Giovedì 23 febbraio il secondo e ultimo webinar del ciclo "Let's debate in English", dedicato all'approfondimento della metodologia didattica del debate in lingua inglese.
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#NotiziePerLaScuola Giovedì 23 febbraio il secondo e ultimo webinar del ciclo "Let's debate in English", dedicato all'approfondimento della metodologia didattica del debate in lingua inglese. Info ▶️ https://www.indire.Telegram
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Una nuova speranza – Solo un vero partito liberal democratico può contrastare le ambizioni conservatrici di Meloni
La premier non ha competitor nel suo campo e nell’opposizione attuale. L’unico ostacolo alla sua idea di costruire una formazione politica paragonabile a quella della destra britannica è la nascita di una forza moderata, ancorata alla famiglia liberale europea, in grado di farle concorrenza
Alcune considerazioni sull’evoluzione di Giorgia Meloni nello scenario politico italiano e internazionale. Appare di lampante evidenza la strategia della presidente che sta sempre più attorniandosi nella sua esperienza a Palazzo Chigi da personaggi eterodossi, non provenienti dalla sua storia e dalla storia del suo partito.
Ormai i casi sono così numerosi da non poter essere ricondotti a coincidenze. Per lo più coloro che sono chiamati a collaborare con lei provengono da un’area che potremmo definire moderata-liberale.
Il più noto è il ministro di punta del suo governo, Carlo Nordio, che è anche il più lontano da lei per cultura politica di provenienza. Ma tanti altri non riconducibili direttamente alla destra, soprattutto tra i collaboratori più stretti, sono nel frattempo approdati alla sua corte. Non può essere una scelta casuale.
Il suo partito, invece, resta al momento del tutto impermeabile a questa evoluzione. Potrebbe essere una strategia o, più semplicemente, la circostanza che un premier che sia anche leader di partito, naturalmente riconduce la sua leadership e anche le sue politiche al ruolo istituzionale, facendo passare in secondo piano (nel caso di Meloni oscurando del tutto) le attività proprie del partito di cui è incontestata leader.
È di tutta evidenza che Giorgia Meloni dà un orizzonte di legislatura alla sua esperienza e fa bene a farlo. Anche questa fortunata condizione la pone nell’ottica di “accantonare” almeno per i prossimi anni il partito.
Analizziamo gli obiettivi e gli eventuali ostacoli nel raggiungerli. A me pare che ilpresidente del Consiglio (come ama essere chiamata) si sia posto un obiettivo ambiziosissimo: dar vita in Italia a un moderno partito conservatore, che si ispiri a un’esperienza precisa, il conservatorismo inglese.
Tutto si muove in tal senso. A cominciare dalla collocazione internazionale e dalle conseguenti posizioni senza oscillazioni sulla guerra, dalla continuità con l’esperienza di Mario Draghi in tanti settori della vita economica e sociale, dalle nuove – per lei – posizioni garantiste sul delicato tema della Giustizia. Queste ultime, per la verità, sinora solo declamate.
Anche il suo attivismo sul terreno delle istituzioni dell’Unione europea e i suoi rapporti in Europa lasciano prefigurare l’intenzione di porsi alla testa dei vari conservatorismi europei, piuttosto che lasciarsi trascinare da essi. Ricordiamo che lei è già presidente del gruppo parlamentare europeo Ecr, quello, appunto, dei conservatori europei. Insomma, tutto torna.
Ma qui cominciano i problemi per lei e le riflessioni per chi non vuole lasciarsi coinvolgere in tale pur originale progetto.
Innanzi tutto il suo partito, ancor più della sua storia personale. Quest’ultima può ben seguire un’evoluzione, mentre il partito a me pare la sua principale palla al piede. Non credo che possa facilmente farne a meno: ricordiamo che la Meloni proviene dalla storia antica del suo partito, prima ancora che da una sua storia personale. Non sarà facile riformarlo e tanto meno staccarsi da esso. Come vorrà gestire la rupture, inevitabile anche sul piano dei rapporti personali, è tutto da vedere. Soprattutto è tutta da farsi e sarà tutt’altro che semplice.
La lezione di Winston Churchill, e i suoi passaggi dai liberali ai conservatori, a me pare troppo ambiziosa e mal si attaglia alla situazione data.
Il quadro dei partiti oggi in campo potrà favorirla. Non ha competitor nel suo campo. Non lo è Matteo Salvini, che con il suo partito viene da tutt’altra storia. Non lo è Forza Italia, il cui declino potrà anzi favorire il suo progetto. Non è un problema l’opposizione, che fa di tutto per favorirla. E continuerà a farlo. La coazione a ripetere gli errori è una maledizione del Partito democratico di cui bisognerà finalmente prendere atto.
Non la favorisce invece la deep culture di questo Paese. Quanto di più lontano dal conservatorismo reaganiano o tatcheriano. Tutta rivolta alle rendite di posizione, alla bonusmania e al “manettarismo” militante a cui la presidente del Consiglio ha già dovuto inchinarsi, rallentando non poco e rischiando di compromettere il suo pur ambizioso progetto. Dai balneari, ai tassisti, da ITA alle pulsioni securitarie del 41-bis, tanti sono gli indicatori che segnano inesorabilmente le difficoltà del percorso.
Vi è infine quello che potrebbe essere l’avversario più insidioso sulla sua strada: la nascita di un partito autenticamente liberale che su alcuni temi possa farle concorrenza, essendo tale forza più credibile per storia e per cultura – e su altri temi, penso ai diritti civili, a politiche non ideologiche sull’immigrazione, alle iniziative per un Europa federale e tanto altro ancora – potrebbe e dovrebbe essere più attrattiva dei settori più vivaci della nostra società.
Certo se questo nascente partito, che non può identificarsi sic et simpliciter nel cosiddetto Terzo Polo come è ora configurato, ma che da quella esperienza può trarre spunti importanti (anche per evitare gli errori commessi), continuerà a guardare al Partito democratico come interlocutore preferenziale o addirittura obbligato, allora sgombrerà il campo alla Meloni che potrà esondare anche in un campo che non le è proprio.
Occorre farla finita con pseudo complessi di superiorità, frutto di una minorità politica e spesso anche personale. La Meloni si sfida senza rancori, con rispetto e senza complessi. Insomma, solo un vero Partito liberaldemocratico, ancorato alla famiglia liberale europea, potrà contrastare e competere con un moderno partito conservatore. Liberal-socialisti, liberal-progressisti, liberal di ogni ordine e specie, lascerebbero campo libero alla Meloni.
Certo le necessarie riforme istituzionali e una indilazionabile riforma elettorale saranno necessarie per lo sviluppo del progetto. Ma questa è un’altra storia.
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La NATO vivrà per sempre, finché potrà
Quali effetti ha avuto la guerra in Ucraina sulla NATO, e quali sono le implicazioni future? Per rispondere a queste domande, vale la pena ricapitolare brevemente come siamo arrivati fin qui. Il senatore Richard Lugar ha notoriamente scherzato dopo che l’Unione Sovietica ha perso la Guerra Fredda che la NATO aveva bisogno di uscire dall’area […]
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Discutere il 41-bis non è un reato
La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito: non c’è praticamente politico o commentatore di destra, centro, sinistra che affronti la questione senza aver cura di garantire che il 41-bis non si tocca. E’ invece proprio lo strumento che andrebbe discusso, sottoposto ad esame; senza accettare di soggiacere al ricatto di essere ritenuto ‘amico’ della Cosa Nostra e […]
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PODCAST. CINA. Attesa per il “piano di pace” di Xi Jinping per Russia e Ucraina
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 22 febbraio 2023 – Sebbene sia considerata un’alleata di Mosca, la Cina cerca di tenersi a distanza dai due blocchi contrapposti Usa-Russia e si prepara il 24 febbraio, ad un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, a presentare un suo “piano di pace”. Il suo ministro degli esteri Wang Yi ha presentato – indirettamente alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco – i punti che negli auspici cinesi potrebbero portare al negoziato tra Kiev e Mosca, sottolineando che per Pechino la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i Paesi devono essere tutelate così come le preoccupazioni di sicurezza di tutti i Paesi devono essere considerate. Una guerra nucleare non può essere combattuta o vinta, ha aggiunto Wang Yi. Sull’iniziativa cinese e le posizioni di Pechino abbiamo intervistato il collaboratore di Pagine Esteri Michelangelo Cocco, giornalista a Shanghai, autore di saggi sulla Cina e fondatore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.
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Strage a Nablus, incursione israeliana con morti e feriti
della redazione –
Pagine Esteri, 22 febbraio 2023 – Nella mattinata di oggi l’esercito israeliano ha fatto incursione nella città vecchia di Nablus, in Cisgiordania, circondando un’abitazione in cui si trovavano alcuni palestinesi. L’esercito ha abbattuto la casa uccidendo chi si trovava all’interno. Gli abitanti stanno tirando fuori dalle macerie i corpi senza vita. Al momento ci sono furiosi scontri, all’interno della città, tra l’esercito israeliano e i palestinesi di Nablus. In alcuni video si vedono corpi di palestinesi uccisi per strada. Tra di loro ci sarebbe un bambino. Molti i feriti, tra cui una donna. Al momento si contano 6 palestinesi uccisi e 71 feriti ma il bilancio è destinato ad aggravarsi.
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Dal 23 febbraio iniziano gli appuntamenti con L'Ora di Costituzione!
L'iniziativa sostenuta dal Senato prevede un ciclo di incontri, una volta al mese, con alcuni costituzionalisti che illustreranno i principali articoli della Carta agli studenti.
Al verde
Dopo l’enorme dilapidazione del bonus 110%, responsabilità del governo Conte 2, prevedibile e prevista fin dall’inizio, si tratta di comprenderne le conseguenze contabili, quelle produttive e le possibili vie d’uscita che minimizzino il danno e creino opportunità. Non la si interpreti come battaglia di bandiera, perché si tratta di un terreno sul quale ci si può fare ancora e più seriamente del male.
Il primo di marzo l’Istat pubblicherà i dati aggiornati sul deficit. Lì la bomba potrebbe deflagrare e, del resto, serve a nulla rimandare. Secondo le regole europee di contabilizzazione, imputando il costo nell’anno in cui nasce, si rischia di fare sballare i conti pubblici e introdurre una pericolosa stonatura nell’armonia dell’equilibrio. Dovessimo contabilizzare un punto o uno e mezzo in più di deficit sarebbero dolori e costi seri. Questa eredità avvelenata fu avvertita, ma non disinnescata dal governo Draghi, nella cui maggioranza era vasta la resistenza (e anche Fratelli d’Italia, allora all’opposizione, era dell’idea che si dovesse aggiustare e non fermare). Una resistenza che ci fu anche sulla riforma del catasto, che non avrebbe comportato aggravi fiscali altri che per gli evasori e che ancora oggi impedisce di distinguere seriamente fra immobili di lusso e popolari.
Ci sono conseguenze anche produttive. Abbiamo qui insistito nel ripetere che le previsioni economiche non segnalavano come imminente una recessione economica che la gran parte delle forze politiche dava già per esistente. Ma si faccia attenzione, perché se le norme in questione cambiano in continuazione (il 110% in media una volta ogni mese e mezzo) e se subito dopo avere emanato il decreto legge il governo già annuncia che sarà cambiato, il caos induce a fermare tutto. A quel punto non è la fine del malobonus, ma il modo in cui la si affronta, sommata ai problemi contabili, che potrebbero sul serio indurre una recessione. Quindi si deve dare una prospettiva. Non dopo e con comodo, ma ora, subito.
Si deve uscire dall’era degli “aiuti” e dei “sostegni”. L’idea che casa mia possa aumentare di valore grazie ai soldi che ci mettono altri è sbagliata in sé. Anzi è, in sé, un incrocio fra un’illusione e una truffa. Servono norme stabili e agevolazioni fiscali oggi che portino a maggiore gettito domani. La possibilità c’è ed è stata giustamente sottolineata dal presidente dell’Associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli: la direttiva europea sugli immobili ecocompatibili. Non solo non è una patrimoniale mascherata, ma un’occasione produttiva che aiuterebbe a sostenere il mercato dell’edilizia senza sperperare denari del contribuente.
I lavori che migliorano casa mia e ne aumentano il valore li devo pagare io. Ma siccome si tratta di un’opera collettiva di grande portata, il fisco aiuta non pesando sul loro costo e predisponendone uno scarico ragionevole (quindi meno della totalità e meno del delirio superiore alla totalità). È conveniente per il proprietario, visto che diminuirà i costi di gestione e aumenta il valore dell’immobile. È conveniente per il fisco, perché il mancato introito odierno diventerà maggiore gettito al momento della cessione, dato dal maggiore valore. È conveniente per il sistema che finanzia il lavori, ovvero le banche, perché anziché dovere incassare un credito del cliente (remunerate con congrua e talora alta percentuale) parteciperanno al rischio e allo sforzo a prezzi di mercato. Ed è conveniente per le imprese edili che non siano nate per fatturare lavori in cui il cliente non è interessato al prezzo, dato che a pagare è un altro, giacché il lavoro da farsi, serio e controllato nei risultati, sarà enorme.
Il tutto a condizione che la si pianti con l’opporsi a quel che serve a crescere e migliorare, rivendicando invece come un diritto sovrano perpetuare quel che serve a impoverirsi e affondare. Si può fare, mobilitando competenza e responsabilità al posto della furbizia ottusa fin qui messa in conto ai contribuenti onesti.
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Il fascismo in Italia non è nato con le grande adunate da migliaia di persone. Nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti
@Politica interna, europea e internazionale
La Dirigente, così come altri presidi fiorentini, ha denunciato quanto accaduto sensibilizzando sull’importanza di non sottovalutare certi episodi, termometro di fenomeni di discriminazione spesso frequenti fuori e dentro le mura scolastiche. Nel concludere la circolare la Dott.ssa Savino ha dichiarato: “Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa, ma non è andata così”.
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Iran, dalla Fondazione Einaudi un manifesto per valori liberali e parita’ dei diritti – ansa.it
Iran, Cangini (Fond. Einaudi): “Lanciamo manifesto per i valori liberali e parità dei diritti” – alanews
Le tante anime di Gaetano Martino, grande statista – Gazzetta del Sud
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#uncaffèconLuigiEinaudi☕ – Gli italiani sentono…
Gli italiani sentono di potersi conquistare un posto al sole colla propria attività e non temono di misurarsi in gara con altri.
da Lineamenti di una politica economica liberale, Movimento Liberale Italiano, 1943
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La ferocia al potere
Sarà pure vero che la signora Meloni è molto brava e intelligente, anche se circondata spesso da persone di dubbia capacità, ma certo in queste ultime settimane il comportamento del Governo è a dir poco molto discutibile, ma specialmente preoccupante. Preoccupante perché le mene di destra sempre più decise non sembrano frenabili, ma specialmente non […]
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Messina Denaro, borghesia mafiosa e 41 bis | Comune-info
«Un’ampia conversazione con Umberto Santino, fondatore e direttore dello straordinario Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”. Santino – tra i primi, già negli anni Settanta, ad approfondire il concetto di borghesia mafiosa, oggi al centro delle attenzioni con l’arresto di Matteo Messina Denaro – ragiona delle trasformazioni della lotta a Cosa nostra, riprende il significato dell’espressione “mafia finanziaria” e spiega il suo punto di vista sul 41 bis e sul caso di Alfredo Cospito.»
Perché il superbonus è un fallimento della nostra democrazia
Com’è stato possibile? Spesi 120 miliardi di bonus edilizi, circa 6 punti di pil. Due terzi del Pnrr (190 miliardi) che però è speso su un arco temporale più ampio. Il doppio delle risorse impiegate (60 miliardi) per affrontare la crisi energetica più grave degli ultimi 50 anni. Le agevolazioni fuori da ogni logica economica, insieme alla cessione illimitata dei crediti d’imposta, hanno per giunta prodotto circa 50 miliardi di buco di bilancio. All’improvviso, con un decreto d’urgenza del governo per evitare che i conti pubblici saltino per aria, il paese si sveglia dalla favola del “gratuitamente”. Ma il Superbonus 110 per cento rappresenta di più di un disastro economico. Se si risponde alla domanda su come sia stato possibile, ovvero su come mai tutto ciò non sia stato impedito, ci si rende conto di essere di fronte a un fallimento della nostra democrazia.
Se una sciagura del genere si è verificata è perché molte cose nel nostro sistema non hanno funzionato. Paradossalmente, ma forse non troppo, la misura che più di tutte ha sconquassato le finanze pubbliche è quella che ha goduto dei consensi più ampi e trasversali. Non solo il M5s e il Pd, che il Superbonus l’hanno realizzato insieme a un pezzo di Terzo polo (Iv). Ma anche l’opposizione. Forza Italia è sempre stata al fianco delle imprese edili, così come la Lega: quella che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti definisce una “politica scellerata” è stata convintamente sostenuta dal suo leader Matteo Salvini.
Allo stesso modo Giorgia Meloni, che attaccava Mario Draghi per le correzioni delle storture del Superbonus al grido di “non si cambiano le regole in corsa”. “Se oggi il presidente del Consiglio (Draghi, ndr) si vanta di un 6 per cento di aumento del pil, lo deve al Superbonus” diceva Marco Osnato, attuale presidente della commissione Finanze della Camera. Nessuna opposizione politica, quindi.
Ma anche nessuna, o pochissime critiche dai media. La stampa, nella quasi totalità, si è allineata alla narrazione del settore delle costruzioni e all’idea che il Superbonus fosse il motore della crescita e non una discesa senza freni nel deficit. I giornali che generalmente invitano a fare attenzione ai conti e a fare presto quando c’è da correggerli, hanno applaudito a una misura che ha scavato come una talpa una voragine nel bilancio statale.
Anche l’accademia, con poche lodevoli eccezioni, è stata distratta. Mentre altre misure, come ad esempio Reddito di cittadinanza e Quota 100, hanno spinto gli economisti a produrre numerose analisi, il Superbonus nonostante la mole di risorse in gioco e le criticità evidenti è stato ignorato. Tanto che gli unici studi sono quelli fatti da organizzazioni di settore, che hanno prodotto stime con effetti moltiplicativi fantastici e quasi lisergici. Numeri che poi, sebbene palesemente surreali, sono stati rilanciati acriticamente dai media riproponendo con un timbro di (pseudo) scientificità la narrazione del bonus che si ripaga da sé.
Ma a mancare sono stati anche i controlli istituzionali. Non è chiaro come sia stato possibile che la Ragioneria generale dello stato abbia bollinato una misura con coperture che, a ora, si sono dimostrate inferiori di 50 miliardi rispetto alla spesa effettiva. Eppure non si trattava di qualcosa di imprevedibile, visto che a maggio 2020 l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb) segnalava come il mix dell’agevolazione al 110 per cento e della cedibilità del credito aumentava il rischio di far lievitare i costi. Per giunta, già all’epoca, il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro avvisava del “rischio sotto il profilo della classificazione contabile dei crediti d’imposta liberamente cedibili e utilizzabili in compensazione” con relativo impatto sul deficit. Esattamente ciò che sta accadendo ora dopo i rilievi di Eurostat.
La Ragioneria dello stato ha sottovalutato entrambi i rischi, sia quello dei costi sia quello contabile sulla “pagabilità” del credito. Ed è l’istituto che, insindacabilmente, avrebbe potuto e dovuto fermare il Superbonus fatto in quella maniera così scellerata che ora ha costretto il governo a intervenire d’urgenza.
Politica di governo e di opposizione, media, accademia, amministrazione pubblica. La voragine nel bilancio aperta dai bonus edilizi è la sommatoria dei fallimenti di quattro presidi che in una democrazia sana avrebbero dovuto impedire questo disastro. La vicenda del Superbonus mostra che oltre agli immobili sono tante le cose che nel nostro paese hanno bisogno di ristrutturazione ed efficientamento.
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Italia-India, nel nome della Difesa. La visita di Meloni e l’accordo in arrivo
Il governo guarda all’India. A inizio marzo il primo ministro Giorgia Meloni atterrerà a Nuova Delhi, dove parteciperà alla conferenza Raisina Dialogue come ospite principale e incontrerà il premier Narendra Modi. I due si erano incontrati l’ultima volta a novembre, alla conferenza del G20 di Bali, dove si erano impegnati ad approfondire la relazione tra i rispettivi Paesi.
Secondo The Hindu, la visita “dovrebbe porre fine a un decennio di gelo” – causato dagli attriti per l’arresto dei due marò italiani, e non solo – e lasciarselo “saldamente alle spalle” grazie a una nuova cooperazione bilaterale in materia di difesa, che “probabilmente sarà annunciata” durante la visita del premier Meloni. “Si sta discutendo di un accordo generale sulla cooperazione bilaterale nel settore della difesa”, ha dichiarato una fonte diplomatica al quotidiano, aggiungendo che se i colloqui dovessero prolungarsi l’accordo sarà comunque pronto per la firma in tempo per la prossima visita di Meloni, a settembre, per il vertice del G20.
L’ex ambasciatore indiano in Italia Anil Wadhwa ha dichiarato a The Hindu che gli ultimi anni “hanno visto un continuo sforzo da parte di entrambe le parti” per superare le controversie del passato e concentrarsi sugli sforzi economici. Sebbene i legami bilaterali ne abbiano risentito, l’Italia è rimasta coinvolta nell’industria della difesa indiana attraverso realtà come Fincantieri, che fornisce il know-how per l’aggiornamento tecnologico e il potenziamento delle capacità della prima portaerei indiana, la INS Vikrant. Inoltre, pochi giorni dopo l’incontro tra Modi e l’allora premier italiano Mario Draghi a margine della riunione del G20 a Roma, il Ministero della Difesa indiano ha revocato il divieto imposto su Leonardo.
I lavori preparatori sono in corso. La scorsa settimana, il sottosegretario alla Difesa Matteo Perego Di Cremnago (in rappresentanza del Ministro della Difesa Guido Crosetto) ha parlato con il ministro della Difesa indiano Rajnath Singh a margine della fiera Aero India a Bengaluru. Ha incontrato anche il Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Anil Chauhan, con il quale ha discusso della collaborazione nei settori della guerra aerea, subacquea ed elettronica. Dopodiché ha parlato ai rappresentanti governativi presenti al Conclave dei Ministri della Difesa, ponendo l’accento sulla necessità di espandere le relazioni con Nuova Delhi.
“L’interscambio con il nostro Paese, nell’intorno dei 14 miliardi, seppur in crescita del 42 per cento rispetto all’anno precedente, è decisamente inferiore al potenziale”, ha dichiarato Perego a Bangalore, sottolineando che le aziende italiane in più settori – tra cui quello navale, quello aeronautico, quello elettronico e delle munizioni – devono cogliere la “progressiva diversificazione di Nuova Delhi dalla dipendenza dalla Russia e la strategia ’Make in India’” come un’opportunità. “La mia presenza qui e soprattutto le prossime [presenze] dei vertici del governo italiano, insieme ai lavori volti alla sottoscrizione di un nuovo accordo di cooperazione nel settore della difesa, segnano una nuova stagione di enfasi delle relazioni fra i nostri due Paesi”.
Lo sforzo diplomatico è da leggere nel quadro della rinnovata centralità del quadrante indopacifico, a cui l’Italia guarda con interesse crescente. Roma è sempre più intenzionata a onorare il concetto di sicurezza indivisibile, considerato che in un mondo interconnesso, anche gli scenari geograficamente distanti hanno ripercussioni immediate anche vicino a casa. Dunque il sistema-Paese sta intensificando gli sforzi in Asia, specie attraverso gli accordi di difesa.
Di recente Italia e Giappone hanno elevato il loro rapporto a “partnership strategica” dopo aver avviato, insieme al Regno Unito, un progetto congiunto (noto come GCAP) per lo sviluppo dei caccia di sesta generazione. Come anticipato su queste colonne, il ministro Crosetto dovrebbe recarsi a Tokyo nei prossimi mesi. Un’altra probabile destinazione è l’Indonesia, dove il rappresentante della Difesa italiano incontrerebbe il suo omologo Prabowo Subianto – che ha già espresso il suo apprezzamento per “l’impegno dell’Italia nell’attuale quadro geostrategico e la sua eccellenza tecnologica”.
Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a RaiNews24
Il 22 febbraio 2023 dalle ore 10:40 il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a RaiNews24.
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I giochi mentali di Mosca: trovare l’ideologia nella Russia di Putin
Gli americani tendono a guardare all’ideologia con sospetto. In effetti, uno studioso ha proclamato che l’ideologia era “finita”. Nonostante questo rifiuto, l’ideologia continua a tornare nel discorso politico su entrambe le sponde dell’Atlantico. Inoltre, i recenti progressi della psicologia politica hanno mostrato forti differenze psicologiche tra conservatori e liberali autoidentificati, suggerendo che il conflitto politico lungo […]
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Turchia: lezioni post-terremoto
Siamo tutti scioccati dai massicci disastri sismici che si sono verificati uno dopo l’altro il 6 febbraio 2023, prima con una scossa di magnitudo 7,7 della scala Richter a Pazarcık Kahramanmaraş e poi con una scossa di magnitudo 7,4 a Elbistan, in Turchia. Abbiamo seguito le operazioni di ricerca e salvataggio in TV negli ultimi […]
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Una possibile soluzione per la guerra in Ucraina
Molti analisti di politica estera in tutto il mondo sembrano rassegnati a una guerra lunga, faticosa e dolorosa in Ucraina, alzando le mani per dichiarare che né l’Ucraina né la Russia hanno alcun evidente incentivo a raggiungere un accordo che ponga fine alla guerra. Di recente, gli ucraini hanno avuto uno slancio nell’Ucraina meridionale e […]
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Torna dall’8 al 10 marzo 2023 Fiera Didacta Italia, il più importante appuntamento fieristico della scuola italiana!
Quest’anno il Ministero dell’Istruzione e del Merito aumenta la propria partecipazione attraverso un grande stand che mette al centr…
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Firma il Manifesto “Per un Iran libero”
Per ogni donna, piccola o grande che sia
Per ogni ragazzo e per ogni uomo
Per ogni essere umano che ami la libertà
Non è tempo di tiepide condanne. Non si può restare indifferenti di fronte a quello che da mesi accade in Iran. Dobbiamo condannare con forza e senza compromessi le violenze del regime degli ayatollah, autorità guidate dall’odio e dal fanatismo religioso, che opprimono, seviziano e uccidono qualsiasi persona ritenuta impura. Le loro sono regole macchiate di sangue. Il loro credo è morte e violenza.
Eppure, il desiderio di libertà è più forte del terrore imposto dal regime. A differenza del passato, le proteste a Teheran e in tutto il Paese si stanno rivelando insopprimibili. Quella a cui assistiamo è una lotta tenace senza leader, ma guidata da una semplice richiesta: Jin, Jian, Azadi. Donna, vita, libertà.
Cancellare la femminilità e la bellezza è quello che desidera il regime. Comprimere ogni spazio di libertà è la sua missione, con la polizia morale che ritiene di rafforzare i propri principi con le bastonate e le autorità religiose che erogano condanne a morte contro “i nemici di Dio”.
Non possiamo restare inerti di fronte a minorenni violentate e uccise perché non indossano un velo, a madri costrette a tacere o a mentire per non fare la stessa fine delle figlie, a padri privati di ogni prospettiva per le proprie famiglie.
Le donne e gli uomini iraniani sanno che il tempo del regime sta finendo, in loro arde la fiamma della libertà. Le violenze e le minacce del regime non riusciranno a spegnerla.
Di fronte a tutto questo l’Occidente deve alzare la voce. La Fondazione Luigi Einaudi ha scelto di non voltare lo sguardo e di agire con ogni mezzo. Essere messaggeri di quello che sta accadendo, mettere a nudo i fatti anche quando rimordono la coscienza. Questa è la nostra scelta. Di più, questo è il nostro dovere. Un dovere morale, ancor prima che “politico”.
La nostra attenzione sarà costante. Incessante sarà la nostra richiesta alla classe politica italiana ed europea di azioni concrete. Solo un “salto di qualità” nella reazione internazionale potrà fermare le autorità iraniane.
Ricordiamoci di non dare per scontati i privilegi di cui gode il nostro mondo libero. Sono stati raggiunti dopo secoli di guerre e conflitti sociali: difendiamoli sempre e sempre con la stessa intensità.
La libertà è universale, né occidentale né orientale. Oggi ha un nuovo volto, è quello sorridente e radioso delle donne assembrate nelle piazze iraniane.
Non lasciamole sole. Uniamoci a loro e sosteniamole con ogni mezzo nella riconquista dei loro incomprimibili diritti. Per un Iran libero.
Firma il manifesto su Change.org
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Guerra in Ucraina: se Putin è Hitler, Zelensky è Churchill
Mentre la guerra infuria in Ucraina, tutto è beatamente pacifico sul fronte interno. Gli americani hanno abbracciato la narrativa ufficiale. Nessun film western ha mai tracciato la linea del bene contro il male in modo così chiaro o crudo. La Casa Bianca, il Congresso e la stampa insistono sul fatto che l’Ucraina è la vittima […]
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Anna Maria Luisa de’ Medici, colei che salvò l’intero patrimonio artistico
Il 18 febbraio scorso, Firenze ha festeggiato come mai era avvenuto prima una donna straordinaria, Anna Maria Luisa de’ Medici, conosciuta come l’Elettrice Palatina, l’ultima discendente di una delle più importanti e famose casate quella dei Medici appunto, che per oltre 3 secoli ha imposto il proprio potere politico, economico e culturale, la propria egemonia […]
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Manifesto “Per un Iran libero”
Per ogni donna, piccola o grande che sia
Per ogni ragazzo e per ogni uomo
Per ogni essere umano che ami la libertà
Non è tempo di tiepide condanne. Non si può restare indifferenti di fronte a quello che da mesi accade in Iran. Dobbiamo condannare con forza e senza compromessi le violenze del regime degli ayatollah, autorità guidate dall’odio e dal fanatismo religioso, che opprimono, seviziano e uccidono qualsiasi persona ritenuta impura. Le loro sono regole macchiate di sangue. Il loro credo è morte e violenza.
Eppure, il desiderio di libertà è più forte del terrore imposto dal regime. A differenza del passato, le proteste a Teheran e in tutto il Paese si stanno rivelando insopprimibili. Quella a cui assistiamo è una lotta tenace senza leader, ma guidata da una semplice richiesta: Jin, Jian, Azadi. Donna, vita, libertà.
Cancellare la femminilità e la bellezza è quello che desidera il regime. Comprimere ogni spazio di libertà è la sua missione, con la polizia morale che ritiene di rafforzare i propri principi con le bastonate e le autorità religiose che erogano condanne a morte contro “i nemici di Dio”.
Non possiamo restare inerti di fronte a minorenni violentate e uccise perché non indossano un velo, a madri costrette a tacere o a mentire per non fare la stessa fine delle figlie, a padri privati di ogni prospettiva per le proprie famiglie.
Le donne e gli uomini iraniani sanno che il tempo del regime sta finendo, in loro arde la fiamma della libertà. Le violenze e le minacce del regime non riusciranno a spegnerla.
Di fronte a tutto questo l’Occidente deve alzare la voce. La Fondazione Luigi Einaudi ha scelto di non voltare lo sguardo e di agire con ogni mezzo. Essere messaggeri di quello che sta accadendo, mettere a nudo i fatti anche quando rimordono la coscienza. Questa è la nostra scelta. Di più, questo è il nostro dovere. Un dovere morale, ancor prima che “politico”.
La nostra attenzione sarà costante. Incessante sarà la nostra richiesta alla classe politica italiana ed europea di azioni concrete. Solo un “salto di qualità” nella reazione internazionale potrà fermare le autorità iraniane.
Ricordiamoci di non dare per scontati i privilegi di cui gode il nostro mondo libero. Sono stati raggiunti dopo secoli di guerre e conflitti sociali: difendiamoli sempre e sempre con la stessa intensità.
La libertà è universale, né occidentale né orientale. Oggi ha un nuovo volto, è quello sorridente e radioso delle donne assembrate nelle piazze iraniane.
Non lasciamole sole. Uniamoci a loro e sosteniamole con ogni mezzo nella riconquista dei loro incomprimibili diritti. Per un Iran libero.
Firma il manifesto su Change.org
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Caccia o droni? Il governo studia il settimo decreto armi a Kyiv
Si va verso un salto di qualità nel sostegno militare dell’Italia all’Ucraina. Lo rivela Francesco Verderami nel suo retroscena sul Corriere della Sera. Il governo sta elaborando il settimo decreto di aiuti alle autorità di Kyiv. “Abbiamo appena varato il decreto e dall’Ucraina ci sono arrivate altre richieste. Toccherà farne un altro”, diceva un paio di settimane fa Guido Crosetto, ministro della Difesa, a un collega di governo secondo quanto ricostruito da Verderami. Il sistema di difesa missilistico Samp-T promesso a Kiev arriverà a destinazione solo “nelle prossime settimane”, come ha annunciato il Antonio Tajani, ministro degli Esteri, perché bisogno superare un problema di allineamento tecnico tra i pezzi italiani e quelli francesi che compongono l’arma.
IL SALTO DI QUALITÀ
La dotazione bellica salirà di livello, scrive il Corriere della Sera nel giorno della visita di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, a Kyiv: “Sarà un’altra fattispecie di armi”, confermano rappresentanti del governo italiano al giornale. C’è scetticismo sulla possibilità che Roma invii dei caccia, ma si parla di una nuova partita di droni – “che hanno un mercato a metà strada tra il militare e il civile” – e non si esclude la fornitura di “missili a lunga gittata”. Se sarà confermata, sarà davvero una svolta, dato che “finora, per evitare il coinvolgimento nel conflitto, i Paesi della Nato avevano posto delle limitazioni nell’assegnazione di certi armamenti”. E anche perché la formula che Roma finisce a Kyiv “solo armi difensive”, usata finora per placare i settori della maggioranza e i pezzi di opinione pubblica meno favorevoli all’invio di armi, sarebbe superata nella sostanza. Ecco, dunque, cosa porta Giorgia Meloni al presidente ucraino Volodymyr Zelensky secondo il Corriere.
LE PAROLE DI CIRIELLI…
Nei giorni scorsi si è parlato dell’ipotesi di invio di caccia all’Ucraina da parte dell’Italia: “Quanto ai jet, dipende quali”, ha spiegato Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri (Fratelli d’Italia), al Messaggero. “Gli F-35 sono fuori discussione, si può avviare un discorso sui caccia bombardieri Amx. Ascolteremo le richieste ucraine”, ha aggiunto.
… E QUELLE DI TAJANI
Il ministro Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia di Silvio Berlusconi, ha ribadito che l’Italia andrà avanti con l’invio delle armi all’Ucraina: “Abbiamo già approvato il sesto pacchetto e l’invio del materiale è in via di perfezionamento. Tra qualche settimana, in collaborazione con i francesi, manderemo in Ucraina anche il sistema missilistico Samp-T per la difesa aerea”, ha detto in un’intervista al giornale La Stampa. Potremmo mandare anche nostri caccia? “Ancora non ne abbiamo parlato, ma nel caso dovremo coordinarci con gli alleati, capire che tipo di aerei manderanno loro, perché non ha senso consegnare agli ucraini modelli diversi, poi c’è il problema di addestrare i piloti. Insomma, mi pare praticamente impossibile che vengano inviati caccia italiani”, ha risposto. “Se vogliamo arrivare alla pace”, ha continuato, “dobbiamo fare in modo che l’Ucraina resti indipendente e difenda il proprio territorio, altrimenti non si potrà costruire un accordo”.
Carnevale
La vicenda dei giornalisti italiani cui è stato revocato l'accredito o semplicemente è stato impedito di entrare in Ucraina. Di @Vincenzo_vita su @art_ventuno
@Giornalismo e disordine informativo
La prevista conferenza stampa di Giorgia Meloni, attesa in queste ore a Kiev dopo la visita di Biden, sarà l’occasione per sollevare il problema: quali sono le accuse mosse dai servizi segreti nei riguardi di chi non fa propaganda, bensì informazione sulla guerra? Vale anche in tale circostanza la solita terribile strategia del segreto, in base alla quale i misfatti e le atrocità non devono venire a conoscenza dell’opinione pubblica?
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Meno festa, più guerra. La Danimarca dice “no”
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 13 febbraio 2023 – Ormai, ovunque, la parola d’ordine è aumentare le spese militari, e per trovare risorse aggiuntive molti governi non si fanno scrupoli a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare. Alcuni esecutivi, poi, pur di fare cassa orchestrano soluzioni “creative”.
Via il “Grande giorno della preghiera”
È il caso del nuovo governo danese che, pur di rastrellare fondi da destinare al bilancio della Difesa, ha deciso di abolire lo “store bededag”, il “Grande giorno della preghiera”.
La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, due formazioni rispettivamente di centrodestra e di centro – ha inserito la cancellazione della festività nel programma di governo, insieme ai tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati.
L’esecutivo assicura che la misura porterebbe a maggiori introiti per lo stato di 430 milioni di euro, che permetterebbero al paese di portare la spesa militare al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza Atlantica – già nel 2030, raggiungendo l’obiettivo con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato nel marzo 2022 da socialdemocratici, Partito Socialista-Popolare, Liberali e Conservatori.
Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla “minaccia russa” e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. A gennaio, tra l’altro, un rapporto semestrale della NATO criticava la Danimarca per non aver investito sufficienti risorse nelle sue forze armate.
La Danimarca dice no
Ma il disegno di legge presentato dalla coalizione di governo ha scatenato nel piccolo paese nordico una levata di scudi generalizzata. Secondo un recente sondaggio ben il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti.
Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.
La protesta dei sindacati
In piazza sono scesi, soprattutto, i militanti della FH, la Confederazione dei Sindacati, un’organizzazione che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste.
La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Genera indignazione il fatto che l’esecutivo abbia scelto di penalizzare la classe lavoratrice per recuperare risorse da destinare alla spesa bellica.
«Non credo sia un problema dover lavorare un giorno in più. Stiamo affrontando enormi spese per la difesa e la sicurezza» ha detto Mette Frederiksen presentando al parlamento il proprio programma di governo. Ma i sindacati insistono nel difendere un giorno di riposo, per quanto la Danimarca sia tra i paesi europei in cui si lavora meno ore. «Abbiamo bisogno di tempo per riprenderci fisicamente e mentalmente, e per concentrarci sulle nostre famiglie e su noi stessi» ha spiegato all’emittente pubblica danese DR un educatore che partecipava alla manifestazione.
Inoltre, ha accusato la segretaria generale della Confederazione dei Sindacati Lizette Risgaard, la decisione del governo attacca il “modello danese”, nel quale la retribuzione e l’orario di lavoro vengono regolati da accordi bilaterali negoziati dalle organizzazioni dei lavoratori e da quelle degli imprenditori, senza l’intervento dello stato. Anche i sindacati dei dipendenti del settore militare hanno protestato contro il provvedimento.
Il no all’escalation
Non mancano poi gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali l’aggiunta di una giornata lavorativa permetterebbe di generare maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone, attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero assai più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Oltretutto nelle scorse settimane, nel tentativo di ammorbidire i sindacati, l’esecutivo ha offerto un aumento dei salari dello 0,45% come compensazione per la perdita di un giorno di ferie pagate.
Una parte dell’opinione pubblica, poi, sia per motivi etici sia politici, rimane contraria all’aumento della spesa militare, anche se alcuni dei partiti della sinistra l’hanno sostenuto nella precedente legislatura e, assieme alle opposizioni di destra, hanno presentato per gonfiare comunque il budget della Difesa che non prevede l’abolizione di una delle undici festività annuali.
Molti manifestanti, domenica scorsa, portavano cartelli che recitavano «Dì no alla guerra».
Il quotidiano Politiken, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un “autogol incomprensibile” il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Già dieci anni fa un altro governo, sempre a guida socialdemocratica, tentò di eliminare lo “store bededag” ma dovette rinunciare a causa delle forti proteste.
Militari dell’esercito danese
Sostegno a Kiev e coscrizione obbligatoria per le donne
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli anche a sei chilometri di distanza.
Come se non bastasse, in un’intervista alla tv pubblica danese, il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen ha affermato che il governo intende imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate.
Attualmente, le donne possono entrare nell’esercito solo su base volontaria mentre se vengono scelti tramite un sistema a sorteggio, gli uomini sono obbligati a prestare il servizio militare; normalmente la naia dura quattro mesi, ma in alcune circostanze può arrivare fino a dodici. Nei fatti, sebbene la legge consenta alle forze armate di imporre il servizio militare, attualmente solo l’1% degli effettivi delle forze armate del paese nordico viene arruolato in questo modo. Evidentemente l’esecutivo sta pensando di aumentare questa quota.
In Europa solo due paesi prevedono la coscrizione militare obbligatoria per le donne: la Norvegia dal 2013 e la Svezia dal 2018. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Diverso sarebbe la possibilità di istituire e promuovere un vaido addestramento periodico e breve e soprattutto non obbligatorio per tutti i cittadini. Maschi e femmine
ARABIA SAUDITA. Condanne a morte e carcere duro per chi si oppone a NEOM
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 21 febbraio 2023 – Gli Howeitat nella regione nordoccidentale dell’Arabia saudita ci vivono da secoli. Da prima che i Saud, adottato il wahhabismo, si proclamassero unilateralmente custodi di Mecca e Medina e realizzassero poi le loro ambizioni territoriali grazie al petrolio e agli appetiti del colonialismo occidentale. E credevano di poter continuare la loro tranquilla esistenza in quell’area lontana dallo sfarzo edilizio e tecnologico delle grandi città saudite. Non avevano fatto i conti con i progetti oltremodo ambiziosi del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs), di fatto già alla guida del regno, uno che non si fa scrupoli quando deve liberarsi di chi prova ad ostacolare il suo cammino. Lo provano gli arresti qualche anno fa di decine di principi e membri della sua famiglia e nel 2018 l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi di cui è ritenuto il mandante da più parti, anche dalla Cia. Un rapporto, The Dark Side of Neom, dell’organizzazione per i diritti umani araba Alqst, pubblicato il 16 febbraio, denuncia che circa 47 membri della tribù Howeitat sono stati arrestati con l’accusa di resistenza allo sgombero dall’area in cui è in costruzione la megalopoli Neom, il più faraonico dei progetti avviati dall’erede al trono saudita per soddisfare la sua mania di grandezza.
Quindici membri della tribù, rivela Alqst, sono stati condannati a pene che vanno da 15 fino a 50 anni di carcere, otto sono stati rilasciati dalla detenzione, altri 19 sono detenuti in attesa di verdetto. Lo scorso ottobre un tribunale saudita aveva condannato a morte tre Howeitat: Shadli, Atallah e Ibrahim al Howeiti. Tutti e tre si erano espressi contro lo sfratto della loro tribù decisa dalle autorità saudite per far posto a Neom. «Queste sentenze scioccanti – ha scritto Alqst – mostrano le misure crudeli che le autorità saudite sono disposte a prendere pur di punire i membri della tribù Howeitat che hanno protestato contro lo sgombero forzato dalle loro case». Tutto è cominciato nel marzo 2020 quando le forze speciali saudite fecero irruzione nelle case di coloro che si opponevano allo sgombero. Venti Howeitat furono ammanettati per aver protestato contro l’arresto di un ragazzino. Poi Abdul Rahim al Howeiti, attivista dei diritti della sua tribù, fu ucciso a colpi di arma da fuoco poco dopo aver realizzato video su quanto stava accadendo. Suo nipote Ahmed al Huwaiti venne arrestato e condannato prima a cinque anni e poi in appello a 21 anni di carcere per «aver cercato di destabilizzare e lacerare il tessuto sociale e la coesione nazionale». Maha al Huwaiti è stata arrestata nel febbraio 2021 per aver twittato sull’aumento del costo della vita e pianto la morte di al Huwaiti. Inizialmente è stata condannata a un anno di reclusione poi in appello a tre anni. Nell’agosto 2022 è stata processata nuovamente per le stesse accuse e punita con 23 anni di prigione.
Il rapporto rileva che la repressione e le pene detentive si sono fatte più dure in coincidenza con la riabilitazione da parte dell’Occidente di Mohammed bin Salman per l’omicidio di Jamal Khashoggi. «La correlazione è chiara. Più Mbs viene riabilitato più le cose peggiorano», ha dichiarato a un giornale online Lina al Hathloul, attivista saudita dei diritti umani e responsabile delle comunicazioni di Alqst. Al Hathloul ha fatto notare che in seguito alle visite ufficiali in Arabia saudita dell’ex primo ministro britannico Boris Johnson e del presidente degli Stati uniti Joe Biden c’è stata «un’ondata di esecuzioni» e di «condanne a lunghe detenzioni senza precedenti».
Neom costerà 500 miliardi di dollari, sarà 33 volte più grande di New York e si estenderà per 170 chilometri in linea retta nella provincia di Tabuk. Avrà anche una stazione sciistica, Trojena, unica candidata per i Giochi asiatici invernali del 2029. L’Arabia saudita sarà il primo paese del Medio oriente ad ospitarli. Il resort dovrebbe essere completato nel 2026 e offrirà sci all’aperto, un lago d’acqua dolce artificiale e una riserva naturale. Di fronte ai tanti miliardi che saranno investiti per Neom, alle famiglie Howeitat sono state fatte promesse di risarcimento mai mantenute. Le autorità hanno respinto le richieste di chi voleva essere reinsediato nelle immediate vicinanze delle loro case offrendo loro 620.000 riyal (150mila euro) per essere ricollocati più lontano. In realtà, ha riferito Alqst, ai destinatari sono dati solo 17.000 riyal (4200 euro). Così la maggior parte degli sfrattati è stata costretta ad acquistare case nelle aree più povere e degradate della provincia di Tabuk.
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AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 20 febbraio 2023 – Si fanno ancora attendere le linee guida promesse dal governo de facto dei Talebani per regolamentare il ruolo delle donne nelle Organizzazioni Non Governative e riabilitarle al loro lavoro. Sono trascorse, infatti, tre settimane dalla missione ONU a Kabul dalla quale Martin Griffiths e gli altri delegati erano tornati con “risposte incoraggianti”, così avevano detto, da parte dei ministri talebani. Al centro dell’incontro c’era stata la discussione in merito al divieto per le donne afghane di lavorare nelle ONG, ratificato dal regime il 24 dicembre scorso. La causa della legge era, a detta del regime, il mancato rispetto da parte delle operatrici delle ONG delle norme di abbigliamento imposte dalla sharia.
Dopo il bando emesso dal governo talebano, alcune ONG avevano momentaneamente sospeso le loro attività nel Paese, e per tutte erano seguite ore di gelo di fronte all’incertezza di poter continuare ad adoperare personale femminile per le proprie missioni, ovvero di poter continuare a impiegare, in condizioni di sicurezza, almeno la metà dei propri dipendenti. Al decreto, che aveva gettato nello sconforto la comunità internazionale, aveva poi fatto seguito una correzione del tiro da parte dei Talebani, che avevano escluso dalle destinatarie del bando le donne che operavano negli ospedali e nel settore sanitario. L’International Rescue Committee (IRC), Save the Children e CARE avevano quindi riavviato in parte le proprie attività nel Paese.
Il 24 gennaio scorso, i Talebani avevano ricevuto una delegazione dell’ONU guidata da Martin Griffiths, Sottosegretario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e Presidente dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC), un forum che riunisce i leader di 18 organizzazioni umanitarie. In tale occasione, il governo afghano avrebbe, appunto, dichiarato di essere al lavoro nella redazione di “linee guida”, sic, per regolamentare il lavoro delle donne nelle ONG senza infrangere la legge islamica.
“Un certo numero di leader talebani mi ha detto che l’amministrazione talebana sta lavorando a linee guida che forniranno più chiarezza sul ruolo, la possibilità e auspicabilmente la libertà delle donne di lavorare nel settore umanitario”, aveva dichiarato Griffiths. Una promessa interpretata come un tenue segnale di speranza nonostante la sua vaghezza e malgrado la consapevolezza che un incontro con i leader talebani di Kandahar, roccaforte dei capi spirituali in grado di dire effettivamente l’ultima parola in tema di politica, sarebbe prezioso per sigillare l’accordo sul lavoro delle donne.
Pochi giorni prima, un’altra delegazione ONU aveva raggiunto a Kabul e Kandahar i leader talebani, sempre a proposito del divieto di lavorare nelle ONG per le operatrici afghane. Questa volta a guidarla era stata una donna, Amina Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, accompagnata da Sima Bahous, Direttore Esecutivo dell’Agenzia ONU per le Donne, e da Khaled Khiari, Segretario Generale aggiunto del Dipartimento di Costruzione politica e Operazioni di Pace. Mohammed si era detta “incoraggiata” dalle eccezioni fatte per le operatrici sanitarie, ma al tempo stesso aveva dichiarato che le conversazioni con la controparte erano state particolarmente “difficili”.
A tre settimane dall’ultimo incontro con i rappresentanti dell’ONU, il decalogo che dovrebbe permettere alle donne afghane di tornare a operare nelle ONG senza infrangere le norme di vestiario e di comportamento non è stato apparentemente ancora pubblicato. Le conseguenze dell’allontanamento delle dipendenti dal lavoro di soccorso alla popolazione afghana sono disastrose.
Il bando delle donne dalle attività assistenziali, infatti, colpisce non solo le lavoratrici e le loro famiglie, ma tutte le donne e i bambini destinatari dell’assistenza umanitaria. Le donne afghane, infatti, possono accettare aiuti – denaro, cibo, medicinali, vestiti – solo da altre donne, e comunicare solo con personale femminile.
Secondo i Gruppi di Lavoro sul “Genere nell’Azione Umanitaria” (Giha) e sull’”Accesso Umanitario”, entrambi operanti all’interno delle Nazioni Unite, il decreto di fine dicembre continua a danneggiare il lavoro umanitario e di conseguenza la popolazione afghana. Dalle risposte di un’intervista rivolta a 129 operatori di organizzazioni nazionali e internazionali e agenzie ONU, emerge, infatti, come a tre settimane di distanza dal bando il 93% delle ONG abbia assistito a un deterioramento delle proprie capacità di portare assistenza alle donne afghane.
Secondo l’inchiesta, inoltre, nell’81% delle ONG lo staff femminile non può più recarsi sul posto di lavoro. Al tempo stesso, le attività di protezione specifica per le donne, così come di monitoraggio dei loro bisogni assistenziali, sono state interrotte forzatamente dal bando.
Non è difficile immaginare quale danno stia rappresentando quindi il decreto nelle attività di aiuto in un Paese che attraversa una drammatica crisi dei diritti delle donne e una altrettanto tragica emergenza umanitaria. I numeri della sofferenza del popolo afghano rimangono raccapriccianti, nonostante il progressivo disinteresse di gran parte dei media per le sorti del Paese. Oltre 28 milioni di abitanti, più della metà della popolazione, secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, dipendono dagli aiuti umanitari. Tra questi, 6 milioni di persone, in gran parte bambini, patiscono letteralmente la fame.
Come dichiarato da Save the Children, che ha riavviato solo una parte delle sue attività nel Paese, “il bando alle lavoratrici delle ONG non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore”. “La severità dell’emergenza umanitaria in Afghanistan è qualcosa che non ho mai visto prima”, ha dichiarato il Direttore delle operazioni sul campo della ONG. “Quasi 20 milioni di bambini e adulti stanno affrontando la fame. Molte famiglie vanno avanti a pane e acqua per settimane”. A tutto ciò si aggiunge il freddo, che ancora non dà tregua. “I bambini stanno lottando per sopravvivere a un gelido, terribile inverno. E riscaldare le abitazioni è fuori questione”. Non poteva esserci periodo peggiore per recidere le braccia delle donne dagli aiuti a un Paese distrutto – sempre ammesso che un periodo “migliore” per farlo si possa mai immaginare. Pagine Esteri
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John Fante – Aspetta Primavera, Bandini
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#Risentiamoli Cypress Hill - Black Sunday
“Black sunday” è stato il secondo disco del gruppo hip hop americano Cypress Hill, pubblicato il 20 luglio del 1993 da Ruffhouse e Columbia Records. Grande successo commerciale, “Black sunday” è un gigante dell’hip-hop, un monolite che diverte ancora a trent’anni esatti di distanza.
iyezine.com/risentiamoli-cypre…
#Risentiamoli Cypress Hill - Black Sunday - 2023
"Black sunday" è stato il secondo disco del gruppo hip hop americano Cypress Hill, pubblicato il 20 luglio del 1993 da Ruffhouse e Columbia Records.Massimo Argo (In Your Eyes ezine)
La sinistra liberal progressista cancella l'idea stessa di sinistra | Kulturjam
«C’è oggi una sinistra liberal progressista che non ha niente a che fare con quella tradizione nel suo complesso, una sinistra neoliberale che tutta la sinistra, in tutte le sue varianti, ha sempre combattuto e che ha chiamato “destra”.
Ad accomunarla è l’odio con tutto ciò che è storia e ha storia, un odio verso la vita che nelle tradizioni prende forme, evolve, cresce. Il disprezzo verso le comunità, il tentativo di imporre un individualismo è isola, pensando che esista una sola forma di legame, quello che produce il consumo.»
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