulla riattivazione delle “riammissioni informali” al confine tra Italia e Slovenia sulla base della direttiva firmata da Maria Teresa Sempreviva, capo di gabinetto del Viminale relativa “all’incremento dei flussi migratori della rotta balcanica”.

Ciriani parlando di “Lampedusa del nord” intende l’area del Friuli-Venezia Giulia a ridosso del confine sloveno e definisce riammissioni i respingimenti delle persone operati dalla polizia italiana verso la Slovenia, pratiche che costituiscono una grave violazione dei diritti umani. Il piano del nuovo governo è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque tenti di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. A fronte di un aumento percentuale delle persone prive di regolare permesso di soggiorno intercettate al confine pari al 204% si tiene in secondo piano che il dato numerico sia di 4101 in tutto il 2022.

“Su un piano umano prima ancora che giuridico la notizia della ripresa delle riammissioni informali ha destato un vero e proprio sconcerto” ha dichiarato l’avvocata Caterina Bove dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (Asgi), in una conferenza stampa online organizzata lunedì 13 dicembre dalla rete RiVolti ai Balcani. “Ci è già noto il destino delle persone riconsegnate alla rotta balcanica, destino che le vedrà diventare soggetti o meglio oggetti di riammissioni a catena dall’Italia alla Slovenia, alla Croazia e da lì fino alle porte dell’Unione europea, in Bosnia o in Serbia, un destino che li costringerà ad affrontare di nuovo le violenze perpetrate ai confini croati, nonostante le numerose denunce da parte di tante organizzazioni” e a una sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che nel novembre 2021 ha condannato le stesse autorità croate per la morte della piccola Madina Hussiny, bambina afghana respinta verso la Serbia insieme alla famiglia nel 2017.

Ma lo sgomento, come ci spiega la Bove assieme alla sua collega di Asgi, Anna Brambilla, è anche giuridico. Non sono passati due anni da quando il Tribunale di Roma nel gennaio 2021, a seguito di un ricorso presentato dalle due avvocate, dichiarò illegittime le riammissioni dall’Italia alla Slovenia perchè fondavano la propria base giuridica su di un accordo siglato tra i due Paesi nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento, violando leggi interne, europee e internazionali, oltre ad esporre le persone a “trattamenti inumani e degradanti” lungo i Paesi dei Balcani e a “torture” in Croazia. Nessun rilascio di documentazione scritta, nessuna informativa sui propri diritti, detenzione in una caserma, per poi essere fatti salire su un furgone prima di essere consegnati alle autorità slovene. E spesso da lì, fuori dai confini dell’Unione europea. Dopo la sentenza, le riammissioni, che tra il 2019 e il 2020 hanno costituito l’illegittima base giuridica per il respingimento di oltre 1200 persone verso la Slovenia e molte a catena verso Serbia e Bosnia ed Erzegovina, sono state sospese.

Ma ora il governo sembra di nuovo muoversi in direzione contraria incurante dell’illegittimità di queste pratiche, che rimangono illegali anche nei casi in cui non venga registrata la manifestazione di volontà di richiesta della protezione internazionale. Infatti, come ci ricorda l’avvocata Brambilla, “in Italia le condotte della polizia di frontiera sono già state oggetto di pronunce sia di giudici nazionali sia di corti sovranazionali soprattutto per quanto riguarda il diritto d’informazione”. Pertanto l’assenza della registrazione da parte della polizia della manifestazione di presentare la richiesta di protezione internazionale non significa che la persona non abbia espresso la volontà di chiedere asilo ma può semplicemente essere che non sia stata messa nella condizione di manifestare tale volontà e che non sia stata informata sulle implicazioni in merito.

L’altro rischio è quello dei respingimenti collettivi in cui gruppi di persone vengano respinti, sulla base degli accordi, da un Paese all’altro senza che vi sia una valutazione individuale del singolo caso. “Non si parla mai dei destinatari delle riammissioni” ci ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano Solidarietà.

Ed è proprio delle persone che non dobbiamo mai dimenticarci. Perchè troppo spesso nel botta e risposta alla ricerca della disposizione a sostegno della legittimità o meno di un’azione, si perde di vista il contesto storico, sociale e politico entro il quale ogni singola persona che da anni percorre le rotte lungo i Paesi dei Balcani, dentro e fuori i confini d’Europa, si trova ad affrontare, subendo violenze fisiche e psicologiche. Il diritto negato è la cartina di tornasole di una persona violata. Perchè costretta a vivere rinchiusa in un campo, a sopravvivere in un accampamento informale, quotidianamente respinta nel tentativo di entrare in Unione europea, se non di essere riportata indietro al proprio Paese d’origine o in un Paese terzo dove i diritti e le vite delle persone vengono ancora una volta negati. Violazioni ampiamente documentate da numerose inchieste giornalistiche, tra tutte ricordiamo quelle pubblicate dal collettivo di giornalisti Lighthouse Report in collaborazione con diverse testate europee e quelle raccolte da volontari e attivisti ai confini interni ed esterni dall’Ue contenuti nel “Libro Nero dei respingimenti” prodotto dal Border Violence Monitoring Network. Pagine Esteri

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pagineesteri.it/2022/12/14/mon…



JENIN. Uccisa una palestinese di 16 anni durante un raid dell’esercito israeliano


Jana Zakarna, 16 anni, è stata trovata morta sul balcone di casa colpita alla testa da un proiettile. L'esercito israeliano riconosce che potrebbe essere stata uccisa "accidentalmente" dal fuoco dei suoi soldati. L'articolo JENIN. Uccisa una palestinese

AGGIORNAMENTO ORE 18.30

L’esercito israeliano comunica che con “alta probabilità” un cecchino della polizia di frontiera ha “accidentalmente” sparato e ucciso la sedicenne Jana Zakarna che, dice il comunicato, sarebbe stata vicina a uomini armati che da un tetto sparavano ai soldati durante un raid a Jenin.

.

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della redazione

(nella foto Jana Zakarna)

Pagine Esteri, 12 dicembre 2022 – Con una sorta di ammissione parziale delle sue responsabilità, l’esercito israeliano ha comunicato di aver avviato indagini per “accertare” se i suoi soldati hanno aperto il fuoco verso una ragazzina palestinese, uccidendola, la scorsa a Jenin, in Cisgiordania. Una uccisione che descrive come “accidentale” perché, afferma in un comunicato il portavoce militare, è avvenuta “durante uno scontro a fuoco con uomini armati palestinesi”. Jana Zakarna, 16 anni, è stata trovata morta sul balcone di casa con una ferita da arma da fuoco alla testa dopo che le truppe israeliane si erano ritirate da Jenin.

Secondo la tv israeliana Kan e il portale di notizie Ynet, Zakarna potrebbe “essere stata erroneamente presa di mira” mentre osservava le truppe dal terrazzo. I soldati, affermano gli stessi media israeliani, hanno effettivamente sparato contro i tetti di diverse abitazioni di Jenin, da dove, affermano, combattenti palestinesi avrebbero aperto il fuoco sulle forze israeliane che stavano arrestando due fratelli “ricercati”, Thaer e Muhammad Hatnawi, di 40 e 33 anni, e Hassan Marei, 30 anni. Altri tre palestinesi sono stati feriti negli scontri a fuoco.

La “Brigata Jenin” ha comunicato di aver resistito con un intenso fuoco di armi automatiche al raid israeliano al quale hanno preso parte anche soldati di unità speciali sotto copertura e cecchini piazzati sui tetti. Tra gli israeliani non si segnalano feriti. La scorsa settimana i militari avevano ucciso altri tre palestinesi a Jenin.
Questa mattina due giovani militanti sono rimasti feriti in un’esplosione avvenuta nel campo profughi della città causata, secondo la Brigata Jenin, dal fuoco di un drone israeliano. Questa versione non ha però trovato una conferma indipendente.

Jana Zakarna è il 218esimo palestinese ucciso dalle forze armate israeliane quest’anno, in gran parte in Cisgiordania durante ripetute incursioni in città e villaggi scattate dopo gli attacchi armati della scorsa primavera a Tel Aviv e altre città che hanno ucciso 18 civili israeliani. Tra le vittime palestinesi figurano una cinquantina di minori e una giornalista, Shireen Abu Akleh, della tv qatariota Al Jazeera, anche lei colpita “accidentalmente” secondo la versione fornita dall’esercito israeliano. Pagine Esteri

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Noi e il « ciecopacifismo » (che tanti danni ha fatto)


Gli ucraini hanno nella cultura popolare una parola intraducibile, che però descrive bene l’approccio di vasta parte dell’opinione pubblica occidentale alla guerra d’aggressione russa: poluda. In certe loro favole nere, il diavolo si diletta a offuscare c

Gli ucraini hanno nella cultura popolare una parola intraducibile, che però descrive bene l’approccio di vasta parte dell’opinione pubblica occidentale alla guerra d’aggressione russa: poluda.
In certe loro favole nere, il diavolo si diletta a offuscare con questa sorta di cataratta gli occhi di chi vuole ingannare, spiega Oksana Zabuzko nel libro «Il viaggio più lungo», compendio della nostra cecità di fronte all’imperialismo putiniano. Le parole talvolta si rincorrono nel tempo e nello spazio, così svelandocisi appieno. Mosca prepara un inverno di fame e gelo per piegare milioni di ucraini. E ieri il presidente Zelensky ha chiesto ancora aiuto all’Occidente paventando altri attacchi missilistici alle infrastrutture volti a «provocare nuovi blackout».

In un contesto così estremo, la poluda richiama molto da vicino il senso del cieco pacifismo di cui parlava vent’ anni or sono Giovanni Sartori. Si tratta di quella tenebra che ottunde chi, «tutto cuore e niente cervello», rifiuta qualsiasi guerra, anche quella difensiva, anche quella che servirebbe a fermare un assassino quando questi compie i suoi misfatti proprio sotto il nostro sguardo. I pacifisti degli anni Trenta «hanno aiutato Hitler a imporsi», annotava il grande politologo.

Oggi la voglia di pace è grande, naturalmente, e cresce ormai assieme alla nausea per questa guerra «blasfema», come ripete senza sosta Papa Francesco. Tale intenso e sano desiderio può tuttavia generare equivoci, accecarci. E forse è alla base d’un curioso abbaglio: a Parigi s’ è tenuta ieri una conferenza internazionale, con Macron quale principale promotore. Obiettivo: consentire agli ucraini di «resistere durante l’inverno» e, accanto, porre le prime basi della ricostruzione che verrà. Ammontano a un miliardo i fondi promessi per i prossimi quattro mesi.

L’iniziativa ha raccolto una settantina di partecipanti d’alto rango (per noi, il ministro Tajani) nel supporto a Kiev in settori vitali come energia, trasporti e alimentazione. Confondendo desideri e realtà, su alcuni media era stata tramutata in una «conferenza di pace»: che certo sarebbe ottima cosa, se ci fosse qualcuno a Mosca disposto a parlarne sul serio. E qui torna in scena la poluda , perché ci vuole davvero una benda davanti agli occhi per non vedere.

A inizio dicembre, infatti, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, nella conferenza stampa annuale coi media, ha rimesso mano al più trito repertorio con cui il regime aveva giustificato l’invasione del 24 febbraio, dall’invettiva contro «lo sconsiderato allargamento della Nato» alla «minaccia esistenziale» che noi occidentali avremmo lanciato contro la Russia tramite Zelensky, fino a uno strabiliante attacco al Papa, accusato di «dichiarazioni non cristiane», con tanti saluti ai tentativi di mediazione del Vaticano.

Inoltre, poiché i russi dedicano speciali attenzioni all’Italia sperando in una nostra defezione, assai improbabile vista la postura di Giorgia Meloni, l’ambasciatore Razov ha lanciato la fake news di un blindato italiano distrutto in terra ucraina (ammonendoci, «tutti i contribuenti italiani sono felici di questa destinazione dei loro soldi?») proprio mentre stavamo discutendo sulla proroga dell’invio di armi a Kiev.
Insomma, c’è da pregare per un cessate il fuoco, è ovvio: Gideon Rachman sul Financial Times immagina un armistizio «coreano», che a un certo punto congeli la situazione senza un trattato formale.

Ma lui stesso ammette che Putin delira ancora di vittoria e si paragona a Pietro il Grande, un raffronto forse non casuale sui tempi e i propositi, visto che lo zar vinse la Grande guerra del Nord dopo 21anni di combattimenti. Di buono c’è che Putin fa ciò che dice, basterebbe ascoltarlo e regolarsi. Rovesciando la lettura di Lavrov, Kaja Kallas ricorda su Foreign Affairs che a dicembre dell’anno scorso la Russia aveva minacciato la Nato con il suo ultimatum: stop alla politica delle porte aperte e stop al dispiegamento di forze in Paesi entrati nell’Alleanza dopo il 1997 o sarebbe stata la guerra. Due mesi dopo, guerra è stata. Ma fino al giorno prima i nostri ciecopacifisti sostenevano che il suo
spauracchio era un’invenzione della Cia e che 190 mila soldati russi al confine ucraino fossero lì a esercitarsi.

Insomma, l’idea del dialogo per ora è velata di irenismo. È un «dialogo col sordo», ha scritto Paola Peduzzi sul Foglio . L’ottundimento dei sensi è tema ricorrente. Qui, il sordo è Putin che finge di non capire, spiegandoci che «un accordo sarà inevitabile» prima o poi, a patto che vengano riconosciuti «i nuovi territori della Federazione Russa», cioè quel quinto di Ucraina che lui occupa illegalmente e stupra ogni giorno. Le parole, in una guerra che passa molto attraverso la conquista di cuori e menti, sono assai importanti ma assumono diversa intensità a seconda della distanza dai missili russi. Sicché gli ucraini hanno riscoperto sulla loro pelle il significato di Holodomor : la carestia con cui Stalin li decimò il secolo scorso e che Putin ripropone adesso, coi suoi bombardamenti sugli impianti civili che mirano a ridurre l’Ucraina a una landa ghiacciata (un incubo cui si oppone appunto la conferenza di Parigi).

Noi, più fortunati, possiamo dilettarci, per ora senza conseguenze così estreme, con la parola «guerrafondaio», rispolverata contro il
governo Meloni dal leader d’opposizione Conte dopo avere votato lui stesso con la maggioranza precedente i decreti sull’invio di armi. Il termine ha una storia illuminante. Usato dal Pci addirittura contro De Gasperi per rimproverargli la sudditanza verso gli (allora) odiatissimi americani, non era disdegnato neppure da Hitler che voleva presentare la sua guerra come atto puramente difensivo: nel 1939 il Führer lanciò una campagna mediatica in cui, accingendosi a invaderne il territorio, dava del «guerrafondaio» al governo di Varsavia, accusato di «atrocità» contro la gente di etnia tedesca che viveva in Polonia.

Pochi anni prima, il poeta Arturo Serrano Plaja s’ era trovato ad affrontare la contraddizione tra il proprio pacifismo e la necessità di opporsi a franchisti e fascisti nella guerra civile che dilaniava la sua Spagna. Nulla sapendo di poluda, aveva concluso comunque che i guerrafondai erano loro. E che a lui, proprio nel nome della pace che amava, toccava combatterli senza quartiere.

Il Corriere della Sera

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#NotiziePerLaScuola

Percorso sperimentale integrato per l’anno scolastico 2023/2024: al via le candidature per l’indirizzo Trasporti e logistica, Conduzione di apparati e impianti marittimi (CAIM)/Conduzione di apparati e impianti elettronici di …



BOLIVIA. Tornano le tensioni nella regione guidata dal leader della destra


A Santa Cruz sono ricominciati gli scioperi e i disordini, guidati da Fernando Camacho e dai comitati degli imprenditori locali. Il pretesto del mancato censimento nasconde precise motivazioni politiche L'articolo BOLIVIA. Tornano le tensioni nella regio

Bolivia: Santa Cruz spina del fianco del MAS di Morales ed Arce in difficoltà.

di Davide Matrone –

Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – La Bolivia è il paese più instabile del continente latinoamericano ed è tra quelli che registra più governi imposti in modo anti-democratico a livello mondiale. In America Latina è quello che conta più colpi di stato in assoluto dalla dichiarazione della sua Indipendenza nell’anno 1825 con ben 36 casi all’attivo. L’ultimo si ebbe nel 2019 quando Evo Morales, dopo aver vinto le elezioni democraticamente, dovette lasciare il potere con la forza e rifiugiarsi in Messico prima e in Argentina poi. Il primo invece si ebbe nell’anno 1828, quando una sollevazione militare pose fine al governo costituzionale del Maresciallo Ayacucho e al suo posto fu posto il Generale José María Pérez de Urdininea.

Secondo alcuni studi realizzati nella FLACSO (Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali) che ha varie sedi nel continente, si dichiara che le divisioni interne delle Forze Armate Boliviane sarebbero la principale causa di questi innumerevoli colpi di stato. Inoltre, il paese vive tensioni e conflitti in modo permanente e costante per le divisioni etniche, linguistiche, geografiche sociali ed economiche dell’intero paese. Nel 2006 quando le elezioni le vinse Evo Morales, per la prima volta un Presidente indigeno governava un paese in cui oltre il 60% della popolazione era composto da abitanti di nazionalità ancestrali. Fino all’anno 2006 non fu mai eletto un Presidente indigeno, anzi ci furono occasioni in cui al potere del paese venivano eletti Presidenti che addirittura parlavano con un mezzo accento americano come nel caso del Presidente bianco Gonzalo Sánchez de Lozada. Evo Morales, presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia (dichiarato tale sotto la sua guida) dal 2006 al 2019 aveva messo in atto un modello di sviluppo che si ispirava al Socialismo del 21º secolo teorizzato dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan (assessore di Hugo Chávez fino all’anno 2007). La mescolanza delle politiche neo-keynesiane in campo economico con l’allora ministro dell’Economia Luis Arce (oggi Presidente della Bolivia), con un socialismo gramsciano e plurinazionale in campo politico grazie alla spinta del vicepresidente boliviano Álvaro García Linera, fece sì che la Bolivia in quasi 15 anni risultò essere tra i paesi latinoamericani che aveva ridotto maggiormente le disuguaglianze economiche e sociali e registrava allo stesso tempo uno dei migliori PIL della regione. Questo modello dava fastidio alle élite bianche e meticce di sempre che non sopportavano l’idea, inoltre, di essere guidati da un indio (termine dispregiativo utilizzato contro gli indigeni) e per di più un ex sindacalista socialista. A questi elementi si aggiungeva poi un vicepresidente chiaramente marxista, gramsciano e mariateguista.

Quindi contro il MAS (Movimento al Socialismo) di Evo Morales e di García, da sempre si è messa in marcia una campagna destabilizzatrice che ha visto nella regione più produttiva del paese di Santa Cruz, a maggioranza bianca-meticcia, l’epicentro dell’opposizione antigovernativa. Tra i colpi più destabilizzanti anti-Morales c’è da annoverare quello del 2016 quando si realizzò il Referendum costituzionale nel quale si chiedeva al popolo boliviano la riforma dell’articolo 168 della Costituzione da 2 a tre mandati consecutivi per le massime cariche dello Stato. In quell’occasione vinse il NO con il 51.30% con 9 regioni su 12 contro il Presidente Morales. In quella votazione si registrò la vittoria schiacciante nella regione di Santa Cruz dove il NO conseguì un 61% dei voti. Dalla stessa regione si sono sempre messe in atto, nei 15 anni di governo Morales, manifestazioni contrarie. Inoltre, da questa regione viene una delle figure politiche più aggressive della destra reazionaria e razzista della Bolivia degli ultimi anni e cioè Fernando Camacho che fu protagonista, insieme a Jeanine Añez, del famoso colpo di stato del 2019 con la complicità della OEA di Luis Almagro. In molti si ricordano i volti trionfanti dal balcone del Palazzo di Governo di Añez (che inneggiava il potere con la Bibbia in mano), Camacho e Pumari dopo le rivolte del 2019. Furono questi ultimi 2 a giungere da Santa Cruz alla volta di La Paz e chiedere ad Evo Morales la rinuncia al potere.

Dal mese di ottobre, riprendono le tensioni in Bolivia e nuovamente dalla Regione di Santa Cruz governata dall’imprenditore crucegno e lider della destra boliviana, Luis Fernando Camacho. Per saperne di pìu ho contatato la comunicatrice e docente in Scienze Politiche di La Paz, Maricruz Zalles.

Dal 21 ottobre, nella regione di Santa Cruz, si sono registrate una serie di proteste per il mancato censimento da parte del governo centrale.

Lo sciopero a Santa Cruz è cominciato il giorno 21 ottobre e non è certamente casuale questa data. Per l’opposizione è considerata una data simbolica perché il Referendum che perse Evo Morales nel 2016 si tenne esattamente il 21 febbraio. Poi ci furono i 21 giorni di proteste poselettorali del 2019 per cacciare Evo dal paese. Il censimento è totalmente un pretesto per creare disordini nel paese strumentalizzando il dolore e la rabbia di una parte della popolazione della Regione. C’è senza dubbio la strumentalizzazione politica da parte dell’opposizione rappresentata in questo caso dal Comitato Civico Pro Santa Cruz. Questi comitati civici sono gestiti da imprenditori locali che rappresentano gli interessi delle élite crucegne. Inoltre, il Comitato Civico di Santa Cruz si muove in modo autoreferenziale, i rappresentanti non vengono scelti in base ad elezioni popolari e non si concedono spazi ad istanze che vengono dal basso. Inoltre, le ultime prese di posizioni dei comitati civici locali con rispetto al federalismo e al secessionismo sono, a mio avviso, pericolose. E poi, per queste proteste c’è l’appoggio dello stesso Governatore della Regione di Santa Cruz Camacho, lider dell’opposizione al governo Arce. Bisogna dire che alla fine l’opposizione non è nemmeno riuscita nell’intento: chiedeva che il censimento si realizzasse nell’anno 2023 ed invece si terrà nel 2024.

Qual è la congiuntura politica e sociale attuale in Bolivia?

C’è senza dubbio una crisi politica che si trascina dal 2016 con il Referendum perso da Evo Morales all’epoca quando chiese la modifica Costituzionale e la rielezione alla Presidenza della Repubblica. Da allora si vive una tensione politica molto forte. Inoltre, dopo il colpo di stato del 2019, si è incrementata e generalizzata la tensione. C’è un clima di caccia alle streghe tra i rappresentanti dei due gruppi, pro MAS e anti MAS. Si armano liste di proscrizione, si controlla tutto ciò che si scrive e si dichiara pubblicamente da una parte e dall’altra. Tutto questo ha incrementato una forte polarizzazione nella comunità politica boliviana.

Qual è il bilancio del governo Arce dopo 2 anni di governo?

Arce è visto come un tecnocrate, un burocrata. Per questa ragione, la gestione che ha mostrato è abbastanza leggera, politicamente corretta e di basso profilo. È stato ministro dell’Economia nei governi Morales ed ha registrato buoni risultati in termini di crescita economica però come Presidente della Repubblica è criticato per non concretizzare il piano di governo. Continua con un discorso contradditorio e per questo è criticato da vari settori della popolazione e anche tra coloro che l’hanno sostenuto. Arce non ha il carisma di Evo Morales. In definitiva, le riforme non decollano come prima che erano più evidenti e si mostravano più efficacemente.

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CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano


Tre sono stati colpiti a Jenin durante un nuovo raid. Il quarto ad Aboud nei pressi di Ramallah. È di 217 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022. In gran parte in Cisgiordania. L'articolo CISGIORDANIA. Altri quattro pal

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 9 dicembre 2022 – Pare che i soldati israeliani, durante i raid nelle città cisgiordane, si orientino con mappe sulle quali i vari quartieri sono indicati con simboli che corrispondono ai nomi delle nazionali di calcio ai Mondiali in Qatar. In questo modo, nel caso le loro comunicazioni radio venissero ascoltate dalle formazioni combattenti palestinesi, eviterebbero di rivelare i movimenti sotto copertura delle unità speciali e, più di tutto, la posizione sugli edifici dei cecchini, lasciando così agli uomini sul terreno di avvicinarsi più agevolmente alle case dei «ricercati».

A rivelarlo, scrive un giornale online palestinese, sono state alcune di queste mappe ritrovate ieri da ragazzi a Jenin, in apparenza perse dai militari mentre si ritiravano dal campo profughi della città, al termine di una nuova sanguinosa incursione in cui sono stati uccisi due combattenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa – Atta Shalabi e Sidqi Zakarneh di Jenin – e, pare, un civile, Tariq Al Damej. Gli scontri sono andati avanti per quasi tre ore. I reparti israeliani hanno incontrato un forte fuoco di sbarramento, a conferma delle accresciute capacità di combattimento delle formazioni armate palestinesi. Il Battaglione Jenin, ad esempio, ha comunicato che i suoi membri hanno circondato e aperto un inteso fuoco contro un veicolo blindato israeliano costringendolo a fare retromarcia. La battaglia è proseguita, per molti minuti, nel rione di Al Hadaf a Jenin dove si trovavano i tre «ricercati».

Un testimone, Ghassan Al Saadi, ha descritto l’accaduto come un «inferno», con spari continui anche di mitragliatrici pesanti da parte israeliana e raffiche esplose dai palestinesi. Ha detto che i due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati colpiti con ogni probabilità da tiri di cecchini. Altri testimoni hanno raccontato di «spari israeliani contro un’ambulanza» diretta sul luogo dei combattimenti e dell’autista scampato alla morte per un soffio. Almeno dieci i feriti, secondo alcune fonti. Poi le forze israeliane, trasportate da una dozzina di automezzi blindati, sono uscite dal campo profughi con i tre arrestati e hanno abbandonato la città. Le autorità locali hanno proclamato tre giorni di lutto. In tarda mattinata migliaia di persone hanno partecipato ai funerali delle tre vittime. È di 216 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022 (i morti israeliani in attacchi armati sono una trentina).

Nel pomeriggio quel numero è salito a 217. Nei pressi di Aboud (Ramallah) gli spari di soldati israeliani hanno ucciso Diyaa al Rimawi e ferito gravemente suo cugino Hashem al Rimawi che stavano lanciando sassi e bottiglie piene di pittura contro le automobili di coloni israeliani. Altri tre palestinesi sono stati feriti. Negli ultimi giorni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro postazioni e colonie israeliane. Gruppi armati, come la Fossa dei Leoni e il Battaglione Ramallah, hanno rivendicato spari e lanci di granate verso gli insediamenti israeliani di Bet El, Halamish, Atarah, Ofra e Dolev. L’esercito israeliano ha arrestato diversi palestinesi in Cisgiordania mercoledì notte. Da segnalare l’arresto a Nablus di Ruhi Marmash, un tenente dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) considerato un fedelissimo del presidente Abu Mazen. Tra i morti e gli arrestati di questi ultimi mesi figurano non pochi membri delle forze militari dell’Anp. A conferma delle tensioni che lacerano le strutture di sicurezza governative palestinesi causate dalla cooperazione con Israele riconfermata anche di recente dai vertici politici. I servizi segreti israeliani dicono di aver arrestato un palestinese di Gaza con un permesso di lavoro che spiava in Israele per conto del movimento islamico Hamas. Pagine Esteri

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