Cosa manca per la forza Ue di intervento rapido? L’analisi di Samorè (Ecfr)
All’indomani della pubblicazione della Bussola Strategica, nel marzo 2022, la comunità europea degli esperti di sicurezza e difesa ha sicuramente guardato con curiosità e speranza alla previsione di creazione della EU Rapid Deployment Capacity (EU RDC). Questo strumento, infatti, potrebbe davvero portare l’Unione europea ad affermarsi in maniera molto più credibile come attore geopolitico in grado di garantire la stabilità del suo quadrante geografico. La proposta iniziale era pervenuta a Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nel maggio 2021 in un meeting con i ministri della Difesa dei Paesi membri. In quell’occasione, quattordici di essi avevano chiesto che lavorasse alla creazione di una forza di reazione rapida per rispondere alle crisi anche al di fuori dei confini dell’Unione europea. Tra questi troviamo Italia, Francia e Germania. La richiesta è stata accolta e inserita appunto nella Bussola Strategica, fissando al 2025 la scadenza ultima per la sua realizzazione.
Nella Strategic Compass del 2022, l’EU RDC viene descritto come una forza modulare di almeno 5.000 unità, da concepirsi come una versione migliorata degli EU Battlegroups, in funzione dal 2007 ma mai adoperati a livello operativo. La caratteristica di questo nuovo strumento è innanzitutto la combinazione di diverse componenti (terrestre, aerea e marittima), con la finalità di agire in maniera rapida di fronte alle crisi in diversi scenari operativi. Il dibattito che ha animato la comunità dei ricercatori e degli esperti sembrava essersi arenato, fino a che a marzo il comitato Affari esteri del Parlamento europeo ha adottato un documento che è stato infine discusso in seduta plenaria, portando alla pubblicazione di un report intitolato “EU Rapid Deployment Capacity, EU Battlegroups and Article 44 TEU: the way forward” il 19 aprile 2023.
Il Parlamento europeo innanzitutto riconosce l’importanza strategica della creazione dell’EU RDC nel più breve tempo possibile, considerandolo forse uno dei risultati attesi più significativi della Bussola Strategica. Nelle premesse del documento vengono citate moltissime considerazioni in merito alla sua necessità per rafforzare le capacità dell’Unione nello svolgimento delle missioni di CSDP (Common Security and Defence Policy), come il rischio che un ritiro prematuro possa in realtà lasciare la nazione ospitante ancora in condizioni di debolezza tali da non poter provvedere da sola alla sicurezza della propria popolazione. Ma ovviamente gli elementi più interessanti riguardano le lezioni apprese dall’esperienza dei Battlegroup.
Benché si affermi che la loro esistenza sia stata funzionale ad un miglioramento delle capacità di cooperazione in materia di sicurezza e difesa, il fatto che non siano mai stati attivati ne dimostra le fragilità intrinseche. In particolare, uno dei maggiori ostacoli al loro utilizzo riguarda le modalità di finanziamento che seguono il principio “costs lie where they fall”: essendo unità militari fornite a rotazione dagli stati membri, il costo del loro impiego sarebbe ricaduto interamente su coloro che al momento stavano fornendo personale e risorse. Questo, unito al fatto che l’iter decisionale per il loro impiego prevede l’unanimità, hanno sempre disincentivato gli stati coinvolti ad approvare la loro attivazione. Per questo motivo, il Parlamento europeo auspica e propone di prevedere diverse modalità di finanziamento per l’RDC, utilizzando il budget dell’Unione per i costi di tipo amministrativo e per tutto il resto, compresi gli aspetti che riguardano più nello specifico la componente militare, uno Strumento Europeo per la Pace (EPF) potenziato, ma pur sempre fuori bilancio, così da non infrangere le disposizioni dell’articolo 42 del Trattato di Lisbona.
Il report arriva a definire diversi aspetti della configurazione di questa nuova capacità di reazione rapida, tra cui l’assegnazione dell’MPCC (Military Planning and Conduct Capability) come operational headquarter, ma forse uno degli aspetti su cui insiste maggiormente, insieme a quelli legati al finanziamento, riguarda la necessità impellente di migliorare le capacità degli Stati membri in merito agli enablers strategici. Le finalità operative di questo strumento sarebbero infatti impossibili da raggiungere se permane l’attuale situazione di dipendenza da parta europea degli asset strategici statunitensi, che in ambito Nato possono non costituire un problema, ma lo diventano in prospettiva del raggiungimento di una maggiore autonomia strategica. L’Europa ha capito che deve migliorare le sue capacità come security provider nel suo scenario di riferimento, il vicinato meridionale e quello orientale in primis, ma questa consapevolezza arriva anche con la responsabilità di intraprendere una strada verso un miglioramento concreto delle proprie capacità.
Nell’attesa di vedere quali saranno i prossimi passi, verosimilmente nelle mani del Consiglio e della Commissione, in autunno 2023 è prevista la prima esercitazione nel Sud della Spagna, almeno stando alle previsioni della Bussola Strategica. Se questa è la via, l’impegno degli Stati membri, inclusa l’Italia, sarà determinante affinché quello che sembra essere il più promettente strumento di politica di sicurezza e difesa in mano all’Europa si trasformi in realtà quanto prima.
Missili a lungo raggio per Kiev. La decisione di Londra (e il vertice di Roma)
La Gran Bretagna sarà il primo Paese a fornire all’Ucraina missili a lungo raggio Storm Shadow, in grado di colpire le truppe e i depositi di rifornimenti russi in profondità, potenzialmente anche dietro le linee del fronte. Nonostante l’Ucraina abbia chiesto per mesi questo tipo di munizioni, gli alleati avevano limitato il proprio supporto in questo settore a sistemi a più corto raggio. Il timore, condiviso da Londra, Washington e le altre capitali della coalizione pro-Kiev, era che la Russia potesse usare un attacco sul proprio territorio da parte ucraina come giustificazione per una ulteriore escalation. Invece, di fronte alla massiccia campagna di bombardamenti indiscriminati da parte di Mosca, le reticenze britanniche sono venute meno.
Verso la controffensiva
Per il ministro della Difesa Ben Wallace: “La Russia deve riconoscere che solo le sue azioni hanno portato alla fornitura di questi sistemi”. Secondo il ministro, Downing Street avrebbe ricevuto assicurazioni e garanzie da parte di Kiev affinché l’Ucraina si limiti ad utilizzare i missili per colpire le forze russe all’interno del proprio territorio. La fornitura di questi sistemi d’arma, inoltre, si inserisce nella pianificata controffensiva che l’Ucraina dovrebbe lanciare a breve, dopo sei mesi passati sulla difensiva e aver bloccato l’attacco invernale russo.
Gli Storm Shadows
Gli Storm Shadows, realizzati da Mbda, il consorzio missilistico europeo composto da BAE Systems, Airbus e Leonardo, sono missili da crociera aria-superficie utilizzati da diversi Paesi europei, tra cui Regno Unito, Francia e Italia, progettati per attacchi contro obiettivi di alto valore, come bunker blindati, e hanno una gittata di oltre 250 chilometri. Si tratta di missili a guida Gps, che volano vicino al suolo per evitare il rilevamento da parte delle difese aeree prima di effettuare una brusca ascesa in prossimità del bersaglio e tuffarsi su di esso per sganciare una testata di 450 chili.
Mosca indietreggia
La decisione britannica di fornire gli Storm Shadows mette a portata di tiro i depositi di munizioni russi, dopo che l’anno scorso le truppe di Mosca si sono adattate all’introduzione del sistema missilistici Himars forniti dagli Stati Uniti, spostando gli arsenali al fuori dal raggio d’azione di queste piattaforme. Inoltre, gli Storm Shadows potrebbero essere utilizzati anche per colpire le navi russe nel porto di Sebastopoli, in Crimea, impiegati dal Cremlino come basi missilistiche dalle quali lanciare i bombardamenti del territorio ucraino.
Il supporto di Londra
Al contrario del nostro Paese, la Gran Bretagna non ha mai fatto mistero dei mezzi e delle piattaforme inviate a sostegno di Kiev. Londra è il secondo fornitore di aiuti militari all’Ucraina con una spesa che lo scorso anno ha raggiunto i 2,3 miliardi di sterline (poco meno di tre miliardi di euro). Prima dell’invasione, il Regno Unito ha inviato batterie a spalla aeree e anticarro, e a febbraio ha annunciato che sarebbe stato il primo Paese ad iniziare l’addestramento dei piloti ucraini sui jet da combattimento della Nato. Londra ha anche inviato quattordici dei suoi carri armati all’Ucraina, un impegno poi seguito da altre nazioni come Stati Uniti e Germania.
L’incontro Meloni- Zelensky
Il tema delle forniture sarà sicuramente anche sul tavolo dell’incontro tra il leader ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in occasione della sua visita a Roma, la prima in Italia dall’inizio dell’invasione russa. Sul tema è intervenuto di recente anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si è rivolto all’opinione pubblica sostenendo la necessità di aiutare l’Ucraina contro l’invasore anche con l’invio di armi. Roma invierà a Kiev il suo sistema di difesa aerea Samp-T, e al momento le Forze armate italiane stanno addestrando un gruppo di militari ucraini al loro impiego. L’invio degli Storm Shadow decisi da Londra (che vedono comunque una partecipazione italiana via Mbda) potrebbe essere raccolto da Zelensky per invitare il Paese a continuare sulla via del sostegno e degli invii di sistemi d’arma.
Foto: MBDA
Taiwan Files – La strada verso le presidenziali
È il 2 gennaio 2019. Xi Jinping prende la parola per un messaggio di inizio anno rivolto ai “compatrioti” di Taiwan, in occasione del 40esimo anniversario del primo messaggio del 1979. Sotto la guida di Deng Xiaoping, allora si era passati dall’utilizzare il termine “liberazione” a quello “riunificazione”. Quattro decadi dopo, è però cambiato tanto. La Repubblica di Cina non è più un regime a partito unico sotto ...
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Toglie dai libri di scuola le immagini di Khomeyni, Parmis Hamnava uccisa a bastonate
Parmis Hamnava aveva appena 14 anni e frequentava una scuola di istruzione secondaria di Iranshahr, nel cuore della terra dei beluci, nella provincia iraniana del Sīstān-Balūcistān. Le forze di sicurezza volontarie dei paramilitari basij, affiliate ai pasdaran, l’hanno uccisa a bastonate per aver rimosso dai suoi libri di scuola le immagini del fondatore della Repubblica islamica Ruḥollāh Khomeynī.
La scuola superiore frequentata da Parmis era intitolata a Parvin Etesami (1907-41), famosa poetessa persiana che nel 1935 aveva accolto con favore la messa al bando del velo, con l’inizio della dinastia di Reza Shah Pahlavi. Nei suoi versi Etesami definiva ipocriti coloro usavano la religione come strumento politico. Da allora la poetessa diventò uno dei più forti riferimenti alla lotta contro l’apartheid di genere.
Gli attivisti per la difesa dei diritti dei beluci “Baloch Activists’ Campaign”, nel loro report riportano il fatto che l’adolescente ha sofferto di una emorragia nasale mentre era a scuola, dopo essere stata duramente picchiata, in classe, davanti alle sue compagne, dalle forze di sicurezza dopo una loro ispezione in atto nella scuola. Il 25 ottobre 2022, gli agenti avevano notato che nei suoi libri mancavano le immagini del fondatore della Repubblica islamica, il carismatico leader religioso che nel 1979 impose la legge islamica nel paese. Parmis quel giorno fu portata d’urgenza in ospedale, ma poche ore dopo è spirata.
L’intelligence iraniana ha minacciato la sua famiglia e i suoi amici, intimandoli di non rivelare ai media la causa della morte della ragazza altrimenti non sarebbe stato restituito loro il suo corpo.
Nonostante le restrizioni su Internet progettate per impedire che i giovani si dessero appuntamento e per impedire la diffusione delle coraggiose immagini delle proteste, i manifestanti sono riusciti ad aggirare la censura in Rete, collegandosi a provider VPN per trasmettere i loro messaggi e condividere filmati con il mondo esterno. Ciò ha portato all’inasprimento della repressione da parte del regime. I servizi di sicurezza controllano soprattutto le scuole e il percorso degli studenti quando entrano ed escono dal loro istituto. Non hanno scampo, l’occhio delle telecamere posizionate anche nelle aule, oltre che ad ogni angolo delle strade, li osserva e li registra.
Parmis Hamnava non è, purtroppo, l’unica vittima della brutale repressione contro il giovani che chiedono libertà in Iran.
La lista delle ragazze e dei ragazzi che stanno perdendo la vita in Iran a causa delle violenze da parte delle forze dell’ordine governative continua ad allungarsi, a oltre otto mesi dall’inizio delle proteste per l’assassinio della giovane cruda di Saqqez, Mahsa Amini, uccisa dalla cosiddetta “polizia morale” per non aver indossato correttamente il velo.
Dopo appena due settimane dallo scoppio delle rivolte per la liberazione dell’Iran dalla Repubblica islamica, dal 16 settembre 2022, nella provincia iraniana del Sīstān-Balūcistān vi fu un “venerdì di sangue” che si consumò nella città di Zahedan, capoluogo di quella provincia. Furono massacrati almeno 90 civili per mano delle forze paramilitari basij del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) dell’Iran.
La provincia del Sīstān-Balūcistān è la sede della comunità etnica beluci che professa l’Islam sunnita e per questo è vessata dal regime sciita del governo centrale iraniano.
Sull’onda delle rivolte divampate in tutto l’Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini, il 30 settembre 2022 le forze paramilitari del regime teocratico aprirono il fuoco contro fedeli e manifestanti beluchi nella moschea Ahl-e-Sunna a Zahedan, trucidando 96 persone e ferendone 350.
Secondo quanto è stato pubblicato il 23 ottobre in un rapporto di una organizzazione locale di attivisti beluchi, le proteste si estesero in tutta la provincia e numerosi altri manifestanti furono uccisi a colpi di fucile dalle forze basij.
Si trattò di uno dei più cruenti massacri compiuti dalle forze di sicurezza iraniane dal 16 settembre.
Prima del massacro di Zahedan, una ragazza di 15 anni della comunità sunnita di beluchi, nella città di Chabahar, era stata stuprata da un comandante della polizia locale. Dopo le preghiere del venerdì nella moschea Makki di Zahedan, gli abitanti in preda alla rabbia marciarono verso la vicina stazione di polizia e furono presi di mira dai cecchini delle basij appostati sui tetti delle abitazioni circostanti.
Le autorità iraniane affermano che i manifestanti erano armati, ma ciò è stato smentito dalla popolazione locale e da organizzazioni per i diritti umani che sostengono che le autorità di polizia fecero uso di droni per prendere di mira i rivoltosi, mentre elicotteri e cecchini sparavano all’impazzata sulla folla.
In quelle ore, mentre si compiva l’eccidio, il regime operò un lungo blackout di Internet. L’intera regione rimase disconnessa dal resto del paese e dal mondo per giorni.
Ma i coraggiosi attivisti del Balūcistān affermano di essere riusciti a raccogliere dati, a verificare l’affidabilità dei testimoni e delle loro testimonianze. Nei rapporti dell’Iran Human Rights (IHR), con sede a Oslo, si documenta che tra le vittime vi furono donne, anziani, disabili e bambini di appena due anni, freddati da colpi di fucile davanti alle loro case: erano stati semplici spettatori delle proteste.
Amnesty International ha documentato l’uccisione di 82 persone, tra cui 10 bambini colpiti da proiettili sparati alla testa, al torace o ad altri organi vitali.
Un medico di Zahedan dimostrò la falsità della versione del governo secondo la quale le vittime erano armate, ma la maggior parte dei feriti che ha curato e delle persone uccise mostravano con chiarezza di essere stati colpiti alle spalle mentre scappavano.
Quando il massacro è venuto alla luce, sono scattati online appelli per la donazione di sangue poiché gli ospedali di Zahedan erano stracolmi di persone ferite.
“Da Zahedan a Tehran, sacrificheremo le nostre anime per l’Iran”, cantano ancora oggi rivoltosi in tutte le città del Sīstān-Balūcistān.
I media statali iraniani diffondono la più spudorata delle propagande definendo terroristi i manifestanti anti regime e le vittime.
Le testate governative attribuirono la responsabilità dei disordini a Jaish ul-Adl (l’Esercito della giustizia), un gruppo militante islamista salafita che si batte per i diritti delle minoranze religiose ed etniche e che in passato aveva rivendicato molti attacchi alle forze di sicurezza.
Ma questa volta Jaish ul-Adl ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle manifestazioni precisando in un suo comunicato che la loro organizzazione era rimasta inattiva durante le proteste per Mahsa Amini per non fornire al regime un pretesto per collegare i manifestanti ai gruppi di opposizione organizzati.
All’indomani del massacro, nonostante le interruzioni di Internet, molti membri della comunità beluchi, grazie ai provider VPN, sono riusciti ad aggirare la censura e a sfidare la propaganda statale che aveva definito i manifestanti come “separatisti”. Hanno condiviso post sull’agonia della loro comunità etnica vessata da decenni di discriminazione ed emarginazione, “sistematicamente” imposta dalla Repubblica islamica.
Quest’area dell’Iran è stata storicamente un facile bersaglio per il regime teocratico quando si trattava di schiacciare il dissenso col pretesto del “separatismo” e del “terrorismo”.
Il regime iraniano è arrivato addirittura a negare i certificati di nascita ufficiali a migliaia di membri della comunità beluchi, lasciandoli privati di una serie di servizi, come l’istruzione e la mobilità nella scala sociale.
Il gruppo per i diritti umani Haalvsh, nel rendicontare sul massacro di Zahedan, ha riferito che un certo numero di vittime deve ancora essere identificato poiché l’identità di queste ultime non è mai stata registrata all’anagrafe.
La popolazione delle città del Sīstān-Balūcistān e del Kurdistan iraniano, nonostante venga incessantemente oppressa e presa di mira a colpi di fucile e di granate dalle forze paramilitari, addirittura dentro le case, esce fuori a ballare. Uomini e donne ballano insieme attorno a un fuoco, ancestrale retaggio della vittoria degli oppressi sugli oppressori.
La giovane quattordicenne Parmis Hamnava, bastonata fino alla morte, era della comunità beluci. La sua famiglia come tutte le altre della comunità erano costrette a celare la propria identità non sciita. La ribellione dei giovani, donne e uomini, che è divampata dal 16 settembre 2023, ha un significato molto profondo e dirompente: i giovani sia del centro che della periferia del paese usano un linguaggio molto inclusivo rispetto ai diritti di tutte le minoranze e si registra una inedita sintonia tra centro e periferia.
La pacifica ribellione dei giovani in Iran contro il regime islamico ha già determinato una profonda rivoluzione culturale che punta a rovesciare l’intero assetto politico-istituzionale della Repubblica islamica nata nel 1979.
Per questo diciamo che una rivoluzione culturale sembra già compiuta, dopo un lungo processo durato 44 anni al culmine del quale la società, dopo l’uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, appare trasformata.
Per la prima volta, dal 16 settembre 2022, la popolazione di Tehran, cuore culturale e politico del paese, è scesa in strada per ribellarsi contro l’uccisione di una ragazza curda, non persiana e non sciita, cioè di una persona che apparteneva alla periferia, al Kurdistan. E, per la prima volta, la popolazione sia del centro che della periferia, e di ogni angolo del paese, è scesa per le strade per protestare contro la morte di una donna, per giunta curda.
Questo rappresenta il primo passo di una profonda rivoluzione culturale che nell’arco di circa 250 giorni ne ha fatti compiere molti altri con l’abbattimento di fatto dell’apartheid di genere e della distanza tra centro e periferia e questa rivoluzione gandhiana ancora in corso sta provocando un vero e proprio risorgimento iraniano anche riguardo alla questione delle minoranze etniche e religiose non più viste come elemento di divisione e di conflitto, ma come componenti titolari di uguali diritti all’interno dello stato.
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Il Parlamento UE adotta una risoluzione che boccia l’attuale nuovo schema di accordo tra USA ed UE proposto dalla Commissione.
Forse non sarà necessaria una Schrems 3.
Il post completo dal blog di @quinta :ubuntu:
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Favori a sfavore
Ci sono problemi che nascono dai successi. L’Unione europea non è affatto solo un mercato comune, ma uno spazio libero di circolazione e di condivisione, con regole che coinvolgono molti aspetti della vita collettiva e privata. È normale abbia un dibattito politico altrettanto libero. Questo, però, non deve coinvolgere il rapporto fra Stati. Ci sta che forze politiche di Paesi diversi si esprimano su politici e faccende altrui.
Va benissimo. Purché non siano denominati come fossero l’intero loro Paese. L’opposizione che critica il governo italiano non è “contro l’Italia”, se critico il governo francese non sono “contro la Francia”. Il guaio di certe recenti uscite francesi è che sono errori gravi. Si potrebbe
osservare che il governo Meloni, sull’immigrazione, non sta facendo quanto “promesso” e stanzia soldi (giustamente) per i centri di accoglienza. I francesi che la attaccano per l’opposto, in fondo, le fanno un piacere. Lo facciano anche a sé stessi: pensino, prima di aprire bocca.
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La Difesa del futuro, tecnologica e integrata. La lezione di Heidi Shyu
Ci stiamo affacciando in una nuova era strategica, una decade decisiva nel corso della quale dobbiamo assicurarci di investire i giusti fondi nello sviluppo tecnologico in una visione di lungo periodo. A dirlo è Heidi Shyu, sottosegretario della Difesa americano per la Ricerca e l’ingegneria nell’amministrazione Biden, in visita a Roma. Il vantaggio competitivo nella tecnologia, da ricercare impiegando al massimo la cooperazione internazionale tra partner, creerà le condizioni e le soluzioni che permetteranno di affrontare le sfide del prossimo futuro. Un obbiettivo per cui sarà necessario mettere insieme le risorse necessarie “a spingere sempre più avanti i confini infiniti dell’esplorazione scientifica”.
Il legame tra Difesa e tecnologia
Come sottolineato da Shyu, gli Stati Uniti hanno affrontato il tema del legame tra Difesa, scienza e tecnologia nell’ultima Strategia di sicurezza nazionale rilasciata da Washington. “Il mio ruolo – ha spiegato il sottosegretario Usa – è quello di assicurare alle forze armate le tecnologie necessarie ad operare, è questo include l’allocazione di investimenti in diverse aree tecnologie essenziali”. Tra le priorità del Pentagono, e in generale del governo degli Stati Uniti, c’è il mantenimento di “un’aerospazio libero e aperto”, un tema al centro anche delle discussioni con la Difesa e le altre istituzioni italiane.
La rivoluzione spaziale
La nuova frontiera è naturalmente quella delle orbite, che sempre di più sono destinate a garantire nuove capacità che permetteranno alle Forze armate di operare e agire con efficacia in tutti gli altri scenari operativi. Un dominio, quello extra-atmosferico, che sicuramente beneficerà delle innovazioni tecnologiche all’avanguardia che si stanno sviluppando nel settore privato. “Dobbiamo sfruttare il settore in forte crescita dei lanciatori spaziali commerciali, che sta rivoluzionando l’accesso alle orbite” ha detto ancora Shyu, sottolineando che “i lanci economici stanno diventando una realtà”. Lo spazio commerciale, inoltre, grazie alla diversità e alla competitività dei propri attori, “sta fornendo una spinta formidabile all’innovazione tecnologica” anche grazie alla propria capacità di assumersi dei rischi nello sviluppo di nuove capacità”.
Satelliti all’avanguardia
Tra i settori che il Pentagono sta guardando con crescente attenzione c’è anche quello della protezione dei propri sistemi orbitali, a partire dai software installati a bordo, fino a nuove piattaforme di propulsione: “stiamo guardando con interessa alla propulsione elettrica e alla micro-propulsione, oltre alla capacità di rifornire in orbita i satelliti in modo da estendere la vita operativa delle nostre costellazioni”. In questo campo, essenziale sarà anche l’automazione crescente delle piattaforme, con sistemi autonomi di intelligenza artificiale che possano aumentare le capacità dei satelliti.
Integrazione umano-macchina
Autonomia e IA saranno caratteristiche essenziali anche nel dominio aereo (e non solo), con un focus particolare dato dal sottosegretario Shyu ai veicoli senza pilota di ogni dominio. Gli Usa stanno sviluppando una grandissima varietà di nuovi modelli di Uav, da sistemi capaci di decollare da altre piattaforme aeree o dalle navi, a “Uav in grado di muoversi all’interno degli edifici, mezzi che possano decollare e atterrare verticalmente ma volare come aerei”, fino a strumenti per il dominio sottomarino e in grado di operare a terra su tipi diverse di superfici. Tutti questi nuovi mezzi dovranno essere messi in grado di comunicare e cooperare tra loro: “Stiamo sviluppando un sistema di sistemi integrato in grado di acquisire e tracciare le informazioni da ogni sensore” a cui si aggiunge un nuovo tipo di interfaccia tra umano e macchina “in grado di restituire un ambiente virtuale altamente immersivo e realistico che possa migliorare le capacità del combattente e dell’operatore”.
Abuso d’ufficio, il reato surreale che paralizza le amministrazioni
Il 96 per cento dei procedimenti per il reato di abuso d’ufficio finisce con l’archiviazione degli indagati. Quando c’è un rinvio a giudizio e si va a dibattimento, la percentuale non cambia, tanto che le condanne si contano sulle dita di poche mani: 18 nel 2021, 37 nel 2020. Sono i dati principali che emergono dalla relazione predisposta da Giusi Bartolozzi, vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio, e inviata nei giorni scorsi al presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio.
Il contenuto del dossier è stato anticipato da alcuni quotidiani, in particolare quelli abituati a mettere alla gogna le persone imputate o semplicemente indagate. Così, i dati comunicati da Via Arenula sono stati interpretati secondo una singolare prospettiva: visto che le condanne per abuso d’ufficio sono poche, tanto vale lasciare in vita il reato così com’è e occuparsi di altro. Nessuna considerazione sul fatto che in questo paese il semplice coinvolgimento di un politico o amministratore pubblico in un’indagine per abuso d’ufficio costituisce già di per sé un danno – spesso irreparabile – in termini di reputazione e di immagine. Quando l’assoluzione o anche solo l’archiviazione arriva, il politico è già stato distrutto dal tradizionale tritacarne mediatico-giudiziario. Insomma, è sufficiente cambiare prospettiva per esaminare i numeri forniti dal ministero arrivando a conclusioni diverse: perché tenere in vita un reato così evanescente? Solo per permettere per qualche mese o anno lo sputtanamento dei malcapitati amministratori pubblici? Sarebbe questo l’obiettivo di una norma penale? “Anche quando il procedimento termina con l’archiviazione, questa può arrivare con molto tempo di ritardo rispetto all’inizio della vicenda giudiziaria. Nel frattempo, però, la notizia dell’indagine è stata sbandierata dalla stampa e l’immagine del sindaco o di chi ne è coinvolto è stata già profondamente danneggiata”, sottolinea al Foglio il deputato Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione. “Abbiamo verificato – aggiunge – che in moltissimi casi le inchieste prendono avvio da esposti da parte delle forze politiche di opposizione. Questo non è un modo di fare politica. Esistono le interrogazioni, le interpellanze e altri strumenti di indirizzo e controllo. Ormai invece l’abuso d’ufficio è diventato un argomento per gettare fango, indipendentemente da come va il processo”.
Costa riporta alcuni casi paradossali in cui si è arrivati a contestare l’abuso d’ufficio: “La nomina di un semplice segretario, l’assunzione di un dipendente, la variante del piano regolatore, la trascrizione di nozze gay, la mancata autorizzazione a usare una piazza per un comizio”. “Ormai tutto è lecito per contestare l’abuso d’ufficio. Poi quando si arriva all’udienza preliminare o al dibattimento, emerge tutta l’infondatezza di queste accuse”, conclude Costa, firmatario di una proposta di legge che prevede la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio.
Anche il ministro Nordio, fino a qualche mese fa, si era mostrato favorevole all’idea di abolire il reato, raccogliendo il malcontento dei sindaci. Negli ultimi tempi, però, la situazione sembra essere cambiata e il Guardasigilli sarebbe orientato a mantenere il reato, ma riformandolo profondamente così da attenuare la “paura della firma” da esso generato. Secondo quanto trapela dai corridoi parlamentari, sarebbe stata la Lega, in particolare con Giulia Bongiorno, a schierarsi contro l’eliminazione tout court del reato, per mantenere l’immagine di partito impegnato nella lotta al malaffare in politica. I numeri forniti dal ministero, tuttavia, dimostrano come il reato di abuso d’ufficio, anziché garantire giustizia, serva ormai soltanto a sputtanare gli amministratori pubblici.
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#LaFLEalMassimo – Episodio 92 – Studenti in tenda e Pasti Gratis
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Questa rubrica si apre e si aprirà con un messaggio di sostegno all’Ucraina ingiustamente aggredita dalla Russia finché il conflitto non avrà termine e l’invasore non sarà stato respinto fuori dai confini della nazione invasa
La protesta degli studenti universitari in tenda contro il caro affitti divide i commentatori tra chi esprime solidarietà per le limitazioni imposte al diritto allo studio e chi invece condanna la limitata capacità di fare sacrifici che caratterizzerebbe le nuove generazioni
Questa rubrica senza l’arroganza di chi pensa che il suo giudizio abbia valenza generale si limita molto modestamente a evidenziare che la possibilità di accedere agli studi universitari ha un costo e che la decisione su chi deve pagare il conto ha come sempre natura politica
Tutti concordiamo che in una nazione civile uno studente meritevole non dovrebbe rinunciare alla formazione perché non può permettersele e aiutarlo a portare avanti i propri studi è probabilmente uno degli investimenti migliori che si può fare con il denaro della collettività
Il diavolo rimane nei dettagli: se lo studente meritevole è anche ricco forse non è così intelligente finanziare i suoi studi universitari con le tasse di ha dovuto rinunciare agli studi per lavorare.
La questione è più complessa di quel che sembri ma resta valido un principio semplice: non ci sono esistono pasti gratis e serve sempre un motivo solido per convincere qualcuno a pagare al nostro posto.
Dunque la risposta agli studenti dovrebbe andare nella direzione di un sostegno a chi è bisognoso e meritevole e diverse misure in tal senso esistono già, senza inventarsi diritti all’università sotto casa o alla casa sotto l’università che non è chiaro chi dovrebbe finanziare.
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VIDEO. Gaza. Niente tregua, ucciso un altro comandante militare del Jihad
della redazione
Pagine Esteri, 12 maggio 2023 – Dopo una notte relativamente tranquilla, il fallimento dei negoziati mediati dall’Egitto per il cessate il fuoco tra Israele e il Jihad islami è sfociato in una ripresa dei raid aerei israeliani e dei lanci di razzi da parte dell’organizzazione armata. Questo pomeriggio un attacco aereo israeliano ha ucciso Iyad Al Hasani, un altro comandante militare del Jihad, assieme ad altri due palestinesi. Sale ad almeno 34 il bilancio dei palestinesi uccisi da martedì, giorno di inizio dell’attacco israeliano. Un razzo palestinese ieri ha ucciso un civile israeliano a Rehovot.
Iyad Al Hasani
Questa mattina sono stati sparati razzi anche verso Gerusalemme. La città non è stata raggiunta ma le sirene di allarme sono scattate in vari insediamenti coloniali israeliani nella Cisgiordania occupata, a Beit Shemesh a una ventina di chilometri da Gerusalemme. Itai Blumenthal, corrispondente della tv Kan, sostiene che “Israele fa pressioni sul movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, affinché la Jihad fermi il lancio di razzi”.
La tregua intanto si allontana dopo l’interruzione da parte di Israele dei contatti indiretti per una tregua con la Jihad islamica. Secondo i media israeliani, Hamas finora non ha preso parte attiva ai lanci di razzi ma non li ha nemmeno impediti, e starebbe cercando di organizzare proteste in Israele la settimana prossima, quando gli israeliani festeggeranno la ‘Giornata di Gerusalemme’, ovvero l’occupazione della zona araba della città nel 1967. Pagine Esteri
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LiberaLibri 2023 – “Piccole Donne” di Louisa May Alcott
Nell’ambito del Maggio dei Libri, Giulia Savarese legge un estratto di Piccole Donne di Louisa May Alcott, pubblicato in due volumi nel 1868 e nel 1869.
La lettura è tratta dal capitolo secondo, “Un Natale felice” (Editori riuniti, 1996).
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Il Parlamento UE approva: sì al taglio delle spese sociali per finanziare le armi | L'Indipendente
"Tutti i partiti italiani del governo di centrodestra hanno votato a favore della proposta, e lo stesso ha fatto il Partito Democratico (insieme a tutto il partito socialista europeo), ad esclusione di due suoi membri. Hanno invece votato contro i parlamentari europei di Sinistra Italiana e del Movimento 5 Stelle."
Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a Fuori Campo – SkyTg24
Il Presidente della Fondazione Luigi Einaudi Giuseppe Benedetto sarà ospite a Fuori Campo, su SkyTg24, lunedì 15 maggio 2023 a partire dalle ore 14:30
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Il Segretario Generale Andrea Cangini ospite a OMNIBUS – La7
Il Segretario Generale della Fondazione Luigi Einaudi Andrea Cangini sarà ospite a OMNIBUS, su La7, il giorno 14 maggio 2023 a partire dalle ore 08:00.
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Gli USA accusano il Sudafrica di fornire armi a Mosca
di Redazione
Pagine Esteri, 12 maggio 2023 – L’ambasciatore degli Stati Uniti in Sudafrica, Reuben Brigety, ha accusato le autorità di Pretoria di aver fornito armi alla Russia utilizzando una nave cargo “segretamente attraccata” per tre giorni presso una base navale nei pressi di Città del Capo, lo scorso dicembre.
In una dichiarazione rilasciata all’emittente locale “News24”, Brigety ha affermato che gli Stati Uniti sono “sicuri” che le armi siano state caricate sulla nave Lady R – soggetta a sanzioni da parte di Washington – la quale si trovava presso la base navale di Simon’s Town, e trasportate in Russia. Il diplomatico statunitense ha anche aggiunto che una fornitura di armi a Mosca da parte del Sudafrica è una questione “estremamente seria”, mettendo in dubbio la posizione neutrale adottata da Pretoria relativamente al conflitto tra Russia e Ucraina.
«La nave è rimasta attraccata presso la base navale di Simon’s Town dal 6 all’8 dicembre del 2022, ed è stata utilizzata per trasportare armi alla Russia», ha detto Brigety durante una conferenza stampa a Pretoria.
Rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha dichiarato che il governo del Sudafrica sta indagando sulla vicenda. «Siamo tutti a conoscenza delle notizie circolate e l’intera questione è in fase di esame. Lasciamo che l’indagine porti i suoi risultati. La questione è in fase di esame e col tempo saremo in grado di parlarne» ha detto il capo dello Stato del paese australe.
Secondo quanto riferito da fonti citate dal “Financial Times”, la nave Lady R – di proprietà di Transmorflot, una società che dallo scorso anno è sottoposta a sanzionida parte degli Stati Uniti – avrebbe spento il suo transponder mentre faceva scalo a Città del Capo dopo un viaggio lungo la costa occidentale dell’Africa. Dopo che la nave ha lasciato il porto, il ministero della Difesa sudafricano non ha fornito dettagli su ciò che la nave trasportasse. Nel gennaio scorso il governo di Pretoria ha ufficialmente negato di aver approvato qualsiasi vendita di armi alla Russia da quando Mosca ha iniziato l’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022.
Il Sudafricaha dichiarato ufficialmente di essere neutrale nel conflitto in Ucraina, tuttavia ha subito numerose critiche da parte occidentale per la sua vicinanza a Mosca, come dimostrerebbero le esercitazioni navali congiunte con Russiae Cina condotte nel febbraio scorso al largo delle sue coste. Ramaphosa ha anche esteso l’invito al presidente russo Vladimir Putin a partecipare al prossimo vertice dei leader dei cosiddetti Brics in programma a Johannesburg ad agosto.
Il Sudafrica, membro della Corte Penale Internazionale, sarebbe legalmente obbligato ad arrestare Putin se si recasse nel Paese, dopo che il presidente russo è stato condannato dall’organismo internazionale per la deportazione di un certo numero di bambini ucraini nella Federazione Russa. Di recente, però, il Congresso nazionale africano (Anc) – movimento al governo in Sudafrica – ha stabilito che il governo debba ritirarsi dalla Corte Penale Internazionale.
La maggior parte dei paesi africani non hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina o comunque non hanno aderito alle sanzioni imposte a Mosca dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Molti stati del continente, inoltre, hanno rafforzato negli ultimi anni le proprie relazioni economiche con Mosca che in cambio implementa un aumento degli investimenti e aumenta indirettamente la propria presenza militare attraverso i continengenti della compagnia privata Wagner. – Pagine Esteri
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Nella Turchia di Erdoğan con una poesia si rischia l’ergastolo
di Eliana Riva – Pagine Esteri, 12 maggio 2023
Il sogno dell’isolano in cella
[…]
La mia isola è boscosa.
Una foresta di amicizia, cameratismo, cavalleria,
copre tutta la mia isola.
Il sole della grazia illumina l’uomo ventiquattro ore al giorno.
Noi isolani non conosciamo il buio.
Sono un isolano, maledetta cella, isolano.
Giusto. Come potresti conoscere la mia isola, cella millenaria, feudale, militarista.
E tu, che ti muovi e ti gonfi fino a sembrare un bue.
Invidioso mostro rana, conosci la mia isola?
Il mondo è oscuro, un’isola così dove il sole non tramonta mai
non esiste sulla terra.
Giusto, nano delle tenebre, povero disgraziato?
E tu, poeta dei pipistrelli, pietoso Cacomcho?
Non esiste un’isola del genere, né nelle poesie, né nelle fiabe.
Un’isola del genere è contro la natura delle cose.
Non è così per te, poeta delle tenebre?
Quello che dici non è contro la natura delle cose, ma contro la natura delle tenebre.
I nani delle tenebre, i vecchi bisbetici, i farabutti…
Saranno esposti nello zoo della Turchia di domani.
[…]
di Mahir Çayan
Per queste parole pubblicate nel suo libro, per questa poesia di Mahir Çayan, rivoluzionario marxista morto nel 1972, una giovane donna turca è stata accusata di finanziare il terrorismo.
Rischia già 2 ergastoli Ayten Öztürk, confermati in due gradi di giudizio, è ai domiciliari in attesa della sentenza definitiva. È da qui, dalla sua casa di Istanbul, che ha scritto il suo libro “Resistenza e vittoria. Nei centri di tortura segreti del fascismo”, in cui racconta del rapimento, dei 6 mesi di tortura, della prigionia, dei processi farsa.
Abbiamo già parlato di lei su Pagine Esteri, siamo andati a trovarla solo 3 mesi fa, abbiamo raccolto la sua testimonianza, ci ha raccontato tutto quello che ha subito e spiegato perché non intende arretrare. Costi quel che costi.
In Turchia si terranno, tra pochissimi giorni, il 14 maggio, le elezioni. Il partito del presidente Erdoğan, l’Akp, per i sondaggi è al momento secondo, a qualche punto in percentuale di distanza dal Partito Popolare della Repubblica di Kılıçdaroğlu.
Tutto potrebbe accadere. Ma la strada che la Turchia ha da percorrere per raggiungere la democrazia resta un cammino lungo che necessita di un cambiamento di direzione netto. Oggi la Turchia di Erdoğan è quella che in una retata a pochi giorni dal voto arresta 126 persone tra giornalisti, avvocati, artisti, politici, membri della sinistra. L’accusa è sempre la stessa per gli oppositori: terrorismo.
Anche Ayten Öztürk è un’oppositrice politica e fa parte di una minoranza, quella degli aleviti, discriminata e perseguitata dal governo del presidente conservatore.
Nel suo libro “Resistenza e Vittoria. Nei centri di tortura segreti del fascismo”, Ayten ha raccontato la sua storia e ha raccolto pensieri e riflessioni sul suo Paese, la Turchia, sulla sua politica interna e su quella estera. È un libro auto-pubblicato di 313 pagine che comincia così:
“Come le favole, inizio con «C’era una volta»… Ma quello che racconto in questo libro non è una favola. È la verità! Sono esistita e scomparsa in un istante. Questa è la storia di una sparizione durata 6 mesi! L’unica cosa che rimane di me è il filmato della telecamera che mi ha ripreso all’aeroporto libanese, ma il governo del Libano, che ha collaborato con quello turco, ha negato tutto. E così hanno permesso mesi di tortura. Chissà con quali accordi mi hanno consegnata alle autorità turche. Tanto da provare poi a cancellare la mia voce, il mio viso, la mia immagine.
Sei mesi di resistenza dopo il rapimento dal Libano, in una prigione segreta di Ankara, al buio, alla sete, al dolore e alla tortura! Sei mesi di vita che ho perso! A sei mesi il bambino inizia a gattonare. Emette i primi suoni. Le sue mani afferrano gli oggetti. In sei mesi volevano rubarmi la vita, la salute, le aspirazioni.
In sei mesi, hanno cercato di strapparmi a me stessa, ai miei valori e alle mie convinzioni con ogni tipo di tortura: l’elettricità, l’elettroshock, le molestie, il tentativo di stupro, l’abbandono in una bara, l’annegamento, le impiccagioni e le percosse. Ogni parte del mio corpo era livida, gonfia e segnata. Ho perso 25 chili. 898 cicatrici si sono aperte sul mio corpo. Sono stata abbandonata in un campo, in uno stato irriconoscibile.
Perché? Perché sono una rivoluzionaria… Perché lotto per un paese libero, indipendente, uguale e giusto… Perché amo la mia patria, il mio popolo, i miei compagni…”
Ayten si trovava in Siria quando è scoppiata la guerra. Tentava di raggiungere la Grecia facendo scalo a Beirut. All’aeroporto è stata trattenuta e poi consegnata ai servizi segreti turchi cha l’hanno portata,occhi e bocca bendati, ad Ankara. Ci ha raccontato le torture subite, lo sciopero della fame, l’alimentazione forzata e poi l’abbandono in un terreno sul quale la polizia ha finto un casuale ritrovamento. Il direttore del carcere in cui è stata portata si è rifiutato di ammetterla: nonostante nelle ultime settimane fosse stata curata e alimentata forzatamente dai suoi aguzzini, le sue condizioni rimanevano gravi. Così è andata in ospedale, poi in prigione e in fine agli arresti domiciliari.
Rischia due ergastoli con accuse insensate ed è solo in attesa del giudizio definitivo, quello della Corte Suprema. In tribunale è comparso un testimone che l’ha accusata di aver assistito al linciaggio di un uomo, un pedofilo con precedenti penali che è stato aggredito dalla folla. Non è morto. Ayten, dice il testimone, sarebbe stata lì, sul marciapiede opposto a quello dove si stavano svolgendo i fatti e non avrebbe fatto nulla per evitare il pestaggio. Forse anzi, ha dichiarato e poi ritirato il testimone, incitava la folla. Lei nega tutto. Il tribunale l’ha così giudicata: colpevole. E poi ha deciso la condanna: ergastolo.
Il testimone, invece, identificato come uno degli artefici del pestaggio, ha goduto, per la sua dichiarazione, di un importante sconto di pena.
Un altro testimone dice di averla vista nella sede di un’associazione per i diritti umani: l’Associazione per i diritti e le libertà è legale in Turchia e la sede è aperta e accessibile a tutti. Il tribunale l’ha giudicata colpevole di tentare di rovesciare il governo e l’ha condannata all’ergastolo.
Due ergastoli, quindi, confermati in due gradi di giudizio. Tutto dopo aver denunciato le torture. Nonostante ciò, ha continuato a parlare e a denunciare l’accanimento giudiziario, le ingiustizie che sta subendo, così come fanno i suoi avvocati.
Nei primi giorni di Maggio la polizia, che irrompe spesso a casa di Ayten, soprattutto all’alba, ufficialmente per perquisizioni e controlli vari, l’ha interrogata. Sul suo libro, sulla poesia di Mahir Çayan, su ciò che ha scritto sulla Palestina. Una fotografia che Ayten ha pubblicato sui social è stata inclusa come prova nel fascicolo di indagine. Tutte le copie del libro sono state confiscate e la vendita è stata vietata.
È stata avviata un’indagine contro Öztürk per “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”. Il poema di Çayan è stato considerato propaganda per il Partito popolare di Liberazione-Fronte della Turchia, l’organizzazione che lo stesso Çayan fondò insieme ad altre persone nel 1970. L’organizzazione è stata messa al bando. Come prova a sostegno dell’accusa è stata usata la fotografia a cui prima accennavamo: Ayten è nella sua casa e sul muro alle sue spalle pendono delle immagini. Tra le altre ci sono le foto di Helin Bölek e Ibrahim Gökçek. Erano due musicisti, membri della band Grup Yorum, il famoso gruppo folk fu accusato di sostenere il terrorismo. Una delle loro canzoni parla di Çayan. Pochi giorni prima di morire Gökçek scriveva:
“Sono sempre stato un musicista, e ora mi ritrovo a essere un terrorista. Mi hanno preso che ero un chitarrista, e hanno usato le mie dichiarazioni facendo di me uno strumento. Eravamo un gruppo che si esibiva davanti a un milione di persone, siamo diventati dei terroristi ricercati”.
Helin Bölek e İbrahim Gökçek sono entrambi morti di sciopero della fame dopo essere stati arrestati, sempre con l’accusa di sostenere il terrorismo.
In 4 anni, dal 2016 al 2020 1,6 milioni di persone sono state accusate di terrorismo in Turchia[1].
Secondo la polizia turca, però, non solo Ayten sosterrebbe il Partito popolare di Liberazione ma lo finanzierebbe pure, attraverso i proventi della vendita del volume.
Un’altra accusa formulata a partire dal suo libro è quella di “insincerità”. O meglio, è accusata di aver incolpato il suo Paese (il suo governo, in realtà) di non essere stato sincero.
Nella sua deposizione nell’ambito dell’indagine condotta dall’Ufficio investigativo sul terrorismo e sulla criminalità organizzata dell’ufficio del procuratore generale di Istanbul, Öztürk è stata interrogata anche in merito alle valutazioni fatte sulla Palestina.
Il rapporto stilato dalla polizia fa riferimento a uno specifico passaggio all’interno del libro, nel quale Ayten esprime un proprio giudizio sui rapporti intercorsi tra la Turchia e il popolo palestinese. Il rapporto dice “[nel libro viene riportato] che il nostro Paese non era sincero quando affermava di difendere il popolo palestinese e che ciò che è avvenuto a Davos è stato un inganno”.
Nella città svizzera di Davos si è tenuto, nel 2009, il World Economic Forum. Erdoğan era presente e il 29 gennaiopartecipò a un confronto con l’allora presidente israeliano Shimon Peres. Fu molto contrariato dalla gestione dell’evento da parte del moderatore che concesse a Peres di parlare per 25 minuti. 12 furono riservati ad Erdoğan. Quando l’incontro doveva essere già terminato, il presidente turco continuò a chiedere al moderatore di dargli “un minuto” (per questo l’evento è ricordato anche come “un minuto”), prese la parola e accusò senza mezzi termini il presidente israeliano di essere un assassino:
“…lei presidente Peres, ha un tono di voce molto forte e io credo sia perché si sente colpevole. Tu uccidi persone, ricordo i bambini che hai ucciso sulla spiaggia, ricordo due ex premier del tuo paese che dissero che si sentivano molto felici quando entravano in Palestina sui carrarmati […]. Lo trovo molto triste perché ci sono molte persone lì che vengono uccise”.
Terminata la dichiarazione andò via, dicendo che non sarebbe più tornato a Davos. Nel suo Paese fu accolto come un eroe, con bandiere turche e palestinesi che sventolavano insieme. Come si può immaginare, anche nei Territori Palestinesi Occupati lo scontro retorico tra i due ebbe una grande eco. Nei palestinesi sparsi per il Medio Oriente albeggiò la speranza che potesse essere, Erdoğan, la figura forte che li avrebbe difesi da Israele e dall’occidente. Anche nei campi profughi, dove a centinaia di migliaia vivono i palestinesi dalla Nakba, dal 1948, germogliò timida questa fiducia. Ayten era in Siria quando avvenne il confronto di Davos e viveva la vita del campo profughi di Yarmouk, uno dei campi più grandi e popolosi del Medio Oriente, che avrebbe avuto un triste destino, occupato dall’ISIS negli anni della guerra siriana. Nel suo libro ricorda così il campo:
“Questo quartiere, abitato da giovani che se ne stanno senza far niente negli internet café e agli angoli delle strade, da uomini adulti disoccupati seduti davanti ai portoni a fumare e bere tè e caffè tutto il giorno e da donne con il velo che passano con le borse della spesa in mano, puzza di povertà dall’inizio alla fine. Tanto che lo paragonavo ai quartieri poveri di Istanbul. Purtroppo, quando questa povera gente dal cuore grande ci ha accolto, era inebriata dagli inganni turchi di «one minute» e «Davos». Pochi sapevano che quelle cose avevano lo scopo di ottenere un effetto positivo sui popoli del Medio Oriente per poter realizzare lì i propri progetti. Essere dalla parte del popolo palestinese significa essere contro Israele sionista e l’arcinemica America. Ma i legami militari, politici e commerciali che la Turchia ha sia con Israele che con gli Stati Uniti sono bastati a svelare questo inganno”.
Queste parole, pensieri e testimonianze, scritte in un libro autoprodotto e stampato nell’agosto del 2022, potrebbero rappresentare l’ultimo tassello di un quadro di sopraffazione e violenza che toglie la voce alla vittima e magnifica il carnefice, ragno dalle mille zampe che si trascina con comodità sulle mura vischiose e flaccide di una giustizia che in Turchia semplicemente non esiste.
“Il vero crimine non è raccontare ma torturare” ci ha detto Ayten. “Non c’è nulla nel libro che possa essere considerato un reato. Ma aspetto ancora che si apra un’indagine sui torturatori”.
[1] swp-berlin.org/en/publication/…
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Il Lazio destina 23 milioni alle cliniche private in un enorme caso di conflitto d’interesse | L'Indipendentr
"Lo stupore di fronte alla logica neoliberista ha già da tempo lasciato spazio alla consapevolezza. Destinare 23 milioni di euro non per migliorare la sanità pubblica ma per potenziare quella privata è il chiaro segnale del trionfo dell’ideologia che da circa quarant’anni domina su scala globale. Non stupiscono nemmeno i giochi di potere che si nascondono alle spalle di questi massicci investimenti ai privati."
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ConCorrenza
Una buona medicina contro l’aumento dei prezzi è la concorrenza. Se non è facile trovare governanti e legislatori disposti a somministrarla è perché gli interessi al mantenimento delle rendite – a danno dei consumatori – sono presenti e attivi, mentre quelli all’apertura della competizione sono futuri e resi inattivi dal non essere compresi e imbrogliati. Dietro questa faccenda, solo in apparenza tecnicamente economica, c’è la ragione per cui cittadini ed elettori che non hanno chiari i propri interessi finiscono con il favorire quelli altrui.
L’aumento dei prezzi non ha una sola origine. Ha un innesco, ma poi concorrono cose diverse. L’inflazione non erode solo il potere d’acquisto: divora anche i risparmi, la ricchezza delle famiglie. E noi italiani siamo grandiosi produttori di risparmi, sicché abbiamo un interesse materiale a volerla bassa, l’inflazione. Se ad aprile la media dell’eurozona era del 7% e da noi dell’8,3%, significa che ci stiamo impoverendo più velocemente di altri. Peccato che lo Stato sia un grandioso produttore di debiti, sicché vederli erodere dall’inflazione non è che gli dispiaccia poi troppo.
Se la massa monetaria – la quantità di moneta in circolazione – è divenuta eccessiva, l’aumento dei tassi d’interesse è un utile rimedio. Difatti tutte le banche centrali occidentali li hanno alzati e annunciano che saliranno ancora. Ma quello strumento non è magico e non è neanche detto che funzioni, senza contare che rendere più costoso il credito non aiuta di certo la crescita economica. Ma c’è almeno un altro fronte che può essere aggredito: quello della formazione dei prezzi. Abbiamo tutti fatto caso a uno sgradevole dettaglio: quando il prezzo di una materia prima cresce, che sia il gas o il grano, immediatamente si alza il prezzo del prodotto finito, che sia il pieno o una spaghettata; quando però il prezzo della materia prima comincia a scendere (e da mesi scendono sia il gas che il grano) non solo il prezzo del prodotto finito si adegua con calma e senza spingere, ma può capitare che non si adegui affatto o che, come è il caso della pasta, cresca. Su quel fronte lì il tasso d’interesse non sposta un capello.
Da noi esiste un ufficio denominato “Mister prezzi”. Non so quale sia il suo costo complessivo, ma so che sono soldi buttati. Fare il controllore dei prezzi presuppone una conoscenza e una tempestività d’intervento che esclude il controllore possa far altro che inutilmente bofonchiare. La concorrenza al contrario funziona: se un produttore tiene a lungo i prezzi alti si genera la convenienza di un altro produttore a fregargli il mercato praticando un prezzo inferiore; se un negoziante specula sui prezzi, approfittando dell’inflazione per aggiungere un personale sovrappiù arrotondante, il negoziante vicino farà sapere che i suoi prezzi sono più bassi e attirerà parte della clientela del concorrente. E così via. Il presupposto di questo gioco virtuoso è l’informazione, ovvero il conoscere i prezzi del giorno in posti diversi. Nell’era del digitale è tecnicamente facile e a sua volta attività lucrosa. La conseguenza del gioco è un calo dei prezzi, quindi una efficace azione contro l’inflazione. E, del resto, veniamo da molti anni con inflazione bassissima perché la (benedetta) globalizzazione ha ampliato la platea dei competitori, facendo precipitare i prezzi di molti prodotti.
Allora perché non ci sono le manifestazioni di piazza a favore della concorrenza? Perché l’interesse di chi è più forte è quello di evitarla, potendo così pelare i clienti, ma siccome non può dirlo in questi termini inventa trincee che evochino racconti diversi, come quella dei balneari o dei tassisti. Sicché chi approfitta si fa passare per vittima e le vittime è già tanto se non si sentono dei profittatori. Ora arriva il caldo e il prezzo del medesimo ombrellone dell’anno scorso sarà più alto. Buona inflazione e buon impoverimento ai bagnanti che non hanno capito e difeso il loro interesse. Quello alla concorrenza.
L'articolo ConCorrenza proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
La Cina firma un accordo di libero scambio con l’Ecuador
di Redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – L’Ecuador e la Cina hanno firmato un accordo di libero scambio, approfondendo i legami tra il paese andino e la seconda economia più grande del mondo e frustrando l’opposizione degli Stati Uniti alla crescente influenza di Pechino nella regione.
Stando al Ministero dell’Economia di Quito, l’accordo dovrebbe aumentare le esportazioni non petrolifere dell’Ecuador nei prossimi 10 anni dai 3 ai 4 miliardi di dollari. Il trattato consentirà l’accesso preferenziale del 99% delle esportazioni dell’Ecuador verso la Cina, riguardando soprattutto prodotti agricoli e agroindustriali tra cui gamberetti, banane, fiori recisi, cacao e caffè.
La Cina è già il principale partner commerciale non petrolifero dell’Ecuador ed è diventata una fonte di finanziamento sempre più importante per il paese latinoamericano, nel quale ha finanziato numerose infrastrutture. Gli Stati Uniti sono invece il maggiore partner commerciale dell’Ecuador per quanto concerne gli scambi petroliferi.
Washington ha cercato di contrastare la crescente influenza di Pechino in America Latina, dove la Cina ha già firmato accordi di libero scambio con Perù, Cile e Costa Rica.
«Questa è un’opportunità per ampliare la cooperazione» ha affermato il ministro del commercio cinese Wang Wentao, apparso da Pechino in collegamento video. Ma l’accordo, che deve ancora essere ratificato dall’assemblea nazionale dell’Ecuador, rischia di incontrare forti resistenze nel paese. Il presidente Guillermo Lasso affronta il possibile impeachmentda parte del congresso guidato dall’opposizionecon l’accusa di appropriazione indebita. Con un processo previsto per la prossima settimana, il presidente potrebbe non essere più in carica quando l’accordo sarà discusso dal parlamento.
Paradossalmente Lasso è un conservatore filoamericano che ha cercato di approfondire i legami commerciali e di attirare maggiori investimento dagli Stati Uniti, ma il suo ambasciatore a Washington, Ivonne Baki, nel 2021 si era lamentato del fatto che l’amministrazione Biden non prestava sufficiente attenzione all’Ecuador e non capiva l’urgenza di aiutare il suo alleati in America Latina. Negli ultimi mesi, quindi, il suo governo ha cercato un aumento delle relazioni commerciali con Pechino, già molto consistenti.
La Cina è diventata il partner finanziario più importante dell’Ecuador negli ultimi dieci anni, a partire dal mandato dell’ex presidente di sinistra Rafael Correa, che è stato in carica dal 2007 al 2017.
Lasso in questi anni ha anche tentato di ottenere la firma di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti ma con scarsi risultati. – Pagine Esteri
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Intervista a Davide Dormino lo scultore autore dell'opera ‘Anything to Say?’ L’opera d’arte per Assange, Snowden e Manning
Dai più piccoli borghi del Belpaese alla Città Eterna, da Parigi all’Est-Europa, dalla vicina Svizzera fino alla terra dei canguri: queste solo alcune delle tappe che dal 2015 Davide Dormino – artista e scultore romano – ha percorso per esporre nelle maggiori piazze la sua opera più importante. Si chiama Anything to Say? ed è una scultura in bronzo a grandezza naturale raffigurante Julian #Assange, Edward #Snowden e Chelsea #Manning, ciascuno in piedi su una sedia. Al loro lato ce n’è una quarta, questa volta vuota per invitare noi spettatori a salire al fianco di coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare le peggiori malefatte dei governi mondiali. Ma quali importanti incontri hanno scaturito l’idea dell’opera? Quanto tempo e sacrifici ci sono voluti per realizzarla?
L'articolo completo
Intervista all’autore di ‘Anything to Say?’ L’opera d’arte per Assange, Snowden e Manning - L'INDIPENDENTE
Dai più piccoli borghi del Belpaese alla Città Eterna, da Parigi all’Est-Europa, dalla vicina Svizzera fino alla terra dei canguri: queste solo alcune delle tappe che dal 2015 Davide Dormino - artista e scultore romano - ha percorso per esporre nelle…Iris Paganessi (Lindipendente.online)
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DeButtare
Si parla dei giovani come fossero soggetti deboli da sostenere. Li si descrive un giorno come assopiti sul divano e il giorno appresso come in fuga verso un indeterminato “estero”. Si generalizza facendo a gara nel cordoglio, nel crucciarsi per l’alloggio non confortevole o rattristarsi nel caso la loro vita sia lacerata dal sopruso di una bocciatura. Li si vuole conservare nei luoghi comuni perché questo è il modo migliore per non essere costretti a cambiamenti per il bene comune. Eppure ci sono dati che urlano la distanza fra la realtà e la sua rappresentazione.
Per qualche giorno si giocherà al piccolo costituzionalista, lasciando immaginare che se ci fosse l’intesa la via sarebbe in discesa. In realtà è lunga e nel suo scorrere si farà a tempo a dimenticarsene molte volte. Ma sarebbe un raggiro lasciar supporre che possa trovarsi nella riscrittura della Carta la chiave per ricondurre ai fatti forze politiche e culturali in fuga dalla realtà.
La disoccupazione italiana è nell’intorno dell’8%, quella giovanile supera il 22%. Tolta la crescente quota di quelli che non studiano e non lavorano – che il politicamente corretto vuole che siano compatiti e inducano tristezza, laddove sarebbe bene scuoterli con indignazione avvertendoli che ciascuno di noi ha un ruolo nella propria vita, che dare la colpa a “la società” o “il sistema” è il modo migliore per perdere senza neanche gareggiare – i giovani cercano lavoro e le aziende cercano lavoratori. Ma gli uni e le altre continuano a cercare. Per forza, avvertono quelli per cui è sempre colpa degli altri: le paghe sono troppo basse. Questo è però l’ultimo dei problemi.
In un Paese in cui lavora il 60,2% della popolazione attiva, dovendo mantenere gli altri il costo del lavoro sarà alto e le paghe basse. Per sempre. Se si aumenta il costo del lavoro si va fuori mercato, se si diminuisce il cuneo fiscale a debito si va fuori di testa. Si deve lavorare più numerosi, più produttivamente e più a lungo. Il che fa bene anche alla morale. L’insulto non sono le paghe basse – che cominciammo tutti con tre soldi – ma la protezione dei garantiti, il mettere in conto ai giovani pensioni che non avranno mai, una scuola poco formativa, un mondo del lavoro poco meritocratico, quindi la prospettiva inaccettabile che la paga resti povera a lungo.
Nonostante questo e i disoccupati, a smentire il luogo comune dei divanati mantenuti c’è il fatto che molti giovani lavorano. Nelle condizioni date. E uno studio dell’Istituto Piepoli avverte che, udite udite, sono anche soddisfatti. Il 55% è preoccupato per l’assenza di lavoro. Ma fra i lavoratori compresi fra 16 e i 26 anni il 38% si dichiara soddisfatto e ammette di avere scoperto un lavoro cui non pensava e in cui si trova bene, il 28% è soddisfatto perché sta facendo il lavoro per cui ha studiato, per il 18% è quello che avrebbe sempre voluto fare, mentre il 16% non è soddisfatto manco per niente. Dentro questo 16% la metà lamenta la paga bassa. Ora prendete giornali e discussione politica e ditemi se le due cose si somigliano. Manco da lontano. C’è un abisso fra chi parla del lavoro e chi lavora veramente.
La scena è occupata dal partito unico della spesa pubblica, secondo cui basta dare di più per diffondere felicità. Che poi tocchi pagare è triste ovvietà occultata. Non mancano i giovani in gamba: manca loro la libertà di crescere, di competere e di vincere. Chi emigra non cerca protezioni ma opportunità. Si deve aprirle loro anche dentro ai confini, il che farebbe crescere la ricchezza di tutti. Non saranno la Repubblica presidenziale o il premierato (ammesso che chi ne parla li distingua) ad aprire il mercato, ma la concorrenza, la preparazione e l’innovazione. Se politica e giornali preferiscono parlare di divani, attendati, sfiduciati è perché capiscono che quelli li aiuteranno a conservarsi. Mentre quanti sono capaci di camminare e correre senza compatimenti potrebbero essere presi dalla sindrome del debuttante, che s’accorge di potere buttare via quel che gli ostruisce la strada.
L'articolo DeButtare proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
SHIREEN ABU AKLEH. CPJ: Israele non ha indagato seriamente sull’uccisione di 20 giornalisti
della redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – Nel giorno del primo anniversario dell’uccisione a Jenin della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita da fuoco israeliano, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) accusa Israele di non aver indagato adeguatamente sull’uccisione attribuita alle sue forze armate di almeno 20 giornalisti dal 2001, in prevalenza palestinesi. Secondo il CPJ la morte dei giornalisti e le indagini insufficienti costituiscono una “grave minaccia alla libertà di stampa”.
Nel caso di Abu Akleh, colpita alla testa durante un raid israeliano nel campo profughi di Jenin, il rapporto del CPJ rileva che “finora nessuno è stato ritenuto responsabile” della sua morte, aggiungendo che l’uccisione dela giornalista “non è stata un evento isolato”. Il Comitato aggiunge che dal 2001, 18 palestinesi e due giornalisti europei – uno italiano (Raffaele Ciriello) e uno britannico – sono stati uccisi dal fuoco militare israeliano e nessuno è mai stato rinviato a giudizio.
“Il grado con cui Israele indaga sugli omicidi di giornalisti dipende in gran parte dalla pressione esterna. Ci sono state indagini superficiali sulla morte di giornalisti con passaporti stranieri, ma questo è raramente accaduto per i giornalisti palestinesi uccisi. Alla fine, nessuno ha visto alcuna parvenza di giustizia”, denuncia Sherif Mansour, coordinatore del CPJ per il Medio Oriente.
Il portavoce dell’Esercito israeliano ha risposto all’accusa sostenendo che le sue forze non hanno preso di mira di proposito i giornalisti uccisi che erano presenti durante “manifestazioni violente” o “attacchi armati”. Ha aggiunto che queste uccisioni sono state indagate regolarmente.
Dal 2014 nelle forze armate israeliane esisterebbe un sistema di “valutazioni conoscitive dei fatti” sulle morti dei civili che possono trasformarsi in un’indagine penale da parte dell’avvocato generale militare. Ma nei nove anni da quando il sistema è stato istituito, nessun caso riguardante la morte di un giornalista è arrivato a un procedimento penale e nessun soldato è mai stato ritenuto responsabile.
Oltre a quello di Shireen Abu Akleh il rapporto cita in particolare le uccisioni del video giornalista palestinese Yasser Murtaja e del giornalista freelance Ahmed Abu Hussein, entrambi colpiti da cecchini israeliani in incidenti separati mentre coprivano le proteste palestinesi presso la recinzione di Gaza nel 2018. Il sindacato dei giornalisti palestinesi all’epoca accusò Israele di averli presi di mira “deliberatamente”.
L’esercito israeliano ha replicato che i due giornalisti erano “presumibilmente presenti sulla scena di violenti disordini” e “non è stato riscontrato alcun sospetto che giustificherebbe l’apertura di un’indagine penale” nei confronti dei soldati.
Nel caso di Murtaja, il CPJ afferma che l’allora ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman passò settimane “cercando di screditare il giornalista” affermando che era un membro dell’ala armata del gruppo militante Hamas, senza presentare alcuna prova.
Nel caso di Abu Hussein, attivisti per i diritti umani presentarono una richiesta di indagine sulla sua morte. Ma l’Esercito israeliano ha chiuso il caso due anni dopo senza interrogare alcun testimone, affermando che non vi è stato alcun intento criminale da parte dei suoi soldati.
Secondo il diritto internazionale, l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza contro i civili è definito come una misura di ultima istanza e può avvenire solo per fermare una “minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Pagine Esteri
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GAZA-ISRAELE. Terzo giorno di bombardamenti. Aumentano le vittime a Gaza, ucciso un israeliano
Pagine Esteri, 11 maggio 2023. Un israeliano è stato ucciso a Rehovot, nel centro di Israele, da un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza che ha colpito l’edificio in cui abitava. Altre quattro persone sono rimaste ferite.
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I bombardamenti israeliani su Gaza continuano per il terzo giorno consecutivo. Centinai di razzi sono stati lanciati dalla Striscia verso Israele, quasi tutti intercettati dai sistemi antimissili.
I morti palestinesi sono al momento 28, tra loro 5 bambini, 4 donne, 5 comandanti del Jihad Islami.
Un razzo ha raggiunto questo pomeriggio un palazzo di Rehovot, a circa 30 chilometri di distanza da Tel Aviv. Al momento si conta un morto ma il bilancio potrebbe salire.
Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che Israele è nel bel mezzo della sua campagna militare, denominata Scudo e Freccia, che ha l’obiettivo di uccidere comandanti e membri del Jihad Islami.
Pare stiano continuando i tentativi dell’Egitto di far giungere le parti ad una tregua. Cosa che, però, appare al momento molto complicata.
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Einaudi: il pensiero e l’azione – “L’uomo” con Paolo Silvestri
Ministero dell'Istruzione
ITS: nell’ambito delle riforme previste dal #PNRR il Ministero dell’Istruzione e del Merito e la Conferenza Stato-Regioni e Province Autonome hanno raggiunto l’intesa sui primi tre decreti attuativi della legge 99/22 sul sistema terziario dell’Istruz…Telegram
SHIREEN ABU AKLEH. CPJ: Israele non ha indagato seriamente sull’uccisione di 20 giornalisti
della redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – Nel giorno del primo anniversario dell’uccisione a Jenin della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita da fuoco israeliano, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) accusa Israele di non aver indagato adeguatamente sull’uccisione attribuita alle sue forze armate di almeno 20 giornalisti dal 2001, in prevalenza palestinesi. Secondo il CPJ la morte dei giornalisti e le indagini insufficienti costituiscono una “grave minaccia alla libertà di stampa”.
Nel caso di Abu Akleh, colpita alla testa durante un raid israeliano nel campo profughi di Jenin, il rapporto del CPJ rileva che “finora nessuno è stato ritenuto responsabile” della sua morte, aggiungendo che l’uccisione dela giornalista “non è stata un evento isolato”. Il Comitato aggiunge che dal 2001, 18 palestinesi e due giornalisti europei – uno italiano (Raffaele Ciriello) e uno britannico – sono stati uccisi dal fuoco militare israeliano e nessuno è mai stato rinviato a giudizio.
“Il grado con cui Israele indaga sugli omicidi di giornalisti dipende in gran parte dalla pressione esterna. Ci sono state indagini superficiali sulla morte di giornalisti con passaporti stranieri, ma questo è raramente accaduto per i giornalisti palestinesi uccisi. Alla fine, nessuno ha visto alcuna parvenza di giustizia”, denuncia Sherif Mansour, coordinatore del CPJ per il Medio Oriente.
Il portavoce dell’Esercito israeliano ha risposto all’accusa sostenendo che le sue forze non hanno preso di mira di proposito i giornalisti uccisi che erano presenti durante “manifestazioni violente” o “attacchi armati”. Ha aggiunto che queste uccisioni sono state indagate regolarmente.
Dal 2014 nelle forze armate israeliane esisterebbe un sistema di “valutazioni conoscitive dei fatti” sulle morti dei civili che possono trasformarsi in un’indagine penale da parte dell’avvocato generale militare. Ma nei nove anni da quando il sistema è stato istituito, nessun caso riguardante la morte di un giornalista è arrivato a un procedimento penale e nessun soldato è mai stato ritenuto responsabile.
Oltre a quello di Shireen Abu Akleh il rapporto cita in particolare le uccisioni del video giornalista palestinese Yasser Murtaja e del giornalista freelance Ahmed Abu Hussein, entrambi colpiti da cecchini israeliani in incidenti separati mentre coprivano le proteste palestinesi presso la recinzione di Gaza nel 2018. Il sindacato dei giornalisti palestinesi all’epoca accusò Israele di averli presi di mira “deliberatamente”.
L’esercito israeliano ha replicato che i due giornalisti erano “presumibilmente presenti sulla scena di violenti disordini” e “non è stato riscontrato alcun sospetto che giustificherebbe l’apertura di un’indagine penale” nei confronti dei soldati.
Nel caso di Murtaja, il CPJ afferma che l’allora ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman passò settimane “cercando di screditare il giornalista” affermando che era un membro dell’ala armata del gruppo militante Hamas, senza presentare alcuna prova.
Nel caso di Abu Hussein, attivisti per i diritti umani presentarono una richiesta di indagine sulla sua morte. Ma l’Esercito israeliano ha chiuso il caso due anni dopo senza interrogare alcun testimone, affermando che non vi è stato alcun intento criminale da parte dei suoi soldati.
Secondo il diritto internazionale, l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza contro i civili è definito come una misura di ultima istanza e può avvenire solo per fermare una “minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Pagine Esteri
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La mafia è digitale: così la criminalità prolifera sui social network | L'Indipendente
«Le mafie, estremamente abili a trovare metodi all’avanguardia per pubblicizzarsi e comunicare nel mondo digitale, sono sempre più “influencers” della rete. È quanto spiega il nuovo report della Fondazione Magna Grecia, presieduta da Nino Foti, a cura di Marcello Ravveduto (professore di Digital Public History dell’Università di Salerno), in cui sono stati analizzati di 90 GB di video TikTok, due milioni e mezzo di tweet, 20mila commenti a video YouTube e centinaia fra profili e pagine di Facebook e Instagram.»
European Youth Parliament a Ragusa: La Fondazione Einaudi sostiene il Parlamento Europeo Giovani
La Fondazione Luigi Einaudi parteciperà alla Sessione Regionale del Parlamento Europeo Giovani che si terrà a Ragusa dal 12 al 14 maggio.
L’evento avrà come protagonisti circa 70 studenti delle scuole superiori della Regione Siciliana e uno staff internazionale composto da giovani provenienti da tutta Europa. L’obiettivo è promuovere la cultura delle istituzioni come luogo delle soluzioni, dell’Europa come casa unitaria dei nostri valori, del confronto e della diversità come uniche stelle polari della crescita sociale. Si tratterà di un evento nel quale giovanissimi studenti avranno l’opportunità di assumere nuove competenze vestendo pienamente il ruolo di Europarlamentari e simulando una sessione dell’Europarlamento, crescendo così nella convinzione del rispetto delle posizioni altrui e confrontandosi con tematiche importanti della legislazione europea attinenti ad un più generale tema, il potere del progresso e dell’innovazione.
Le 8 tematiche che verranno affrontate a Ragusa2023 nelle altrettante commissioni saranno legate al più generale tema del potere del progresso e dell’innovazione. La Fondazione Einaudi, oltre a sostenere interamente l’iniziativa con il suo patrocinio e ad essere dunque partner dell’evento, parteciperà ai lavori della Commissione nella persona dell’Avv. Gian Marco Bovenzi, project manager della stessa.
L’evento è articolato in tre fasi principali: nel corso del Teambuilding i ragazzi imparano a conoscere i propri compagni di commissione mediante una serie di giochi e di attività interattive che mirano a rompere il ghiaccio e a creare un forte spirito di gruppo; durante il Committee Work ci si confronta e si riflette su una tematica specifica insieme ai propri compagni di commissione, analizzando i problemi e le sfide ad essa legate per poi proporre soluzioni in merito e giungere alla stesura di una risoluzione scritta; ogni commissione presenta poi le proprie proposte nella parte conclusiva della sessione, l‘Assemblea Generale. Dopo una fase di dibattito durante la quale i delegati possono sollevare punti dal posto o tenere discorsi al podio, ogni risoluzione viene messa ai voti.
Per scaricare il pdf del programma clicca sul link: Scheda Progetto Ragusa2023
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PODCAST. Testimonianza da Gaza sotto bombardamenti
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 . Non si sono fatti progressi nelle trattative per il cessate il fuoco e nella notte e questa mattina sono proseguiti i raid aerei israeliani contro Gaza.
Un drone killer ha ucciso a Khan Yunis, Ali Ghali, un comandante militare del Jihad assieme ad almeno due palestinesi.
Il totale delle vittime, tutte palestinesi, è salito a 27, tra cui cinque bambini e cinque donne. 76 sono i feriti, alcuni dei quali gravi. Gli oltre 500 razzi sparati dai palestinesi hanno fatto 25 feriti in Israele, quasi tutti leggeri o presi da crisi di panico.
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In Cina e in Asia – Xi rilancia la mega smart city di Xiong’an
Xi rilancia la mega smart city di Xiong'an
Parigi: "La Cina può svolgere un ruolo per la pace"
I governi locali cinesi sono attratti dai fondi mediorientali
Cina ed Ecuador firmano accordo di libero scambio
Canberra e Washington finanziano i governi dei paesi dell’Indo-pacifico
A Hong Kong gli avvocati stranieri possono esercitare solo con l’ok del governo
La taiwanese ProLogium aprirà una fabbrica in Francia
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