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Le prospettive economiche della Cina nell’era post-Zero-COVID


L’economia cinese ha vissuto un altro anno straordinario nel 2022. Dopo una forte crescita del 4,8% nel primo trimestre, l’economia è cresciuta solo dello 0,4% nel secondo trimestre. Ciò era dovuto in gran parte ai blocchi previsti dalla politica zero-COVID. L’economia ha mostrato segnali di ripresa nel terzo trimestre con una crescita che ha raggiunto […]

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Nessuno vincerà una guerra lunga in Ucraina


È nel nostro interesse – e in quello degli ucraini – evitare una guerra prolungata in Ucraina. C’è una linea importante tra l’Occidente che aiuta l’Ucraina a difendersi, intensificando la guerra a un livello pericoloso e semplicemente facendo avanzare una guerra di logoramento – l’ultima delle quali potrebbe finire per giocare nelle mani dei russi. […]

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La space economy spiegata da Simonetta Di Pippo


Space economy è un termine ormai molto usato. Troppo forse, al punto da perderne una connotazione univoca. Per fare un esempio dei due riferimenti occidentali, negli Stati Uniti l’economia dello spazio si indentifica con un’imprenditoria privata molto strutturata, mentre l’approccio europeo è ancora regionalistico e dunque dipendente dagli enti spaziali nazionali. Due orientamenti diversi? Senza […]

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Da undici mesi l'aggressore - la Russia - determina le regole della guerra all'aggredito – l'Ucraina - e ai suoi sostenitori: i paesi occidentali. Incapace di vincere, Putin bombarda con armi pesanti tutti gli obiettivi civili che può.


ANALISI. Perché i palestinesi in Israele non partecipano ai raduni anti-Netanyahu


« Quando non parli di uguaglianza fra tutti i cittadini non aspettarti che venga il pubblico arabo. La democrazia non è solo rafforzare la Corte suprema», spiega un ex deputato. Ieri Netanyahu ha licenziato il ministro Aryeh Deri come aveva chiesto la Cor

di Michele Giorgio

(le foto e il video sono di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 23 gennaio 2023 – Un successo delle proteste contro il governo in corso nelle strade di Israele. Così osservatori e giornali giudicano il licenziamento annunciato ieri dal premier Netanyahu del ministro dell’interno e della salute Aryeh Deri, leader del partito religioso ultraortodosso Shas, che la scorsa settimana i giudici della massima corte di Israele avevano dichiarato non idoneo a far parte dell’esecutivo in quanto condannato per gravi reati fiscali. Netanyahu durante la riunione di governo ha detto di essere “molto dispiaciuto” e ha accusato giudici di non aver rispettato la volontà espressa dagli elettori lo scorso primo novembre. Certo è che la sentenza della Corte suprema ha creato un primo serio problema alla stabilità del governo di estrema destra religiosa poiché Deri e lo Shas sono una colonna della coalizione. Netanyahu non può fare a meno dell’appoggio di questo suo alleato e ora cerca un modo per tenerlo nel governo. Forse nominerà Deri primo ministro supplente ma la procedura è molto complessa e non è escluso un nuovo intervento della Corte suprema.

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Sulle dimissioni di Deri insistevano i partiti di opposizione e il Movimento per un governo di qualità (Mgq), divenuto il principale organizzatore delle manifestazioni a Tel Aviv a scapito del gruppo ebraico-arabo Standing Together che due settimane fa aveva portato in strada circa 15mila persone. Sabato scorso circa 200 israeliani, in prevalenza giovani, hanno scandito slogan in Via Kaplan e in via Leonardo da Vinci a sostegno dei diritti dei palestinesi in Israele e nei Territori occupati. Ma lo spostamento in una posizione di secondo piano di Standing Together ha contribuito a tenere gli arabo israeliani, ossia i palestinesi con cittadinanza israeliana, lontano dalle manifestazioni contro l’autoritarismo.

Pochi israeliani ebrei si sono posti domande sull’assenza da Piazza Habima dei cittadini arabi che pure è il segmento della società israeliana (21% della popolazione) che con ogni probabilità sarà tra i primi a finire nel mirino dell’estrema destra al governo. I palestinesi d’Israele spiegano che l’agenda della protesta non affronta i problemi più ampi del sistema. Difendere la democrazia, aggiungono, deve significare anche la fine della discriminazione aperta o strisciante contro i cittadini arabi e dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

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Rana Bishara

«Gli israeliani ebrei, o la maggior parte di essi, vivono in una bolla. Persino molti di quelli che si considerano progressisti non sembrano porsi il problema centrale dei diritti della minoranza araba», ci dice Rana Bishara, un’artista molto nota nella sua comunità. Un sondaggio pubblicato questa settimana dall’Israel Democracy Institute rivela che circa la metà degli ebrei in Israele pensa di dover avere più diritti rispetto ai cittadini arabi. «Gli ebrei – aggiunge Bishara – si stanno rendendo conto della deriva estremista che domina la politica in questo paese, noi lo denunciano da sempre». Anche la Corte suprema, che la folla di piazza Habima difende dalla riforma della giustizia del ministro Yariv Levin, è vista in modo diverso da ebrei e arabi in Israele. «Non ne sottovaluto l’importanza – spiega Bishara – ma questi giudici sono gli stessi che hanno sentenziato la legalità della legge fondamentale che (nel 2018) ha proclamato Israele come lo Stato degli ebrei e non anche dei suoi cittadini arabi, in cui la priorità è data allo sviluppo dell’insediamento ebraico».

Che le questioni dei diritti della minoranza araba e dell’occupazione dei Territori non siano parte dell’agenda delle proteste anti-Netanyahu lo ha confermato in interviste date a media locali il portavoce del Mgq, Nadav Lazare. «Ci occupiamo della natura del governo in Israele. Siamo un movimento centrista. L’occupazione non è l’oggetto delle manifestazioni», ha puntualizzato. Di fronte a ciò l’ex ministro arabo Issawi Frej, del partito sionista di sinistra Meretz, pur prendendo parte ai raduni a Tel Aviv, dice di capire i cittadini arabi. «Quando non parli di uguaglianza non aspettarti che venga il pubblico arabo. La democrazia non è solo rafforzare la Corte suprema».

Si lamenta Sally Abed di Standing Together. «Da una settimana all’altra è cambiato tutto» racconta «la prima volta c’erano quattro palestinesi (cittadini di Israele) su nove oratori, un religioso ortodosso e una donna transessuale. Ora è molto diverso». Pagine Esteri

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CINA. Il Covid colpisce duro il paese ma l’economia riparte


Intervista a Michelangelo Cocco, giornalista a Shanghai e analista del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. Con lui Pagine Esteri ha fatto il punto su quanto accade nel grande paese asiatico con la fine delle restrizioni anti-Covid e l'aumento vertigino

di Michele Giorgio

(la foto è di Tim Dennell)

Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Sono milioni i contagi in Cina che conta nell’ultimo mese decine di migliaia di morti per il Covid, cifre mai toccate durante la pandemia e risultato oltre che del fallimento della campagna vaccinale cinese anche della fine delle rigide restrizioni ai movimenti e ai contatti sociali imposte dalle autorità nei passati tre anni. Ma le riaperture allo stesso tempo rilanciano quella che è considerata l’economia motore del mondo.
Dopo il netto arretramento registrato nel 2022, quest’anno gli indici economici cinesi dovrebberosegnare livelli di crescita significativi. Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco*, giornalista a Shanghai e analista del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

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4972636*Giornalista professionista, China analyst, scrivo per il quotidiano Domani. Ho pubblicato “Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci, 2022), e “Una Cina perfetta – La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020). Habitué della Repubblica popolare dal 2007, ho vissuto a Pechino nel 2011-2012, corrispondente per il quotidiano il manifesto nello scoppiettante e nebbioso crepuscolo della tecnocrazia di Hu Jintao & Co. Sono rientrato in Cina nel gennaio 2018, anno I della Nuova era di Xi Jinping, quella in cui il Partito-Stato regalerà a tutti “una vita migliore” e costruirà “un grande paese socialista moderno”. Racconto storie, raccolgo dati e cito fatti evitando di proiettare le mie ansie e le mie (in)certezze su un popolo straordinario che se ne farebbe un baffo.

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VIDEO. Raid esercito israeliano a Dheisheh. Ucciso un 14enne, arrestata ed espulsa una italiana


Il ragazzo è stato colpito alla testa. Il 3 gennaio sempre a Dheisheh era stato ucciso in un'altra incursione un 15enne, Adam Ayyad. Arrestata nel campo anche una volontaria italiana, Stefania Costantini. L'articolo VIDEO. Raid esercito israeliano a Dhei

della redazione

Pagine Esteri, 16 gennaio 2023 – Un palestinese di 14 anni, Omar Al Khamour, è deceduto poco dopo essere stato ferito gravemente questa mattina da colpi sparati dell’esercito israeliano durante un raid nel campo profughi di Dheisheh (Betlemme). ll Ministero della Salute palestinese ha riferito che il ragazzo è stato colpito alla testa. I suoi funerali si sono già svolti. Al Khamour è stato avvolto oltre che nella bandiera bandiera anche in quella del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp, sinistra marxista). Il 3 gennaio, sempre a Dheisheh, era stato ucciso in un’altra incursione di soldati israeliani, un 15enne, Adam Ayyad.

Sabato scorso tre palestinesi erano stati uccisi in seguito a scontri con forze israeliane in Cisgiordania. Due, il 24enne Izz Eddin Basem Hamamreh e il 23enne Amjad Adnan Khalilieh erano membri del Jihad islamico. Il terzo, Yazan Al Jaabari, 20 anni, è morto per le ferite riportate il 2 gennaio quando fu colpito da fuoco israeliano. Ieri inoltre è stato ucciso un palestinese che, secondo la versione fornita dalle autorità israeliane, aveva tentato di accoltellare dei militari.

Nel raid di questa mattina a Dheisheh i soldati israeliani hanno anche arrestato una italiana, Stefania Costantini, che si trovava nel campo per attività di volontariato e solidarietà. La donna, 52 anni di Pisa, si trovava a casa di amici della famiglia Abu Aker e, come mostra un video, è stata portata via a spalla dai militari. Ha avuto il tempo solo di prendere il passaporto e il telefono. I soldati non le hanno permesso di prendere il bagaglio e gli occhiali, di cui ha bisogno per una forte miopia. Nel pomeriggio è stata espulsa dalle autorità israeliane ed imbarcata su di un volo ITA da Tel Aviv per Roma. In seguito le autorità israeliane hanno comunicato che la Costantini è sospettata di aver collaborato con una organizzazione palestinese considerata “terrorista”. L’accusa, molto grave per l’ordinamento israeliano, tuttavia contrasta con il suo rilascio immediato. Pagine Esteri

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In Cina e Asia – Cina, nuovo piano per l’uso dei robot


In Cina e Asia – Cina, nuovo piano per l’uso dei robot robot
Cina, nuovo piano per l’uso dei robot
Covid: "L'80% della popolazione cinese è già stata infettata"

Bonus di Capodanno ridotti per i "colletti bianchi" cinesi
Il lassismo dei funzionari al Gran Gala per il Capodanno
Progetti BRI con materiali "difettosi"
Giappone: "Il calo demografico minaccia le funzioni sociali"
L'India censura il documentario della BBC su Modi
La Corea del Sud vuole aumentare gli straordinari e renderli flessibili

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Sì alle intercettazioni ai fini delle indagini, no alla gogna mediatica. Scrive l’avv. Benedetto


Niente bavagli, ma siccome non possiamo appellarci all’etica della responsabilità in un campo minato come è quello delle intercettazioni, agiamo a monte. L’opinione dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi Diciamocelo co

Niente bavagli, ma siccome non possiamo appellarci all’etica della responsabilità in un campo minato come è quello delle intercettazioni, agiamo a monte. L’opinione dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi

Diciamocelo con franchezza cosa sono divenute oggi le intercettazioni? Rappresentano la tortura dei giorni nostri, perché chi ci incappa, vede il suo nome e la sua vita spesso rovinati per sempre. Non per le intercettazioni, ma per le successive, a volte indiscriminate, pubblicazioni. Oggi non c’è bisogno della violenza fisica, basta quella informatica.

Quando dopo il XIII secolo tramontò l’Inquisizione, la frase tipica che da quel momento si trova nelle minute degli interrogatori è “confessionem esse veram, non factam vi tormentorum” (la confessione è valida, non resa sotto la violenza). Ecco, riguardo alle intercettazioni oggi si dovrebbe scrivere a verbale: le intercettazioni sono da portare a processo, solo se non preventivamente diffuse e pubblicate erga omnes. Come si ottiene ciò?

Questo è un problema. In realtà un falso problema. Perché ha ragione il sottosegretario Andrea Ostellari quando dice: la libertà di una democrazia si misura anche dalla possibilità della stampa di pubblicare opinioni (e ci mancherebbe altro!) e notizie scomode, ma questo non può trasformarsi in diritto alla gogna”.

E allora, niente bavagli. Ma siccome non possiamo appellarci all’etica della responsabilità in un campo minato come è quello delle intercettazioni, agiamo a monte. Enrico Costa segnala un dato giustissimo, ben conosciuto da tutti gli operatori della giustizia, quello di passare ai giornali le ordinanze di custodia cautelare in versione integrale. E poiché li sono riportate, per l’appunto “integralmente” tutte le intercettazioni, ecco che il gioco è fatto.

Il detto popolare “fatta la legge (divieto di pubblicazione delle intercettazioni irrilevanti) gabbato lo Santo” trova sostanza.

Altra cautela possibile quella proposta dall’U.C.P.I., per cui sono utilizzabili solo le intercettazioni relative ai reati per i quali un Giudice le ha specificatamente autorizzate. Dunque niente intercettazioni “a strascico”.

Insomma la questione centrale è sempre la stessa, l’uso di uno strumento importante per le indagini e l’abuso che se ne fa.

Uso o abuso.

Sempre nel quadro della nostra carta fondamentale che recita all’art. 15 “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.

È la Costituzione della Repubblica Italiana.

formiche.it

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Armeni sotto assedio, emergenza umanitaria in Nagorno Karabakh


Da sei settimane il blocco azero del corridoio di Lachin sta creando un'emergenza umanitaria in Nagorno Karabakh, enclave armena in Azerbaigian. La Russia non interviene, Ue e USA si limitano alle dichiarazioni. Gli armeni sempre più soli L'articolo Arme

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 23 gennaio 2023 – Il cibo scarseggia e gli abitanti di Stepanakert e dei piccoli centri contigui sono obbligati a ricorrere alla tessera annonaria istituita dal governo del Nagorno Karabakh per accedere a quel minimo di beni di prima necessità che le autorità dell’enclave riescono a distribuire alla popolazione.
Da giorni mancano anche l’energia elettrica, l’acqua potabile e il gas, perché le condotte e gli elettrodotti provenienti dall’Armenia sono stati bloccati da Baku o sono stati sabotati. Anche internet funziona a singhiozzo. Scuole e uffici pubblici sono chiusi o lavorano a ritmo ridotto per l’impossibilità di illuminare e riscaldare gli edifici.
Gli scaffali di negozi e supermercati sono vuoti e le attività produttive sono per lo più bloccate; migliaia di persone hanno già perso il lavoro.
La situazione è tragica soprattutto negli ospedali dove i medicinali scarseggiano o sono esauriti e i malati gravi possono essere trasferiti in Armenia solo in circostanze eccezionali e grazie all’intervento della Croce Rossa Internazionale. Alcuni pazienti sono già morti per mancanza di cure adeguate e tempestive.
Il disastro umanitario è dietro l’angolo. Circa 120 mila persone sono bloccate, ormai da sei settimane, all’interno di ciò che rimane della Repubblica dell’Artsakh assediata dalle forze azere. Niente e nessuno può entrare o uscire nell’isola armena incastonata in territorio azero.

120 mila persone sotto assedio
Fino al 12 dicembre, ogni giorno a Stepanakert arrivavano circa 400 tonnellate di merci dall’Armenia. Ma quel giorno un folto gruppo di cittadini azeri ha deciso di bloccare il “corridoio di Lachin”, l’unica strada che collega l’Armenia con l’ex territorio azero dichiaratosi unilateralmente indipendente da Baku nel 1991.
Ufficialmente, a trasformare in ostaggi i 120 mila abitanti dell’enclave è una “protesta ambientalista”. A bloccare l’unica via di comunicazione terrestre esistente con Erevan, infatti, sarebbe un gruppo di attivisti ecologisti azeri desiderosi di impedire che le miniere di oro, rame e molibdeno di Drombon e Kashen, nel territorio della provincia ribelle, continuino a sfornare materiali di scarto altamente inquinanti. Ma nel paese guidato da trent’anni dal clan Aliyev non si muove nulla senza il consenso del regime; nessun’altra protesta è stata inoltre inscenata per denunciare l’inquinamento, altrettanto grave, provocato dalle attività estrattive disseminate nel resto dell’Azerbaigian, alcune di proprietà dello stesso presidente Ilham.
I presunti ambientalisti, denunciano Erevan e Stepanakert, altro non sono che militari e attivisti di organizzazioni azere riconducibili al regime di Baku, che assediando il Nagorno Karabakh sperando di convincere molti dei suoi abitanti ad abbandonare quei territori per rifugiarsi in Armenia. Mostrano cartelli contro l’inquinamento, ma intonano slogan e canti ultranazionalisti. «Coloro che non vogliono essere cittadini dell’Azerbaigian sono liberi di farlo; il corridoio di Lachin è aperto, nessuno gli impedirà di andarsene» ha tuonato il dittatore azero.

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Il blocco azero a Lachin

Il cessate il fuoco firmato il 10 novembre 2020 da Erevan e Baku dopo la “guerra dei 44 giorni” (durante la quale le truppe azere sostenute da Turchia e Israele hanno strappato agli armeni la maggior parte dei territori conquistati da questi ultimi all’all’inizio degli anni ’90) stabilisce che la percorribilità del “corridoio di Lachin” debba essere garantita dai 2000 soldati inviati da Mosca per monitorare il rispetto dell’accordo imposto dalla Russia per porre fine all’ennesimo scontro armato tra armeni e azeri.
Ma i membri delle forze di sicurezza azere travestiti da difensori dell’ambiente non hanno subito alcun intervento da parte dei peacekeeper russi, rimasti in disparte in prossimità della strada bloccata.
Mosca è impegnata nella difficile avventura ucraina e non vuole aprire altri fronti. Soprattutto, per quanto l’Armenia goda tradizionalmente della protezione russa, a Mosca ora interessa assai di più la proficua relazione con Baku e con Ankara, lo sponsor principale della repubblica turcofona ex sovietica divenuta negli ultimi anni una potenza regionale grazie al gas e al petrolio estratti nel Mar Caspio. E anche alle armi copiosamente acquistate proprio dalla Russia, che tramite una triangolazione con l’Azerbaigian riesce ad esportare in Europa quantità copiose di gas nonostante l’embargo decretato da Bruxelles dopo l’invasione dell’Ucraina. Forte della dipendenza russa dall’asse azero-turco, Aliyev ne approfitta per stringere la corda attorno alla comunità armena del Nagorno Karabakh, per costringerla ad abbandonare un territorio che abita da secoli e ogni pretesa di indipendenza. Baku, poi, vuole imporre all’Armenia l’apertura di un passaggio – il corridoio di Zangezur – che connetta l’Azerbaigian alla Repubblica Autonoma di Nakhchevan (una provincia azera separata dalla madrepatria dal territorio armeno) e di lì direttamente con la Turchia e il Mediterraneo.

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Peacekeepers russi

Il tradimento di Mosca
Del resto, il contingente russo non mosse un dito neanche quando, il 13 settembre 2022, le truppe azere lanciarono l’ennesimo attacco militare questa volta direttamente contro il territorio dell’Armenia. L’aggressione militare azera durò alcuni giorni senza che Mosca intervenisse se non invitando entrambe le parti alla moderazione, generando così un’ondata di disillusione nei confronti di Mosca tra la popolazione e la diaspora armena.

Erevan ospita alcune basi militari russe, e l’Armenia e la Russia sono legate da un’alleanza militare diretta. Di fronte alle incursioni e ai micidiali bombardamenti azeri, Erevan chiese esplicitamente l’intervento militare russo a difesa della sua integrità territoriale, invocando l’articolo 4 del Trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme a Mosca e ad altre repubbliche ex sovietiche.

La Russia, però, si guardò bene dall’intervenire contro gli azeri e a quel punto il leader armeno Nikol Pashinyan da un lato si dichiarò pronto ad abbandonare a sè stessi gli abitanti dell’Artsakh pur di salvare l’Armenia (scatenando feroci manifestazioni di protesta), dall’altra riprese a invocare la protezione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
Nel 2018, del resto, Nikol Pashinyan era stato eletto premier a capo di una coalizione politica filo-occidentale e anti-russa che poi però si era dovuta riavvicinare a Mosca sia per motivi economici sia per evitare che il paese fosse completamente sopraffatto dall’Azerbaigian. Ma ora molti armeni si sentono traditi da Vladimir Putin.
Se in precedenza il 64% degli armeni considerava la Russia un paese amico, nel 2021 la quota era scesa al 35%. Secondo un sondaggio pubblicato a gennaio dal Caucasus Research Resource Center, quasi la metà dei residenti dell’Alto Karabakh considerano necessaria l’indipendenza. Un quarto degli intervistati, invece, sceglierebbe l’annessione alla Federazione Russa in forma di repubblica autonoma; una quota di poco inferiore, infine, difende l’unificazione con la Repubblica Armena.

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L’Armenia non si fida più di Mosca
Mentre nel territorio assediato – a rischio di essere del tutto abbandonato da Mosca – le critiche all’immobilismo russo sono moderate – in Armenia le denunce nei confronti del doppiogiochismo di Putin si fanno sempre più esplicite.

A fine dicembre, centinaia di manifestanti hanno marciato per 11 km da Stepanakert ad una base del contingente militare russo per chiedere a Mosca di intervenire per sbloccare l’assedio. Nei giorni scorsi alcune forze politiche ultranazionaliste armene hanno manifestato di fronte all’ambasciata russa, perorando un intervento militare di Erevan contro Baku che visti gli attuali rapporti di forza si rivelerebbe suicida. L’8 gennaio un’altra manifestazione è stata organizzata da movimenti nazionalisti a Gjumri, città al confine della Turchiadove si trova la principale base militare russa in Armenia; 65 manifestanti sono stati arrestati.
Pashinyan ha criticato la mancanza di iniziativa di Mosca ed ha annunciato che l’Armenia non ospiterà le esercitazioni militari delle truppe del CSTO guidate dalla Russia previste nel 2023. Per la prima volta, poi, il premier ha affermato che non solo «la presenza militare russa non garantisce la sicurezza armena, ma costituisce una minaccia», anticipando che potrebbe chiedere al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di inviare i caschi blu per sostituire il contingente militare di Mosca.

Le promesse di Washington e Bruxelles
Ovviamente, sia l’amministrazione Biden che l’Unione Europea cercano di approfittarne per aumentare la propria influenza nel Caucaso a scapito di quella russa. In Europa si distingue soprattutto la Francia – paese nel quale, tradizionalmente, la diaspora armena possiede una qualche forza economica e politica – che ha alzato i toni contro Baku. Il governo italiano, al contrario, non prende posizione ed anzi il 12 gennaio il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha incontrato a Baku il presidente Aliyev in cerca di nuove forniture di gas e di commesse per le armi italiane.
Dichiarazioni roboanti a parte, comunque, né Bruxelles né Washington hanno finora intrapreso alcuna iniziativa concreta nei confronti dell’Azerbaigian. Il rapporto col regime di Aliyev e con quello turco, per l’Occidente, è importante quanto per la Russia di Putin. L’Unione Europea pretende che l’Armenia abbandoni l’Unione Economica Eurasiatica guidata dalla Russia per siglare un trattato di associazione con Bruxelles, ma a Erevan non offre alcuna garanzia contro il regime azero.
Anche Pashinyan, da parte sua, è conscio della fortissima dipendenza di Erevan dall’economia (nel 2022 gli scambi commerciali tra Erevan e Mosca sono cresciuti del 67%), dalle forniture energetiche e dalla presenza militare russa e al tempo stesso dell’estrema debolezza del suo paese rispetto alla crescente potenza militare, economica e diplomatica azera.

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Manifestazione a Stepanakert contro il blocco azero

“Pulizia etnica”
Finora l’appello delle comunità armene isolate da sei settimane e delle piazze delle città armene affollate di manifestanti è stato raccolto solo dal Tribunale Internazionale dell’Aia, che ha convocato Baku per il 30 gennaio. Anche la Corte Europea dei Diritti Umani ha redarguito gli azeri, mentre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione di condanna del blocco del corridoio di Lachin. A detta del Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, invece, la Russia «è pronta a dispiegare truppe al confine tra Armenia e Azerbaigian per sedare le tensioni nel Corridoio di Lachin» (cosa che avrebbe già dovuto fare in base dell’accordo del 2020) e starebbe pensando di inviare una missione della CSTO nella regione per “monitorare la situazione”.Dopo aver informato di aver chiesto al suo omologo azero Jeyhun Bayramov di sbloccare il corridoio di Lachin, Lavrov ha aggiunto che «una missione europea nella regione sarebbe controproducente».

Intanto, in mancanza di iniziative rapide e concrete, nell’enclave armena stretta nel gelido inverno caucasico, la situazione si fa ogni giorno più insostenibile. Le autorità dell’Armenia e dell’Artsakh chiedono all’ONU e ai paesi amici di organizzare un ponte aereo per rifornire di cibo e medicinali la popolazione stremata, ma finora nulla si è mosso. Mentre le condizioni di vita all’interno dell’enclave si fanno sempre più difficili, un migliaio di persone che era in territorio armeno al momento dell’inizio del blocco stradale non è potuto rientrare in Artsakh. Tra questi, decine di bambini di Stepanakert che si erano recati a Erevan per partecipare all’Eurovision Junior e ai quali da un mese e mezzo viene impedito di ricongiungersi ai genitori.
«L’assenza di una reazione adeguata all’aggressione azera potrebbe causare nuovi tragici sviluppi» avvertono i ministri degli Esteri di Armenia e Artsakh, mentre la diaspora armena in tutto il mondo lancia l’allarme sul rischio che nel Caucaso si realizzi un nuova ondata di pulizia etnica. Ma finora l’appello ad un intervento della comunità internazionale è rimasto inascoltato. – Pagine Esteri

4970335* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Sarà l’ultima generazione cinese?


Sarà l’ultima generazione cinese? generazione
Sarà l'ultima generazione cinese? Secondo un recente sondaggio comparso su Weixin, su oltre 20.000 persone intervistate (per lo più donne tra i 18 e i 31 anni) ben due terzi ha dichiarato di non volere figli. Cosa frena veramente le coppie cinesi? Uno studio condotto da McKinsey a ottobre e pubblicato a dicembre attesta che circa il 62% della Gen Z cinese è preoccupato per la propria carriera mentre il 56% ambisce a ottenere uno stile di vita migliore. Molto più delle generazioni più anziane. Quando si parla di ostacoli economici, l’istruzione è al primo posto.

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China Briefing – 5 settori chiave da tenere d’occhio in Cina nel 2023


China Briefing – 5 settori chiave da tenere d’occhio in Cina nel 2023 2023
La crescita economica della Cina nel 2023 sarà guidata da diversi settori chiave che si stima cresceranno grazie all’abolizione delle restrizioni COVID, oltre che grazie al sostegno e agli incentivi governativi. Tra questi, il turismo, i veicoli a nuova energia, lo shopping online, lo sviluppo di software e ’il settore sanitario. Con Dezan Shira & Associates discutiamo dei cinque principali settori cinesi che saranno di grande interesse per gli investitori stranieri nel 2023.

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#uncaffèconluigieinaudi☕ – La sostanza dell’economia trafficante


La sostanza dell’economia trafficante o capitalistica che gli affiliati chiamano «economia di concorrenza», non sta nel rendere schiavi gli uomini delle cose, si nell’opposto concetto di liberare gli uomini dalla schiavitù di lavorare così duramente come
La sostanza dell’economia trafficante o capitalistica che gli affiliati chiamano «economia di concorrenza», non sta nel rendere schiavi gli uomini delle cose, si nell’opposto concetto di liberare gli uomini dalla schiavitù di lavorare così duramente come prima per ottenere la stessa quantità di cose.


da Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, «Rivista di storia economica», settembre-dicembre 1942

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



PD, il caos di sempre


Uno dei grandi rovelli che sembra attanagliare lo stato maggiore del Partito Democratico è, a fronte del vistoso calo di consensi, se mutare il nome oppure no. Cosa c’è che non va, il termine ‘Partito’? Oppure è ‘Democratico’? Il nome si cambia quando evoca qualcosa che non si vuole riportare a memoria, da cui ci si […]

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PD: ritorno alle origini cercasi disperatamente


Come spesso accade, la lucidità di Gianni Cuperlo finisce per battere tutti, pur nella estrema eccessiva complessità e contorsione degli argomenti, quando, una volta tanto chiaro e netto, dice: “il pericolo al quale assistiamo è che le correnti, quei famosi cinque o sei personaggi (oscuri, ambigui, falsi e incapaci: Letta in testa, occhi di tigre!) si […]

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Le opere di Gramsci su LiberLiber


Liber Liber è una biblioteca digitale accessibile gratuitamente, creata da una organizzazione di volontariato che ha come obiettivo la promozione di ogni espressione artistica e intellettuale.
Nella biblioteca si possono trovare alcune opere di Antonio Gramsci.

liberliber.it/online/autori/au…



Che tempo che fa


Vent'anni fa il programma di Fabio Fazio era un'isola nella corrente. Oggi è la corrente.


Scoperti due buchi neri supermassicci in collisione | Passione Astronomia

"In mezzo a una collisione galattica, ci sono i due buchi neri supermassicci in rotta di collisione tra i più vicini mai osservati.
[...]
Una tale fusione può apportare sufficiente materiale nei buchi neri da innescare violente esplosioni che modellano la formazione stellare e altri processi astrofisici che hanno luogo nelle galassie che ospitano i buchi neri stessi."

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Come possiamo sostenere la privacy dei dati e la libertà personale mentre facciamo passi da gigante verso un mondo di trasparenza del cervello? L'intervento di @nxthompson e @NitaFarahany


COME POSSIAMO SOSTENERE LA PRIVACY DEI DATI E LA LIBERTÀ PERSONALE MENTRE FACCIAMO PASSI DA GIGANTE VERSO UN MONDO DI TRASPARENZA DEL CERVELLO? LA CONFERENZA DI NICHOLAS THOMPSON E NITA A. FARAHANY

Siamo pronti alla trasparenza del cervello?
Segnaliamo a tutta la comunità @Etica Digitale una discussione con Nicholas Thompson e Nita A. Farahany che si è tenuta giovedì a Davos durante il World Economic Forum (WEF) che immaginiamo possa interessare gli account di coloro che si interessano di tecnologia, lavoro e risvolti etici (per esempio i follower di @informapirata :privacypride: @Etica Digitale @Tech Workers Coalition Italia ).

In particolare, Nita Farahany, avvocato interessato ai temi etici del Transumanesimo e autrice di "The Battle for Your Brain", durante il suo intervento "Ready for Brain Transparency?" ha affrontato diverse questioni nodali e ha previsto che nel "futuro a breve termine" i dispositivi di interfaccia mentale diventeranno "il modo principale con cui interagiamo con tutto il resto della nostra tecnologia"; ha anche sottolineato che le principali aziende tecnologiche come Meta stanno "studiando modi per rendere questi dispositivi universalmente applicabili" al resto della nostra tecnologia.

La promessa della neurotecnologia di migliorare la vita e di ottenere informazioni sul cervello umano sta crescendo: quella sulla trasparenza del cervello sarà quindi una battaglia fondamentale per evitare che un sogno transumanista divenga un incubo del controllo

Il video dell'intervento è disponibile a questo link



Il Massacro di Istakhr (651)


Il massacro di Istakhr del 651 è un evento brutale che si è verificato durante la conquista araba della Persia. Il massacro è stato il risultato della sconfitta della nobiltà persiana di Ishakr da parteContinue reading

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Isabella Rauti racconta il mondo della Difesa. In punta di anfibi


Dal sostegno alla difesa transatlantica all’attenzione per il Mediterraneo, passando per le necessità e le fide delle nostre Forze armate, fino al ruolo fondamentale ricoperto dalle donne in uniforme. Questi alcuni dei temi toccati dall’ebook “In punta di

Dal sostegno alla difesa transatlantica all’attenzione per il Mediterraneo, passando per le necessità e le fide delle nostre Forze armate, fino al ruolo fondamentale ricoperto dalle donne in uniforme. Questi alcuni dei temi toccati dall’ebook “In punta di anfibi” del sottosegretario alla Difesa, Isabella Rauti, presentato ieri presso lo Studio Curtis, Mallet-Prevost, Colt & Mosle LLP alla presenza di vertici politici, militari e industriali del Paese. Un volume che ha raccolto alcune delle rubriche tenute dal sottosegretario sulla rivista Airpress tra il 2017 e la sua nomina al governo. Un racconto esaustivo, che attraversa periodi diversi delle recenti vicende delle Forze armate nazionali, ponendo l’accento sull’importanza che lo sviluppo di una “cultura della Difesa” ha per il Paese e l’opinione pubblica.

Per una cultura strategica

“La guerra in Ucraina ha fatto da effetto disvelante per l’opinione pubblica, che la guerra è un fenomeno presente, possibile, e pende sulle nostre teste”, ha spiegato Gabriele Natalizia, coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info che ha curato l’introduzione al volume del sottosegretario. Secondo il ricercatore, la guerra in ucraina ha “scioccato l’opinione pubblica”, un fenomeno ritenuto ormai passato, o relegato ad aree geografiche percepite come periferiche, è tornato in Europa, a pochi chilometri dall’Italia. “Già da un decennio gli esperti parlavano di questa possibilità”, ha sottolineato, ricordando come di questi temi le riviste Airpress e Formiche ne parlavano già dal 2017 “dedicando una rubrica speciale alla politica militare, di cui il sottosegretario Rauti era l’autrice, in una fase dove a livello di opinione pubblica, non se ne parlava”. Un lavoro che ha contribuito ad alimentare il dibattito e che è capace di definire in maniera specifica l’interesse nazionale grazie alla definizione di una “cultura strategica”.

Donne e forze armate

Sicuramente, un aspetto molto presente nel volume del sottosegretario è il ruolo delle donne in uniforme. “La data fondamentale è il 1999, quando con la legge 380 si apre all’ingresso delle donne nelle Forze armate”, avvenuto effettivamente nel 2000. “Cadeva un muro che nessuno voleva mantenere in piedi”, ha raccontato ancora Rauti, “ma i tempi sono andati un po’ lunghi. Una data non solo simbolica, ma concretamente importante”. Sulla domanda se il Paese sia indietro da questo punto di vista, il sottosegretario risponde: “La crescita è costante, e siamo gli unici, tra gli Alleati, ad avere una sezione dedicata presso lo Stato maggiore della Difesa a politiche di genere”. Tema importante è stato anche quello della maternità. “Le scelte di maternità non sono assorbite in qualsiasi ambito lavorativo, risultando penalizzanti ovunque”. Tuttavia, nelle Forze armate, dove “le gerarchie le fanno i gradi”, il pregiudizio e la discriminazione verso le donne che caratterizzano ancora diversi settori produttivi trovano minore radicamento. “Il grado fa gerarchia, fa disciplina e fa sistema” indipendentemente dal genere.

Gli impegni della Difesa

Per quanto riguarda gli impegni attuali delle Forze armate, dal Baltico all’oceano Indiano, il sottosegretario ha commentato come ci siano scenari di instabilità “aperti a tutte le latitudini”. Massima attenzione va naturalmente al Mediterraneo allegato, ai Balcani, al Medio oriente, ai fronti sud ed est dell’Alleanza. “Tutto è diventato strategico, e la postura aggressiva russa ha creato ulteriori instabilità”. Oggi più che mai, dunque, diventa importante l’impegno Nato, Onu e Ue. Nonostante questo impegno, che vede l’Italia protagonista, rimangono alcune lacune nella cultura della Difesa nazionale. “Non penso che ci sia una avversione culturale – specifica però Rauti – gli italiani amano le Forze armate. Il problema è la percezione, legata a scarsa conoscenza” di quello che concretamente fanno i militari italiani. “Dobbiamo comunicare di più e meglio quello che facciamo nel mondo come costruttori di pace”.

Realismo politico e militare

Di fronte alle instabilità globali, c’è bisogno di un’assunzione di “realismo politico e militare”, ha detto ancora Rauti, chiamando in causa gli aspetti addestrativi delle forze militari italiane. “Dobbiamo guardare la realtà del conflitto, che undici mesi fa nessuno aveva immaginato; siamo ripiombati in un clima di guerra vicino casa”. In questo contesto, allora, “l’addestramento è fondamentale, non può essere eluso. Dobbiamo prepararci a fronteggiare sfide diverse, multi-dominio, una complessità che richiede una formazione sempre più sofisticata”.

Obiettivo 2%

Per quanto riguarda l’obiettivo del 2% da destinare alla Difesa, il sottosegretario è stata chiara: “Abbiamo preso degli impegni, e siamo abituati a rispettarli”. Naturalmente permangono le criticità, non tutti i Paesi hanno raggiunto la quota stabilita in Galles, tra cui l’Italia. Tuttavia, il nostro Paese “ha dedicato l’1,17% nel 2019 e l’1,54 nel 2021. Non siamo lontanissimi dall’obiettivo”. Per Rauti “quello che conta è che abbiamo approvato un emendamento per il raggiungimento della quota entro il 2028, che può significare anche prima”. Ma per questo “l’assenso parlamentare è fondamentale”.

Industria della Difesa e programmi

Sulle dotazioni e gli equipaggiamenti per le Forze armate italiane di domani “l’obiettivo del governo è quello di avere uno strumento militare bilanciato, equilibrato in tutte le sue componenti terrestri, navali, aeree”. Questo obiettivo si intreccia naturalmente con gli sviluppi dell’industria della Difesa “e con la sempre più necessaria sovranità tecnologica che dobbiamo garantire, tutelare e monitorare”. C’è quindi la necessitò di uno sviluppo capacitivo da intrecciare con la competenza, l’innovazione e la competitività internazionale dell’industria. Naturalmente, “l’Italia non può farlo da sola, ma deve sapersi porre con in partner a testa alta”, assumendo la leadership laddove in grado di farlo e stabilendo accordi di collaborazione negli altri settori.


formiche.net/2023/01/in-punta-…



Ma chi costruirebbe le strade?


Un commento alla chiacchierata sull'Arancione Podcast, in cui ho parlato dei nostri temi preferiti: prassiologia e scuola austriaca, Bitcoin, socialismo stradale, moralità e legalità e tanto altro.

Ieri ho avuto il piacere di parlare di anarco-capitalismo, scuola austriaca e molto altro insieme a TheOrangeWay (@Nespa_Bis) in un’intervista del suo Arancione Podcast. Durante l’intervista abbiamo ripercorso e discusso insieme di un interessante episodio del podcast di Saifedean “Who will build the roads w/ Walter Block”, in cui ha intervistato Walter Block.

Walter Block è un economista austriaco e anarco-capitalista che insegna alla School Business di New Orleans. Come moltissime persone, anche lui da giovane era il tipico statalista “liberal” (cioè di sinistra). Fu lui stesso ad affermare: "In the fifties and sixties, I was just another commie living in Brooklyn”. Il suo percorso di redenzione iniziò però nel migliore dei modi, assistendo a una lezione di Ayn Rand. Fu sufficiente una chiacchierata con lei e la lettura di Atlas Shrugged per rinnegare le sue radici socialiste. Fu poi grazie a Rothbard che si convertì definitivamente all’anarco-capitalismo.

Block è famoso per aver scritto il libro Defending the Undefendable in cui affronta e demolisce diversi dogmi statalisti da un punto di vista libertario. La sua intervista offre molti spunti interessanti su cui discutere, che volevo riproporvi anche in forma scritta.

Non tratterò tutti i temi affrontati durante la puntata, quindi per chi volesse qui è disponibile il podcast in cui ne parlo con TheOrangeWay:

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La prassiologia e l’azione umana


Il primo argomento toccato da Saifedean e Block è quello della scuola austriaca e della praxeology. Per praxeology o prassiologia s’intende quella teoria della scuola austriaca che sostiene che:

  • Esistono assiomi fondamentali (leggi economiche) che sono assolutamente veri
  • I teoremi dedotti sulla base di questi assiomi sono quindi assolutamente veri
  • Di conseguenza, non c’è alcun bisogno di testare né premesse né conclusioni
  • In ogni caso, questi teoremi non sarebbero testabili

L’assioma fondamentale della prassiologia è l’esistenza dell’azione umana, di cui Mises scrisse sapientemente. Gli esseri umani esistono ed agiscono. Da questo assioma fondamentale e assolutamente vero nasce e si sviluppa poi tutta la teoria economica austriaca. Alcune delle implicazioni più dirette che arrivano da questo assioma fondamentale sono: la relazione tra scopo e mezzo, le preferenze temporali (alte o basse), la legge del beneficio marginale decrescente, e così via. È l’assioma dell’azione umana che distingue la teoria economica austriaca da tutte le altre.

Rothbard definisce questo assioma come una “legge della realtà”, derivante proprio dall’osservazione della realtà che ci circonda.

Attenzione però: né Mises né libertari o austriaci dicono nulla sulle ragioni dell’azione umana. Non c’è alcun assioma in merito alla razionalità o correttezza dell’azione umana. L’unico postulato è che gli esseri umani agiscono: hanno uno scopo e usano ogni mezzo possibile per raggiungerlo.

Secondo Ayn Rand sono i “valori” ciò che spingono l’uomo ad agire. I valori sono ciò che un individuo agisce per ottenere e perseguire così la sua felicità. Potrebbe essere denaro, ma anche un altro tipo di beneficio psicologico. Un esempio calzante arriva proprio dal protagonista di The Fountainhead, l’architettoHoward Roark. In un passaggio del libro decide di rifiutare un’importante commessa che gli avrebbe fatto guadagnare una piccola fortuna, perché il progetto non era ciò che lui avrebbe voluto fare. Ad Howard Roark piacciono i soldi e gli sono utili, ma non è il denaro il “valore” che lo spinge ad agire. Bensì, la voglia di creare qualcosa di suo, senza ingerenze.

È anche per questo motivo che Rothbard disse che nella “scienza dell’azione umana” è impossibile testare le conclusioni che arrivano dalle leggi economiche fondamentali: i fatti che riguardano la vita e la storia umana sono talmente complessi e con cause diverse tra loro che è impossibile isolarli e testarli in laboratorio.

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Il socialismo stradale


Block prosegue poi su quello che lui chiama socialismo stradale: il monopolio di Stato sulle strade. Lo fa partendo da una semplice osservazione: più di 35.000 persone muoiono ogni anno sulle strade in america.

Gli osservatori dicono che le cause sono molte e diverse: velocità elevata, errori del guidatore, guida in stato di ebrezza, eccetera. Nessuno osa però constatare una verità banale: quando un bene o servizio ha dei problemi, solitamente è colpa del management.

Facciamo l’esempio di un ristorante che fallisce. I motivi, superficialmente, possono essere molti: il cibo faceva schifo, il posto era sporco, la posizione non era ideale, e così via. Ma queste sono solo cause indirette. La causa primaria del fallimento è il proprietario, che non ha assunto uno chef migliore, non ha assicurato un’adeguata pulizia del locale, e non ha scelto con accortezza la posizione in cui aprire il ristorante. La causa ultima ricade sempre sul management.

Chi è il manager del servizio di mercato chiamato strada? Lo Stato. Ciò che è vero per il restante 99.9% dei beni e servizi di mercato deve necessariamente essere vero anche per le strade. Non è quindi assurdo dire che lo Stato è la principale causa delle morti sulle strade.

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Il problema principale, derivante proprio dal monopolio assoluto dello stato, è che non possiamo sperimentare soluzioni diverse. Ad esempio, non possiamo differenziare le velocità in base al contesto specifico o sperimentare tipologie diverse di corsie. Non possiamo neanche sperimentare con diversi materiali e soluzioni di manutenzione.

Se ci fossero strade private con diversi proprietari potremmo verificare empiricamente le differenze sul numero di morti in base alle soluzioni proposte. Magari scopriremmo che la velocità non è sempre un fattore rilevante. O magari scopriremmo che in alcune strade, per il contesto specifico, è opportuno aumentare alcuni tipi di controlli o prevedere specifiche misure di sicurezza. Quello che invece abbiamo oggi è un monopolista che applica le stesse regole e le stesse tecnologie a condizioni estremamente diverse.

Lo abbiamo studiato tutti e non c’è nessuno che oserebbe negarlo: i monopoli sono sempre a danno dei clienti. La competizione libera crea sempre prodotti migliori proprio grazie alla trial & error e ai meccanismi premiali di mercato. Ciò che funziona viene usato e acquistato, ciò che non funziona muore. Lo vediamo con qualsiasi altra attività: servizi postali, sanità, scuola, sicurezza. In tutti questi casi la soluzione privata è più efficiente e meno costosa dell’alternativa statale.

A questo punto lo statalista dirà: ma se le strade fossero tutte private qualcuno potrebbe decidere di non farti più uscire di casa!

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Certo, amico statalista. Ma considera questo: un’attività imprenditoriale nasce per servire i clienti. È l’unico modo in cui l’imprenditore — che ha investito tempo e risorse per costruire e mantenere la strada — può guadagnare e rimanere sul mercato. Inoltre, è chiaro che in un mondo dove le strade sono tutte private l’acquisto di una casa si porterebbe dietro anche un contratto per l’utilizzo delle strade adiacenti. Se l’imprenditore decidesse di violare unilateralmente quel contratto, i clienti avrebbero mezzi per rivalersi. E in ogni caso, non passerebbe molto tempo prima che tutti i clienti a cui è stato vietato l’ingresso si trasferiscano altrove, andando a premiare il competitor. Il mercato tenderebbe naturalmente ad eliminare gli attori malevoli, perché nessuno li pagherebbe.

Le strade sono beni essenziali, sì. Come il cibo. Eppure mi sembra che il (semi)libero mercato alimentare funzioni bene. In 35 anni di vita devo ancora trovare qualcuno che si rifiuti di vendermi cibo per qualche motivo. E se anche fosse, il mondo è pieno di altri che non vedono l’ora di farlo. Perché per le strade dovrebbe essere diverso?

La confusione tra moralità e legalità


Passiamo ora ad un altro argomento amato dagli statalisti: vietare le attività che non gradiscono. L’errore gravissimo e imperdonabile di tutti gli statalisti, socialisti e comunisti in generale è di sovrapporre moralità e legalità fino a non distinguerli più.

Per lo statalista è assolutamente corretto vietare, quindi rendere illegale, ciò che reputa immorale. Nella storia, e ancora oggi, abbiamo innumerevoli esempi: divieto di vendita degli alcolici, di droga, di armi, o di organi umani; divieto di fumo; divieto di prostituzione o rapporti omosessuali; divieto di aborto; divieto dello sport e delle attività ludiche la domenica.

Tutte queste attività a un certo punto della nostra storia sono state vietate in quanto considerate immorali. Non è un caso che lo stato sociale, massima espressione dello statalismo, sia nato proprio da radici religiose (protestanti): da uomini che volevano usare lo Stato come strumento per epurare la società da vizi e azioni che ritenevano immorali. Per chi non l’avesse ancora fatto, consiglio di leggere questo articolo sul tema.

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Eppure, moralità e legalità sono questioni ben distinte tra loro. La moralità — o etica — è ciò che guida l’azione dell’uomo e ci permette di distinguere tra giusto e sbagliato. Ma ciò che è giusto e sbagliato non può mai acquisire una dimensione collettivista e statalista. Sia Mises che Ayn Rand ci ricordano che ognuno di noi agisce con tutti i mezzi possibili per conseguire la propria felicità. I valori che ci permettono di conseguire la nostra felicità potrebbero però essere immorali per gli altri.

L'anarco-capitalista, al contrario degli statalisti, distingue invece tra moralità e legalità. La filosofia libertaria non è una teoria morale, ma una teoria legale. Questo è particolarmente vero se guardiamo alla filosofia di Rothbard e Hoppe. Tutto ciò che non viola la proprietà privata e la vita di una persona dovrebbe essere legale, pur se immorale.

Esempi palesi sono la prostituzione, l’omossessualità o le droghe. Molti pensano che sia immorale prostituirsi, avere rapporti omosessuali o vendere droga. Per questo, secondo loro, dovrebbero anche essere attività illegali. Ma da un punto di vista libertario non ha senso. Queste attività non violano in alcun modo il principio di non aggressione e dovrebbero pertanto essere libere.

In linea teorica, in un mondo libertario perfino i supermercati potrebbero scegliere di vendere eroina. L’eroina è una brutta storia, ma non per questo dovrebbe esserne vietata la vendita. E non sarebbe neanche un problema, poiché il mercato riuscirebbe ad equilibrarsi senza alcun bisogno di divieti. Nessun supermercato si sognerebbe di vendere eroina in una comunità che lo reputa generalmente immorale, per non rischiare di perdere clienti e fallire.

Purtroppo, quando agli statalisti non piace qualcosa e hanno un sufficiente numero di persone che la pensano come loro, allora credono sia giusto assumere qualcuno (le forze dell’ordine) per aggredire coloro che invece la pensano diversamente. Se vogliamo, è proprio questa scelta di aggredire con la forza qualcuno che agisce in modo pacifico per il raggiungimento della propria felicità ad essere immorale.

Attenzione al momento in cui qualcuno reputerà immorale inquinare, mangiare carne o proteggere le proprie comunicazioni e transazioni economiche attraverso protocolli di crittografia. Se ci pensate, è già un processo in atto.

Perché è accettabile proporre l’uso di sistemi di monitoraggio e analisi dell’impatto CO2 delle transazioni personali o di limitazione all’uso delle automobili? Perché inquinare è immorale.

Perché è accettabile proporre leggi di sorveglianza di massa delle transazioni economiche e per il divieto di strumenti di crittografia per la protezione della privacy delle comunicazioni e delle transazioni? Perché nascondersi dallo stato è immorale.

E così via.

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Non tutto è un diritto


Infine, vorrei accennare a un’osservazione molto acuta di Block: bisogna distinguere tra la capacità di ferire le persone a livello emotivo o psicologico e violare i loro diritti (proprietà, vita, libertà).

Ad esempio, se chiedo a una bella ragazza di uscire e lei mi ride in faccia mandandomi via, potrei essere ferito emotivamente. Ma lei è libera di farlo. Ho il diritto di chiedere che sia vietato di rifiutare malamente le persone? Non credo.

O ancora, se nessuno chiede alla ragazza brutta della classe di andare al ballo della scuola, lei potrebbe rimanerci molto male e magari anche arrivare a deprimersi e suicidarsi. Qualcuno dovrebbe essere obbligato legalmente a chiederle di ballare? Non credo.

E questo è molto importante, perché oggi si fa una gran confusione tra azioni che possono avere un impatto negativo sulla persona, senza però violare il principio di non aggressione, e azioni che invece lo violano. Un pugno in faccia non è allo stesso livello di un brutto insulto.

Oggi invece vediamo sempre più spesso la nascita di leggi che vorrebbero tutelare la salute emotiva delle persone contro il cosiddetto "hate speech". Il Digital Services Act in UE è un esempio: c'è un paragrafo specifico in cui si afferma che i social network dovrebbero censurare ogni contenuto che possa ferire o mettere a repentaglio la salute mentale di qualcuno.

Questa è la follia dello statalista woke, che giustifica la violazione di libertà altrui per evitare che qualcuno lo ferisca dicendogli che solo le donne possono partorire o che le tasse sono un furto.


Ascolta l’intervista su Arancione Podcast per approfondire tutti gli altri temi di cui abbiamo parlato e facci sapere cosa ne pensi:

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Dovendo acquistare un lampadario e una plafoniera dopo tanti anni, mi sto scontrando con la nuova realtà dei "led integrati". Ovunque vada, c'è una grande offerta di lampadari, applique, plafoniere ecc. di tutti i costi e tutte le dimensioni che devi semplicemente buttare via e rimpiazzare quando si fulminano.
Quelli con portalampada sono una selezione ridotta, scarsamente disponibile anche perché giustamente preferita quando si trova in negozio.
Come può essere una scelta sensata un lampadario da buttare via quando muore il led?


Il cambio di passo di Ramstein. Tocci (Iai) legge il vertice per l’Ucraina


Si è aperta una fase nuova del supporto occidentale all’Ucraina aggredita e potenzialmente un cambio di passo per l’andamento dello stesso conflitto. È accaduto ieri al vertice di Ramstein, in Germania, del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, l

Si è aperta una fase nuova del supporto occidentale all’Ucraina aggredita e potenzialmente un cambio di passo per l’andamento dello stesso conflitto. È accaduto ieri al vertice di Ramstein, in Germania, del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, l’iniziativa lanciata dal segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin per coordinare gli sforzi degli oltre 40 Stati che inviano materiali miliari a Kiev. Al netto delle titubanze che ancora permangono a Berlino sulla concessione o meno dei carri armati Leopard, è innegabile che gli alleati abbiano aumentato il livello del materiale che intendono inviare.

Le nuove dotazioni

In prima linea ancora gli Stati Uniti, con un pacchetto da 2,5 miliardi di dollari: veicoli corazzati da combattimento (Bradley e Stryker) e antimine, veicoli da trasporto M998 Humvee. Il Regno Unito ha promesso 600 missili Brimstone, che si aggiungono ai carri armati pesanti Challenger 2. La Danimarca una ventina di cannoni Caesar. La Svezia i semoventi Archer. La Polonia si è detta pronta a consegnare 14 carri Leopard. Anche l’Italia, per voce del ministro della Difesa Guido Crosetto, continuerà a fare la sua parte “bisogna passare dalle parole ai fatti nel più breve tempo possibile”. Tutti i mezzi decisi al vertice segnano un cambio di passo. Sono mezzi più pesanti, con gittate maggiori e potenze di fuoco più elevate. Sono i segni che qualcosa sta cambiando.

Una fase di svolta nel conflitto

“Al netto del dettaglio tecnico ‘Leopardi sì, Leopard no’, il punto di fondo è che Ramstein si colloca in quella che andrei a definire una fase di svolta, una inflection politica della guerra”, spiega ad Airpress Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto affari internazionali (Iai). Una fase la cui specificità può essere determinata da due fattori principali. Il primo: “c’è una crescente consapevolezza diffusa che il presidente russo Vladimir Putin non vuole negoziare e che l’assetto del Cremlino è quello di continuare a pianificare una escalation da parte russa”. L’aspetto da comunicare, spiega ancora Tocci, è che “Ramstein, o le decisioni occidentali sugli armamenti, non segnano o causano una escalation con Mosca, ma sono una risposta a un piano russo di escalation, di trasformazione dell’operazione speciale in una nuova guerra patriottica, anche in vista di una eventuale seconda mobilitazione”.

Per Kiev non ci sarà una seconda opportunità

Il secondo, più implicito, “è il fatto che Putin è intenzionato a continuare senza limitazioni, al contrario dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, non vogliono che la guerra continui”. Per il direttore dello Iai si sta dunque aprendo una fase nuova, che porterà alla controffensiva ucraina “verosimilmente nella tarda primavera”. Questa controffensiva “sarà frutto delle decisioni sugli armamenti che i Paesi occidentali stando dando a Kiev”. Infatti, in questa fase del conflitto Kiev “dovrà liberare più territorio possibile, perché probabilmente non ci sarà una seconda occasione: quello che c’è da mettere in campo va messo adesso”. Con Ramstein, questa consapevolezza sembra essersi consolidata in Occidente. Si è superato, conclude Tocci, “il pensiero di non volere l’escalation. A escalation russa verificata, il passaggio successivo dell’Occidente deve essere ‘come reagiamo?’”.


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Arginare Nordio? Dubito. Contro di lui assedio giustizialista – Il Dubbio


Parla Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi: «Lo attaccano perché può scardinare il sistema» Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi, del cui consiglio di amministrazione Carlo Nordio è stato compone

Parla Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi: «Lo attaccano perché può scardinare il sistema»

Giuseppe Benedetto, avvocato e presidente della Fondazione Einaudi, del cui consiglio di amministrazione Carlo Nordio è stato componente dal 5 dicembre 2018 fino alla sua nomina a ministro della Giustizia: che impressione ha di questi primi mesi del Guardasigilli a via Arenula?

Senz’altro positiva. Sottoscriviamo tutto quello che il ministro ha annunciato e ci auguriamo che presto si possa passare alla concreta realizzazione di una riforma della giustizia che attendiamo da anni. Qualche timida ma positiva indicazione è venuta dalla Cartabia, ora è necessario che da Nordio venga quella spinta per procedere oltre.

Ci sono spinte diverse all’interno del governo in tema di giustizia, tant’è che sarebbe in atto un tentativo di contenere il ministro, così come riportano le cronache giornalistiche. Nordio rischia di essere messo ai margini?

A me piace parlare per fatti concludenti e non per interpretazioni giornalistiche. Ogni giorno leggo di rappresentanti dei vari partiti della maggioranza che prendono le distanze da Nordio. Non possiamo metterci seriamente a seguire voci, impressioni o illazioni. Valutiamolo con i provvedimenti. Certamente se da qui a sei mesi nessuno dei propositi annunciati da Nordio sarà sulla via della realizzazione ne trarremo delle conclusioni, che probabilmente non saranno lusinghiere per questo governo. Ma siamo ancora alle prime battute e limitandoci alle dichiarazioni dico che sono positive.

C’è un aspetto che in molti evidenziano: il suo essere stato per tutta la vita fuori dai palazzi e, in particolare, fuori da quelli romani. Questo suo “spaesamento” è un limite o un vantaggio?

La distanza dai palazzi e dalle sue logiche può essere un vantaggio. Lo svantaggio è che la macchina complessa di un ministero – e in particolare uno come quello di via Arenula – per essere governata ha bisogno o di un’esperienza pregressa o di un accelerato corso di “formazione”. Nordio stesso ha sempre detto che non si è mai occupato, in questo senso, di pubblica amministrazione e dunque il tempo glielo dobbiamo concedere. Ma ripassando le storie personali e politiche di tutti i precedenti ministri della Giustizia non so quanti avessero l’esperienza necessaria.

La giustizia è sempre il terreno di scontro privilegiato tra i partiti ma forse anche quello sul quale, alla fine, si interviene di meno. La fondazione Einaudi, anche insieme allo stesso Nordio, ha più volte proposto delle ricette ed indicato urgenze ed emergenze. Che suggerimenti dà al ministro?

Come ripeto quotidianamente, la riforma delle riforme necessaria per il Paese è quella della separazione delle carriere. Ci ho scritto anche un libro, la cui prefazione è di Carlo Nordio, dal titolo “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”. Oggi con i magistrati alcuni temi non sono più un tabù, però su questo non si può avere un confronto civile, approfondito e chiarificatore. La risposta è sempre: “Non è quello il problema”. Ma se per la Fondazione Einaudi, per l’Unione delle Camere penali – assieme alla quale abbiamo depositato parecchi anni fa una proposta di legge costituzionale – e i Radicali questo tema è fondamentale, perché i magistrati non vogliono affrontarlo? Dalla separazione delle carriere si dipanano mille cunicoli spesso invisibili e sotterranei. Ne dico solo uno: le valutazioni dei magistrati. Come ben sa si valutano tra di loro e la valutazione è sempre l’eccellenza. Il fascicolo delle performance, tra le riforme più semplici della Cartabia, ha addirittura provocato uno sciopero. Com’è possibile? Perché in Italia la casta è questa. I magistrati sono gli unici che ritengono di non poter essere valutati da nessuno. E dunque, la separazione delle carriere e il doppio Csm – perché noi non vogliamo un pm sottoposto al governo o a qualcun altro – servirebbero, ad esempio, per evitare questo genere di intrecci. Perché anche se si tratta di persone perbene può venire il dubbio che oggi il giudizio lusinghiero dell’uno possa servire per ottenere un domani un giudizio altrettanto lusinghiero dell’altro.

E come si realizza questa separazione?

La Fondazione Einaudi ha proposto una snella assemblea costituente per la riforma complessiva della seconda parte della Costituzione. Siamo molto scettici sulla possibilità che una bicamerale, viste le sorti infauste di tutte le bicamerali, possa essere la soluzione. Bisogna dare la parola agli elettori per eleggere 100 costituenti che possano mettere mano complessivamente, senza sbrindellarla a pezzetti, alla nostra Costituzione.

Ha avuto modo di confrontarsi col ministro in questi mesi?

Nelle settimane scorse Nordio, assieme al professore Sabino Cassese, ha partecipato alla presentazione del mio libro a Roma e ha ribadito che il suo essere ministro non gli fa cambiare idee. Certo, il suo ruolo comporta anche momenti di comprensibile equilibrio, perché fa parte di una maggioranza e ha delle responsabilità, ma ha ribadito che se gli fanno fare le cose in cui crede bene, altrimenti si dimette. Beh, è strano che un ministro dica questo subito dopo essere stato nominato: questo è il segno della determinazione di Nordio.

Quindi per tornare alla domanda sui presunti tentativi di arginamento mi sembra che la risposta sia: è difficile che lo consenta.

Non ho motivo di ritenere che Nordio pensi una cosa e ne dica un’altra. Ma lo constateremo empiricamente.

Il tema più divisivo, in questo momento, è quello delle intercettazioni e il ministro è sotto attacco per le sue idee. Lei condivide la sua posizione?

Le intercettazioni, per come sono in Italia, sono una vera indecenza e negare che siano state usate anche per fini poco nobili sarebbe offendere l’intelligenza degli italiani. Nordio è stato netto sul fatto di non voler toccare le intercettazioni, anche le più invasive, purché rispettose della persona umana, contro i reati di mafia. Ma solo chi non è mai entrato in un’aula di giustizia o non abbia mai avuto parte ad un processo può difendere questo sistema. Stiamo attenti, delle intercettazioni si può fare strame, inoltre non sono una prova, ma un mezzo di ricerca della prova. Ma a quanti processi assistiamo, ogni giorno, in cui gli unici elementi di prova portati a giudizio dall’accusa sono solo le intercettazioni? Le indagini non si fanno più e negare questo è violentare barbaramente la verità. Contro Nordio si sta creando un fronte compatto di manettari, tagliagole, giustizialisti di ogni specie perché vedono in lui l’uomo che può scardinare il sistema. Ma a me piacerebbe vivere in un Paese in cui Nordio è la normalità, non l’eccezione.

Simona Musco, Il Dubbio, pagina 1 e 2 del 21 gennaio 2023

L'articolo Arginare Nordio? Dubito. Contro di lui assedio giustizialista – Il Dubbio proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Wang Feng: "Calo demografico non vuol dire per forza declino”


Wang Feng:
Intervista a Wang Feng. Il sociologo ed esperto di demografia della University of California, Irvine, analizza radici e conseguenze del calo demografico cinese

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Giunto ormai al suo nono anno, il sondaggio ISPI realizzato da IPSOS rivolge agli italiani alcune domande chiave sulla politica internazionale degli ultimi dodici mesi.


USA: tetto del debito, default inevitabile?


Negli scorsi giorni, il dipartimento del Tesoro ha annunciato il raggiungimento del tetto del debito (‘debtceiling’, attualmente fissato al 31,4 trilioni di dollari) da parte del governo degli Stati Uniti. Nella stessa occasione, il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha annunciato l’adozione di “misure straordinarie” (essenzialmente aggiustanti nelle poste di spesa) per fare fronte agli impegni […]

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in reply to informapirata ⁂

@informapirata :privacypride: Chiaro, ma recentemente Standard & Poor’s ha declassato il rating statunitense, portandolo da AAA (outstanding) ad AA+ (eccellente). Questa è la prima volta che sia mai successo e questo impatta su un fondamento dello stato americano (en.wikipedia.org/wiki/United_S… )

Ora se tutti fanno finta di credere alla solidità degli USA tutto funziona ma se qualcuno smette di crederci (chi ha detto Cina?) il castello di carte può crollare

informapirata ⁂ reshared this.

in reply to Andrea Russo

la Cina ha quasi dimezzato la quantità di crediti verso gli USA (ad oggi il paese che vanta più crediti è il Giappone, seguito dalla Cina e dal Brasile) ma di certo non ha nessun interesse a vedersi volatilizzare i millemilamiliardi (siì, sono proprio 1000.000 mld!) che vanta dagli USA. I quali USA, ti ricordo, possono sempre pagare in missili, bombardamenti e blocchi marittimi... 😂


USA: tetto del debito, Casa Bianca e Congresso allo scontro anche a rischio default?


Negli scorsi giorni, il dipartimento del Tesoro ha annunciato il raggiungimento del tetto del debito (‘debtceiling’, attualmente fissato al 31,4 trilioni di dollari) da parte del governo degli Stati Uniti. Nella stessa occasione, il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha annunciato l’adozione di “misure straordinarie” (essenzialmente aggiustanti nelle poste di spesa) per fare fronte agli impegni […]

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SFRD: la finanza folgorata sulla ‘via di Damasco’?


Fra qualche giorno (il 25 Gennaio pv), i fondi di investimento europei ESG (Environmental, Social, Governance) dovranno dichiarare all’autorità centrale europea se sono coerenti con art.8 o art. 9 del Regolamento dell’SFDR (Sustainability Related Disclosures in the Financial Services–regolamento 2019/2088). Alcuni di essi potrebbero non essere riconosciuti Fondi ESG perché non ottemperano alle regole di […]

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Can Kicker - Can Kicker


Per un certo periodo, a sangue ormai caldo e con un po’ di buon tempo libero, mi sono molto concentrato sul termine “Grunge” e ho riflettuto su cosa mai volesse significare in musica. @Musica Agorà @Poliverso notizie dal fediverso

iyezine.com/can-kicker-can-kic…



Gli Stati Uniti raggiungono il tetto del debito. Il Congresso si prepara allo scontro, ma la battaglia è tutta politica.


Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 4 febbraio 2023, Voghera


4 febbraio 2023, ore 11 – Sala Zonca, Piazza Meardi (Angolo Via Emilia) – Voghera intervengono PAOLO AFFRONTI ALIDA BATTISTELLA DAVIDE GIACALONE FABRIZIO PALENZONA modera NICOLA AFFRONTI L'articolo Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separaz

4 febbraio 2023, ore 11 – Sala Zonca, Piazza Meardi (Angolo Via Emilia) – Voghera

intervengono
PAOLO AFFRONTI
ALIDA BATTISTELLA
DAVIDE GIACALONE
FABRIZIO PALENZONA

modera
NICOLA AFFRONTI

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Francesco Rocchetti, Segretario Generale ISPI, e la giornalista Silvia Boccardi parlano con Filippo Fasulo, esperto di Cina e Co-Head dell’Osservatorio Geoeconomia dell’ISPI, di cosa la soppressione della maggior parte delle restrizioni della politic…


Chi pensa che il 2% alla Difesa sia un target insufficiente


Il prossimo mese i ministri della Difesa dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per discutere degli aumenti di budget nel settore. Il tema è oggetto di dibattito già dal 2014, quando gli alleati promisero di aumentare la spesa per la Difesa al 2% dei Pi

Il prossimo mese i ministri della Difesa dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per discutere degli aumenti di budget nel settore. Il tema è oggetto di dibattito già dal 2014, quando gli alleati promisero di aumentare la spesa per la Difesa al 2% dei Pil nazionali.

Come sostiene Patrick Turner, già Assistant Secretary General per la politica di Difesa presso l’Alleanza atlantica in una analisi pubblicata su Cepa, l’aggressione russa all’Ucraina segna il cambiamento più radicale dell’architettura di sicurezza del continente europeo dal crollo sovietico. Inoltre, ricorda Turner, si aggiunge l’ormai evidente minaccia cinese. Per quanto gli Stati Uniti siano ancora la superpotenza globale, potrebbero avere difficoltà nel combattere due conflitti contemporaneamente.

Da qui la necessità che i Paesi europei della Nato si facciano carico della sicurezza del proprio quadrante. A questo riguardo, la promessa del 2014 di aumentare il budget militare al 2% del Pil ha avuto qualche effetto. In totale, gli alleati non statunitensi hanno speso circa 300 miliardi di dollari in più in termini reali dall’assunzione dell’impegno. Ma questo aumento è molto disomogeneo a seconda dei Paesi.

Alcuni Membri, poi, hanno promesso di raggiungere quella soglia in tempi molto lunghi: ad esempio, la Danimarca si è impegnata per il 2033, il Belgio per il 2035. Alcuni alleati chiave sono ancora lontani dal target del 2%. Ad esempio, la Germania si aggira intorno all’1.4%, nonostante la promessa di investire cento miliardi di euro addizionali. L’Italia è all’1.5%, la Spagna all’1%. Alcuni, come il Canada, non hanno nemmeno confermato questo impegno.

Il fatto è che quel tipo di target era stato fissato in un mondo ancora piuttosto diverso da quello di oggi. Diversi analisti sostengono che la soglia del 2% sia attualmente insufficiente a generare capacità credibili, che risultino quindi in una deterrenza efficace.

Lo hanno compreso gli inglesi, con il precedente primo ministro Boris Johnson che l’anno scorso ha promesso di raggiungere il 2.5% entro la fine del decennio. Liz Truss ha rincarato la dose puntando al 3%, un target poi ridimensionato da Rishi Sunak sulla cifra di Johnson. I membri che più hanno preso sul serio l’impegno ad aumentare il budget di Difesa sono, naturalmente, i Paesi dell’Europa centrale e orientale, la Polonia su tutti.

L’invasione russa, oltre a risvegliare le coscienze dei Paesi più ottimisti, ha evidenziato due tipi di problemi. Il primo è la scarsa capacità di schierare forze immediatamente pronte in caso di crisi sul fianco orientale; il secondo è la scarsa quantità di armamenti presenti negli stockpiles attuali. Entrambe le problematiche sono frutto di anni di scarsi investimenti.

Secondo Turner, l’obiettivo di budget al 2.5% sarebbe la soglia minima per limitare questi danni collaterali. E ricorda che quello era il livello di spesa degli Stati europei alla fine della Guerra Fredda, quando la minaccia russa era sensibilmente inferiore e la Cina non era neanche lontanamente simile ad oggi.


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Come cambia la guerra in Ucraina. Il punto di Marrone (Iai)


La guerra russo-ucraina evolve a livello operativo, e così la fornitura di armi occidentali all’Ucraina fino all’attuale richiesta dei carri armati Leopard di produzione tedesca. Nei primi mesi del conflitto era più incerta la capacità ucraina di difender

La guerra russo-ucraina evolve a livello operativo, e così la fornitura di armi occidentali all’Ucraina fino all’attuale richiesta dei carri armati Leopard di produzione tedesca. Nei primi mesi del conflitto era più incerta la capacità ucraina di difendere Kiev, e le forniture militari alleate si sono concentrate soprattutto su equipaggiamenti per la fanteria, compresi ad esempio mortai, mitragliatrici o sistemi di difesa anti-aerea e anti-carro portabili a spalla, che possono essere consegnati rapidamente, hanno bisogno di poco addestramento, e danno quindi un contributo immediato alle forze ucraine.

Aumentato il sostegno militare

Queste forniture continuano, insieme a equipaggiamenti di vario tipo, ma nel corso del 2022 vi sono stati tre sviluppi che hanno gradualmente elevato il livello del sostegno militare occidentale. In primo luogo, la Russia ha fallito nell’intento iniziale di prendere anche Kiev, Kharkiv e gran parte del Paese, e si è ritirata dal nord. In secondo luogo, le Forze armate ucraine hanno dimostrato di saper manovrare e combattere a livello di teatro e non solo tattico, con campagne articolate che hanno portato alla riconquista di Lyman e alla liberazione di Kherson, riprendendosi oltre un terzo del territorio occupato dalla Russia dopo il 24 febbraio. È diventata quindi più efficace la fornitura di mezzi blindati e sistemi di artiglieria di varia natura e gittata, come gli Himars americani. È stata messa in piedi una catena logistica, comprendente anche munizioni e pezzi di ricambio, e si è avviato un addestramento più corposo e sistematico al di fuori del territorio ucraino.

In terzo luogo, dallo scorso settembre la Russia ha puntato a distruggere le infrastrutture energetiche per piegare la volontà ucraina di combattere, anche ricorrendo massicciamente a droni iraniani, ed è quindi diventato prioritario per Kiev ottenere sistemi di difesa aerea e anti-missile in quantità e qualità tali da coprire non solo la linea del fronte, ma tutto il Paese – che è il più esteso in Europa a ovest della Russia. Da qui l’enfasi sui Patriot americani, donati anche dall’Olanda, ma anche l’interesse ucraino per il Samp-T italo-francese.

Le richieste di Kiev soddisfatte parzialmente

Le cose ovviamente non si sono svolte in modo semplice e lineare, in mezzo a un conflitto in Europa senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale che ha colto di sorpresa molte capitali europee. L’Ucraina ha infatti chiesto ripetutamente sistemi d’arma in tempi più rapidi e in maggiori quantità, più potenti, più a lunga gittata, e ha necessità sia di mezzi meno recenti, più facili da usare e manutenere, sia di mezzi tecnologicamente avanzati. Ma il gruppo di Paesi donatori, comprendente in primo luogo gli Stati Uniti e i principali Paesi europei, hanno soddisfatto solo parzialmente le richieste di Kiev per tre ordini di motivi. In primo luogo andava parallelamente testata la reazione russa, con l’obiettivo primario di mantenere il conflitto circoscritto ai confini ucraini internazionalmente riconosciuti (compresa quindi la Crimea), anche evitando il più possibile attacchi in territorio russo che potessero portare a un’escalation con la Nato. Lo smacco russo della ritirata da Kherson, dopo l’annessione farsa di quella e di altre tre province ucraine, ha dimostrato che il sostegno militare dell’Occidente all’Ucraina può crescere in termini qualitativi e quantitativi, senza appunto una escalation russa.

Dagli scarsi arsenali nazionali alle dinamiche politiche

Il secondo motivo per la lentezza e riluttanza specialmente in Europa a donare sistemi d’arma all’Ucraina sta nella loro scarsa disponibilità negli arsenali nazionali. Le forze armate europee fino al 2022 erano equipaggiate per una realtà ormai consolidata di deterrenza ad alta intensità ed alta tecnologia in Europa e di operazioni asimmetriche di stabilizzazione e gestione delle crisi fuori area: non per alimentare, senza farne parte, una guerra convenzionale al tempo stesso ad alta intensità, prolungata e sostanzialmente tra pari, in cui la massa e l’attrito la fanno da padrone. In altre parole, il consumo di armi, munizioni e mezzi militari in Ucraina in questi undici mesi di conflitto è stato enorme, ben superiore alle stime iniziali di tutte le parti in causa, ed i Paesi europei non possono scendere sotto una certa soglia di capacità militari per la propria difesa nazionale mentre l’industria europea fatica ad aumentare la produzione di quanto necessario. Il terzo motivo che ha ridotto ritmo e qualità del supporto militare occidentale all’Ucraina sta nelle legittime dinamiche politiche interne a Paesi democratici, dove correnti politiche e culturali per vari motivi si oppongono a tale sostegno e influenzano l’opinione pubblica ed il processo decisionale.

Una nuova evoluzione del conflitto

In questo contesto, nelle ultime settimane si sta probabilmente verificando una nuova evoluzione della guerra e quindi degli aiuti occidentali a Kiev. L’offensiva russa a Soledar ha portato a un risultato tattico decisamente modesto rispetto alla mobilitazione di forze regolari e mercenarie, Wagner in primis, e alle perdite subite da Mosca. Al tempo stesso, la controffensiva ucraina si è sostanzialmente fermata dopo Kherson, per scelta e/o per necessità rispetto all’attrito in corso. La guerra è in stallo da dicembre. Il che non vuol dire che non si combatta duramente, anzi, ma che il fronte non si muove in maniera significativa, probabilmente anche per le condizioni sul terreno dettate dal periodo invernale. In questo stallo, è verosimile che entrambe le parti in lotta si preparino per delle campagne offensive nei prossimi mesi, dalla portata e direttrici incerte ma che richiederebbero mezzi pesanti come i main battle tank.

Serve una manovra terrestre efficace

Infatti, le caratteristiche dei carri armati nella guerra moderna, come evidenziato in uno studio Iai, li rendono preziosi quanto a concentrazione di potenza di fuoco, protezione e mobilità. È tuttavia sbagliato considerarli (e utilizzarli) in maniera isolata, in quanto vanno inseriti in una manovra terrestre che combini efficacemente diversi assetti, dai veicoli blindati ai droni, dagli elicotteri alla fanteria. Non a caso è stato annunciato che l’Ucraina riceverà elicotteri da Lituania e Lettonia, veicoli blindati da Francia e Germania, ecc. Da notare come nel 2022 l’Italia abbia aiutato militarmente Kiev in termini qualitativi e quantitativi sostanzialmente comparabili a grandi Paesi europei come la Francia, come filtra da fonti ucraine e italiane nonché dalle immagini facilmente reperibili sui social media, ma non ha avuto il credito internazionale che meriterebbe a causa della scelta governativa di porre il segreto di Stato sull’invio degli equipaggiamenti italiani.

Esigenze operative

L’insistenza di Kiev per ricevere carri armati dai Paesi alleati, insieme a molti altri equipaggiamenti, nasce dunque dalle esigenze operative del conflitto. L’Ucraina ha bisogno non solo di tank di epoca sovietica già donati a decine da Polonia e Slovacchia, ma anche e soprattutto dei Leopard di fabbricazione tedesca, più moderni ed efficaci. Leopard che Varsavia, Helsinki e molte altre capitali europee hanno a disposizione ma che necessitano un’autorizzazione da Berlino per essere ri-esportati. La Gran Bretagna, confermandosi insieme a Germania e Polonia nel gruppo di testa dei Paesi donatori, ha annunciato pochi giorni fa l’invio di circa 14 carri armati Challenger 2. Sono pochi rispetto alle richieste ucraine di almeno 300 tank, ma potrebbero fare da apripista alla decina di Paesi europei che nel complesso posseggono oggi circa duemila Leopard. Gli Stati Uniti hanno aggiunto al loro già corposo pacchetto di aiuti, che comprendeva Himars, Patriot e diversi altri sistemi avanzati, i veicoli blindati Bradley funzionali proprio a una manovra offensiva dell’esercito ucraino, ma non i carri armati Abrahms che per certi versi sono troppo complessi e difficili da manutenere per Kiev. La palla è quindi nel campo europeo, e in particolar modo in quello tedesco.


formiche.net/2023/01/cambia-gu…



20 gennaio 2023. Messaggio di Alfredo Cospito al proprio difensore



Il sottoscritto Alfredo Cospito comunica al proprio avvocato Flavio Rossi Albertini che in pieno possesso delle mie capacità mentali mi opporrò con tutte le forze all'alimentazione forzata.
Saranno costretti a legarmi nel letto.
Dico questo perché ultimamente mi è stata adombrata la possibilità di un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio). Alla loro spietatezza ed accanimento opporrò la mia forza, tenacia e la volontà di un anarchico e rivoluzionario cosciente.
Andrò avanti fino alla fine. Contro il 41 bis e l'ergastolo ostativo.
La vita non ha senso in questa tomba per vivi.
Cospito Alfredo.

#41bis
#Ergastoloostativo