50 anni fa il golpe di Pinochet, quando la ferocia si abbatté sul Cile e sul mondo
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di Geraldina Colotti* –
Pagine Esteri, 11 settembre 2023. Il 4 settembre del 1970, in piena “guerra fredda”, si tengono le elezioni presidenziali in Cile. Nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta e perciò, in base alla Costituzione del 1925, il Congresso sceglie fra i due più votati. Un accordo fra i cristiano-democratici del presidente uscente, Eduardo Frei e le sinistre – che, dal 1969, hanno dato origine alla coalizione di Unità popolare (Up), per impulso del Partito socialista e del Partito comunista – porta alla vittoria Salvador Allende, chirurgo e uomo politico socialista: con una maggioranza relativa di solo il 36,6% dei voti sui candidati di destra e democristiani.
Allende non è uno sconosciuto, ha già corso per la presidenza in altre tre occasioni. Nella temperie del secolo scorso – il secolo delle rivoluzioni -, il suo programma non contempla una rivoluzione sul modello cubano, ma una transizione verso il socialismo per la via istituzionale: con il coinvolgimento attivo delle classi popolari e del movimento operaio attorno a un piano di riforme strutturali.
Il suo pacchetto di quaranta misure, approvate subito dopo il 3 novembre, quando si insedia il nuovo governo, prevede la riforma agraria, le nazionalizzazioni di aziende, miniere (soprattutto quelle del rame, di cui il Cile possiede le prime riserve al mondo) e di banche; la ridistribuzione del reddito e la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia.
Tre giorni dopo l’assunzione d’incarico di Allende, il suo omologo statunitense, Richard Nixon, dichiara che il Cile è la sua principale preoccupazione, giacché gli Usa non possono permettere che l’esempio si diffonda nel loro “cortile di casa” senza conseguenze. Henry Kissinger, Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, ha già reso esplicito l’orientamento del governo e della Cia, qualche mese prima dell’elezione di Allende: “Non vedo perché dobbiamo aspettare e permettere che un paese diventi comunista solo per l’irresponsabilità del suo popolo”, ha dichiarato.
Comincia, allora, con più forza, il processo di disarticolazione istituzionale del Cile, organizzato dalla Casa bianca. Attraverso giganteschi finanziamenti, Washington si serve della borghesia e dei latifondisti, di alcune grandi multinazionali, e delle Forze armate, addestrate nelle scuole di tortura nordamericane. A differenza di quanto sostengono la sinistra extraparlamentare e specialmente il Movimento della sinistra rivoluzionaria (Mir), diretto allora da Miguel Enríquez, Up pensa che i militari rispetteranno la volontà popolare. Si sbaglia.
Contro il “pericolo rosso” e un presidente che ha preso spazio sulla scena internazionale con un preciso ruolo anticolonialista, la guerra sporca darà i suoi frutti a colpi di sabotaggi, inflazione indotta e propaganda mediatica diretta ai ceti medi e al cattolicesimo nazional-conservatore. E di attentati, compiuti da Patria e Libertà. Nel ’72, gli aiuti militari rimangono l’unica forma di assistenza fornita da Washington, che si oppone anche alla possibilità che il Cile rinegozi il debito estero. Gli Usa hanno deciso di “far urlare l’economia cilena”.
Il 29 giugno del 1973, i militari fedeli al governo socialista sventano un tentativo di golpe a Santiago (“el Tanquetazo”). L’11 settembre 1973, il governo Usa, sostenuto anche dalla dittatura militare brasiliana, raggiunge però l’obiettivo: diversi settori delle forze armate effettuano un colpo di stato. Allende, con un gruppo di compagni, si rifugia nel palazzo della Moneda e combatte fino all’ultimo. La fine, è nota, almeno per la verità di Stato: il presidente socialista si sarebbe sparato prima di essere catturato. Secondo varie inchieste, invece, sarebbe stato ucciso durante i combattimenti, lasciando nei suoi ultimi discorsi pubblici, un messaggio di resistenza.
La fine è nota, almeno per la scia di sangue che la dittatura militare guidata da Pinochet ha lasciato nei 16 anni in cui ha imperversato, sostanziata a livello economico dalle politiche dei “Chicago Boys”: l’assassinio di almeno 3200 persone, fra cui oltre un migliaio di desaparecidos, e altre migliaia di esuli.
La “primavera allendista” è durata solo tre anni, ma è rimasta uno spartiacque e anche un monito per quanti, nel continente, hanno provato a ricostruire un blocco sociale alternativo al neoliberismo dilagato dopo la caduta dell’Unione sovietica. La destra latinoamericana non ha mai dismesso la vocazione golpista, poi evoluta nelle forme del “golpe istituzionale” e nell’uso della magistratura a fini politici (il lawfare). E i governi che hanno inaugurato il “ciclo progressista” dopo la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela (nel 1998), hanno dovuto prendere sul serio la “lezione” di Allende.
In forme più spinte o modulate, hanno messo in primo piano la necessità di democratizzare le forze armate, istituendo, a livello regionale, scuole di formazioni militari, alternative a quella nordamericana che ha addestrato i dittatori del Cono Sur. L’esempio più avanzato è il Venezuela, dove “l’unione civico-militare” ha trasformato i militari in un “esercito di tutto il popolo” al servizio della “pace con giustizia sociale”; ma il risultato più importante è quello del Brasile, dove si è cercato di invertire di segno alla dottrina militare di matrice Usa, imponendone un’altra a livello regionale. Infatti, nonostante le pressioni di Trump, e malgrado la persistente eredità della dittatura, le forze armate brasiliane non hanno accettato di invadere il Venezuela nel 2009, né hanno effettuato un altro golpe in Brasile agli ordini di Bolsonaro.
A cinquant’anni dall’uccisione di Allende, e dopo il dilagare dello slogan thatcheriano “there is no alternative”, la sinistra latinoamericana ha verificato che le alternative al neoliberismo esistono, ma si devono difendere con le unghie e con i denti. E che, soprattutto, il modello imposto da Washington, a 200 anni dalla Dottrina Monroe, serve solo al beneficio di pochi. Certo, nell’interludio tra la notte e l’alba, avvertiva Gramsci, sorgono mostri. L’eredità delle dittature è ancora ben presente, e la difesa del presidente cileno Gabriel Boric poggia su basi ben più friabili di quella di Up.
E lo scoglio insormontabile per qualsivoglia vero cambio di indirizzo, in Cile, resta sempre la costituzione imposta da Pinochet. Nel 2020, il 78% degli elettori aveva chiesto con un referendum che venisse cambiata. A settembre del 2022, però, il testo proposto da Boric, frutto di avanzate proposte della base, relative alla parità di genere, alla difesa dell’ambiente e al riconoscimento dell’identità dei popoli originari, è stato bocciato dalle urne con il 62% dei voti, dopo una feroce campagna mediatica.
E una preponderanza schiacciante della destra e dell’estrema destra pinochettista ha visto anche l’elezione dei 50 membri del Consiglio costituzionale, che porteranno un testo a misura di sistema al referendum del 17 dicembre, inizialmente previsto per novembre. Privo di maggioranza parlamentare, il governo Boric, sotto ricatto dei sempiterni poteri forti che comprimono il Cile, cerca di rosicchiare a colpi di compromessi qualche brandello di riforma. Non è, però, riuscito a incarnare le speranze suscitate dalla sua elezione, a dicembre del 2021, quando fu il presidente più votato nella storia del paese.
Durante una cerimonia in vista del cinquantennale del golpe, alcuni degli invitati internazionali hanno paragonato il governo Allende con quello di Boric. Un accostamento inopinato, non solo per la provenienza del giovane presidente dalle componenti più moderate della lotta degli studenti, nel 2011, ma soprattutto per le sue posizioni in politica estera, più attente a cercare intese con l’occidente e l’Europa che con la parte più avanzata del continente latinoamericano.
La scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex guerrigliera che preferisce vivere negli Stati uniti da oppositrice del governo sandinista, ha lodato Boric: “un gran democratico e un gran socialista” – ha detto – per aver dichiarato che “il regime di Daniel Ortega viola i diritti umani e non è democratico”. Un giudizio che il presidente cileno ha riservato anche ad altri governi lontani dagli Usa, come Cuba e Venezuela, soprassedendo sulle denunce inascoltate alla violenza dei carabineros. Difficile che Allende, socialista e antimperialista, apprezzerebbe.
Intanto, in Cile come in altre parti dell’America latina, il fascismo non ha complessi di colpa. Pinochet morì nel suo letto nel 2006, ma a rimpiangerlo e ad ammirare la dittatura è il capofila dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast. Come lui la pensa, secondo una recente inchiesta, il 36% della popolazione, convinta che il golpe contro Allende fosse motivato, a fronte del 16% per cento che lo pensava nel 2013. E alle ultime primarie in Argentina ha stravinto un ultra-trumpista che rivendica senza vergogna la dittatura militare, Javier Milei.
Mediante l’imposizione di misure coercitive unilaterali illegali, gli Stati uniti e i loro alleati continuano a “far urlare” le economie recalcitranti dell’America latina, pensando, in fondo come Kissinger allora: occorre evitare che l’esempio si estenda. Nei momenti più duri dell’assedio nordamericano, il Venezuela di oggi assomigliava in modo impressionante al Cile dell’Unidad Popular, così descritto da Isabel Allende nel romanzo La casa degli Spiriti:
“L’organizzazione era una necessità, perché la strada verso il Socialismo molto presto si trasformò in un campo di battaglia (…) la destra metteva in campo una serie di azioni strategiche volte a fare a pezzi l’economia e seminare il discredito contro il Governo.
La destra aveva nelle sue mani i mezzi di diffusione più potenti, contava con risorse economiche quasi illimitate e con l’aiuto dei ‘gringos’, che mettevano a disposizione fondi segreti per il piano di sabotaggio. A distanza di pochi mesi sarebbe stato possibile osservarne i risultati.
Il popolo si trovò per la prima volta con sufficiente denaro per soddisfare le proprie fondamentali necessità e per comprare alcune cose che sempre aveva desiderato, ma non poteva farlo, perché gli scaffali erano quasi vuoti.
La distribuzione dei prodotti cominciò a venire meno, fino a quando non divenne un incubo collettivo…”.
I meccanismi della guerra economico-finanziaria, oggi egemoni rispetto alle aggressioni militari della “guerra fredda”, sono però già parte integrante delle analisi e delle strategie politiche delle nuove esperienze latinoamericane: che, nelle loro parti più avanzate, mirano a costruire una nuova articolazione di lotta, “dal basso e dall’alto”, ispirandosi al Lenin di Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica.
A differenza di quanto avviene da noi, dove non siamo riusciti a vincere né con le armi, né con le urne, e dove la lezione di Allende si è ridotta a difesa acritica di alleanze e compatibilità nella democrazia borghese, la guerra per la memoria è ancora un terreno di lotta politica per nuove prospettive. Pagine Esteri
* Giornalista e scrittrice, Geraldina Colotti è nata a Ventimiglia. Ha vissuto a lungo a Parigi, oggi vive e lavora a Roma. Dopo aver scontato una condanna a 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali (Al Mayadeen, Venezuela news). È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.
Di formazione filosofica, ha pubblicato libri per ragazzi (tra questi Il segreto, edito da Mondadori), raccolte di racconti e di poesie, romanzi e saggi, tradotti in diverse lingue, fra cui Per caso ho ucciso la noia (Voland), e Certificato di esistenza in vita (Bompiani). Insieme a Marie-José Hoyet ha tradotto dal francese due libri di Édouard Glissant, Tutto-mondo (Edizioni lavoro), e La Lézarde (Jaca Book). Tra i suoi saggi, pubblicati anche in Venezuela, Oscar Arnulfo Romero, beato fra i poveri (Clichy); Dopo Chávez. Come nascono le bandiere (Jaca Book); Hugo Chávez, così è cominciata (PGreco). Con Veronica Diaz e Gustavo Villapol, Assedio al Venezuela (Mimesis). Per le edizioni Multimage ha curato il volume Alex Saab, lettere di un sequestrato. Con Vittoria Rubini ha tradotto e curato il volume Guerriglia semiotica, di Fernando Buen Abad, edito da Argo libri.
La sua ultima raccolta di poesie s’intitola Quel sole e quel cielo, edita da La Città del sole. Insieme a Gabriele Frasca e a Lucidi ha curato l’antologia Poesía contra el bloqueo, pubblicata come e-book in Italia (Argo libri), a Cuba (Coleccion Sur dell’Uneac, con il supporto della Rete degli Intellettuali in Difesa dell’Umanità, capitolo cubano, e il patrocinio del Festival Internazionale di Poesia dell’Avana), e in Venezuela da Vadell hermanos.
Ha curato l’edizione italiana di Il credo, di Aquiles Nazoa (PGreco)
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In Cina e Asia – Biden incontra Li Qiang: "Non voglio contenere la Cina”
I titoli di oggi:
G20, il premier inglese incontra la controparte cinese
L'India studia le possibili risposte a un'eventuale invasione cinese di Taiwan
Corea del Nord, Kim festeggia l'anniversario della fondazione
Il Vietnam cerca le armi russe, ma eleva le relazioni con gli Usa
Il Canada manda la marina nello Stretto di Taiwan e avvia un'indagine sulle "interferenze straniere"
Filippine e Australia firmano un partenariato strategico
Maldive, nessun vincitore alle elezioni presidenziali: si va al ballottaggio
Alibaba, si dimette il Ceo Daniel Zhang
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Privacy e riconoscimento facciale; con iBorderCTRL si comincia ovviamente dai migranti e non finirà bene: «La macchina della verità alle frontiere dell'Europa è stata un assegno in bianco»
«Mentre assegnano 4,5 milioni di euro del programma di ricerca Horizon 2020 a iBorderCTRL, una sorta di macchina della verità da usare alle frontiere, gli esperti della Commissione europea sanno già che questa tecnologia di analisi dei micro-movimenti del volto e di identificazione delle bugie, una sorta di Lie to me, la serie tv con Tim Roth, in versione algoritmo, potrà porre dei grossi problemi. Tanto che nello stesso documento con cui finanziano il progetto, datato 18 gennaio 2016, scrivono che “la proposta si affida pesantemente a un sistema automatico di rilevazione delle bugie, che pone una serie di rischi che non sono adeguatamente affrontati”.»
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Il deputato francese Philippe Latombe ha annunciato giovedì scorso di voler impugnare davanti al Tribunale della UE il #DataPrivacyFramework
”Il testo risultante da questi negoziati viola la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, a causa delle insufficienti garanzie di rispetto della vita privata e familiare in relazione alla raccolta massiva di dati personali, e il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR)”, ha scritto Latombe, membro del partito alleato del Presidente Emmanuel Macron, , nella sua dichiarazione.Latombe ha presentato due ricorsi, ha dichiarato a POLITICO: uno per sospendere immediatamente l’accordo e un altro sul contenuto del testo.Oltre alle preoccupazioni per la sorveglianza di massa degli Stati Uniti, il Data Privacy Framework è stato notificato ai Paesi dell’UE solo in inglese e non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, il che potrebbe non rispettare le regole procedurali, ha sostenuto Latombe. Latombe ha informato il governo francese e l’autorità per la protezione dei dati CNIL della sua contestazione.
French lawmaker challenges transatlantic data deal before EU court
MP Philippe Latombe launches the latest round of legal fighting.Laura Kayali (POLITICO)
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L’avvocato della famiglia di Khaled El Qaisi: “In Israele totale spregio dei diritti di civiltà giuridica”
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Pagine Esteri, 9 settembre 2023. In un comunicato rilasciato oggi, l’avvocato Flavio Albertini Rossi, legale della famiglia di Khaled El Qaisi, esprime preoccupazione per le sorti del ricercatore italo-palestinese arrestato dalla polizia di frontiera israeliana il 31 agosto.
Trattenuto in custodia cautelare, Khaled El Qaisi non ha potuto fino ad oggi incontrare il suo avvocato, non conosce gli atti su cui si basa il fermo e viene sottoposto a continui interrogatori senza la presenza di un legale. Nell’udienza del 7 settembre i giudici hanno prolungato la custodia cautelare fino al 14 di questo mese.
Ciò che preoccupa maggiormente la famiglia del ricercatore, traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, è il “totale spregio dei diritti di civiltà giuridica operati dalla legislazione israeliana“. La violazione, cioè, delle tutele riconosciute in Italia, in Europa e nelle istituzioni delle Nazioni Unite, “la cui osservanza consente di definire un processo equo e un arresto non arbitrario“.
L’avvocato Flavio Albertini Rossi, a nome della famiglia di Khaled, giudica la situazione detentiva di El Qaisi una violazione dei diritti umani. La maggiore preoccupazione, spiega, è la possibilità che, in mancanza di prove, la detenzione penale venga sostituita con la detenzione amministrativa, dilatando i tempi dell’arresto in maniera imprevedibile. “Condizione giuridica nella quale si trovano – spiega l’avvocato – altri 1200 palestinesi ristretti in carcere senza un’accusa formale, senza alcuna prova e senza poter conoscere le ragioni del loro trattenimento”.
Khaled El Qaisi era di ritorno dalle vacanze, insieme alla moglie e al figlio di 4 anni, quando è stato fermato e ammanettato, senza accuse formali né spiegazioni, al valico di Allenby, tra la Giordania e la Cisgiordania occupata.
Di seguito il comunicato integrale:
Aggiornamento sulla detenzione di Khaled El Qaisi, italo-palestinese, trattenuto dalle autorità israeliane al valico di frontiera di “Allenby” e tuttora detenuto.
Il 7 settembre, come previsto, si è tenuta a Rishon Lezion a sud di Tel Aviv, l’udienza relativa alla proroga del suo trattenimento in carcere conclusasi con una proroga della detenzione per altri 7 giorni, quando dovrà comparire nuovamente davanti al giudice.
In questa udienza il detenuto e il suo difensore non hanno potuto comparire congiuntamente, finora impossibilitati per legge a vedersi e comunicare. In questa occasione si è appreso del suo trasferimento presso il carcere di Ashkelon.
La nostra viva preoccupazione è rivolta al totale spregio dei diritti di civiltà giuridica operati dalla legislazione israeliana ovvero alla violazione di quelle tutele, comunemente riconosciute in Italia (art. 13-24-111 della Cost.) e in Europa (art 6 CEDU) e in seno all’ONU (artt. 9-14 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici), la cui osservanza consente di definire un processo “equo” e un arresto “non arbitrario”.
Dopo 9 giorni di detenzione a Khaled è stato impedito di interloquire con il proprio difensore di fiducia e non potrà certamente incontrarlo quantomeno fino al 12 settembre. È quotidianamente sottoposto a interrogatorio senza la presenza del suo difensore ed è quindi solo mentre affronta domande pressanti poste dai poliziotti nella saletta di un carcere.
Non gli è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata; non sa chi lo accusa, per quale ragione lo faccia, cosa affermi in proposito.
Anche i motivi del suo arresto appaiono assolutamente generici e privi di specificità, fondati esclusivamente su meri sospetti e non su indizi gravi di colpevolezza.
Tuttavia, ciò che rappresenta maggior ragione di inquietudine e preoccupazione è la facoltà concessa all’autorità israeliana di poter sostituire, in difetto di prove, la detenzione penale con quella amministrativa. Condizione giuridica nella quale si trovano altri 1200 palestinesi ristretti in carcere senza un’accusa formale, senza alcuna prova e senza poter conoscere le ragioni del loro trattenimento.
In considerazione dell’allarmante situazione detentiva di Khaled e del mancato rispetto dei suoi diritti umani si chiede che si faccia tutto il possibile per ottenerne l’immediata liberazione e il suo ritorno in Italia.
Flavio Albertini Rossi
Legale della famigliai di Khaled in Italia
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Minorenni e infantili senili
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Terremoto in Marocco, centinaia i morti
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 9 settembre 2023 – E’ di almeno 632 morti e 329 feriti il bilancio provvisorio delle vittime del terremoto di magnitudo 6.8 che ha scosso il Marocco la notte scorsa, alle ore 22.00 locali. I numeri, però, sono destinati ad aumentare, mentre si continua a scavare anche a mani nude per cercare i dispersi sotto alle macerie.
L’epicentro è stato registrato a una profondità di 18.5 km a 72 km a sud-ovest di Marrakesh, secondo l’Istituto americano di Geological Survey (USGS).
At 11 pm local time in western Morocco, a shallow M6.8 earthquake shook the Atlas mountains. Many residences in the region are vulnerable to shaking. Our hearts go out to those affected. Latest info here: t.co/nsiHqqNXrS— USGS Earthquakes (@USGS_Quakes) September 8, 2023
Un terremoto “improvviso e catastrofico” lo hanno descritto i residenti della città. Il numero più alto di morti è stato registrato nella regione di al-Haouz, ma il sisma ha interessato almeno sei province del Paese sulla catena dei monti Atlas. Nell’area colpita dal terremoto vivrebbero tra le 8 e le 10 milioni di persone, molte di queste in aree rurali. Il terremoto ha provocato ingenti distruzioni anche nel cuore della città vecchia di Marrakesh, patrimonio Unesco, dove gli edifici storici si sono sbriciolati sulle strade.
Secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica in Marocco si tratterebbe del più forte terremoto negli ultimi cento anni del Paese.
WATCH: 6.8-magnitude earthquake hits Morocco, killing more than 300 people pic.twitter.com/sOHj2HRSMs— BNO News (@BNONews) September 9, 2023
#Earthquake 76 km SW of #Marrakech (#Morocco) 29 min ago (local time 23:11:00). Updated map – Colored dots represent local shaking & damage level reported by eyewitnesses. Share your experience:
📱t.co/bKBgMenA4F
🌐t.co/lZLiJgtzeF pic.twitter.com/GYCSBv0zT6— EMSC (@LastQuake) September 8, 2023
Il Centro Trasfusionale Regionale di Marrakesh, intanto, sta chiedendo in queste ore ai residenti della città di recarsi nella sede dell’istituto per donare sangue per i feriti che continuano a registrarsi a centinaia, man mano che proseguono le operazioni di soccorso.
Solidarietà al Paese e al Primo Ministro Aziz Akhannouch è stata espressa dai leader riuniti a New Delhi per il G20. Narendra Modi, nei panni in queste ore di padrone di casa del Summit, che ha promesso “ogni possibile aiuto per il Marocco in queste ore difficili”.
Extremely pained by the loss of lives due to an earthquake in Morocco. In this tragic hour, my thoughts are with the people of Morocco. Condolences to those who have lost their loved ones. May the injured recover at the earliest. India is ready to offer all possible assistance to…— Narendra Modi (@narendramodi) September 9, 2023
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Xi salta il G20: sullo sfondo le tensioni con l’India. E Biden va in Vietnam
L'assenza del presidente cinese evidenzia le tensioni con il vicino indiano. La partnership con il Vietnam contesa fra Usa e Pechino. Domani Biden a Hanoi
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VIDEO. 20 feriti e 700 sfollati per i nuovi scontri nel campo palestinese di Ain al Hilweh
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della redazione
Pagine Esteri, 8 settembre 2023 – Un cessate il fuoco è stato raggiunto oggi tra il partito Fatah e le fazioni islamiste armate nel campo profughi palestinese in Libano di Ain al Hilweh (Sidone), dopo ore di scontri che hanno fatto almeno 20 feriti, costretto a fuggire centinaia di civili e che si sono attenuati solo questa sera. La tregua è stata raggiunta dopo gli sforzi di mediazione guidati da Souhail Harb, direttore dei servizi segreti dell’esercito libanese nel sud, che ha organizzato un incontro tra Fatah e funzionari di Hamas.
Il mese scorso violente sparatorie nel campo profughi, dopo l’omicidio di Abu Ashraf al-Armoushi, il capo locale della sicurezza di Fatah, avevano provocato 13 morti, in gran parte combattenti armati. Un comandante militare di Fatah, Sobhi Abu Arab, ha chiesto oggi la consegna degli assassini di Al-Armoushi e delle sue quattro guardie del corpo uccisi in un’apparente serie di omicidi mirati attribuiti al miliziano jihadista Bilal Badr, dell’Isis.
La situazione si è fatta ulteriormente critica per i civili palestinesi poiché i gruppi armati islamisti, Fatah al Islam e Jund al Sham, hanno occupato diverse scuole. Il Coordinatore Umanitario delle Nazioni Unite per il Libano, Imran Riza, ha chiesto la fine dei combattimenti e l’espulsione delle fazioni armate dalle scuole. “L’occupazione di otto scuole dell’Unrwa (Onu) sta impedendo l’accesso a quasi 6.000 bambini pronti a iniziare l’anno scolastico”, ha aggiunto Riza.
I nuovi scontri erano iniziati nella notte di giovedì, con spari di armi automatiche che hanno raggiunto anche i quartieri vicini al campo profughi. Fatah in quelle ore ha detto al giornale L’Orient Today che i suoi combattenti stavano “difendendo” la loro posizione essendo stati “presi di mira da colpi di arma da fuoco e razzi degli estremisti islamici” all’ingresso nord del campo. Un proiettile vagante ha ferito un uomo che si trovava fuori dalla zona di combattimento, nel rione di Taamir. Circa 700 persone hanno cercato rifugio nella moschea al-Mousalli.
Ain al-Hilweh, il più grande campo profughi palestinese del Libano, ospita più di 54.000 rifugiati. A loro si sono aggiunti negli ultimi anni migliaia di altri profughi palestinesi in fuga dalla guerra in Siria. Il campo, densamente popolato, è da anni teatro di sparatorie dovute a tensioni tra le varie fazioni armate palestinesi. Pagine Esteri
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Duplice anomalia: il governo legifera attraverso decreti urgenti che il parlamento poi emenda
Anch’io sono rimasto a dir poco sorpreso dal tono e dal contenuto delle dichiarazioni di domenica del ministro Giorgetti a proposito della cosiddetta tassa sugli extraprofitti delle banche su cui giustamente si sofferma l’editoriale di mercoledì scorso del Foglio. E’ evidente che il ministro ha subìto una decisione tutta politica della Presidenza del Consiglio e parlando di una “versione definitiva” (!) fa capire che spera che il Parlamento procederà a emendare il testo. Tutto questo è segno di una grande confusione, ma apre anche un altro problema non secondario. Una delle cause principali del disordine delle leggi italiane è l’emendabilità dei decreti legge. Infatti le norme dei decreti legge entrano in vigore subito, ma quando sono emendate cessano di essere vigenti ma continuano a esistere nel periodo intermedio e provocano o possono provocare effetti che vanno appositamente regolati. Da qui il caos che è particolarmente grave per le norme fiscali che dovrebbero essere certe. Personalmente penso che un giorno la Corte costituzionale, che già fu costretta a intervenire per bloccare la reiterazione dei decreti legge non convertiti in legge, dovrà porsi il problema della emendabilità dei decreti legge: se il potere esecutivo sottrae al legislativo il potere di fare le leggi, dovrebbe trattarsi non solo di materie che richiedono un intervento “necessario e urgente”, ma anche di formulazioni che impegnano politicamente il governo. Gli emendamenti del Parlamento ai decreti legge sono da un punto di vista politico-costituzionale delle dichiarazioni di sfiducia contro l’esecutivo, perché indicano che il Parlamento disapprova l’uso che un governo ha fatto del potere straordinario di legiferare. Ho sempre pensato che i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire su questa materia difendendo le prerogative degli organi deputati alla legislazione che sono le Camere. Più che di nuove norme costituzionali avremmo bisogno di rispettare e di far rispettare quelle che ci sono.
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Sovranamente
Ad aprire quella che dovrebbe essere una seria campagna elettorale europea – il che vale per tutti i Paesi dell’Unione – è stato uno mai candidato e che mai lo sarà: Mario Draghi. Il tema è quello di avere gli strumenti per far valere la sovranità europea, che è l’opposto del sovranismo. Circa i bilanci statali lo scopo è quello di far valere il rigore, senza rigorismi formali che poi divengono lassismi sostanziali, perché non applicabili. La ricaduta italiana di un simile schema conduce a conclusioni ben diverse da quelle che qualcuno, fantasiosamente, ha voluto trarne: a noi converrebbe che i trasferimenti di sovranità siano più numerosi e veloci, così come ci converrebbe far scendere il debito pubblico maggiormente e più velocemente di quanto ci chiede la Commissione Ue. Entrambe le cose a salvaguardia della sovranità.
Si può dissentire ma, se si ragiona seriamente, occorre farlo contrastandone la sostanza, non sparacchiando castronerie dilapidatrici. Perché il presupposto è: nessuno dei Paesi dell’Unione ha, da solo, la forza di affrontare i problemi posti al di fuori dei propri confini, il che comporta l’impoverimento e l’insicurezza all’interno di quei confini. Nessuno dei nostri Paesi, da solo, è in grado di giocare un ruolo nella vicenda ucraina, per non parlare dell’impossibilità di difendere veramente i propri confini in caso di aggressione. Il nostro scudo difensivo è la Nato ma, in un quadro modificatosi dopo la fine della Guerra fredda e aggravatosi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Nato stessa non può più essere a conduzione e responsabilità statunitense. Quindi serve una forza armata Ue, il che comporta integrazione dei sistemi produttivi europei nel campo della difesa. Ciascuna moneta nazionale sarebbe un turacciolo nell’Oceano, in balia di forze preponderanti, mentre l’euro è un’imbarcazione imperfetta, ma di stazza assai superiore. Lo spazio nel commercio globale lo trovano le aziende che sanno competere, ma il quadro di protezione e facilitazione è dato dai rapporti politici internazionali, in cui il peso specifico di uno Stato nazionale è largamente inferiore a quello dell’Ue. Ci sono, del resto, le esperienze positive: dalla gestione dei vaccini al debito comune per Ngeu (di cui l’Italia è il principale beneficiario).
Si può ben avversare tutto ciò, ma si deve anche essere capaci di spiegare come oggi il nazionalismo vestito da sovranismo non sarebbe il travestimento di un rattrappimento incapace di difendere i confini anche soltanto dall’ingresso di immigrati, posto che se ne ha continuo e crescente bisogno. Mentre il sovranismo che ha attuale corso in Ue (di estrema destra, ma anche di estrema sinistra) usa un trucco: considera incancellabile la condizione presente, nella quale chiede che ci sia più Nazione nelle scelte. Ma soltanto i fessi possono credere che le protezioni Ue siano incancellabili. Prego chiedere agli inglesi.
Ultimo pezzo, di un ragionamento altamente politico: il vecchio Patto di stabilità fissava degli obiettivi, ma falliva negli strumenti per farli rispettare (e il nostro debito pubblico ne è una dimostrazione); tornare a quello non ha senso, quindi si deve avere non la “elasticità” di cui favoleggiano gli spendaroli, ma l’adattabilità di bilancio: maggiore rigore in crescita, possibile spesa in recessione. Se tale politica fosse nazionale l’Ue si divaricherebbe e noi resteremmo indietro, perché altri avrebbero maggiore capacità di spesa (avendo meno debito). Quindi deve essere una politica europea, il che comporta cessione di sovranità fiscale in cambio di reale sovranità economica. Anche qui si può essere contrari, ma comporta restare prigionieri del debito, perdere sovranità e andarla a recuperare derubando i propri cittadini con una drammatica svalutazione dei risparmi (assai ricchi).
Se le forze politiche facessero politica conserverebbero, naturalmente, la libertà di pensarla diversamente, ma perderebbero quella di parlare costantemente d’altro, divagando nel nulla.
La Ragione
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CINA-ITALIA. L’equilibrismo di Tajani sulla via della Seta
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di Michelangelo Cocco*
Pagine Esteri, 8 settembre 2023 – Incontrando lunedì sera il ministro degli esteri, Antonio Tajani, il suo omologo cinese, Wang Yi, ha dichiarato che il memorandum sulla nuova via della Seta ha «dato i suoi frutti all’Italia». Wang ha risposto così a Tajani, che prima d’imbarcarsi per Pechino aveva lamentato che il documento sottoscritto nel marzo 2019 dal governo Conte I «non ha portato i risultati che ci aspettavamo». Il faccia a faccia Tajani-Wang ha avuto luogo lunedì sera a Pechino, a margine della XI sessione plenaria del comitato governativo Italia-Cina (la precedente si era svolta il 29 dicembre 2020).
Wang – che in quanto segretario della commissione affari esteri del Partito comunista cinese è il massimo responsabile, assieme a Xi Jinping, della politica estera della Cina – ha ricordato a Tajani, che è anche vice presidente del Consiglio, che «negli ultimi cinque anni, le esportazioni dell’Italia verso la Cina sono aumentate di circa il 30 per cento». «Di fronte alle sfide e alle interferenze geopolitiche, Cina e Italia dovrebbero andare d’accordo sulla base del rispetto e della fiducia reciproca», ha affermato Wang, aggiungendo che la cooperazione e gli interessi comuni tra la Cina e l’Unione Europea «superano le differenze».
La visita di Tajani (3-5 settembre) è servita a Pechino per mandare un messaggio chiaro al capo del governo, Giorgia Meloni, fugando le speculazioni degli ultimi mesi: la Cina tiene all’adesione dell’Italia (unico paese del G7 a farne parte) alla nuova via della Seta lanciata nel 2013 da Xi Jinping, anche se – ha puntualizzato il quotidiano Global Times – un’eventuale uscita dal memorandum (da notificare formalmente a Pechino entro la fine dell’anno) non costituirebbe un “ostacolo fondamentale” per le relazioni Italia-Cina.
E ciò non solo per «l’amicizia millenaria ereditata dall’antica via della seta» che, ha sostenuto Wang, «rimane sempreverde». Il fatto è che dalla ripresa, a fine 2022, delle sue attività diplomatiche in presenza, Pechino sta esercitando un pressing costante per convincere l’Unione Europea a non seguire la strada – un mix di protezionismo e contenimento tecnologico – tracciata dagli Stati Uniti per frenare l’ascesa della Cina. In tale quadro geopolitico, qualora Meloni decidesse di “superare” il memorandum, una rappresaglia contro la terza economia dell’Ue (a colpi, ad esempio, di cancellazione di ordinativi e/o boicottaggio di alcuni prodotti italiani) inquieterebbe i 27, avvicinandoli ulteriormente agli Usa.
Inoltre a Pechino sanno che se l’esecutivo Meloni cancellerà il memorandum, lo farà soprattutto perché il principale partito della maggioranza (Fratelli d’Italia) e la sua leader hanno la necessità strategica di accreditarsi presso Washington, scrollandosi di dosso quel sentore di partito post-fascista (e, in parte, anti-statunitense) retaggio del Movimento sociale italiano e facendo dimenticare al tempo stesso l’improvvisato tentativo dell’esecutivo giallo-verde – del quale il memorandum sulla via della Seta rappresenta l’emblema – di riequilibrare la politica estera italiana, rendendola un po’ meno dipendente da Washington e un po’ più attenta alla Cina e ai paesi emergenti.
Meloni fa dunque affidamento sulla necessità di Pechino di mantenere buoni rapporti con Bruxelles e prepara una “alternativa” al, ovvero una “uscita soft” dal, memorandum. «Mentre stiamo valutando la partecipazione alla via della Seta – ha dichiarato Tajani -, vogliamo potenziare l’accordo di cooperazione rafforzata, quindi continueremo a lavorare dal punto di vista economico, industriale, commerciale con la Cina». Inoltre si punta sui viaggi ufficiali: nelle prossime settimane sono attese in Cina le ministre della ricerca e università, Anna Maria Bernini, e del turismo, Daniela Santanchè. Poi sarà la volta di Meloni e, l’anno prossimo, del presidente Mattarella.
Incontrando il ministro del commercio; Wang Wentao, Tajani ha ribadito l’auspicio di esportare di più in Cina. L’export italiano verso la Cina è leggermente aumentato (-0,6 per cento, +22,1 per cento e +5 per cento negli anni 2020, 2021 e 2022, passando da 12,8 a 16,4 miliardi di euro). La Repubblica popolare cinese assorbe circa il 10 per cento dell’export complessivo dell’Italia. Per le aziende italiane – in maniera particolare per quelle del settore della meccanica – si tratta di un mercato importante, a maggior ragione in una fase nella quale l’Europa si starebbe avviando a entrare in una fase di recessione. A chi scrive risulta che ai timori per eventuali contraccolpi negativi su export e investimenti manifestatigli da un gruppo di imprenditori italiani incontrati domenica scorsa a cena Tajani abbia replicato: «Ma non avete capito in quale contesto geopolitico operiamo?».
Ma sostenere il “made in Italy” in Cina è molto più facile a dirsi che a farsi, per due motivi fondamentali: l’Italia non possiede ciò di cui la Cina ha più bisogno, cioè le materie prime e l’hi-tech, che a Pechino sono disposti a pagare a caro prezzo; le piccole e medie imprese italiane non riescono a soddisfare le massicce e repentine richieste del mercato cinese. Inoltre, a complicare lo scenario, la domanda dei consumatori cinesi continua a non decollare e il costante rallentamento dell’economia farà sì che nel mercato interno in molti settori il governo di Pechino sarà costretto ancora a favorire le compagnie locali rispetto a quelle straniere.
L’impegno da parte della Cina ad aumentare le importazioni dall’Italia non era stato introdotto nel memorandum siglato dall’allora ministro degli esteri, Luigi Di Maio. Su questo fronte si sarebbe potuto chiedere certamente di più, inserendo clausole ad hoc in quello che pure è un semplice memorandum, che non ha rango di trattato internazionale. E l’Italia ha fatto pochissimo anche per attivarsi sulla cooperazione infrastrutturale, che nel documento è auspicata, anche in paesi terzi. Il memorandum si è dimostrato in parte inutile, in parte è rimasto lettera morta, anche a causa delle difficoltà di comunicazione legate alla pandemia. E ora la Cina – non avendovi imbarcato altri paesi del G7 – guarda più a quelli dei Brics e della Sco che alla “vecchia” nuova via della Seta.
Quello del memorandum è un problema che Meloni si è creato da sola, dichiarando urbi et orbi in campagna elettorale che il testo firmato dall’ex capo della Farnesina, Luigi Di Maio, è stato «un grosso errore» per compiacere gli americani, salvo poi, una volta entrata a palazzo Chigi, rendersi conto dell’importanza dei rapporti Italia-Cina, e dunque della necessità di non irritare Pechino. Ed è un problema secondario, derivante dalla mancanza di una politica strutturata e coerente nei confronti del nostro primo partner commerciale in Asia.
Meloni non ha una strategia come quelle che hanno contribuito recentemente ad aumentare gli investimenti in Cina di Germania e Francia, i principali concorrenti economici dell’Italia nell’Ue. Negli ultimi mesi, l’esecutivo Scholz ha pubblicato una strategia sulla Cina e perfino siglato un memorandum, su cambiamento climatico e cooperazione ambientale. Mentre a Parigi Emmanuel Macron ha sedotto Pechino con la sua idea di “autonomia strategica” dell’Ue ed è arrivato a dichiarare che l’Unione dovrebbe tenersi alla larga da un eventuale conflitto su Taiwan. Meloni invece è rimasta impantanata nel “vecchio” memorandum giallo-verde, che Pechino aveva potuto rivendicare come un riconoscimento politico.
Tutti fattori che non potranno che raffreddare le relazioni Roma-Pechino. Pagine Esteri
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Israele prolunga l’arresto di Khaled El Qaisi, ricercatore italo-palestinese
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PROLUNGATO AL 14 SETTEMBRE L’ARRESTO DI KHALED EL QAISI
Khaled El Qaisi sta “abbastanza bene”. Così le poche persone autorizzate ad assistere all’udienza ieri al tribunale di Rishon Lezion hanno descritto le condizioni del ricercatore italo-palestinese arrestato il 31 agosto dalla polizia di frontiera israeliana al valico di Allenby mentre era con la moglie e il figlio. I giudici hanno prolungato l’arresto di Khaled fino al 14 settembre ma i motivi del fermo restano oscuri e tenuti sotto uno stretto riserbo, come ha spiegato l’avvocato del giovane.
della redazione
Pagine Esteri, 8 settembre 2023 – Lo scorso 31 agosto il giovane ricercatore italo-palestinese Khaled El Qaisi è stato arrestato dalle autorità israeliane al valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania. Ne danno notizia la moglie del ricercatore Francesca Antinucci e la madre Lucia Marchetti.
El Qaisi, di doppia nazionalità, italiana e palestinese, la scorsa settimana, diretto ad Amman, stava attraversando il valico di Allenby con moglie e figlio dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme. Al controllo dei bagagli e dei documenti è stato ammanettato sotto lo sguardo del figlio di 4 anni, e della moglie.
Antinucci spiega che alle richieste di delucidazioni sui motivi del fermo, non è seguita risposta alcuna da parte degli agenti di frontiera israeliani. Invece le sono state sottoposte domande per poi essere allontanata col figlio verso il territorio giordano, senza telefono, senza contanti né contatti, in un paese straniero. Solo nel tardo pomeriggio la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata italiana ad Amman grazie all’aiuto di alcune persone.
Khaled El Qaisi, aggiungono la madre e la moglie, ancora non ha potuto incontrare il suo avvocato. Si è solo saputo che affronterà un’udienza davanti a giudici israeliani domani, 7 settembre, presso il tribunale di Rishon Lezion.
Traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, stimato per il suo impegno nella raccolta, divulgazione e traduzione di materiale storico, è tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.
A sostegno di Khaled El Qaisi, l’intergruppo parlamentare per la Pace tra Palestina e Israele ha inviato una lettera-appello al ministro degli esteri Antonio Tajani, per sollecitare un intervento delle autorità di governo italiane su quelle israeliane.
«In quella che ancora viene spacciata come la ‘sola democrazia mediorientale’ è detenuto dal 31 agosto scorso un cittadino italo palestinese, stimato ricercatore universitario in Italia, colpevole di sostenere i diritti del suo popolo» denuncia Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, coordinamento di Unione Popolare, che a nome della sua formazione politica chiede che «L’Italia ritiri l’ambasciatore se il governo israeliano non rilascerà il nostro connazionale. Così come ci siamo mobilitati – aggiunge – per la liberazione dello studente Patrick Zaki con la stessa determinazione bisogna farlo perché Khaled possa tornare presto al proprio lavoro e dai propri cari». Pagine Esteri
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Spese per la Difesa. Per Stoltenberg bene la crescita, ma l’obiettivo è il 2%
Crescono le spese per la Difesa in Europa, ma ancora non ci siamo. A lanciare l’allarme è stato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, intervenendo di fronte alla Commissione Affari esteri e alla Sottocommissione Sicurezza e Difesa del Parlamento europeo. “Vorremmo che gli alleati raggiungessero il 2% del Pil di spesa per la difesa” ha detto Stoltenberg, che ha sottolineato invece come il traguardo non sia ancora stato raggiunto. Secondo il segretario generale non mancano i segnali positivi. “Nel 2014 solo tre Paesi raggiungevano il 2%, ora sono undici”. Un trend incoraggiante che spinge a sperare che tra qualche anno tutti gli Stati potranno arrivare all’obiettivo. Secondo i dati ripresi da Stoltenberg, quest’anno gli alleati della Nato dovrebbero arrivare ad avere una crescita complessiva delle spese di oltre l’8% in termini reali. “È il più grosso aumento da decenni e questo vuol dire che si fa sul serio sulla difesa e si vuole investire di più anche sulla produzione di munizioni”. Bene, tuttavia “vorremmo che gli alleati raggiungessero il 2%”, ha ribadito Stoltenberg.
Le polemiche in Italia
Simili preoccupazioni arrivano anche dalla politica nazionale, dove il tema dell’aumento delle spese militari fino all’obiettivo deciso in sede Nato del 2% del Pil da dedicare alla difesa è ritornato al centro del dibattito dopo i dubbi espressi da una parte dell’arco parlamentare, che si è detto scettico dell’opportunità di aumentare le spese da destinare alle esigenze militari. Sul tema era intervenuto Lorenzo Guerini, presidente del Copasir e già ministro della Difesa, dicendosi preoccupato da quello che ha percepito come un potenziale “arretramento” del Partito Democratico sull’impegno italiano verso il 2%. Per il deputato Dem, le necessità di garantire la sicurezza allo spazio euro-atlantico, minacciato direttamente da una guerra ai confini dell’Europa, e l’esigenza di dimostrare la credibilità del Paese nel contesto internazionale, richiedono un gesto di responsabilità da parte di tutte le forze politiche. “Non capisco perché dovremmo retrocedere da questa linea di cui siamo stati protagonisti”, ha afferma l’ex ministro PD, riconoscendo il fatto che il tema delle spese per la difesa è complesso e comprende diverse prospettive, ma è “importante restare fedeli agli impegni presi e continuare a sostenere una crescita graduale delle spese militari in linea con le capacità finanziarie del Paese”.
Mantenere gli impegni presi
Una posizione su cui si è detta d’accordo anche un altro ex ministro della Difesa Dem, Roberta Pinotti, che in una intervista ad Airpress ha ricordato come “fare parte di un’Alleanza contempla la necessità, per reputazione e serietà, di impegnarsi a mantenere gli impegni che insieme sono stati assunti”. In questo senso, secondo Pinotti, il PD, da sempre convinto assertore dell’importanza delle alleanze internazionali “non dovrebbe deflettere da questa linea di serietà e affidabilità internazionale”. Del resto, il PD steso “diede un significativo contributo” per la costruzione di una “visione condivisa in Parlamento” sul 2%. “Venne immaginata una seria road map che portava a un incremento progressivo fino al 2% entro il 2028, tempistica che fu scelta valutando le effettive capacità di spesa e di crescita del nostro Paese”.
Credibilità nazionale
Come registrato del resto anche dal vicepresidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), Michele Nones, sempre ad Airpress, “l’Italia ha sottoscritto, insieme agli altri Paesi, al summit Nato in Galles del 2014 di portare le spese militari due punti percentuali di Pil entro dieci anni (quindi entro il 2024)”, un impegno palese e esplicito assunto al massimo livello governativo. “Ne consegue che l’aderenza a questa previsione chiama in causa la credibilità dei singoli sistemi-Paese” ha aggiunto i professor Nones. Le motivazioni contro l’aumento delle spese militari ci sono sempre e in ogni Paese, ha puntualizzato il vice presidente dello Iai, con una ulteriore difficoltà per l’Italia non poter ricorrere al debito pubblico, già troppo elevato. “Per aumentare le spese militari avremmo necessariamente bisogno di distogliere delle risorse da altri settori, ma questa situazione era ben nota a tutti, e non credo che nessuno abbia potuto nutrire dubbi su questa questione”. Per il professore, dunque, “dobbiamo puntare ad arrivare al 2% entro il 2028, e non si può ricominciare a rimettere in discussione questa scadenza”, l’unica “che consenta di dare stabilità all’Italia senza perdere completamente la credibilità rispetto ai nostri partner e alleati”.
Scampagnata
In democrazia è giusto che politici e forze politiche puntino al consenso, a raccogliere i voti. I voti raccolti, poi, servono a produrre risultati politici. Nel caso se ne siano raccolti la maggioranza, traducendo in atti di governo le proprie idee; nel caso se ne sia raccolta la minoranza, contrastando il governo e contrapponendo le proprie proposte ai suoi atti. Poi si organizzerà una nuova campagna elettorale, per verificare chi ha fatto meglio il lavoro e avrà più consensi. La politica s’imbastardisce quando le cose funzionano al contrario e la campagna elettorale non è lo strumento per poi costruire politica, ma lo scopo stesso dell’esistenza del politico e dei partiti. Siamo ai primi di settembre, ma ogni cosa viene calibrata per le elezioni europee del prossimo giugno. Mancano nove mesi. Una gravidanza, che si annuncia isterica. Quando si sarà votato nessuno si ricorderà più chi è stato eletto e che diamine fa al Parlamento europeo, ma si sarà giocata la grande partita degli equilibri politici. Dove? Ma è ovvio: dentro la coalizione di destra e dentro la coalizione di sinistra. L’interesse sta nella faida familiare. I soli che si distinguono sono quelli del Terzo polo, che hanno astutamente deciso di perdere le elezioni prima ancora di arrivarci, sterminandosi.
La cosa grottesca è che i temi decisivi della politica interna sono in gran parte europei, mentre i temi portanti nella campagna europea sono interni. Veniamo alle cose, che altrimenti ci perdiamo nel politichese. A giorni dovrà essere presentata la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza; poi, a ruota, la legge di bilancio. L’impostazione dei due documenti dipende non soltanto dal presente contesto dei conti nostri ed europei, ma da come saranno strutturate le compatibilità di bilancio dal primo gennaio prossimo. Tema di sicura consistenza. Ma neanche ne parliamo, nel merito, perché tanto la partita sarà: da una parte chi governa e vorrebbe continuare a farlo (diciamo Meloni e Giorgetti), che pertanto non intende creare turbolenze e sa che gli sfondamenti sfondano i governi; dall’altra chi è al governo ma non vuole continuare a starci contando meno della metà dei più forti (diciamo Salvini) e quindi userà i vincoli di bilancio, ribattezzati vincoli europei, per proporre di sfondarli tutti. Dall’opposizione sarebbe ragionevole attendersi la messa in luce di questa contraddizione e il tentativo di porre in difficoltà il governo, denunciando ogni spesa azzardata e ogni tassa insensata. Invece la gara consiste nel vedere se a far concorrenza a Salvini e non a Meloni riuscirà meglio la fu sinistra o il fu movimento.
Altro esempio: nel mentre procede ad acquisti di azioni in società private (rete Tim) il governo, per bocca di Giorgetti (leghista), dice che lo Stato mica compra soltanto, potrebbe anche vendere. Fra le cose sicuramente in vendita c’è Monte dei Paschi di Siena dove lo Stato entrò per un salvataggio, che si sarebbe già dovuto vendere, che va venduto entro il 2024 e che conviene farlo perché è stato rimesso in ordine. Ma non aveva finito di dirlo che Salvini (stesso partito) s’opponeva. Ha in mente un altro disegno per Mps? No, sa che c’è il vincolo del 2024 e violarlo serve a mettere in difficoltà il vero avversario: Meloni.
Una campagna elettorale lunghissima e con le parole che manco s’avvicinano alle necessità del governare. Tutto questo funziona perché chi oggi è al governo ci è arrivato raccontando il contrario di quello che fa e chi oggi è all’opposizione sostiene il contrario di quello che fece. Ma questa non è una scampagnata democratica: è un festival dell’irresponsabilità che ha costruito un sistema nel quale si definisce “maggioranza” l’alleanza di minoranze in perpetuo conflitto fra loro, ma prevalenti. Non a caso, quando pensano alle riforme costituzionali, puntano a ingabbiare le maggioranze, scambiando la rigidità con la stabilità. Ma il trasformismo non è soltanto cambiare schieramento, è anche dire una cosa e farne un’altra.
La Ragione
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Niger: Parigi costretta a ridurre la presenza militare
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di redazione
Pagine Esteri, 7 settembre 2023 – Nel paese africano, dove il 26 luglio ha preso il potere una giunta militare rovesciando il presidente Mohamed Bazoum, continua a crescere l’ostilità nei confronti della consistente presenza militare francese. Sabato scorso migliaia di persone hanno manifestato di fronte alla base militare di Parigi a Niamey, dove risiedono una parte dei 1500 soldati di Parigi, chiedendone la chiusura.
Durante le proteste, i manifestanti hanno chiesto anche lo smantellamento della base Usa di Agadez – la seconda più grande degli Stati Uniti in Africa dopo quella di Gibuti – e scandito slogan contro la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), che ha decretato sanzioni economiche contro il Niger e ha minacciato un’azione militare per ripristinare l’ordine costituzionale.
Anche la giunta militare chiede il ritiro dei francesi, e contemporaneamente preme su Parigi affinché rimpatri il suo ambasciatore Sylvain Itté e ha tagliato luce ed acqua alla rappresentanza diplomatica transalpina.
Secondo alcune fonti le proteste popolari, le pressioni della giunta militare e il crescente isolamento nell’area starebbero convincendo Emmanuel Macron quantomeno a ridurre la presenza francese in Niger. Secondo “France 24”, ad esempio, Parigi starebbe pensando di ridurre il contingente aereo e il numero di droni operativi nel paese africano, e anche il contingente militare verrebbe snellito.
Nel corso di una conferenza stampa tenuta il 4 settembre il primo ministro nigerino ad interim, Ali Mahaman Lamine Zeine ha spiegato che il suo «governo ha già denunciato gli accordi che permettono (alle truppe francesi) di essere sul nostro territorio. Si trovano in una situazione di illegalità e penso che i contatti in corso dovrebbero consentire a queste forze di ritirarsi molto rapidamente dal nostro Paese».
In precedenza era stata la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna a citare la possibilità di un parziale ritiro francese dal Niger, spiegando a “Le Monde” che le truppe francesi non possono continuare a contrastare il terrorismo jihadista e ad addestramento i militari locali. «Questa missione non può più essere garantita poiché non abbiamo più operazioni condotte congiuntamente con le forze armate nigerine» ha dichiarato Colonna.
Il contingente francese è dispiegato in tre basi situate nella capitale Niamey, a Ouallam (a nord di Niamey) e ad Ayorou (alla frontiera con il Mali). La maggior parte dei 1500 militari francesi si trova nella base esistente nella capitale, dove sono presenti anche circa 250 militari italiani impiegati nella Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (Misin). Nell’installazione sono schierati numerosi aerei da combattimento Mirage ed elicotteri d’attacco (Tiger) o elicotteri da manovra (Caiman), oltre a decine di veicoli corazzati e di droni da bombardamento MQ-9 Reaper.
Nell’estate del 2022 i militari francesi hanno già dovuto abbandonare il limitrofo Mali dopo un altro colpo di stato, ponendo così fine all’operazione Barkhane di contrasto ai gruppi jihadisti.
Nel gennaio di quest’anno anche la Saber Force – le forze speciali francesi in servizio a Ouagadougou da 15 anni – si sono ritirate dal Burkina Faso, anch’esso guidato da una giunta militare golpista che ha voltato le spalle a Parigi. Il personale militare francese nel Sahel si è quindi ridotto drasticamente nel giro di un anno, passando da circa 4.500 a 2.500, di cui 1.500 in Niger e 1.000 in Ciad. – Pagine Esteri
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Il pressing di Draghi per gli Stati Uniti d’Europa
Mario Draghi scende di nuovo in campo dopo il discorso dell’11 luglio a Cambridge, Massachusetts, e rilancia la sua ambiziosa agenda per l’Europa, con un articolo sull’Economist. L’ex presidente della Bce e del governo italiano, si chiede innanzitutto se “un’unione monetaria può sopravvivere senza un’unione fiscale”. Domanda retorica e risposta negativa. “Tuttavia oggi, paradossalmente, le prospettive di un’unione fiscale nella zona euro stanno migliorando”, scrive.
Sembra in contraddizione con quello che vediamo giorno dopo giorno sulla scena dell’Unione europea, un dibattito politico che si sta incartando attorno alla riforma del Patto di stabilità. Ma per Draghi la grande occasione è offerta dalle nuove sfide che l’Europa è chiamata a gestire: “Non deve più affrontare soprattutto crisi provocate da malsane politiche dei singoli paesi. Invece deve confrontarsi con shock comuni importati come la pandemia, la crisi energetica, la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché i paesi li gestiscano da soli. Di conseguenza c’è meno opposizione affinché vengano affrontati attraverso un’azione fiscale comune”.
Il Patto di stabilità non è più adeguato, anche perché ha un vizio di fondo ormai pienamente riconosciuto: è prociclico, “troppo lento nelle fasi di espansione troppo stretto in quelle di contrazione”. A questo punto,“il peggiore esito possibile sarebbe tornare indietro passivamente ”. L’Europa ha due scelte: “Una è allentare le regole fiscali e quelle sugli aiuti di stato, consentendo agli stati di sobbarcarsi l’onere dell’investimento necessario. Ma siccome lo spazio fiscale non è distribuito uniformemente, sarebbe fondamentalmente dispendioso”. La seconda è “ridefinire l’intelaiatura fiscale e il processo decisionale della Ue”. Le regole debbono essere a un tempo “rigorose per assicurare che le finanze dei governi siano credibili nel medio termine, e flessibili per consentire ai governi di reagire agli shock imprevisti”. La proposta della Commissione va molto avanti, “ma anche se realizzata completamente non risolverebbe pienamente il bilanciamento tra regole rigorose, che debbono essere automatiche per essere credibili, e flessibilità. Questa contraddizione può essere risolta soltanto trasferendo più poteri di spesa al centro, il che a sua volta consente più regole automatiche per gli stati membri”. Draghi porta ad esempio gli Stati Uniti, come aveva fatto già nel suo discorso di luglio.
La critica alla proposta Gentiloni è destinata a far discutere. Il giudizio è netto: non basta. E Draghi rilancia: la strada è opposta a quella che vogliono imboccare i sovranisti perché lasciare più spazio ai singoli governi vuol dire rendere più forte chi già lo è, consentire di spendere e investire solo a quel nucleo (oggi in realtà piccolo) in grado di farlo perché ha risorse a sufficienza e i conti in ordine. Invece “federalizzare” alcune spese per investimenti consente di raggiungere come negli Usa l’equilibro tra regole rigide per i singoli stati ai quali è proibito andare in disavanzo, e scelte fiscali a livello centrale. In sostanza, se la proposta della Commissione non è adeguata, la risposta non è liberi tutti, bensì mettere in comune più sovranità, ciò non implica soltanto un bilancio comunitario, occorre rivedere la governance dell’Unione. Si tratta di superare il principio dell’unanimità, riformando i trattati.
In sostanza, Draghi ripropone un federalismo da Stati Uniti d’Europa ed è convinto che i tempi siano storicamente maturi. Lo sono anche politicamente? “Oggi, mentre ci stiamo avviando verso le elezioni europee del 2024, questa prospettiva sembra irrealistica dal momento che molti cittadini e governi si oppongono alla perdita di sovranità che la riforma del trattato comporterebbe. Ma anche le alternative sono anch’esse irrealistiche”, così conclude l’articolo pubblicato dall’Economist. Gli europei, aveva detto a Cambridge, hanno solo tre opzioni: “Paralisi, uscita o integrazione”. Parole forti della nuova agenda Draghi.
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Navigating Privacy-Enhancing Technologies: Key Takeaways from the Inaugural Meeting of the Global PETs Network
In recent years, privacy-enhancing technologies (PETs) have been an increasingly popular subject on regulators’ and policymakers’ agendas. Whether by issuing guidance about these types of tools (Canada’s Office of the Privacy Commissioner; United Kingdom’s Information Commissioner’s Office; Organisation for Economic Co-operation and Development), setting up regulatory sandboxes (Singapore’s Personal Data Protection Commission; Colombia’s Superintendence of Industry and Commerce); or creating prize challenges (United States and United Kingdom),1 regulators are investing resources and energy to better understand, support the deployment, and potentially regulate PETs.
On June 26, 2023, the Israel Privacy Protection Authority (IPPA) and the Future of Privacy Forum (FPF) brought industry experts, government officials, and academia together in Tel Aviv to discuss experiences and challenges faced towards the adoption of PETs. The in-person event served as the inaugural meeting of an informal Global PETs Network for regulators, providing a platform to discuss the latest developments and projects related to privacy-enhancing technologies among regulators and relevant stakeholders worldwide.
The inaugural meeting, hereinafter referred to as the “PETs Conference,” included the presentation of two case studies, a closed roundtable for regulators, and an open discussion with academia and industry experts, with the discussions being held under Chatham House Rule. This blog analyzes the main challenges raised by participants for adequate implementation of privacy-enhancing technologies, as well as the main takeaways of the discussions.
PETs: an evolving concept gaining increasing attention
As technological developments increase the collection and exchange of personal data across jurisdictions and organizations, privacy-enhancing technologies can help by providing greater security, confidentiality, and protection of personal data. There are several types of PETs, which may be classified based on their functionality. For instance, some tools obfuscate and hide information (i.e., anonymization, synthetic data, differential privacy), other technologies allow for computations on encrypted data (i.e., homomorphic encryption, secure multi-party computation), while others facilitate the training of models without transferring and sharing data to a local server (i.e., federated learning).
Although PETs have received heightened attention from authorities in recent years through different policies and initiatives, the concept is not new. As a term of reference, PETs were first introduced by the predecessor of the Dutch Data Protection Authority and the Information and Privacy Commissioner in Ontario back in 1995, through a joint report that sought to demonstrate that identity-protective elements might be included in the design of information technology systems.2
Ever since, interest in PETs has increased not only through extensive research but also in practice. For instance, federated learning and multi-party computation have proven to be useful when feeding machine learning models with on-device user data to improve digital services and products, without transferring the data to a central server. Public and private sector players use differential privacy to protect identities and privacy of people when publishing large sets of data
While governments and organizations seem to acknowledge the potential benefits of PETs, significant challenges to their effective deployment remain. Some of these challenges include the lack of maturity and high costs associated with some of these technologies, as well as an apparent lack of communication between experts and regulators, resulting in limited regulatory guidance and understanding about the benefits, limitations, and use cases of PETs.
1. Collaboration and a greater understanding of PETs are essential
For some jurisdictions, privacy-enhancing technologies are still seen as a new and complex subject by regulators and companies alike. In that sense, educational resources and guidance can help translate the benefits and limitations of these tools. Although PETs may be encapsulated in one general concept, they differ in technical capabilities and usability. During the PETs Conference, participants praised efforts by regulators and international organizations to conceptualize the functionality and use cases of these technologies and tools. These studies include the United Kingdom’s Information Commissioner’s Office (ICO) recently published “PETs Guidance”, as well as the OECD’s 2023 Report on “Emerging Privacy-Enhancing Technologies.”
These efforts are a starting point for greater understanding and certainty about the role of PETs in protecting personal information and privacy, which can lead to more detailed guidance and initiatives. During the meeting, authorities advocated for increased communication and collaboration to advance the understanding of PETs. This not only refers to collaboration for new projects and initiatives but also to leveraging useful and already available information to provide greater guidance and certainty to the industry. For instance, authorities could translate and disseminate available guidance by foreign authorities to their own official languages, where useful, or build their own guidance from previous documents. This kind of exercise can be helpful in providing guidance to the industry faster and in building capacity and technical knowledge within agencies.
2. Regulatory certainty is necessary to boost the adoption of PETs
Secondly, regulatory guidance can provide greater certainty for the deployment and adoption of PETs. During the open discussion with industry stakeholders, some participants indicated that more certainty on regulators’ perceptions of these tools can spur the innovation and deployment of privacy-enhancing technologies. In the long term, guidance can also manifest through metrics to evaluate the success and risks associated with some of the tools.
While some organizations might recognize the value of these tools to offer more privacy-preserving products, barriers to their implementation – such as high investments in time and resources, technical expertise, lack of maturity, and information asymmetries between developers and potential buyers – are a major factor in deciding whether to invest in these tools. However, if these technologies provide an opportunity for more privacy-preserving products and services, regulators should make efforts to ensure that most organizations consider the implementation or integration of PETs, when possible. Authorities have an important role in building trust in the digital ecosystem by providing greater certainty regarding how privacy-enhancing technologies can ensure the protection of personal information.
Importantly, data protection authorities have a special task in identifying how PETs overlap with data protection principles and how these technologies could potentially complement data protection compliance systems. Providing greater certainty in this regard could be definitive to some organizations’ decisions regarding investment and adoption of privacy-enhancing technologies.
Later on in the open discussion, industry representatives highlighted the importance of noticing the dynamics and different incentives created by PETs. In providing guidance and regulatory certainty, authorities should consider that privacy-enhancing technologies can benefit different parties across the chain of data utilization, particularly in cases where a certain technique enables data-sharing across multiple organizations. In this sense, regulators could consider economic and behavioral incentives to foster collaboration between organizations and public institutions.
3. The adoption of PETs requires constant evaluation and review of potential detrimental market outcomes
Regulators and industry participants agreed on the merit of setting standards and certification programs as a viable way to generate more trust in the use and deployment of PETs across organizations. However, they also agreed that regulation and guidance are necessary to ensure the adequate implementation of standards. Importantly, regulators still have an important role in assessing whether standardized tools will be sufficient to comply with data protection regulations, and if additional measures are required to integrate data protection and privacy throughout organizations.
Finally, due to the high costs associated with some PETs, regulators should be cautious of potential barriers to competition that might arise from the deployment of these technologies. If PETs start to be actively promoted within digital services and products, centering privacy as a key market value, regulators must consider that certain companies might be able to get a competitive advantage through the early development and deployment of PETs. To avoid additional market deficiencies caused by privacy-enhancing technologies, regulators have an important task at hand in attempting to strike a balance between privacy and competition concerns.
Conclusion
Regulators, academia, and industry experts seem to agree that further study and understanding of the potential benefits and limitations of privacy-enhancing technologies is necessary. Importantly, if PETs are part of the solution towards privacy-enhanced products and services in the digital ecosystem, regulators must strengthen their efforts to achieve their adequate deployment. Particularly, data protection authorities must indicate the extent to which privacy-enhancing technologies align with data protection and privacy frameworks and should evaluate whether their implementation is enough, or if additional measures are necessary. This assessment requires greater communication and collaboration between regulators, academia, and industry.
Importantly, more regulatory certainty on whether and how organizations should deploy PETs is essential. PETs already face intrinsic barriers to their adoption because they require technical expertise within organizations and are costly to adopt. Regulatory certainty plays an important role in tackling these challenges by providing greater transparency and knowledge about PETs, as well as the technology’s relation to data protection compliance. Regulators and data protection authorities, in particular, should focus on providing more information about the potential of PETs and provide metrics to assess their effectiveness or risks, if possible.
Finally, while PETs can help build more privacy and trust in the digital ecosystem, it is important to note that they are not a fail-safe solution. Authorities and organizations should keep core data protection principles in mind and supplement these technical tools with other organizational and administrative measures.
1The US-UK PETs Prize Challenge was led by the U.K.’s Centre for Data Ethics and Innovation (CDEI) and Innovate UK, the U.S. National Institute of Standards and Technology (NIST), and the U.S. National Science Foundation (NSF), in cooperation with the White House Office of Science and Technology Policy.
2See: Hes, R. & Borking, John. (1995). Privacy-Enhancing Technologies: The Path to Anonymity. researchgate.net/publication/2…
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TANZANIA. Bloccata la delegazione europea: non si indaga sui Masai
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(Nella foto: Anziano ferito durante l’attacco sferrato dall’esercito ai Masai che protestavano contro i tentativi di sfratto. © Survival)
Pagine Esteri, 7 settembre 2023. La Tanzania ha impedito a una delegazione di europarlamentari di visitare il paese, nonostante precedentemente avesse accettato di lasciarli andare ad indagare sugli abusi dei diritti umani commessi contro i Masai nel nome della conservazione.
Il gruppo dei Verdi/Alleanza Libera Europea (Greens/EFA) ha definito quella del governo della Tanzania “una decisione incomprensibile”.
I Masai della Tanzania vivono da generazioni nell’ecosistema del Serengeti e hanno plasmato e protetto il territorio, salvaguardando la fauna selvatica e la biodiversità di aree come Loliondo, l’area di conservazione di Ngorongoro e quello che oggi è il Serengeti National Park.
Tuttavia, in violazione dei loro diritti umani e costituzionali, i Masai sono stati sistematicamente emarginati e sfrattati violentemente dalle loro terre ancestrali per far spazio a progetti di conservazione, al turismo e alla caccia da trofeo.
Queste violazioni sono avvenute anche grazie al sostegno di ONG per la conservazione come la Frankfurt Zoological Society (FZS) e finanziamenti europei.
Negli ultimi anni gli abusi dei diritti umani commessi contro i Masai sono aumentati, inclusi sfratti forzati dalle terre ancestrali mediante violenze e intimidazioni, sparatorie, arresti e detenzioni arbitrari, e torture.
L’ambasciatore tedesco festeggia una partnership sulla conservazione stretta con la Tanzania nell’aprile 2023, a qualche mese di distanza dallo sfratto forzato dei Masai da Loliondo operato dalle autorità del paese nel nome della conservazione. © twitter.com/GermanyTanzania/
Per costringere i Masai ad abbandonare la loro terra ancestrale, il governo della Tanzania ha anche bloccato loro l’accesso a servizi sociali fondamentali, ad esempio ai servizi sanitari a Ngorongoro.
“Ancora una volta, il governo della Tanzania ha sospeso la visita dei parlamentari europei” ha dichiarato oggi Joseph Oleshangay, avvocato masai per i diritti umani. “Nel maggio 2023, l’ambasciatore della Tanzania aveva promesso apertamente che non avrebbero fermato la visita degli europarlamentari come era accaduto con il Relatore Speciale ONU nel dicembre 2022. Ma tre mesi dopo lo hanno rifatto. Queste mancate promesse sono solo la punta dell’iceberg di quello che noi Masai stiamo subendo da parte di un regime repressivo che vuole espropriarci della terra per far spazio alla caccia sportiva di lusso e agli investimenti alberghieri. Ma ne sono una ennesima prova – hanno molto da nascondere! La situazione sul campo è indescrivibile. Acconsentono alle viste solo se possono usarle per coprire la situazione. Ringraziamo gli eurodeputati per aver agito secondo dei principi.”
“È l’elefante nella stanza: il furto di terra e gli abusi contro i Masai sono lampanti, così come la riluttanza del governo della Tanzania a rispettare finalmente i diritti dei Masai” ha commentato oggi Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per la decolonizzazione della conservazione. “I governi occidentali e le organizzazioni per la conservazione come la Frankfurt Zoological Society, tuttavia, continuano con il loro comportamento razzista e coloniale, facendo finta che vada tutto bene. Ancora una volta, si fanno strada con i soldi e la “competenza”, mentre i diritti dei popoli indigeni vengono calpestati nel nome della ‘conservazione della natura’.”
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Sul carro armato, Berlino sceglie l’Europa (e l’Italia). Prossimo passo il caccia?
Dopo la proposta francese di far entrare l’Italia nel progetto, condiviso con Berlino, per il carro armato del futuro Main ground combat system (Mgcs), arriva la risposta tedesca che secondo il quotidiano Handelsblatt avrebbe concluso una intesa per un programma per un main battle tank da sviluppare in sede europea insieme a Italia, Spagna e Svezia. L’indiscrezione arriva in un momento molto teso delle relazioni tra i partner franco-tedeschi e, qualora confermata, potrebbe rappresentare una rottura della partnership tra Rheinmetall e da Knds, joint venture nata nel 2015 dalla tedesca Krauss-Maffei Wegmann (Kmw) e la francese Nexter. Sembrerebbe, infatti, che le aziende tedesche vogliano tenere fuori per ora il gruppo Nexter, e in ogni caso l’avvio di un programma parallelo, e potenzialmente concorrenziale, al Mgcs sicuramente non verrebbe accolto con particolare entusiasmo dall’Eliseo.
Il Main ground combat
Il progetto per il Main ground combat è stato lanciato da Parigi e Berlino nel 2012, ma da allora il programma ha faticato a prendere slancio, funestato da una serie di ritardi e malumori sia tra i partner industriali, sia tra i governi di Francia e Germania. Indicativo il fatto che Parigi nel suo bilancio per la Difesa del 2023 non abbia inserito il programma Mgcs (né quello per il caccia di nuova generazione Fcas, realizzato sempre insieme a Berlino). L’urgenza dei Paesi europei di dotarsi di carri armati aggiornati alle sfide contemporanee, inoltre, mette a repentaglio il futuro del programma. Invece di attendere i decenni necessari a progettare e mettere in produzione i Mgcs, le capitali del Vecchio continente potrebbero scegliere di comprare immediatamente mezzi già disponibili. È il caso della Polonia, che l’anno scorso ha deciso di acquistare 250 carri americani Abrams M1A2.
Una risposta all’ultimatum francese?
L’annuncio francese di qualche giorno fa sembrava essere un ultimatum per Berlino, allargare il progetto all’Italia (attraverso Leonardo) oppure concludere la collaborazione. “Prendere o lasciare” lo ha definito La Tribune. Sarebbe stato un tentativo dei francesi di riequilibrare il rapporto con i partner tedeschi, in particolare con Rheinmetall, facendo leva su citati ottimi rapporti tra Parigi e Roma – con quest’ultima descritta da quotidiano francese come “il nuovo partner preferito” della Francia – basati sui progetti comuni come il missile Aster di Mbda, la partecipazione italiana ai missili franco-britannici Fman/Fmc e soprattutto l’aggiornamento di mezza vita di quattro Fremm, due francesi e due italiane (il Doria e il Duilio).
Collaborazione italo-tedesca
In questo contesto arriva adesso la proposta tedesca. con Kmw e Rheinmetall parteciperebbero Leonardo e il gruppo per la difesa svedese Saab attraverso l’ottenimento dei fondi del Fondo europeo per la Difesa (Edf), di cui circa cinque miliardi di euro sono stati messi a disposizione proprio per progetti di armamenti congiunti tra Paese Ue. Per quanto riguarda il nostro Paese, inoltre, l’Italia può però vantare ottimi rapporti con la Germania proprio nel settore terrestre, come dimostra la decisione del governo di acquistare i carri armati Leopard 2A8 a partire dal 2024, da affiancare ai 125 carri Ariete modernizzati in versione C2. L’obiettivo è arrivare ad avere circa 256 sistemi Mbt in grado di equipaggiare quattro reggimenti carri. La scelta di procedere lungo il doppio binario Ariete/Leopard risponde alla necessità di accelerare i tempi, con i primi due reggimenti dotati di C2 modernizzati già entro il 2028, anno in cui dovrebbero essere introdotti i primi Leopard, evitando gap operativi.
L’importanza del carro armato
Tra tutti i diversi sistemi d’arma, quello che più di altri rappresenta plasticamente lo stato di frammentazione del settore difesa europeo è il carro armato da battaglia (conosciuto anche con l’acronimo Mbt – Main battle tank). Attualmente, infatti, i circa seimila carri armati in servizio con le Forze armate dei Paesi europei appartengono a diciassette modelli diversi, senza contare le diverse varianti, spesso realizzate ad hoc per un singolo Paese. Addirittura, questo stato di proliferazione dei sistemi da combattimento terrestre avviene anche all’interno di numerosi Stati, con in servizio contemporaneamente modelli diversi di carro armato più o meno moderni (una condizione che caratterizza in particolare i Paesi dell’est Europa, dove sono impiegati anche apparecchi risalenti all’era sovietica). Per fare un rapido raffronto, i circa 2.500 carri degli Stati Uniti sono tutti un unico modello, l’M1 Abrams, sulla base del quale sono poi state realizzate le diverse varianti per rispondere alle necessità operative delle Forze Usa.
Prossimo passo, il caccia?
Un dettaglio fondamentale di questa possibile partnership tra Berlino, Roma, Stoccolma e Madrid è anche il fatto che potrebbe essere solo il primo passo per un avvicinamento della Germania anche al programma del caccia di nuova generazione Global combat air system (Gcap). L’Italia è un partner a pieno titolo del progetto insieme a Londra e Tokyo, e gli svedesi, parte integrante del programma precedente programma Tempest, in un recente incontro a Roma con SegreDifesa hanno espresso il loro interessamento per il Gcap, oltre ad aver siglato nelle settimane precedenti un accordo sul trasferimento di tecnologia e difesa con il Giappone che potrebbe spianare la strada per l’ingresso della Svezia nel Gcap. I ritardi accumulati dal programma franco-tedesco Fcas potrebbero portare Berlino ad aprirsi a collaborazioni più estese, anche alla luce dello slancio che invece sta caratterizzando l’evoluzione del Gcap.
UCRAINA. Cresce il potere distruttivo dei “pacchetti” di aiuti militari
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di Antonio Mazzeo –
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In Cina e Asia – Summit Asean, Tokyo si scontra con Pechino su Fukushima
I titoli di oggi:
- Summit Asean, Tokyo si scontra con Pechino su Fukushima
- Seul torna alla linea dura con Pyongyang
- Cina, esportazioni in calo per il quarto mese consecutivo
- Apple minaccia la sicurezza nazionale: via gli iPhone ai dipendenti pubblici
- Cina, la Grande muraglia danneggiata per far passare una strada
- Il caffè corretto al Moutai incontra il gusto dei più giovani
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MESSICO. Depenalizzato l’aborto, decisione storica
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Pagine Esteri, 7 settembre 2023. Nella giornata del 6 settembre, la Corte Suprema di Giustizia in Messico ha deliberato la depenalizzazione dell’aborto in tutto il paese. Non è la prima volta che la Corte di Giustizia messicana si pronuncia in questo senso, era accaduto già 2 anni fa e in quell’occasione aveva deliberato in modo unanime l’incostituzionalità della pratica dell’aborto in uno stato del Nord del paese dopo alcune denunce avanzate da collettivi femministi.
Nel 2021 il presidente progressista López Obrador aveva rispettato la decisione della Corte Suprema per il rispetto della legalità. Inoltre, aveva espresso il suo parere favorevole alla decisione unanime della stessa Corte. In altre occasioni, lo stesso presidente aveva dichiarato che il paese era maturo per affrontare la legalizzazione dell’aborto attraverso una consulta popolare.
La stessa non si è poi concretizzata e così a dare luce verde alla delicata questione ci ha pensato la Corte Suprema di Giustizia che attraverso il suo account di Twitter ha scritto che è incostituzionale che il sistema giuridico penalizzi l’aborto nel Codice Penale Federale in quanto viola i diritti umani delle donne e delle persone gestanti.
In Messico l’aborto volontario è stato depenalizzato in 11 dei 32 stati che integrano il paese. La maggioranza lo permette fino al mese 12 di gestazione.
Considerando che l’80% della popolazione messica si dichiara cattolica, la decisione dei magistrati nella giornata di ieri è stata davvero importante ed ha anche una grande rilevanza storica.
Oggi in America Latina predomina la criminalizzazione dell’aborto nella maggioranza dei paesi della regione. Nel 2020 l’Argentina è stata il terzo paese a legalizzare la pratica insieme a Cuba ed Uruguay.
Poi c’è un gruppo di paesi che concede la possibilità alla persona gestante di praticare l’aborto solo in alcuni casi specifici e soprattutto quando viene messa in pericolo la vita della persona gestante o nel caso ci sia violenza sessuale contro la donna, come Brasile, Venezuela, Ecuador e Paraguay e infine c’è il gruppo che vieta assolutamente l’aborto come Honduras, El Salvador e Nicaragua.
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CALL: EMERGENCY OF BEAUTY
mail art Project: Emergency of Beauty, a tribute to True Love This is an emergency call! We need more beauty here and now.
Perché le spese militari sono nell’interesse dell’Italia. Parla Nones (Iai)
Recentemente è tornato al centro del dibattito pubblico il tema dell’aumento delle spese militari fino all’obiettivo deciso in sede Nato del 2% del Pil da dedicare alla difesa. In particolare, le posizioni assunte da una parte dell’arco parlamentare si è detto scettico dell’opportunità di aumentare le spese da destinare alle esigenze militari. Airpress ne ha parlato con Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali (Iai).
Quale ritiene sia il cuore della questione?
Credo che discorso sul 2% del Pil da dedicare alla Difesa vada affrontato su due piani diversi: il primo è quello dell’impegno che l’Italia ha sottoscritto, insieme agli altri Paesi, al summit Nato in Galles del 2014 di portare le spese militari due punti percentuali di Pil entro dieci anni (quindi entro il 2024). L’impegno era esplicito e palese, venendo riconfermato in sede europea nel 2018. Inoltre, si è trattato di una decisione presa al massimo livello politico, assunta direttamente di capi di Stato e di governo. Ne consegue che l’aderenza a questa previsione chiama in causa la credibilità dei singoli sistemi-Paese.
Ritiene ci sia un problema di credibilità del nostro Paese?
Bisogna tenere conto, e vale la pena di ricordarlo, che nel corso di questi otto anni, questo impegno è stato continuamente ribadito nelle riunioni a livello dei capi di Stato e di governo, con l’Italia che vedeva succedersi governi con diverse maggioranze politiche. Quindi, colpisce il fatto che, mentre vengono presi impegni formali in sede internazionali, si possa pensa che una volta rientrati in Italia si possa sedersi dall’altro lato pretendendo di poterli non rispettare.
Perché in Italia il raggiungimento dell’obiettivo al 2% è un tema ancora dibattuto a suo parere?
Le motivazioni contro l’aumento delle spese militari ci sono sempre. Queste non riguardano solo l’Italia e non sono legate a una situazione particolare quale quella del nostro Paese: la presenza di altre esigenze, di impegni di carattere civile, sociale, sanitario o scolastico è condivisa da tutti i Paesi, così come tutti hanno vissuto insieme i momenti di crisi economica. Certo, una sola differenza forse l’Italia ce l’ha, cioè il fatto che il nostro Paese ha un debito pubblico molto più alto di altri Stati. D questo punto di vista, quindi, gli altri hanno potuto aumentare le proprie spese in un quadro finanziario più sostenibile, ricorrendo parzialmente a un deficit di bilancio. Questo per l’Italia non è evidentemente possibile, dal momento che siamo già sopra le soglie tollerabili. Per aumentare le spese militari avremmo necessariamente bisogno di distogliere delle risorse da altri settori, ma questa situazione era ben nota a tutti, e non credo che nessuno abbia potuto nutrire dubbi su questa questione.
Si tratta, dunque, di una volontà politica…
I nostri politici quando stanno al governo manifestano le preoccupazioni per la difficoltà di rispettare l’impegno, salvo poi sostenere l’importanza di rispettare l’obiettivo prefissato quando vanno all’opposizione. Una eccezione a questo è rappresentata, oggi, dal Movimento 5 Stelle e da una parte del Pd, nonostante quest’ultimo avesse accettato e sottoscritto l’impegno al 2% quando era al governo. Adesso, nel tentativo di recuperare spazi elettorali, si pone in maniera critica. E questo, mi si lasci dire, manifesta una diffusa immaturità e irresponsabilità di una parte del nostro mondo politico. L’unico modo, e questo vale per tutti i Paesi, che si ha per evitare di ritrovarsi in difficoltà nel rispettare gli impegni assunti in campo internazionale è quello di assumere su queste tematiche un atteggiamento bipartisan. Non farne, dunque, terreno di scontro elettorale (anche se la tentazione può essere forte).
Perché proprio il 2%?
Questo è un problema di carattere tecnico, sul quale credo che vada fatta chiarezza sia nella nostra opinione pubblica, sia nel mondo politico. Le cifre, infatti, sono sempre opinabili. Si è deciso per il 2% perché nel 2014 si è voluto dare un segnale chiaro alla Federazione russa che aveva appena annesso la Crimea, in un momento nel quale la media delle spese per la difesa della maggior parte dei Paesi Nato era intorno al punto e mezzo percentuale (più o meno quella che è adesso la spesa italiana). Il punto era manifestare delle posizioni che sostanzialmente orientavano l’Alleanza verso una cifra superiore a quella che all’epoca veniva investita dalla media della Nato. È abbastanza interessante ricordare che, alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti imposero al Giappone, all’interno della loro costituzione, un tetto alle proprie spese per la difesa fissato all’1%, nella convinzione, e tutti erano concordi, che un Paese che avesse investito solo quella quota non sarebbe mai diventato una potenza militare. Questo lo ricordo per sottolineare il fatto che stiamo parlando del 2%, in fondo appena il doppio di quel limite massimo imposto da Washington a Tokyo quale vincolo per evitare ogni velleità di riarmo. Quindi, non si può sostenere oggi che arrivare al 2% del Pil sia il sintomo di una volontà riarmistica, dal momento che tale traguardo non raggiunge nemmeno il livello sostenuto da alcuni Paesi che sono sì più capaci in campo militare, ma di sicuro non sono in preda a un delirio di riarmo.
Perché il nostro Paese fatica a raggiungere la soglia decisa?
Per quanto riguarda l’Italia, c’è un problema che non va sottovalutato, ed è quello che riguarda la decisione assunta l’anno scorso dal Parlamento di rinviare di dieci anni la prevista riduzione della dimensione delle nostre Forze armate, misura decisa con la riforma di Di Paola nel 2018 e che puntava a contenere la spesa del personale all’interno del bilancio della Difesa per lasciare spazio non solo alle spese di investimento, che comunque si sono sempre mantenute intorno al 30%, ma alle spese di esercizio, che sono quelle destinate a garantire la manutenzione e riparazione dei mezzi e il loro utilizzo per l’addestramento, oltre a coprire i costi per l’addestramento del personale. Ormai, questo capitolo è ridotto a una quota che si aggira tra il 10 e l’11%, un livello assolutamente inaccettabile per avere Forze armate efficienti. Non potendo ridurre la quota di investimenti, perché si deve far fronte al ricambio di intere generazioni di mezzi in servizio, dal campo aeronauti, a quello elicotteristico, navale e terrestre, è evidente che bisognava andare a ridurre la spesa per il personale, che in Italia vale ancora il 60% del bilancio. La decisione di non arrivare, come previsto, a questa riduzione del numero di militari complica la possibilità di poter avere un bilancio più equilibrato aumentando le risorse disponibili.
Ci spieghi…
Bisogna tener conto che, se si vuole avere delle forze armate che siano anche qualitativamente più efficaci, questo vorrà dire che i futuri militari saranno più appetibili anche per il settore civile, soprattutto la parte più legata alla dimensione informatica. La digitalizzazione di tutti i sistemi d’arma vorrà dire che i militari che opereranno queste piattaforme avranno capacità molto ricercate sul mercato. Questo vorrà dire che dovranno essere offerte loro condizioni economiche e sociali migliori di quelle attuali. Quindi, ci si sta avviando verso un generale aumento del costo del personale, a discapito di quelle di esercizio, indispensabili per sostenere l’efficacia delle Forze armate nel loro insieme.
Ci sono poi le esigenze di modernizzazione delle piattaforme in uso presso le Forze armate…
Molti dei sistemi d’arma dell’attuale generazione si stanno avviando rapidamente alla conclusione della loro vita operativa. Dobbiamo quindi modernizzare e approvvigionarci di nuovi sistemi. Ed è il caso per esempio del Leopard, che tuttavia non è un carro di nuova generazione, quanto piuttosto il carro più evoluto oggi disponibile. Ci troveremo quindi nella situazione di dover far fronte da una parte a queste spese, e contemporaneamente dovremo sostenere lo sviluppo dei nuovi programmi per il salto tecnologico generazionale come il Tempest, il Ngcs, e probabilmente il nuovo elicottero da combattimento, così come nuove piattaforme navali e satellitari. Pensare di poter far fronte a tutte queste esigenze senza aumentare i fondi per la Difesa è impossibile. Non si può fare il gioco delle tre carte, spostando continuamente le risorse da una parte all’altra. Siamo giunti al punto in cui tutte queste esigenze richiedono contemporaneamente un finanziamento e l’unica strada percorribile è quella di destinare nuove risorse, sia pure gradualmente, come previsto dal precedente governo. Quindi, dobbiamo puntare ad arrivare al 2% entro il 2028, e non si può ricominciare a rimettere in discussione questa scadenza che, tra l’altro, già supera di quattro o cinque anni quella concordata nel 2014. Ritengo che questa previsione temporale sia quella massima che consenta di dare stabilità all’Italia senza perdere completamente la credibilità rispetto ai nostri partner e alleati.
Il merito (nella scuola) e i suoi nemici
Impietosamente, anno dopo anno, i test Invalsi mostrano l’incapacità di una parte assai consistente delle scuole italiane di dare una preparazione adeguata agli alunni. La scuola ha smesso di funzionare come ascensore sociale. Disinteresse per il merito e promozioni facili, se non garantite, sono la conseguenza di una malintesa lotta contro le disuguaglianze sociali che ha l’effetto di accrescerle, anziché diminuirle. È bastato che il governo della destra decidesse di aggiungere la parola «merito» al titolo del ministero competente perché in tanti saltassero su a spiegarci che chi vuole il ripristino del merito è un reazionario, nostalgico della scuola classista del tempo che fu. Luca Ricolfi, un sociologo che in tanti suoi lavori ha mostrato di possedere grande maestria e una capacità davvero non comune di leggere la società italiana, affronta il tema in un libro appena uscito: La rivoluzione del merito (Rizzoli).
Due i punti di partenza di Ricolfi. Il primo è il (sempre disatteso) articolo 34 della Costituzione ove si afferma che «i capaci e meritevoli», anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Ricolfi riprende le tesi di Piero Calamandrei che nel citare quell’articolo sostiene l’importanza di favorire i meritevoli, qualche che sia la loro origine sociale, per consentire il ricambio delle classi dirigenti e assicurare che ai vertici della società giungano i più preparati. Favorendo così il benessere collettivo e la democrazia. Il secondo punto di partenza è dato dalla constatazione di un capovolgimento culturale che ha investito la sinistra italiana nel corso degli anni: dalla grande importanza che il Pci dell’epoca togliattiana attribuiva all’istruzione seria e rigorosa come mezzo di elevazione dei giovani delle classi popolari, alle posizioni del periodo successivo al ’68. I nemici attuali del merito sono il prodotto di quel clima, i figli della stagione del 6 e del 18 garantiti. La scuola si è così ridotta al luogo in cui «il dovere di studiare e di impegnarsi è stato sostituito dal “diritto al successo formativo”».
Ricolfi pensa che la difesa del merito debba guardarsi da due nemici. Da un lato, la confusione fra merito e meritocrazia. Quello meritocratico è un ideale (il governo dei meritevoli) che ha pesanti implicazioni anti-egualitarie. È l’ideale di chi vuole ricostruire rigide barriere di classe, ma questa volta basate su un sistema di test presentati come obiettivi: di qua i meritevoli, di là tutti gli altri. Una cosa assai diversa da chi vuole che il talento individuale venga valorizzato e premiato senza prefigurare utopie sociali irrealizzabili o che, se realizzate, darebbero vita al contrario di una società libera e aperta. C’è però chi, contrastando la meritocrazia, ha gettato via anche il bambino (il merito) insieme all’acqua sporca. Il secondo nemico è rappresentato da un clima filosofico e culturale che, nel corso dei decenni, ha scavato nelle coscienze di tanti spingendoli a svalorizzare il merito scambiando ciò per una battaglia a favore dell’uguaglianza. Ricolfi passa in rassegna, mostrandone le debolezze, le idee di una lunga fila di pensatori che hanno contribuito al risultato negando diritto di cittadinanza al merito in una società democratica.
Perché, si chiede Ricolfi, le idee dei filosofi e dei sociologi nemici del merito fanno a pugni con il senso comune? I sondaggi, quali che ne siano i limiti, mostrano che una forte maggioranza degli intervistati è di altro parere. Il sentire comune, che non disprezza il merito, è molto più in sintonia con la realtà di tanti intellettuali che pretendono di conoscere la cura contro le disuguaglianze sociali. Non è vero che gli studenti più bravi provengano solo dalle famiglie ricche, talché valorizzare il merito significherebbe rafforzare le disuguaglianze. È noto e documentato, ad esempio, che, mediamente, le studentesse, quale che ne sia la provenienza sociale, hanno un migliore rendimento scolastico degli studenti. È l’impegno personale che soprattutto conta. I dati italiani, inoltre, mostrano che non è affatto vero che i bravi a scuola siano concentrati nelle classi alte. Il diverso capitale culturale delle famiglie d’origine dà un leggero vantaggio allo studente di condizione sociale medio-alta (e sarebbe strano se così non fosse), ma solo questo. Il 40 per cento dei figli di famiglie agiate va male a scuola, una percentuale quasi identica di figli di famiglie povere ha un alto rendimento scolastico.
Il paradosso di una battaglia per l’uguaglianza, che pretende di pareggiare a scuola meritevoli e non, è che essa rimanda a un momento successivo il riprodursi delle disuguaglianze. Non distinguere fra chi merita e chi non merita è un danno per la società, ma è anche un’arma spuntata contro la disuguaglianza. Una volta usciti dalla «scuola egualitaria», agli studenti accadono due cose: la prima riguarda i più capaci e preparati, la seconda quelli con una preparazione insufficiente. Nel gruppo dei meritevoli saranno favoriti, nel continuare gli studi, i figli delle famiglie agiate. I meritevoli più poveri (a causa della mancata attuazione dell’articolo 34) avranno difficoltà e, spesso, dovranno rinunciarvi. Così l’ascensore sociale si blocca a danno di chi ha capacità, ma non i mezzi per continuare gli studi. Anche nel gruppo degli impreparati la disuguaglianza colpisce: i non meritevoli delle classi agiate se la caveranno perché potranno contare sul supporto della famiglia e relative conoscenze, gli impreparati poveri no. Come sostiene Ricolfi, le posizioni anti- merito sono oscurantiste. Dequalificando la scuola, negano ai poveri dotati di capacità un futuro migliore.
Il libro si conclude con una proposta di attuazione dell’articolo 34: favorire i meritevoli senza sufficienti mezzi con consistenti borse di studio. Un progetto attuabile per i cui dettagli si rinvia al testo. Però — osservo — bisogna anche agire sul lato dell’offerta. Servono insegnanti motivati che sappiano valorizzare meriti e talenti. Fortunatamente ce ne sono. Vanno liberati dalle mille pastoie che ne mortificano la professionalità. Altri invece dovrebbero essere, per così dire, «riprogrammati»: sottratti all’influenza di cattivi maestri che predicando male li hanno spinti a razzolare anche peggio.
L'articolo Il merito (nella scuola) e i suoi nemici proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
𝚜𝚎𝚕𝚎𝚊
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