Londra e Riga guidano la nuova coalizione di droni per Kyiv
Londa e Riga saranno anime gemelle in uno sforzo atto a rifornire Kyiv con migliaia di droni con firs-person view (Fpv), impiegati in enormi quantità lungo il fronte come surrogati delle loitering munitions. Secondo i media lettoni, alla coalizione dovrebbero aderire otto Stati, tra cui Germania e Paesi Bassi.
Giovedì 15 febbraio il Ministero della Difesa inglese ha diramato un comunicato stampa in cui si legge che almeno una parte dei droni che sarà inviata all’Ucraina sarà prodotta da enti della manifattura britannica, senza però identificare i fornitori di droni o specificare se Ministero della Difesa acquisterà modelli commerciali già disponibili o prodotti appositamente per un impiego militare. Quest’ordine sarà il primo impiego effettivo di un fondo di 200 milioni di sterline (pari a circa 252 milioni di dollari) istituito a gennaio dalla Gran Bretagna appositamente per fornire droni all’Ucraina. Il Primo Ministro Rishi Sunak ha annunciato a gennaio che, oltre a piccoli veicoli aerei a basso costo senza equipaggio, il Ministero della Difesa acquisterà droni d’attacco a lungo raggio, droni marini e altre tipologie nell’ambito dell’impegno.
Il Ministero della Difesa di Riga ha invece pianificato di stanziare circa dieci miliardi di euro all’anno per la produzione di questa tipologia di drone, esclusivamente con l’intento di rifornire le forze armate di Kyiv impegnate nel combattimento contro Mosca. Ma il ruolo della Lettonia non si esaurisce qui: il Paese dovrebbe ospitare una scuola di droni per gli operatori ucraini, oltre che stabilire un campo di prova per verificare le prestazioni dei droni.
Per l’Ucraina i droni si sono rivelati fondamentali nel tentativo di controbilanciare la schiacciante superiorità numerica della Russia nell’ambito delle munizioni a lungo raggio, come i proiettili d’artiglieria. I numeri parlano chiaro: attualmente l’Ucraina spara solo 2.000 proiettili contro i 10.000 della Russia. La carenza di munizioni comincia a far sentire i suoi effetti al fronte, tant’è che viene considerata una delle principali motivazioni dietro la decisione del Comando ucraino di ritirare le proprie forze dalla cittadina di Avdiivka, teatro di feroci combattimenti negli ultimi mesi a causa dei ripetuti tentativi russi di occupare la città.
Oltre a ricevere droni già assemblati l’Ucraina, così come la Russia, ne produce un gran numero anche a livello domestico, affidandosi a componenti a basso costo acquistati solitamente dalla Cina. Alcune varianti possono costare anche solo 400 dollari. L’Ucraina produce fino a 50.000 droni Fpv al mese, e spera di arrivare a produrne fino a un milione nel 2024.
“Insieme, (il Regno Unito e la Lettonia) daranno all’Ucraina le capacità di cui ha bisogno per difendersi e vincere questa guerra, per garantire che Putin fallisca nelle sue ambizioni illegali e barbariche” ha dichiarato al riguardo il ministro della Difesa britannico Grant Shapps in un comunicato.
Ministero dell'Istruzione
Il #MIM e il Comando Generale delle Capitanerie di Porto - Guardia Costiera bandiscono il #Concorso Nazionale "La Cittadinanza del Mare", rivolto alle studentesse e agli studenti delle scuole primarie e secondarie di I e II grado, statali e paritarie…Telegram
Weekly Chronicles #64
Questo è il numero #64 di Privacy Chronicles, la newsletter che ti spiega l’Era dell’Informazione e come sopravvivere: tecnologia, sorveglianza di massa, privacy, sicurezza dei dati e molto altro.
Cronache della settimana
- Il social scoring è il futuro del Welfare tecnocratico
- Apple traccia i tuoi dispositivi anche se sono spenti
- Allarmi bomba: il governo indiano vieta ProtonMail… e altre 14 app
Lettere Libertarie
- Bitcoin: pura anarchia e sistema intersoggettivo distribuito
Rubrica OpSec
- Errori di OpSec: impariamo dalla storia di Eldo Kim
Il social scoring è il futuro del Welfare tecnocratico
"L'idea che dobbiamo portare avanti e studiare è quella di una tessera sanitaria a punti in modo che se conduci uno stile di vita corretto e salutare puoi guadagnare dei punti che poi ti permettono di ricevere degli incentivi".
La vita, per quelli come Bertolaso, è semplice; come un videogioco: compi le azioni giuste, aumenta il tuo personal score, vinci e salva la principessa.
E sono in molti a vederla come lui, non è certo un mistero. Da un paio d’anni in giro per l’Italia si sentono voci che sussurrano di comportamenti virtuosi, premi e punteggi — identità digitale.
Tra i primi, forse lo ricorderete, ci fu l’assessore Bugano di Bologna, quando annunciò pubblicamente il progetto di “Smart Citizen Wallet:
«Il cittadino avrà un riconoscimento se differenzia i rifiuti, se usa i mezzi pubblici, se gestisce bene l’energia, se non prende sanzioni dalla municipale, se risulta attivo con la Card cultura». Comportamenti virtuosi che corrisponderanno a un punteggio che i bolognesi potranno poi «spendere» in premi in via di definizione.»
Si scoprì solo dopo, anche grazie a un’istruttoria del Garante Privacy, che di concreto dietro all’idea di Smart Citizen Wallet non c’era ancora nulla di concreto: tutta propaganda (ma che propaganda è, quella fondata sull’idea di sorvegliare il cittadino? Eppure…).
E poi, sì, ci fu anche qualche sperimentazione — come quella fatta a Ivrea per qualche mese, con lo scopo di testare una nuova “piattaforma per l’economia comportamentale" fondata su blockchain e sponsorizzata dal governo e da TIM.
L’idea di incentivare, diciamo così, comportamenti “virtuosi” attraverso l’azione di governo, con lo scopo di creare una società perfetta, non è certo nuova. È anzi l’idea fondante che fu usata fin dal XIX secolo in poi per giustificare moralmente il sistema statale di welfare-warfare che viviamo ancora oggi.
Il social scoring, perché di questo si tratta, è l’apice dello statalismo, nonché tappa obbligata di una società tecnocratica governata da algoritmi automatizzati e logiche di vita a debito.
Non è un caso che si parli sempre di comportamenti “virtuosi” o “corretti”: sono aggettivi necessari a rafforzare l’idea della rettitudine e dignità delle persone soltanto se rispettose del pensiero egemonico collettivo. Chi decide quali comportamenti sono virtuosi? Le masse: o meglio, le masse plagiate dalla propaganda delle solite minoranze.
E se poi, come anticipato, è anche una questione di debito: il sistema finanziario occidentale fondato sul debito e sul welfare universale sta collassando su se stesso.
Non sarà possibile curare tutti (è già così) e sarà così necessario distinguere tra chi si merita di ricevere servizi sanitari e chi invece si merita altro, magari l’eutanasia di Stato; a prescindere dal pagamento o meno delle tasse — quelle vanno pagate comunque.
Questa cosa qua è una delle conseguenze della nascente religione transumanista che mira ad addomesticare e manipolare le masse attraverso ricatti morali algoritmicamente eseguiti. Ma chi segue regolarmente queste pagine lo sa: se ne è parlato anche al G20 del 2022; il compagno Bertolaso non inventa nulla.
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Apple traccia i tuoi dispositivi anche se sono spenti
Apple usa una tecnica chiamata "offline finding" per individuare i dispositivi degli utenti anche quando non sono connessi a Internet. Fa parte del servizio “Find My”, che da qualche anno permette di ritrovare dispositivi rubati o persi anche se spenti.
In Cina e Asia – Componenti USA e UE nei missili nordcoreani dati a Mosca
Componenti USA e UE nei missili nordcoreani dati a Mosca
L'Australia potenzia la sua flotta in ottica anticinese
Myanmar, tre generali condannati a morte per la resa di Laukkai
Dati, la Cina mappa le risorse dati del Paese
Microchip, nuovi fondi governativi a Smic e Huawei
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Dalla Cina agli Usa: in migliaia scappano attraverso rotta mortale
Dalla Cina agli Usa: in migliaia scappano attraverso rotta mortale. Non è facile stimare con esattezza la portata dello zouxian. Dai dati sull’immigrazione parrebbe trattarsi quantomeno di un trend in aumento: se nel 2022 l’Ecuador ha documentato l’arrivo di circa 13.000 cittadini cinesi, nei primi undici mesi del 2023 il numero è salito a oltre 45.000. Ma perché tante ...
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Brussels Privacy Symposium 2023 Report
The seventh edition of the Brussels Privacy Symposium, jointly co-organized by the Future of Privacy Forum and the Brussels Privacy Hub, took place at the U-Residence of the Vrije Universiteit Brussel campus on November 14, 2023. The Symposium presented a key opportunity for a global, interdisciplinary convening to discuss one of the most important topics facing Europe’s digital society today and in the years to come: “Understanding the EU Data Strategy Architecture: Common Threads – Points of Juncture – Incongruities.”
With the program of the Symposium, the organizers aimed to transversally explore three key topics that cut through the Data Strategy legislative package of the EU and the General Data Protection Regulation (GDPR), painting an intricate picture of interplay that leaves room for tension, convergence, and the balancing of different interests and policy goals pursued by each new law. Throughout the day, participants debated the possible paradigm shift introduced by the push for access to data in the Data Strategy Package, the network of impact assessments from the GDPR to the Digital Services Act (DSA) and EU AI Act, and debated the future of enforcement of a new set of data laws in Europe.
Attendees were welcomed by Dr Gianclaudio Malgieri, Associate Professor of Law & Technology at Leiden University and co-Director of the Brussels Privacy Hub, and Jules Polonetsky, CEO at the Future of Privacy Forum. In addition to three expert panels, the Symposium opened with Keynote addresses by Commissioner Didier Reynders, European Commissioner for Justice, and Wojciech Wiewiórowski, the European Data Protection Supervisor. Commissioner Reynders specifically highlighted that the GDPR remains the “cornerstone of the EU digital regulatory framework” when it comes to the processing of personal data, while Supervisor Wiewiórowski cautioned that “we need to ensure the data protection standards that we fought for, throughout many years, will not be adversely impacted by the new rules.” In the afternoon, attendees engaged in a brainstorming exercise in four different breakout sessions, and the Vice-Chair of the European Data Protection Board (EDPB), Irene Loizidou Nikolaidou, gave her closing remarks to end the conference.
The following Report outlines some of the most important outcomes from the day’s conversations, highlighting the ways and places in which the EU Data Strategy Package overlaps, interacts, supports, or creates tension with key provisions of the GDPR. The Report is divided into six sections: the above general introduction; the ensuing section which provides a summary of the Opening Remarks; the next three sections which provide insights into the panel discussions; and the sixth and final section which provides a brief summary of the EDPB Vice-Chair’s Closing Remarks.
Editor: Alexander Thompson
Si chiama Difesa la priorità dell’Europa
Negli oltre 70 anni del suo lungo dopoguerra, tra burro e cannoni l’Europa comunitaria non ha mai avuto un attimo di esitazione: meglio il burro, cioè pace, benessere e welfare-state. Naturalmente al riparo dello scudo Nato. Quella stagione beata è finita all’alba del 24 febbraio di due anni fa, con l’aggressione russa all’Ucraina e, sullo sfondo, il principio dell’apparentemente inesorabile scomposizione degli equilibri internazionali con l’Occidente in bilico. Da allora non c’è più scelta per il pacifismo europeo, se non una e obbligata: quella dei cannoni. A dirlo è la forza delle cose, il discrimine tra democrazie e autocrazie calato sul club libertario dei 27 paesi membri dell’Unione. E ancora di più, la pressione congiunta di due guastatori acclarati dell’ordine continentale: quella certa della Russia di Vladimir Putin che, spezzando l’Ucraina, spera di rinverdire passate glorie, una restaurazione di potenza ormai immaginaria.
Quella non meno insidiosa dell’America di Donald Trump II (da vedere se otterrà una nuova incarnazione alle urne) che minaccia sfracelli alla tirchia Europa e quindi alla Nato. Decisa a restare alla guida della Commissione Ue la sua presidente, Ursula von der Leyen, ha fiutato il vento, declassato il green deal, il blasone impallidito del suo primo mandato, e messo la costruzione dell’eurodifesa in cima alle priorità del suo prossimo quinquennio a Bruxelles. Con tanto di commissario alla Difesa. «Spendere di più, meglio ed europeo», lo slogan della grande svolta, da realizzare con una politica industrial-militare che punti a rafforzare le
capacità di produzione e dei sistemi di difesa più avanzati, maggiore autonomia dagli americani, oggi coprono quasi l’80% degli acquisti Ue di armamenti, appalti pubblici integrati, il tutto con più fondi e nel segno della preferenza Ue e del coordinamento con la Nato su pianificazione e standardizzazione delle armi. A prima vista la ricetta giusta al momento giusto: in sintonia con i nuovi orientamenti della maggioranza dei Governi Ue e perfino con il neo-trumpismo che ne pretende più spesa. Il 16 scorso il cancelliere tedesco, poi seguito dalla Francia di Macron, ha firmato con l’Ucraina un patto di sicurezza bilaterale di 10 anni rinnovabili, con garanzia di assistenza finanziaria e militare in caso di una nuova aggressione russa. E aggiunto altri aiuti a Kiev per 1,1 miliardi. «Noi europei dobbiamo prenderci cura della nostra sicurezza. Noi tedeschi abbiamo stanziato il 2% del Pil in spese militari nel 2023 e così continueremo da qui al 2030, abbiamo raddoppiato a 7 miliardi gli aiuti a Kiev, 6negli anni a venire» ha detto Olaf Scholz.
«Vorrei decisioni simili da tutte le capitali Ue. È vero, mancano soldi ma, senza sicurezza, tutto il resto è niente». Nel weekend la Danimarca ha deciso di inviare all’Ucraina tutto lo stock della sua artiglieria, in attesa delle munizioni europee promesse ma consegnate a metà. L’olandese Mark Rutte, probabile futuro segretario generale della Nato, avverte: «Invece di preoccuparsi di chi sarà il prossimo presidenteUsa, l’Europa dovrebbe concentrarsi su aumento delle sue capacità militari e sostegno a Kiev perché sono nel nostro interesse». Così anche i Baltici e i Paesi dell’Est. Nonostante i passi avanti, la percezione del pericolo condivisa da quasi tutti non è bastata finora a produrre una solida dottrina comune della difesa. La divergenza di vedute e di interessi tra atlantisti e autonomisti resta intatta e di fatto rallenta ogni progresso. I primi, con l’adesione di ferro di Germania, Italia e tutto il fronte Nord-Est, sono maggioranza ma l’autonomismo della Francia, sia pure un’ po’ temperato, l’ansia di francesizzare l’industria della difesa Ue bastano e avanzano per metterle i bastoni tra le ruote.
Von der Leyen prova a mediare, perché ha bisogno del consenso di quasi tutti i Governi per restare insella, ma ne scapita la coerenza dei suoi progetti. Senza contare i possibili trabocchetti nell’europarlamento: l’uscente la promosse nel 2019 per 9 voti soltanto. Salvo sorprese, quello che scaturirà dalle elezioni di giugno avrà maggioranze più liquide, meno prevedibili. Le scommesse sono aperte.
L'articolo Si chiama Difesa la priorità dell’Europa proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
ilsole24ore.com/art/lula-a-gaz…
Lula: «A Gaza è genocidio. Come Hitler con gli ebrei»
Per Netanyahu “le parole” di Lula “sono vergognose e allarmanti”Il Sole 24 Ore (Il Sole 24 ORE)
imolaoggi.it/2024/02/16/morte-…
Morte Navalny, la moglie di Assange replica a von der Leyen • Imola Oggi
Daily Mail: Julian Assange morirà se verrà estradato dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti, cosa che potrebbe avvenire entro pochi giorni, avverte sua moglieImolaOggi
lindipendente.online/2024/02/2…
Oltre metà delle Regioni italiane non garantisce i livelli minimi di assistenza sanitaria - L'INDIPENDENTE
In Italia, oltre la metà delle Regioni non garantisce le cure essenziali ai propri pazienti. È il preoccupante dato che emerge dalle statistiche provvisorie riferite al 2022 diramate dal ministero della Salute, che fanno registrare un significativo p…Stefano Baudino (Lindipendente.online)
ilfattoquotidiano.it/2024/02/2…
Navalny, Lollobrigida risponde a Salvini: “La responsabilità del regime di Putin c’è e non solo in…
Se il vicepremier Matteo Salvini non riesce ad attribuire le responsabilità a Vladimir Putin della morte di Alexey Navalny, ci pensa il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida a correggerlo.Giacomo Salvini (Il Fatto Quotidiano)
Lezioni ucraine per Italia ed Europa. Il report Iai
Non solo fonte di preziose lezioni dal punto di vista militare, ma anche occasione di spunti di riflessione sulla cooperazione tra settore pubblico e settore privato, sull’importanza dell’investire nell’apparato militare-industriale, sull’assetto politico e geopolitico dell’Italia e dell’Unione Europea, e anche sul loro rapporto con l’Alleanza Atlantica. A due anni dall’inizio del conflitto, la guerra in Ucraina ha suscitato riflessioni in questi e in altri campi. Riflessioni che sono state oggetto del report “Le implicazioni strategiche della guerra in Ucraina per l’Italia” pubblicato dall’Istituto Affari Internazionali e presentato presso la Sala della Regina della Camera dei Deputati nella mattina di martedì 20 febbraio.
Dopo i saluti portati dal vicepresidente della Camera dei Deputati Giorgio Mulè e dal presidente dello Iai Ferdinando Nelli Feroci, che hanno sottolineato quanto sia cruciale per il nostro Paese elaborare le lezioni e tattiche e strategiche del primo conflitto su larga scala scoppiato in Europa sin dai termini della seconda guerra mondiali, gli esperti del programma “Difesa e Sicurezza” dell’Istituto hanno presentato i punti principali del report.
Affermando come l’invasione russa dell’Ucraina sia stata, nella sua tragicità una doccia fredda, ma chiarificatrice: essa ha evidenziato come nel rapporto di coesistenza tra Nato ed Unione Europea l’Alleanza Atlantica abbia ancora la supremazia per quel che riguarda la difesa, ma allo stesso tempo ha rimarcato quanto sia cogente un rafforzamento delle capacità di difesa europea, con la sua lentezza nel sistema produttivo e nel processo decisionale. Inoltre, “la guerra in Ucraina dev’essere uno stimolo per l’Italia nell’approcciarsi al Mediterraneo Allargato, suo focus prioritario in simultanei fora, senza però trascurare le priorità generali dell’Alleanza” rammenta la responsabile di ricerca nei programmi Difesa e Sicurezza dello Iai Karolina Muti. Mentre l’intervento di Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dell’Istituto, sottolinea le lezioni di carattere operativo che si possono trarre dal conflitto in corso tra Kyiv e Mosca, attraverso tutti e cinque i domini operativi in cui esso viene combattuto. Lezioni su cui “Adattare il sistema della difesa italiano a una realtà di guerra su larga scala in Europa, superando le sue criticità peculiari”.
Temi che vengono ripresi e sviluppati nel dibattito che segue alla presentazione del documento. La Nato rappresenta a oggi un vero scudo di libertà e democrazia, come rimarca l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato Maggiore della Difesa, il quale ripropone la visione di un confronto su base decennale con la Russia, visione già esposta in passato dal Segretario Generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg. Un confronto che non si terrà però soltanto lungo il cosiddetto “Eastern Flank”, ma anche in altre parti del mondo. Come ad esempio il continente africano. Il conflitto in Ucraina segna infatti un punto di cesura, un confronto tra il vecchio e il nuovo. Un nuovo che è anche urgente: “Per l’Europa servono un nuovo design geopolitico e un nuovo design costituzionale. O si fa l’Unione subito, o diventa complicato”, avverte Giulio Tremonti, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati. Superando anche le divisioni interne all’Unione stessa. Senza il convinto sostegno europeo la resistenza ucraina avrebbe avuto ben altra sorte. Ma senza quello inglese e americano, il sostegno europeo non sarebbe stato sufficiente. È necessaria “un’operazione di restart”, come la definisce la presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato Stefania Craxi (che inizia il suo intervento ricordando l’oppositore politico russo Alexei Navalny, morto in circostanze misteriose pochi giorni fa), che va elaborata tenendo alla mente i processi d’adesione all’Unione attualmente in corso, compreso quello di Kyiv.
Il dubbio è: come avviare questo processo? Secondo Lorenzo Guerini, presidente del Copasir ed ex-ministro della Difesa, ci si deve concentrare su punti centrali come il destinare il 2% del Pil alle spese della difesa, che sono “non solo un requisito necessario dell’Alleanza, ma un passo fondamentale per mantenere efficiente il nostro strumento di difesa e sicurezza” o sulla collaborazione tra istituzione pubbliche e attori privati, punto ripreso anche dal presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo.
“Possiamo vedere aspetti positivi nella risposta all’aggressione russa, come la reazione di sostegno all’Ucraina immediata e all’unisono nel nostro Paese, un’attitudine positiva a riorganizzare il nostro sistema produttivo, e una nuova responsività geopolitica, come il lancio di Aspides dimostra, Ma ci sono anche cose che non funzionano. Nella guerra ibrida parliamo troppo poco di cyber e di dominio cognitivo, siamo tutti i giorni oggetto di stratcom ma sottovalutiamo quetso fenomeno. Oggi le guerre non le combattiamo soltanto nelle trincee”, chiosa il sottosegretario alla Difesa Matteo Perego di Cremnago, nella summa di tutti gli spunti usciti durante la presentazione del report.
ilfattoquotidiano.it/2024/02/2…
Iniziata l’udienza sull’estradizione negli Usa di Assange
Saranno i due giorni che decideranno la vita e il futuro di Julian Assange. All’Alta Corte di Londra si è aperta l’udienza dalla quale uscirà la decisione definitiva sull’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti, dove lo aspetta un p…F. Q. (Il Fatto Quotidiano)
ANALISI. Gaza e la fine dell’ordine basato sulle regole
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di Agnès Camallard* – Foreign Affairs
Dopo oltre quattro mesi di conflitto, la campagna di rappresaglia di Israele contro Hamas è stata caratterizzata da una serie di crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale. La giustificazione dichiarata da Israele per la sua guerra a Gaza è l’eliminazione di Hamas, responsabile degli orribili crimini commessi durante l’attacco del 7 ottobre in Israele: 1.139 persone, per lo più civili israeliani, uccise; altre migliaia ferite; un numero ancora imprecisato di donne e ragazze soggette a violenze sessuali; 240 persone prese in ostaggio, molte delle quali sono ancora detenute da Hamas.
In risposta, Israele ha sfollato con la forza i palestinesi, imponendo condizioni che hanno lasciato centinaia di migliaia di persone senza i bisogni umani fondamentali. Ha condotto attacchi indiscriminati, sproporzionati e diretti contro civili e “oggetti civili”, come scuole e ospedali. Circa 28.000 palestinesi sono stati uccisi, la maggior parte dei quali donne e bambini. Vaste aree di Gaza sono state polverizzate; un quinto delle infrastrutture e la maggior parte delle case sono state danneggiate o distrutte, lasciando la regione in gran parte inabitabile. Israele ha imposto un blocco prolungato, negando ai palestinesi cibo adeguato, acqua potabile, carburante, accesso a Internet, riparo e cure mediche: un’azione che equivale a una punizione collettiva. Sta detenendo i gazawi in condizioni disumane e degradanti e Israele ammette che alcuni dei detenuti sono già morti. Nel frattempo, in Cisgiordania, la violenza contro i palestinesi da parte delle forze israeliane e dei coloni è aumentata notevolmente.
Gli Stati Uniti e molti paesi occidentali hanno sostenuto Israele, fornendo assistenza militare, opponendosi agli appelli per un cessate il fuoco alle Nazioni Unite, bloccando i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) dei rifugiati palestinesi e respingendo il caso di genocidio del Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), anche mentre la carneficina continuava a consumarsi.
L’odierna complicità diplomatica nella catastrofica crisi umanitaria e dei diritti umani a Gaza è il culmine di anni di erosione dello Stato di diritto internazionale e del sistema globale dei diritti umani. Tale disintegrazione è iniziata praticamente dopo l’11 settembre, quando gli Stati Uniti hanno intrapreso la loro “guerra al terrore”, una campagna che ha normalizzato l’idea che tutto è lecito nel perseguire i “terroristi”. Per condurre la sua guerra a Gaza, Israele prende in prestito etica, strategia e tattica da questo quadro di riferimento, e lo fa con il sostegno degli Stati Uniti.
È come se le gravi lezioni morali dell’Olocausto, della Seconda guerra mondiale, fossero state dimenticate e con esse il nucleo stesso del decennale principio “Mai più”: la sua assoluta universalità, l’idea che ci protegge tutti o nessuno. Questa disintegrazione, così evidente nella distruzione di Gaza e nella risposta dell’Occidente, segna la fine dell’ordine basato sulle regole e l’inizio di una nuova era.
L’ERA DELL’UNIVERSALITÀ
L’universalità, il principio secondo cui tutti noi, senza eccezioni, siamo dotati di diritti umani in egual misura, indipendentemente da chi siamo o da dove viviamo, è al centro del sistema internazionale dei diritti umani. È stato il fondamento della Convenzione sul genocidio e della Dichiarazione universale dei diritti umani, entrambe adottate nel 1948, e ha continuato a informare nuovi strumenti per assicurare la responsabilità nel corso degli anni, tra cui la Corte penale internazionale, istituita nel 2002. Per decenni, questa infrastruttura legale ha contribuito a garantire che gli Stati rispettassero i loro obblighi in materia di diritti umani. Ha definito i movimenti per i diritti umani a livello globale e ha sostenuto le più grandi conquiste del ventesimo secolo in materia di diritti umani.
Un critico di questo sistema potrebbe obiettare che gli Stati hanno sempre reso spesso sostenuto, ma raramente applicato l’universalità. Il XX secolo abbonda di esempi di fallimenti nel sostenere la pari dignità di tutti: la violenza usata contro coloro che sostenevano la decolonizzazione, la guerra del Vietnam, i genocidi in Cambogia e in Ruanda, le guerre che hanno seguito la dissoluzione della Jugoslavia e molti altri. Tutti questi eventi testimoniano di un sistema internazionale radicato più nella disuguaglianza e nella discriminazione sistemica che nell’universalità. A ragione, si potrebbe sostenere che l’universalità non è mai stata applicata ai palestinesi che, come ha detto lo studioso palestinese americano Edward Said, dal 1948 sono invece “le vittime delle vittime, i rifugiati dei rifugiati”.
Tuttavia, il destino dell’universalità non risiede nelle mani di coloro che la tradiscono. Piuttosto, in quanto progetto perennemente ambizioso per l’umanità, la sua forza risiede innanzitutto nella sua continua proclamazione e nella sua persistente difesa. Nel corso del XX secolo, il principio di universalità ha subito innumerevoli battute d’arresto, ma la direzione generale era quella di proclamarlo, affermarlo e difenderlo. La situazione è cambiata, tuttavia, nei primi anni del XXI secolo, con lo scatenarsi della “guerra al terrore” dopo i tragici eventi dell’11 settembre.
TOGLIERSI I GUANTI
Negli ultimi 20 anni, la dottrina e i metodi della “guerra al terrorismo” sono stati adottati o imitati dai governi di tutto il mondo. Sono stati impiegati per espandere la portata e il raggio d’azione delle misure di “autodifesa” degli Stati e per dare la caccia, con minime limitazioni, a qualsiasi persona o autorità ritenuta meritevole della denominazione, vagamente definita ma ampiamente applicata, di “minaccia terroristica”.
Lo straordinario numero di morti civili a Gaza, commessi sia in nome dell’autodifesa sia per contrastare il terrorismo, è una logica conseguenza di questa prospettiva, che ha pervertito e quasi smantellato il diritto internazionale e, con esso, il principio di universalità.
Gli attacchi aerei americani in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Siria hanno provocato vittime civili in massa. Invariabilmente, l’esercito americano affermava di aver preso le precauzioni necessarie per proteggere i civili. Ma forniva poche spiegazioni su come distinguesse esattamente i civili dai combattenti e sul perché, se distinti correttamente, fossero stati uccisi così tanti civili.
Negli ultimi 20 anni, i governi di tutto il mondo hanno adottato metodi simili. In Siria, gli incessanti bombardamenti della Russia sulle infrastrutture civili hanno causato migliaia di morti tra i civili. Eppure, nei casi documentati da Amnesty International, le autorità russe hanno affermato che le loro forze armate stavano colpendo obiettivi “terroristici”, anche quando stavano distruggendo ospedali, scuole e mercati. Anche l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 è stata giustificata con riferimenti pretestuosi all’autodifesa e alle eccezioni al divieto dell’uso della forza. I suoi attacchi indiscriminati hanno causato migliaia di vittime civili, con le prove sempre più evidenti di crimini di diritto internazionale, come la tortura, la deportazione e il trasferimento forzato, la violenza sessuale e le uccisioni illegali. Anche la Cina ha invocato la “lotta al terrorismo” per giustificare l’ampia repressione di uiguri, kazaki e altre minoranze etniche prevalentemente musulmane nello Xinjiang, che si è tradotta in crimini contro l’umanità.
Il massiccio bombardamento di Gaza da parte di Israele ha radici storiche più profonde della “guerra al terrore”, tra cui l’espulsione di circa 750.000 palestinesi dalle loro case, avvenuta nel 1948 e nota come nakba, o catastrofe. Ma è anche una manifestazione dell’erosione del diritto internazionale avvenuta nel XXI secolo, in cui sono stati rispettati pochi o nessuno dei vincoli imposti dal sistema del secondo dopoguerra: non quelli della Carta delle Nazioni Unite, della legge internazionale sui diritti umani e nemmeno della Convenzione sul genocidio, come sostenuto dal Sudafrica.
DOV’È LA PROTESTA?
Subito dopo il 7 ottobre, i governi occidentali hanno condannato i crimini di Hamas ed espresso sostegno incondizionato a Israele, una risposta comprensibile e prevedibile all’orrore inflitto alla popolazione di uno stretto alleato. Ma avrebbero dovuto cambiare la loro retorica una volta che fosse diventato chiaro, come è rapidamente accaduto, che i bombardamenti di Israele su Gaza stavano uccidendo migliaia di civili. Tutti i governi, soprattutto quelli che hanno influenza su Israele, avrebbero dovuto denunciare pubblicamente e inequivocabilmente le azioni illegali di Israele e chiedere un cessate il fuoco, la restituzione di tutti gli ostaggi e la responsabilità per i crimini di guerra e altre violazioni da entrambe le parti.
Non è successo. Per i primi due mesi di guerra, l’amministrazione Biden ha ampiamente minimizzato la perdita di vite umane a Gaza. Non ha denunciato i bombardamenti incessanti e l’assedio devastante di Israele. Non ha riconosciuto il contesto del conflitto israelo-palestinese, compresi i 56 anni di occupazione militare israeliana, e ha invece accettato la narrazione antiterroristica di Israele.
Mentre la guerra continuava, l’amministrazione Biden ha continuato a difendere le tattiche di Israele. Ha ripetuto a pappagallo alcune affermazioni di Israele, non verificate e poi rinnegate, sulle atrocità di Hamas. Sebbene alla fine gli Stati Uniti si siano espressi più chiaramente sulla protezione dei civili palestinesi, si sono rifiutati di sostenere pubblicamente i passi fondamentali che avrebbero aiutato a salvare le loro vite. Invece, all’ONU, gli Stati Uniti hanno posto il veto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che chiedevano pause umanitarie alla guerra. Solo il 22 dicembre hanno permesso, grazie alla loro astensione, che il Consiglio di Sicurezza adottasse una risoluzione di compromesso che chiedeva “misure urgenti per consentire immediatamente un accesso umanitario sicuro, non ostacolato e esteso” a Gaza e “le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità”. Non ha mai preso pubblicamente in considerazione l’idea di interrompere i suoi trasferimenti di armi a Israele.
Pochi giorni dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia e le sue richieste di misure provvisorie per prevenire il genocidio a Gaza, gli Stati Uniti e alcuni altri governi occidentali hanno bloccato i finanziamenti all’UNRWA, che fornisce un’ancora di salvezza alla popolazione di Gaza. Questa decisione non solo ignora gli evidenti rischi di genocidio, ma serve ad amplificarli e accelerarli. Lo status di superpotenza degli Stati Uniti e la loro influenza su Israele fanno sì che Washington sia in una posizione privilegiata per cambiare la realtà sul campo a Gaza. Più di ogni altro Paese, gli Stati Uniti possono impedire al loro stretto alleato di continuare a commettere atrocità. Ma finora hanno scelto di non farlo.
Questa linea di condotta ha un costo enorme. Come ha detto un diplomatico del G-7, “abbiamo definitivamente perso la battaglia nel Sud globale. Tutto il lavoro che abbiamo fatto con il Sud globale (sull’Ucraina) è andato perduto. … Dimenticate le regole, dimenticate l’ordine mondiale. Non ci ascolteranno mai più”.
UN CAMBIAMENTO EPOCALE
Sebbene negli anni a Gaza si siano svolte le prove generali di eventi che hanno mostrato l’estremo disprezzo del diritto internazionale, la guerra potrebbe segnare la chiusura del sipario. Il rischio di genocidio, la gravità delle violazioni commesse e le inconsistenti giustificazioni da parte dei funzionari eletti nelle democrazie occidentali fanno presagire un cambiamento epocale. L’ordine basato sulle regole che ha governato gli affari internazionali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale è in via di estinzione e potrebbe non essere possibile tornare indietro.
Le conseguenze di questo allontanamento sono fin troppo evidenti: più instabilità, più aggressività, più conflitti e più sofferenza. L’unico freno alla violenza sarà altra violenza. La fine dell’ordine basato sulle regole porterà anche una rabbia diffusa e palpabile in tutti gli strati della società, in tutti gli angoli della terra, se non tra coloro che si trovano nella posizione di raccogliere qualunque ricompensa infangata possa essere estratta dalla rottura del sistema internazionale.
Ma si possono prendere provvedimenti per evitare questo scenario disastroso. Si comincia con l’immediata cessazione di tutte le operazioni militari sia da parte di Israele che di Hamas, con l’immediato rilascio di tutti i rimanenti ostaggi civili detenuti da Hamas e di tutti i palestinesi detenuti illegalmente da Israele, e con la rimozione dell’assedio di Gaza. Le misure provvisorie della CIG per prevenire il genocidio a Gaza devono essere pienamente applicate.
Israele e il suo più grande sostenitore, gli Stati Uniti, devono accettare che l’obiettivo militare dichiarato di distruggere Hamas ha comportato un costo spropositato per le vite e le infrastrutture civili, che con ogni probabilità non può essere giustificato dal diritto internazionale. È ora più che mai importante che il Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) agisca con decisione nel formulare le imputazioni per i crimini commessi da tutte le parti in conflitto.
Né le sofferenze storiche né le prospettive di pace a lungo termine in Medio Oriente, e probabilmente anche oltre, possono essere affrontate senza un processo internazionale e inclusivo che specifichi lo smantellamento del sistema di apartheid di Israele e permetta di proteggere la sicurezza e i diritti di tutte le popolazioni.
La memoria dolorosa dei torti subiti, sia di recente che nel passato, può aiutare a salvare vite umane oggi e in futuro, in Israele, nei territori palestinesi e oltre. Questo processo deve però iniziare immediatamente, perché il tempo sta per scadere. Se la storia si ripete, come spesso ci viene detto, allora dovremmo considerarci bene avvertiti. Con l’applicazione universale del diritto internazionale ormai in agonia e con nulla che possa ancora prendere il suo posto se non gli interessi nazionali brutali e la pura avidità, la rabbia diffusa può essere, e sarà, sfruttata dai molti pronti a promuovere un’instabilità ancora più ampia su scala globale.
_______________
*AGNÈS CALLAMARD è Segretaria generale di Amnesty International. Dal 2016 al 2021 è stata relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie.
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Pino Casamassima – Il libro nero delle brigate rosse
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Sì al commissario Ue alla Difesa. Pinotti spiega il perché
Un commissario Ue alla Difesa, dice a Formiche.net l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, sarebbe un segno importante, un “acceleratore decisivo”. Il ragionamento della senatrice dem parte dal fatto che la mossa esprimerebbe la volontà politica della nuova Commissione di dare alla Difesa un’attenzione particolare.
Difesa comune europea: questa volta ci siamo?
Io lo spero, però non mi arrischio a fare delle previsioni trionfalistiche o troppo ottimistiche, perché purtroppo più di una volta in passato mi sono trovata nella situazione in cui si è detto “se non ora, quando?”, penso, ad esempio, dopo la rovinosa ritirata dall’Afghanistan, quando l’Europa si è interrogata se non avrebbe potuto decidere autonomamente di rimanere per evitare quel disastro dell’Occidente che è stato lasciare il Paese in mano ai talebani. Ma in quel momento, nonostante non servisse un contingente illimitato, l’Europa non aveva l’organizzazione necessaria a prendere in mano autonomamente la missione.
Poi la promessa di procedere speditamente verso una difesa comune ce la siamo fatta quando la Russia ha cominciato la guerra all’Ucraina. Su questo ricordo, e devo dire che lo ha fatto con molta forza, che il presidente Mario Draghi sia nel Parlamento italiano sia poi nei Consigli europei aveva portato il tema della difesa come un obiettivo prioritario; impegno suggellato simbolicamente dalla foto di Macron, Scholz e Draghi sul treno per Kiev. Il tema ritorna anche nel documento sulla competitività europea, a cui sta lavorando. La difesa comune è un passaggio essenziale per qualificare il ruolo che l’Europa può avere nel contesto globale.
Anche dopo quella situazione sembrava vicina la meta…
C’erano stati commenti e dichiarazioni dei leader europei coinvolti che sembravano far sperare in positivo in questo senso, quindi oggi io me lo auguro fortemente. È qualcosa per cui ho lavorato strenuamente negli anni in cui sono stata ministro. Tanto che nel 2017 è partita la prima cooperazione rafforzata sulla difesa, che non era mai stata attivata in precedenza, e sicuramente posso dire che il ruolo di spinta dell’Italia è stato un ruolo essenziale. Però prima di fare previsioni aspetto di vedere il passaggio dalle intenzioni alla realtà dei fatti.
In passato il freno maggiore ad una difesa Ue era rappresentato da stati membri che, in parte, avevano una politica estera non sempre comune e con diverse sensibilità: adesso proprio la cementificazione della politica estera di tutti gli Stati membri sull’Ucraina può essere un volano decisivo?
Sicuramente l’unità che c’è stata da parte dei Paesi europei, con qualche tentennamento da parte dell’Ungheria, ma che poi nelle decisioni finali con vari escamotage è sempre rientrato, è un elemento importante che io metterei insieme ad un’altra questione: il ruolo degli Usa. Noi non sappiamo come finiranno le elezioni americane, ma non c’è dubbio che la minaccia di Trump rivolta all’Ue va tenuta presente. Ha detto che chi non raggiungerà la percentuale del 2% non sarà difeso dalla Nato. Sicuramente lo ha fatto anche per alzare l’attenzione della campagna elettorale su di sé, ma laddove ci sia di nuovo una politica da “America first” con un disimpegno americano, che in questi anni Biden ha invertito, agendo con protagonismo sulla crisi ucraina e ora in Medioriente, beh anche per questo l’Europa potrebbe essere più fortemente spinta a superare le gelosie nazionali e anche alcune impuntature. Io me lo auguro.
Un altro aspetto sollevato da Ursula von der Leyen è stato quello legato al beneficio di un’industria europea comune, settore in cui l’Italia eccelle. Come intrecciare policies e pil?
È un elemento essenziale, sappiamo bene che non bisogna allineare soltanto i valori fondamentali ma anche gli interessi: due elementi che devono marciare di pari passo perché poi le cose si realizzino davvero. Allora, costruire in Europa un’industria della difesa più forte, più integrata, più cooperante è essenziale ma non è un passaggio da enunciare soltanto. Bisogna che ci si lavori, che gli Stati accompagnino i grandi complessi industriali in questa integrazione per evitare di rischiare effetti che possono essere di deperimento industriale o di posti di lavoro per i singoli Paesi. È un percorso che non ci vede partire da zero : abbiamo già sperimentato architetture di cooperazione, in consorzi come MBDA e quando abbiamo costruito il caccia europeo l’Eurofighter Typhoon, un intercettore che inizialmente doveva essere di tutti i principali paesi, ma poi la Francia si è sfilata, mentre sono rimaste insieme Germania, Spagna, Italia e Gran Bretagna. Altro esempio, che purtroppo è sfumato, il progetto di integrazione Fincantieri – Stx France, operazione bloccata da resistenze interne alla Francia ma resa complicata anche da una normativa europea che vuole evitare concentrazioni.
Però dovremmo prestare attenzione: se impediamo il rafforzamento di colossi europei, saranno quelli cinesi o coreani a surclassarci. Sulla questione ho ascoltato parole molto convincenti da parte degli amministratori delegati di Leonardo e Fincantieri: Cingolani ne ha parlato in più di un’occasione e anche Folgiero ne ha trattato molto recentemente. Credo che lavorare in questo senso sia fondamentale perché ancora oggi circa il 70% delle dei prodotti d’armamento acquistati dalle nazioni europee sono Made in Usa.
Condivide la proposta von der Leyen di prevedere un commissario ad hoc alla difesa nella prossima Commissione?
Sì, è una proposta che io appoggio. Per capire di cosa si tratta: sarebbe come se nascesse un nuovo ministero nel governo italiano, sarebbe un segnale forte della volontà politica della nuova Commissione di dare alla difesa un’attenzione particolare. È uno spazio centrale sarà riservato all’integrazione industriale: oggi questa parte è inserita nel portafoglio dell’industria. Con la direzione generale sulla difesa e un responsabile politico può avere un’importante accelerazione .
Per impostazione dei Trattati, non c’è oggi in Ue una riunione formale dei ministri della Difesa, e io credo che dovrebbe esserci, ma i tempi a riguardo non sarebbero brevi. Un passo in avanti della Commissione sarebbe in ogni caso un acceleratore importante.
Investimenti, eurobond e capitale. Cosa si muove nell’Europa della Difesa
In attesa di sapere cosa si deciderà il 27 febbraio nel corso della riunione della Commissione europea, quando il presidente Ursula von der Leyen dovrebbe presentare i dettagli della Strategia per l’industria della Difesa europea, si moltiplicano le indicazioni e i programmi che saranno poi alla base del finanziamento di questa stessa industria militare comune per il Vecchio continente. Sembra tracciarsi una linea ormai solida assunta dai Ventisette per quanto riguarda le proprie esigenze di Difesa, seguendo più che un approccio militare, legato cioè all’ipotesi di formare delle Forze armate europee, compito per ora lasciato agli Stati membri, un approccio economico, puntando soprattutto al consolidamento di una base industriale per la difesa, puntando su programmi comuni, procurement congiunto e sostegno alla produzione di munizioni. Tutti settori dove l’Unione può agire con maggiore efficacia.
Programmi di investimenti
Sicuramente, uno dei principali programmi che con ogni probabilità saranno ricompresi all’interno della Strategia è lo European defence investment programme (Edip), uno strumento finanziario il cui obiettivo è mobilitare investimenti comuni per la Difesa, un meccanismo permanente per incentivare ulteriormente i Paesi membri a collaborare nel procurement di equipaggiamenti. Ancora non sono chiari i numeri di questo programma, la cui proposta venne avanzata già nel 2022, né in che modo dovrà dialogare con gli altri programmi dell’Ue già in campo, l’Edirpa (trecento milioni messi a disposizione per rimborsare gli acquisti se effettuati in cooperazione da almeno tre Stati membri) e l’Asap (cinquecento milioni per il supporto all’incremento della capacità di produzione europea di munizioni, dai missili ai colpi d’artiglieria, destinati sia al sostegno militare all’Ucraina, sia per rinfoltire le scorte dei Paesi membri intaccate dall’invio degli aiuti a Kiev).
I cento miliardi di Breton
Non è nemmeno chiaro se questo programma recepirà la proposta avanzata a gennaio dal commissario per il Mercato interno Thierry Breton, di strutturare un fondo europeo da cento miliardi di euro per finanziare la costruzione di una Difesa europea. L’obiettivo dichiarato di questa cifra, ritenuta necessaria per recuperare i gap accumulati dalla difesa europea, è proprio quello di incentivare gli investimenti capacitivi di produzione e programmazione, con il fine strategico di rafforzare un’autonomia industriale europea e, di conseguenza, la capacità di deterrenza del Vecchio continente. Una proposta che, non a caso, è stata sostenuta fin dall’inizio dal presidente francese Emmanuel Macron.
Il ruolo della Banca europea degli investimenti
Anche sul modo in cui si potranno finanziare tutte queste iniziative c’è dibattito, ma si sta facendo sempre più strada l’ipotesi di un finanziamento effettuato attraverso sovvenzioni pubbliche, ovvero l’uso di Bonds europei come leva finanziaria a supporto dell’industria della difesa. Una proposta portata avanti dal presidente del Consiglio Ue Charles Michel. Il presidente, tra l’altro, ha voluto immaginare soprattutto la partecipazione della Banca europea degli investimenti (Bei), a supporto della sicurezza e difesa europea e in favore di una “full-fledged Defence Union”. Attualmente, infatti, i finanziamenti per la difesa non sono previsti dal mandato della Bei, ma le condizioni geostrategiche attuali potrebbero portare a un ripensamento di questo principio, soprattutto dal momento che, anche nel settore finanziario, si sta imponendo la visione secondo cui non può esserci sviluppo e crescita senza la sicurezza, garantita quindi anche dalla difesa.
Le ricadute sulla Nato
Il tema degli Eurobond per la Difesa, inoltre, si collega direttamente anche ai vincoli di spesa previsti dall’Unione europea nel suo Patto di stabilità, che in casi come quello del nostro Paese, limitano necessariamente le possibilità di manovra nell’incrementare le spese della Difesa. Una limitazione che se impatta sicuramente sulla Difesa europea, si collega con la fatidica soglia del 2% del Pil da investire nel comparto previsto dall’Alleanza Atlantica e di recente rimesso al centro del dibattito dalle parole di Donald Trump, in corsa per la candidatura repubblicana alla Casa bianca. Nonostante le speranze, infatti, le spese militari non sono state scomputate dalla nuova versione del Patto, che ha semplicemente previsto l’inserimento del tema tra i fattori da prendere in considerazione quando si deve stabilire se aprire o meno una procedura d’infrazione contro un Paese che dovesse sforare i vincoli stabiliti. Accedere al credito garantito dalla Bei permetterebbe di investire anche ai Paesi più in difficoltà sul piano del debito pubblico.
Credito per l’innovazione
Di recente, inoltre, la Commissione e il Fondo di investimento europeo (Eif) hanno lanciato il programma Defence equity facility (Def), 175 milioni di euro messi a disposizione di piccole e medie imprese del settore per aumentare l’accesso al capitale. Questo denaro sarà investito tra il 2024 e il 2027 e mira a stimolare un ecosistema di fondi di investimento privati per l’innovazione nella difesa. L’obiettivo è quello di arrivare a raccogliere circa cinquecento milioni di euro in fondi privati, ponendo l’Unione europea come investitore principale, capace di attrarre poi gli investitori privati. L’iniziativa sembra prendere l’ispirazione dal parallelo strumento di accelerazione dell’innovazione della Nato Diana, pensato per facilitare lo sviluppo delle start up inserendole in un framework di collaborazioni esteso lungo tutta l’Alleanza. Inoltre, l’obiettivo dichiarato di Diana è proprio quello di rendere le società accelerate più attrattive anche per i fondi stanziati dalla Nato, come quelli messi a disposizione dal Nato Innovation fund.
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Somalia: 5 nuove basi, gli USA rafforzano la presenza militare
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 febbraio 2024 – La competizione tra le potenze mondiali in Africa si fa sempre più accesa, soprattutto sul piano militare. Se la Cina sgomita per ottenere la sua prima base navale sulla costa atlantica del continente nero e la Franciasi lecca le ferite dopo aver dovuto ritirare le sue truppe da alcuni paesi del Sahel, Washington cerca di occupare quanti più spazi possibili.
Anche gli Stati Uniti stanno seguendo le orme della Russia e ancora prima della Francia, offrendo la propria assistenza militare ai governi africani contro le milizie islamiste attive nella maggior parte del continente.
5 nuove basi in Somalia
Mentre tratta con Ghana, Costa d’Avorio e Benin per ottenere tre basi militari dove stanziare altrettante squadriglie di droni destinati al contrasto dell’insorgenza fondamentalista, Washington ha appena ottenuto dalla Somalia il via libera per aumentare la propria presenza militare nel Corno d’Africa.
Nel corso di una cerimonia presieduta dal presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, l’incaricato d’affari statunitense Shane Dixon e il ministro della Difesa somalo Abdulkadir Mohamed Nur hanno firmato a Mogadiscio un memorandum d’intesa per la costruzione di cinque basi militari per la brigata Danab, l’unità d’élite dell’Esercito Nazionale Somalo addestrata dai Berretti Verdi di Washington.
La brigata Danab è stata istituita nel 2017 a seguito di un accordo tra Stati Uniti e Somalia per formare ed equipaggiare 3000 uomini e donne provenienti da tutto il paese.
In base all’intesa, gli Stati Uniti devono realizzare delle infrastrutture militari a Baidoa, Dusa Mareb, Jowhar, Chisimaio e Mogadiscio, da utilizzare per l’addestramento di nuove unità dei corpi speciali dell’esercito somalo, incaricati di «contrastare la minaccia del terrorismo internazionale», come recita una nota del presidente Mohamud in riferimento alle milizie del «Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle Due Migrazioni», movimento integralista sunnita meglio noto come Al Shabaab (“I giovani”) e federato ad Al Qaeda.
L’intesa permette a Washington di aumentare la propria influenza militare nel paese proprio mentre l’esercito somalo è impegnato nell’ennesima offensiva contro gli islamisti e prosegue il ritiro delle forze militari della “Missione di transizione dell’Unione Africana” (Atmis), che negli ultimi anni è stata la principale protagonista del contrasto ad Al Shabaab in attesa che le forze armate somale fossero in grado di fare la propria parte.
Su richiesta dell’esecutivo somalo, lo scorso 9 febbraio le forze dell’Africom – il Comando degli Stati Uniti per l’Africa – hanno condotto diversi attacchi aerei in una zona remota a 35 km a nord-est di Chisimaio. Recentemente, invece, l’esercito somalo ha intensificato l’offensiva già in corso nella regione orientale di Galfaduud.
A sollecitare l’aumento dell’impegno militare statunitense in Somalia è stata soprattutto il presidente Mohamud che, eletto nel maggio del 2022, pochi mesi dopo ha ottenuto il dispiegamento di 450 militari americani in Somalia, in controtendenza rispetto al disimpegno ordinato da Donald Trump nel gennaio del 2021. Il graduale ritiro delle forze dell’Unione Africana – provenienti da Uganda, Kenya, Gibuti, Etiopia e Burundi – ha creato le condizioni per una maggiore dipendenza del governo somalo dalle forze statunitensi che possono contare sul supporto navale della Quinta Flotta e sul sostegno aereo proveniente dalla base di Camp Lemonnier a Gibuti.
La firma dell’accordo a Mogadiscio
Il ritiro delle truppe dell’Unione Africana aumenta la dipendenza da Washington
Avviato lo scorso 15 giugno, entro la fine di febbraio lasceranno il paese 2 dei 22 mila militari dell’Unione Africana, ed altri 3 mila dovrebbero tornare nei loro paesi nei prossimi mesi.
Man mano che alcuni territori vengono sguarniti a causa del disimpegno delle forze della “Missione di transizione”, però, i miliziani di Al Shabaab tornano a farsi sotto con attentati e attacchi. Lo scorso 6 febbraio, ad esempio, i jihadisti hanno colpito il mercato di Bakara a Mogadiscio e l’11 febbraio, sempre nella capitale somala, nel mirino è finita la base “Generale Gordon” con un attacco che ha ucciso quattro soldati degli Emirati Arabi Uniti e un ufficiale del Bahrein.
Per far fronte alla situazione il governo di Mogadiscio ha annunciato l’intenzione di integrare nelle forze armate 20 mila uomini reduci dall’addestramento ricevuto all’estero, principalmente in Uganda, Kenya, Eritrea ed Egitto. Ma ovviamente un maggiore impegno militare statunitense è considerato indispensabile dal governo somalo – che dopo 30 anni ha appena incassato dalle Nazioni Unite la fine dell’embargo all’importazione di armi – per impedire che Al Shabaab guadagni nuovamente terreno.
La costruzione delle cinque basi in Somalia e l’invio di un certo numero di addestratori e consiglieri offre a Washington un’ottima occasione per rafforzare la propria presenza in un quadrante geopolitico fondamentale. Nel Golfo di Aden gli USA hanno già schierato vari mezzi e la portaerei Eisenhower ma la Somalia potrebbe fornire un’utile piattaforma dalla quale lanciare attacchi contro gli Houthi yemeniti e in generale perfezionare il controllo del Mar Rosso.
Miliziani di al Shabaab
Cresce lo scontro tra Somalia ed Etiopia sul Somaliland
A Washington fa gioco anche la crescente contrapposizione tra la Somalia e l’Etiopia, esplosa dopo l’accordo tra Addis Abeba e la regione indipendentista somala del Somaliland per l’ottenimento di uno sbocco sul mare. In base all’intesa firmata a gennaio, in cambio del riconoscimento come stato indipendente da parte dell’Etiopia, l’ex Somalia britannica concederà al governo di Abiy Ahmed una base militare navale con accesso al porto di Berbera.
L’implementazione dell’accordo però è in ritardo rispetto alla tabella di marcia concordata, a causa dell’opposizione della Somalia e al fatto che in Somaliland si sta manifestando un’opposizione sempre maggiore, soprattutto nella provincia occidentale costiera dell’Awdal che aspira a tornare sotto la sovranità somala.
Dopo le dimissioni del Ministro della Difesa, lo scorso 13 febbraio le due camere del parlamento del Somaliland hanno addirittura votato una dichiarazione congiunta che respinge il contenuto del documento sottoscritto dal governo locale con quello etiope. Nella dichiarazione la maggior parte dei deputati e dei senatori affermano di considerare l’accordo «illegale e dannoso per l’unità del popolo del Somaliland».
Sabato scorso il presidente somalo Mohamud ha accusato l’Etiopia di voler annettere il Somaliland, territorio che dal 1991 si è reso di fatto indipendente da Mogadiscio, e di aver già inviato del personale militare nello stato ribelle per preparare il terreno. L’accusa contro il governo etiope è stata lanciata dal leader somalo proprio ad Addis Abeba nel corso dell’Assemblea Generale dell’Unione Africana durante la quale Mohamud ha accusato le autorità etiopi di aver cercato di impedire la sua partecipazione all’evento.
All’inizio di febbraio, infine, i ministri della Difesa della Somalia e quello della Turchia hanno firmato un accordo di cooperazione economica e di difesa per rafforzare le relazioni tra i due paesi. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
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di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diverse vittime.
Le macchine escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, non avendo modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, senza garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato e liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Alcuni sfollati dell’ospedale Nasser sono arrivati a Rafah, dove l’esercito israeliano intende compiere una massiccia operazione militare.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti. Tra loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone hanno provato a ritornare nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa trovata all’esterno. Altri sfollati sono già arrivati o si stanno dirigendo verso Rafah, secondo le indicazioni dell’esercito israeliano. L’ultima città di Gaza, schiacciata al confine con l’Egitto, con una popolazione pre-guerra di 280.000 abitanti, accoglie già circa 1,4 milioni di persone, per la maggior parte profughi costretti dai militari a spostarsi verso sud. Le persone, che vivono nelle tende o affollano le abitazioni ancora in piedi, sono terrorizzate dall’imminente attacco annunciato dal governo israeliano. Qualcuno ha provato a fuggire, disposto a cercare rifugio tra le rovine delle proprie abitazioni al centro e al nord della Striscia. Ma l’esercito intende fare qualsiasi cosa per evitare il ritorno dei profughi. Anzi, continua a mandare a Rafah anche i nuovi sfollati, in attesa che venga chiuso e approvato un “piano di evacuazione” per la popolazione civile che è la popolazione quasi dell’intera Striscia di Gaza. L’esercito ha presentato varie proposte al gabinetto di guerra: campi profughi lungo la costa, forse. O nelle zone già devastate dai bombardamenti e dalle demolizioni controllate. Una nuova trattativa con l’Egitto, magari. Non è chiaro neanche con quali forze immagina (e se lo immagina) Israele fornire assistenza a quasi 2 milioni di persone, soprattutto intendendo dichiaratamente liberarsi dell’UNRWA e dell’Onu in generale. Ma forse anche della Difesa civile e della Mezzaluna Rossa Palestinese. Con i coloni che sempre più numerosi si affollano ai valichi per impedire ai camion degli aiuti di entrare nella Striscia.
Intanto si è fatta sera e al Nasser sono rimasti solo pochi medici e i pazienti che non possono camminare sulle loro gambe o rinunciare all’ossigeno che rimane. I dottori sono pronti a tutto. E noi non sappiamo più se ci sarà qualcuno che potrà continuare a raccontarci cosa sta succedendo in quel buco nero fuori dal mondo e dalla legge che è diventato l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.
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Gli USA a fianco del massacro di Gaza: nuove armi e protezione all'ONU per Israele - L'INDIPENDENTE
Nonostante l’amministrazione statunitense abbia sollecitato più volte il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a tutelare i civili palestinesi e il presidente Joe Biden abbia addirittura dichiarato recentemente che «la risposta di Israele a Ga…Giorgia Audiello (Lindipendente.online)
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UE: sanzioni contro i responsabili della morte di Navalny • Imola Oggi
Gli Stati membri dell'Ue proporranno sicuramente delle sanzioni contro i responsabili della morte del dissidente russo. "Il responsabile è Putin stesso, maImola Oggi
imolaoggi.it/2024/02/19/renzi-…
Renzi: "Navalny martire della libertà" • Imola Oggi
"Il responsabile della morte di Navalny è il Cremlino, senza se e senza ma. Alla fine anche la Lega ha dovuto chiarire la propria posizione". Lo ha detto ieriImola Oggi
imolaoggi.it/2024/02/19/von-de…
Von der Leyen conferma: "Mi ricandido alla Commissione UE" • Imola Oggi
Ursula von der Leyen annuncia la candidatura per un secondo mandato alla guida della Commissione europeaImola Oggi
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L’ipocrisia di chi manifesta per Navalny e poi consegna gli ucraini a Putin
È sempre cosa buona e giusta quando tutte le forze politiche convergono senza distinzione tra maggioranza e opposizione su un punto dirimente di politica estera. È cosa buona e giusta, purché sia chiaro che di politica estera si tratta. Ma non sempre è così.
Ad esempio. L’odierna manifestazione promossa dal leader di Azione Carlo Calenda in memoria del dissidente russo Alexei Navalny ha un sottinteso politico evidente (Putin è un autocrate che ammazza senza pietà chi si oppone al suo regime) e, avvenendo nel pieno di un conflitto che lambisce l’Europa, un’altrettanto evidente implicazione strategica (la guerra di aggressione della Federazione Russa all’Ucraina va fermata). Concetto, quest’ultimo, ben chiarito da Marina Litvinenko, vedova dell’ex agente del Kgb assassinato a Londra nel 2006 dai killer del Cremlino con qualche goccia di polonio radioattivo in una tazza di te. “La reazione migliore dell’Occidente alla morte di Navalny è il sostegno all’Ucraina, perché quella è anche una guerra per una nuova Russia: se Putin perde, a Mosca le cose possono cambiare”, ha detto la Litvinenko. Concetto chiaro a tutti i leader dei partiti che oggi parteciperanno alla manifestazione indetta da Carlo Calenda. A tutti tranne a due.
Giorni fa hanno chiesto a Matteo Salvini se la Lega parteciperà alla manifestazione. “Assolutamente sì – ha risposto il segretario – spero che il 2024 sia l’anno della chiusura delle troppe guerre in corso, tra Russia e Ucraina, tre Israele e Palestina. La guerra è sempre morte, sofferenza, sconfitta e quindi conto che l’Italia sia protagonista di pace”. Ora, delle due l’una: o Salvini non ha compreso il senso della manifestazione odierna, oppure finge di non averlo compreso. In entrambi i casi c’è un problema, e a lume di naso si tratta di un problema di coerenza.
Discorso simile per Giuseppe Conte. Che senso ha mandare, come annunciato oggi a Repubblica dal leader del Movimento 5 Stelle, una delegazione di partito alla manifestazione sull’omicidio di Navalny, e al tempo stesso spianare la strada dell’espansionismo militare russo negando gli armamenti necessari al popolo ucraino per difendersi? Nessun senso, evidentemente. Si tratta di una mossa furbesca volta ad allinearsi allo sconcerto dell’opinione pubblica per la morte del dissidente, senza per questo assumere impegni politici conseguenti. In una parola: un’ipocrisia.
È sempre cosa buona e giusta quando tutte le forze politiche convergono senza distinzione tra maggioranza e opposizione su un punto dirimente di politica estera. È cosa buona e giusta, purché sia chiaro che di politica estera si tratta. Una chiarezza che manca ad almeno due leader politici tra i tanti che oggi parteciperanno alla fiaccolata di protesta contro la satrapia putiniana.
L'articolo L’ipocrisia di chi manifesta per Navalny e poi consegna gli ucraini a Putin proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Un uomo in marcia a testa alta verso la morte
Abbiamo perso la memoria, e di conseguenza smarrito il senso, di scelte come questa. Scelte che, infatti, ci affascinano e ci sconvolgono in modo particolare. Con tutta evidenza, Aleksej Navalny sapeva che sarebbe stato ucciso. E tuttavia non si è sottratto, ma ha scelto di consegnarsi al proprio destino per testimoniare con la vita un principio generale e rendere onore ad una particolare idea di sé. Del proprio stile, della propria incrollabile identità. Sacrificio, destino, principi, coerenza, identità: parole oggi dimenticate, a volte ridicolizzate e tuttavia essenziali alla dignità umana. Parole possenti, di cui ciascuno di noi riconosce istintivamente il valore e patisce naturalmente l’assenza, per poi rimanere folgorato al loro inaspettato manifestarsi.
È stato per questo che, in un’epoca in cui la fedeltà ideale è considerata il vezzo degli imbecilli e l’immolazione di sé il costume dei perdenti, la vicenda gloriosa e tragica di Aleksej Navalny ci ha colpiti nel profondo più dei precedenti, pur numerosi, casi di dissidenti o di giornalisti russi assassinati dai sicari di Putin. Evidentemente, il caso Navalny è diverso. E non è diverso solo perché di lui conosciamo più di altri il volto e la storia, ed entrambi ci piacciono. La vicenda di Aleksej Navalny è più choccante e potente delle altre perché choccante e potente più di ogni altra è l’immagine dell’uomo che sceglie, sceglie di non piegarsi e accetta implicitamente il proprio martirio. È la figura, classica, dell’eroe. Perché è vero che, come canta Guccini, “gli eroi sono tutti giovani e belli” e di conseguenza affascinanti, ma ancor più vero e che, come osservava Plutarco, “eroi sono solo quelli morti”. Ed è proprio il rapporto esibito con la propria morte che della vicenda di Aleksej Navalny più ci seduce. Ha scritto il poeta Emil Cioran che “di tutti gli uomini, l’eroe è colui che pensa meno alla morte. Eppure, nessuno vi aspira, sia pure inconsciamente, quanto lui. Questo paradosso definisce la sua condizione: volontà di morire senza il sentimento della morte”.
Nell’agosto 2020 Navalny è stato avvelenato, nel gennaio 2021 si è spontaneamente consegnato al suo avvelenatore. Un uomo in marcia a testa alta verso morte come Gesù Cristo e come Gesù Cristo consegnato di conseguenza all’immortalità.
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Un bifacciale acheuleano nel Dittico di Melun? Secondo gli studiosi sembra proprio che il dipinto contenga l’immagine di una pietra lavorata in età preistorica. Il Dittico di Melun, opera attribuita a Jean Fouquet, rappresenta unoContinue reading
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Ecco Space cloud, il progetto di Leonardo per il supercalcolo in orbita
Si chiama Military space cloud architecture, ed è il progetto con cui Leonardo mira a portare la capacità di calcolo dei supercomputer direttamente nello Spazio, per metterla a servizio della Difesa italiana. L’obiettivo per piazza Monte Grappa è quello di diventare leader nel settore, in crescita vorticosa, delle comunicazioni e della computazione spaziale. A spiegare la strategia dell’azienda è stato lo stesso amministratore delegato, Roberto Cingolani, in un’intervista al Corriere della Sera: “Spazio e digitale, quest’ultimo inteso come supercalcolo, cloud e intelligenza artificiale, sono rispettivamente un dominio e un abilitatore chiave per costruire quello scudo digitale strategico per la sicurezza globale dei cittadini”. Il progetto, infatti, mira a portare direttamente in orbita le capacità di calcolo e di memoria ad alta prestazione, tipiche dei supercomputer e dei cloud basati a terra, per metterle poi a disposizione degli enti governativi e delle Forze armate nazionali. Un programma unico in Europa.
Military space cloud architecture
Lo Space cloud potrà immagazzinare oltre cento terabyte di dati generati sulla Terra e nello spazio a bordo di ogni satellite della costellazione. Potrà eseguire elaborazioni con una potenza superiore a 250 Tflops (250mila miliardi di operazioni al secondo) a singola precisione, adottando avanzati algoritmi, che sfruttano l’intelligenza artificiale, tecniche di machine learning e analisi di big data e comunicando e scambiando i dati autonomamente con gli altri satelliti. Questo significherà alla fine del programma di poter disporre di un supercomputer e di un avanzato sistema di archiviazione dei dati cyber sicuri nello spazio. Questo garantirà agli utenti accesso a dati strategici (comunicazione, osservazione della terra e navigazione) ovunque e in qualsiasi momento, riducendo al contempo significativamente le tempistiche di elaborazione dei dati, processati direttamente in orbita, fornendo informazioni in tempo reale, facilitando così operazioni multi-dominio. Grazie al trasferimento delle sole informazioni di interesse a Terra, saranno lasciate libere le reti trasmissive per altri collegamenti e lo storage di dati in orbita rappresenterà anche un utile back-up dei centri di Terra più esposti a calamità naturali.
I supercomputer di Leonardo
Alla base del progetto ci sono le capacità sviluppate con la realizzazione del supercomputer Hpc davinci-1, tra i primi Hpc al mondo dell’aerospazio e difesa per potenza di calcolo e prestazioni, installandone parte delle capacità, hardware e software, su un satellite per immagazzinare cento terabyte di dati. A queste capacità, naturalmente, saranno affiancati i sistemi di protezione cyber, di intelligenza artificiale e di proiezione spaziale dell’azienda. “In uno scenario multidominio, gestione, sicurezza e scambio rapido di una sempre maggiore quantità di dati, molti dei quali tattici, diventano elementi strategici per la difesa del Paese”, ha spiegato Simone Ungaro, chief innovation officer di Leonardo, che ha aggiunto come il gruppo sarà il primo in Europa “a sviluppare un progetto di Space Cloud, dimostrando fattibilità e benefici derivanti dall’utilizzo di una architettura di questo tipo e abilitando un nuovo paradigma di cloud e edge computing”.
Collaborazione spaziale
Protagoniste di questa iniziativa saranno anche le joint venture spaziali del gruppo, Telespazio e Thales Alenia Space. Nei prossimi due anni si avvierà la prima fase per la definizione la definizione dell’architettura del sistema e una seconda fase che terminerà con lo sviluppo di un digital twin del satellite che ospiterà il supercomputer, insieme al dimostratore del terminale satellitare multi-costellazione per simulare, in un ambiente digitale, i diversi scenari di applicazione. Questi test saranno a loro volta effettuati grazie al davinci-1. Lo studio sarà precursore di un’ulteriore fase sperimentale che, se confermata, prevederà il dispiegamento di una costellazione di satelliti dimostrativi in orbita”.
Ministero dell'Istruzione
Da lunedì 11 marzo partiranno le prove scritte dei #concorsi ordinari per l’assunzione in ruolo dei #docenti su posto comune e su posto di sostegno nelle scuole di ogni ordine e grado.Telegram
Un commissario Ue per la Difesa? Le sfide secondo Edward Lucas
Il comportamento degli europei di fronte al rischio è variabile. Il gruppo “Vivere liberi o morire” considera il rischio di diventare schiavi sottomessi alla Russia di gran lunga peggiore della morte. Combatteranno per la loro libertà e sovranità, a qualunque costo. I primi tra loro sono gli ucraini, che lo stanno già facendo. Seguono a ruota gli Stati baltici di Estonia, Lettonia e Lituania, oltre a Finlandia e Polonia. Vedono la guerra – soprattutto se l’Ucraina perde – come una possibilità fin troppo probabile. E agiscono di conseguenza. La Finlandia, sempre ben preparata anche nei decenni di illusione post-1991, ha aumentato la sua preparazione militare e civile nel 2022. Estonia, Lettonia e Lituania stanno costruendo rinforzi al confine orientale. La Polonia sta raddoppiando le dimensioni del suo esercito. Tutti questi Paesi stanno aumentando la spesa per la difesa, ben oltre il parametro di riferimento della Nato del 2% del prodotto interno lordo. La Svezia li segue a ruota in termini di preparazione e consapevolezza, seguita da Danimarca e Norvegia.
All’altra estremità troviamo coloro che non combatteranno, qualunque cosa accada. Tra questi ci sono i free-rider (Irlanda) e i trough-feeder (Austria), oltre a coloro i cui leader, per motivi di opportunità o interesse personale, hanno deciso di stringere amicizia con il Cremlino. L’Ungheria ne è l’esempio principale. Sono collusi con la Russia e (nel caso dell’Ungheria) disturbano attivamente l’unità dell’alleanza.
La maggior parte dei Paesi europei si trova nel mezzo. Si presentano alle esercitazioni della Nato, come per esempio Steadfast Defender, attualmente in corso, la più grande esercitazione dell’alleanza dalla fine della Guerra Fredda. Aumentano la spesa per la difesa, anche se a malincuore, in ritardo e lentamente.
In caso di crisi, questa via di mezzo diventa destabilizzante. Immaginiamo, per esempio, una violenta provocazione russa contro gli Stati baltici o la Polonia. Un piccolo sconfinamento, forse, perpetrato da presunti volontari, accompagnato da attacchi informatici, intrusioni nello spazio aereo, sabotaggi e altre intimidazioni mirate.
Le vittime e i loro alleati la vedranno, giustamente, come una minaccia esistenziale. Una provocazione che deve essere affrontata con decisione e (per la Russia) con durezza, a tutti i costi. In caso contrario, deterrenza e difesa saranno inevitabilmente compromesse. Il prossimo attacco e quindi la sconfitta diventano inevitabili.
Ma gli altri Paesi europei non la vedranno in questo modo, soprattutto se storditi e intimoriti dalle minacce e dalle trovate russe. Inviteranno alla cautela, alla diplomazia e al dialogo. Perché rischiare la distruzione nucleare delle città europee per qualche campo nell’Europa orientale? Ma non saranno solo parole. Questi Paesi (per esempio la Germania o il Belgio) potrebbero impedire ai rinforzi diretti da Ovest a Est di utilizzare il loro sistema ferroviario, le loro strade o il loro spazio aereo. Non è un’ipotesi: la Germania lo ha fatto con l’Ucraina nel 2021.
Non molto tempo fa, uno scenario del genere sarebbe sembrato troppo losco e inverosimile da considerare. La Nato prevede un processo decisionale rapido e unito in caso di crisi. Ma il carburante che spinge la Nato è la forza di volontà americana. E questa, come gli ucraini stanno scoprendo a loro spese, è ora accesa solo a intermittenza. Così come l’ombrello nucleare americano è vitale per la deterrenza europea, la pressione americana è vitale per l’unità del continente. La credibilità degli Stati Uniti in Europa è stata gravemente pregiudicata dalle manovre del Congresso sul pacchetto per l’Ucraina. I risultati sono già visibili.
Il Regno Unito, dopo la Brexit, non è in grado di colmare il vuoto decisionale. La Francia, a causa delle idiosincrasie politiche e presidenziali, non gode di piena fiducia nell’Europa orientale. La Germania potrebbe in teoria svolgere questo ruolo, ma non presto e non facilmente. Rimangono le istituzioni europee, soprattutto la Commissione. Molto derisa in passato, è ora la migliore (anche se preoccupantemente esile) speranza di coordinare la difesa del continente. Non è ancora stato trovato un accordo sulla figura di un commissario europeo per la difesa – un omologo dell’Alto rappresentante per la politica estera – né tantomeno è stato assegnato l’incarico. Ma i problemi sono già affastellati, fumanti, sulla scrivania del prossimo arrivato.