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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile


I sostenitori del potente leader religioso sciita dopo l'annuncio si sono riversati a migliaia nella Zona Verde di Baghdad in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere. Si teme una risposta dura delle forze sciite rivali di Al S

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni politiche dello scorso ottobre. Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

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Muqtada al Sadr

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffuse sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo affermare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

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Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dall’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri

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USA: i falchi chiedono davvero una guerra preventiva alla Russia?


L’invasione dell’Ucraina da parte del Presidente Vladimir Putin alla fine di febbraio 2022 è stata un atto autoproclamato di guerra preventiva. È meglio entrare in guerra ora, prima che la testa di ponte ucraina della NATO ai confini della Russia diventi una minaccia esistenziale imminente, disse Putin all’epoca. Più a lungo la guerra sarebbe stata [...]

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L'agenda del Garante Gli eventi a cui partecipano i Componenti del Collegio Il documento è in costante aggiornamento 13 settembre, ore 15,30 "Oltre il PNRR: il SSN del futuro" Partecipa Ginevra Cerrina Feroni, Vice Presidente del Garante per la pro...


Non parte oggi SLS con Artemis 1


Sarebbe dovuto partire oggi alle 8:33 ora della Florida, quindi appena da poco in Italia, un razzo colossale dalla piattaforma di lancio 39b del Kennedy Space Center. Prossima destinazione: Luna. C’è stato qualcosa che non ha funzionato ad uno dei motori del primo stadio e il lancio è stato riprogrammato per il prossimo 2 settembre. [...]

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Tommaso Subini – La via italiana alla pornografia


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Guarda la registrazione del Convegno sul Canale YouTube del Garante al link: youtube.com/watch?v=mQdMolAKit… APPROFONDIMENTI - Intervista a Giovanni Pitruzzella, Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea - Inter...


"Non ho paura e non pago il pizzo."

L’imprenditore Libero Grassi, attraverso una lettera inviata al Giornale di #Sicilia alzava la testa contro la mafia, ribellandosi apertamente alla violenza di Cosa nostra.

Denunciare il racket, un coraggio che Grassi pagherà con la propria vita qualche mese dopo, il 29 agosto del 1991 a #Palermo.

Il suo coraggio contribuì a dotare l’Italia di uno strumento a favore degli imprenditori coraggiosi, il varo del decreto che porta alla legge anti-racket 172.

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GAZA. Farouq, 6 anni, morto in attesa di un permesso che non è mai arrivato


Provoca sdegno la morte il 25 agosto del bambino palestinese, gravemente ammalato, rimasto in attesa per mesi del via libera delle autorità militari israeliane per curarsi a Gerusalemme. Un caso non isolato. Sono centinaia che ogni anno chiedono di uscire

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – Il caso Farouq Abu Naja, il bimbo di 6 anni gravemente ammalato al quale, denuncia il centro per i diritti umani Al Mezan, le autorità militari israeliane non ha consentito di uscire dalla Striscia di Gaza e di raggiungere l’ospedale Hadassah di Gerusalemme (dove era atteso), ha riportato sotto i riflettori le restrizioni discriminatorie ai movimenti e il sistema di permessi imposti ai pazienti palestinesi che ostacolano il loro accesso agli ospedali al di fuori di Gaza. Secondo Al Mezan le richieste di permesso di uscita dei pazienti presentate alle autorità israeliane tra il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di salute di Farouq e alla sua morte giovedì 25 agosto.

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Farouq Abu Naja

Pagine Esteri vi invita a leggere l’approfondimento sull’impatto delle limitazioni al trasferimento di malati dalla Striscia di Gaza, scritto dal dottor Angelo Stefanini, medico, già responsabile dell’ufficio dell’OMS per i Territori palestinesi occupati, e da anni medico volontario per conto della ong PCRF-Italia.

di Angelo Stefanini

La sofferenza collettiva che subisce la popolazione della Striscia di Gaza non è causata soltanto dalle bombe, ma dalla “violenza burocratica”, ordinaria e oscena, esercitata da un meccanismo perverso di “autorizzazione alla sopravvivenza” a cui migliaia di malati gravi devono sottostare per potere accedere a cure non disponibili all’interno della Striscia.

La prolungata crisi umanitaria di Gaza è principalmente il risultato combinato dell’assedio illegale imposto da Israele e della sistematica distruzione delle infrastrutture pubbliche e private. Molte delle attuali restrizioni, originariamente volute dalle autorità israeliane all’inizio degli anni ’90, sono state intensificate dopo il giugno 2007, in seguito alla presa di controllo su Gaza da parte di Hamas, quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco al passaggio, da e verso la Striscia, di persone, mezzi di sussistenza e servizi essenziali. Come conseguenza, il sistema sanitario soffre di una crescente carenza in attrezzature, personale e forniture di elettricità e acqua.

Nel caso in cui a Gaza non siano disponibili cure mediche specialistiche o salvavita, i medici devono indirizzare i malati verso ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele, o altrove all’estero, a spese dell’Autorità Palestinese. Al momento dell’invio, il paziente entra in un lungo, oneroso e opaco percorso di autorizzazioni che inizia con una domanda alle autorità sanitarie palestinesi e si conclude con la risposta delle autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez sul confine con Israele.

I malati sono l’unico gruppo vulnerabile che gode di una certa clemenza riguardo al divieto generale di movimento che Israele impone agli abitanti di Gaza; tuttavia, mentre tale “esenzione umanitaria” consente alla maggior parte dei pazienti (muniti di permesso di invio, copertura finanziaria dall’Autorità Palestinese e appuntamento fissato) di accedere agli ospedali fuori dalla Striscia, a centinaia di loro viene impedito ogni mese di uscire. Nonostante seguano le procedure stabilite dalle autorità israeliane e dimostrino, attraverso referti medici, l’assoluta necessità del trasferimento, sempre più spesso, infatti, le richieste sono ritardate o respinte dalle autorità israeliane, con i malati lasciati in preda alle loro precarie condizioni di salute o alla morte. Uno studio dell’OMS sulla sopravvivenza comparativa dei malati di cancro nella Striscia di Gaza ha dimostrato una mortalità significativamente maggiore nei pazienti che non hanno ottenuto da Israele il permesso di uscire dalla Striscia per accedere a cure mediche adeguate, rispetto a quelli che l’hanno ottenuto.

Inoltre, il processo di richiesta del permesso comporta inevitabilmente stress, ansia e talvolta traumi nei pazienti e nelle loro famiglie che hanno sopportato per anni ritardi e cure mediche negate e a cui negli ultimi mesi Israele ha inasprito le restrizioni già rigorose senza chiari motivi. Inoltre, a causa della situazione economica di Gaza, il Ministero della salute palestinese deve sostenere un numero crescente di malati che necessitano di assistenza pubblica gratuita e di conseguenza i tempi di attesa possono allungarsi per anni.

Le decisioni israeliane di rifiuto all’autorizzazione vengono a volte ribaltate grazie al coinvolgimento di rappresentanti legali. Il lavoro del Gaza Community Mental Health Programme ha dimostrato che, nonostante le difficoltà crescenti e il lungo percorso da compiere, in mancanza di altre opzioni i pazienti mantengono la speranza nella concessione del permesso. L’attesa e la relativa impotenza a cambiare la situazione hanno gravi ripercussioni sulla salute mentale dei malati, che spesso necessitano di farmaci per gestire la costrizione psicologica che accompagna il processo.

Tipi di malati gravi che necessitano di cure al di fuori di Gaza:

  • Pazienti oncologici che necessitano di chirurgia, chemioterapia o radioterapia. Gli ospedali di Gaza non dispongono delle attrezzature per l’assistenza olistica come PET e scanner a radioisotopi.
  • Pazienti cardiopatici: di fronte ai circa 500 pazienti adulti che necessitano di un intervento chirurgico a cuore aperto ogni anno, Gaza ha un solo centro di cardiochirurgia che può eseguire 196 interventi chirurgici di quel tipo all’anno.
  • Pazienti pediatrici: il Ministero della Salute segnala annualmente oltre 300 bambini che soffrono di disordini metabolici, difetti congeniti e malati di cancro che richiedono cure al di fuori di Gaza.
  • Pazienti oculistici: gli ospedali di Gaza non hanno attrezzature né competenze adeguate a trattare problemi della camera posteriore del bulbo oculare, o i trapianti di cornea.
  • Pazienti con malattie ossee: la carenza di protesi articolari, acutizzata dal blocco e dalle ferite prodotte dagli assalti armati israeliani, è il principale fattore determinante il bisogno di trasferimento in ospedali al di fuori di Gaza.
  • Pazienti neurochirurgici: a Gaza mancano attrezzature e competenze in questo tipo di microchirurgia.

Criteri e fasi del trasferimento

Quando a Gaza un malato grave viene informato che la procedura diagnostica o il trattamento di cui ha bisogno non è disponibile localmente, riceve un dettagliato rapporto ufficiale sul suo caso e su quanto necessario per poter essere inviato ad altro ospedale fuori dalla Striscia. Il rapporto è approvato dai direttori ospedalieri e trasmesso al Ministero della Salute (MdS) palestinese che, in collegamento con gli ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele o altrove, prenota un appuntamento. Successivamente, il MdS invia i rapporti e la data dell’appuntamento al ministero incaricato di mantenere i contatti con l’occupazione israeliana, il Ministero degli Affari Civili (MoCA). Il MoCA a sua volta presenta la richiesta di autorizzazione di invio del paziente, con il giorno dell’appuntamento fissato, al Coordinatore delle attività di governo nei territori (COGAT), l’unità del Ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili nei territori palestinesi occupati.

Il monitoraggio di Al Mezan Centre for Human Rights indica che, anche nel caso in cui i pazienti seguano tutte le procedure previste fino all’ultimo passo dell’appuntamento fissato, non è comunque garantita la concessione di un permesso. Le politica israeliana di severe restrizioni al movimento rimane una barriera insormontabile per molti pazienti, anche se l’ospedale è a solo una o due ore di automobile.

Il processo di richiesta di autorizzazione può seguire tre percorsi: il primo riguarda le domande prioritarie per accedere a un intervento medico immediato aggirando le citate commissioni deliberanti e formulando la richiesta di trasferimento dal MdS entro 24 ore. Se tale richiesta è respinta dalle autorità israeliane, viene rapidamente intrapreso un altro processo accelerato (inadeguato per i pazienti che non possono permettersi un’attesa di uno o due giorni). Il secondo percorso riguarda le domande urgenti di pazienti in condizione critica, ad es. i pazienti oncologici, ma senza bisogno di un intervento immediato, che vengono esaminate da un comitato decisionale del MdS con l’appuntamento nell’ospedale di riferimento in genere fissato a due settimane dalla richiesta. Ogni ritardo da parte delle autorità israeliane oltre questo periodo richiede che il paziente ottenga un nuovo appuntamento nell’ospedale e ricominci da capo il processo di richiesta. Infine, le domande normali per pazienti meno urgenti seguono un terzo percorso che può durare da oltre due settimane a diversi mesi. Anche in questo caso, ogni ritardo oltre l’appuntamento ospedaliero o il rifiuto del permesso da parte delle autorità israeliane significa che il paziente deve fissare un nuovo appuntamento in ospedale ricominciando dall’inizio.

È importante notare che una domanda approvata non si traduce necessariamente in un esito finale positivo, a causa degli interrogatori, ritardi, molestie, ostacoli e arresti di pazienti o accompagnatori al valico di Erez che si possono frapporre sulla strada per l’ospedale. La pratica dell’arresto degli accompagnatori o la mancata concessione del loro permesso ha gravi ripercussioni anche sui pazienti, poiché quest’ultimi non sono in genere autosufficienti durante il viaggio da e per l’ospedale, e durante la degenza. In alcuni casi, bambini palestinesi sono stati costretti a recarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza senza i loro genitori.

A volte le autorità israeliane rispondono con un esplicito rifiuto alla richiesta di permesso accampando ragioni “di sicurezza”, poiché qualcuno potrebbe approfittarne per compiere attacchi contro Israele. Tuttavia, i motivi addotti da Israele nei confronti dei pazienti sono smentiti dalla comune pratica di concedere nulla osta a malati consentendo loro di viaggiare per poi bloccare o rifiutare i permessi per gli stessi pazienti con il pretesto dei requisiti di sicurezza.

Succede anche che le autorità israeliane respingano il permesso a un malato di cancro che ha già subito un ciclo di cure al di fuori di Gaza, durante il percorso terapeutico, interrompendo così il trattamento prescritto. Un ulteriore processo di richiesta deve allora essere di nuovo avviato dall’inizio. Tali pratiche confutano chiaramente le asserzioni di Israele sui problemi di sicurezza, dal momento che al paziente era già stato consentito il passaggio attraverso Erez almeno una volta prima del rifiuto.

I dati forniti dalla Direzione Coordinamento e Collegamento del MdS mostrano negli ultimi anni un costante aumento del tasso di risposte che giungono in ritardo: dal 14% del 2014 a una media del 44% nel 2017. Nel 2021 il 36% delle 15.301 richieste presentate è stato respinto, non ha ricevuto risposta o è stato ritardato con vari pretesti.

Nonostante l’esame approfondito delle cartelle cliniche compiuto dalle commissioni mediche palestinesi specializzati, le autorità israeliane bloccano sempre più i pazienti ritardando le risposte. Quando il malato non riceve risposta dalle autorità, è a quel punto costretto a cercare un altro appuntamento che, se confermato, esige una nuova domanda di permesso di uscita. Questa sequenza può essere ripetuta più volte, con appuntamenti in scadenza, nuovi appuntamenti fissati e domande di autorizzazione ripresentate, senza che venga concesso un permesso di uscita.

Il ritardo è la modalità più penosa per i pazienti per lo stress aggiuntivo dovuto al timore che l’autorizzazione non arrivi in tempo per il giorno dell’appuntamento. Rappresenta anche un modo, decisamente perverso, facendo perdere un appuntamento dietro l’altro, di vanificare le attese di un ricovero ospedaliero in cui il malato vede l’ultima speranza di sopravvivenza.

Durante l’attesa, ai pazienti può essere richiesto di presentarsi per un colloquio con le autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez, come prerequisito per la concessione del permesso. Questo momento, considerato da Israele come parte dello screening di sicurezza, mette il paziente e/o il suo accompagnatore in una posizione molto vulnerabile e la mancata presenza significa che la richiesta di permesso viene automaticamente respinta.

Tra il 2014 e il 2017 sono stati convocati a colloquio oltre 1.660 pazienti e accompagnatori. Molti di loro hanno riferito di essere stati sottoposti a veri e propri interrogatori con richieste di informazioni sulla situazione della sicurezza a Gaza e su parenti, vicini e amici. Ad alcuni pazienti è stato chiesto di collaborare con i servizi di sicurezza israeliani in cambio dell’accesso alle cure mediche. Alcuni che si sono rifiutati hanno visto respinta la richiesta di permesso dalle autorità israeliane. E ‘ noto il caso di almeno un paziente percosso durante il colloquio dagli agenti di sicurezza israeliani, in particolare nelle parti del corpo per le quali erano richieste cure mediche.

Il diritto internazionale vieta l’uso della coercizione fisica e morale contro le persone protette per ottenere informazioni sensibili. Tale pratica rientra nei criteri di definizione di tortura dell’UNCAT. Sono documentati casi in cui i servizi di intelligence israeliani hanno chiamato i pazienti per un colloquio, solo per poi rimandarli a Gaza dopo avere ispezionato i loro telefoni cellulari per raccogliere dati e ottenere informazioni private.

In una lettera al Ministro della difesa israeliano, procuratore generale e capo del COGAT, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono ai pazienti di Gaza di accedere alle cure di cui hanno bisogno. Il blocco della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, che costringe i malati bisognosi di cure non disponibili a Gaza ad affrontare interminabili processi burocratici, procedure di sicurezza arbitrarie e l’incertezza dell’esito finale.

Nel 2002, durante la seconda Intifada, allora responsabile dell’ufficio dell’OMS per i territori palestinesi occupati, scrivevo ad amici: “Quotidianamente vedo, sento e tocco con mano quello che a volte mi appare come ‘il male’ nella sua forma più ‘sofisticata’. La brutalità che vedo sempre più chiara non è tanto nelle azioni violente come i bombardamenti, ma in azioni molto meno visibili e per questo quasi mai riportate dai grandi media…[..] Quello che più mi spaventa è che in questo modo è proprio Israele a fissare gli standard morali a cui gli altri devono adeguarsi.”

La situazione non è migliorata e tutti noi continuiamo ad esserne responsabili. Pagine Esteri

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pagineesteri.it/2022/08/29/med…

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IRAQ. Il cambiamento climatico sta cancellando il Crescente fertile


Le Nazioni unite hanno classificato l'Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici e alla desertificazione. Nel 2030 avrà meno di 1.000 metri cubi di acqua disponibili per persona. L'articolo IRAQ. Il cambiamento climatico

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 26 agosto – L’Iraq è chiamato con urgenza a contenere le conseguenze del cambiamento climatico che rischiano di trasformare in un deserto totale una terra da sempre conosciuta come il Crescente fertile. Gli iracheni quest’anno affrontano una stagione di caldo torrido senza precedenti – già in tempi «normali» d’estate si raggiungono anche i 45 gradi – e continue tempeste di sabbia e polvere. La sfida è immensa. Nel 2019, le Nazioni unite hanno classificato l’Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici e alla desertificazione. Commentando l’aumento del numero e le proporzioni delle tempeste di sabbia, il direttore generale del ministero dell’ambiente Issa Al-Fayyad ha previsto che ci saranno una media di 300 giorni polverosi all’anno entro il 2050. «Il cambiamento climatico sta avendo impatto pesante sull’Iraq», ha detto in una recente intervista Hazbar Osama, uno dei responsabili dell’Organizzazione meteorologica irachena insistendo sulla necessità di attuare l’Accordo di Parigi e collaborare con gli Stati confinanti per la gestione dell’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate.

La desertificazione è esacerbata non solo dall’aumento delle temperature ma anche dalla scomparsa delle aree verdi, dalla diminuzione delle precipitazioni in Iraq e nei paesi vicini e dalla riduzione delle riserve idriche sotterranee. Il terreno si sta allentando ed è più a rischio di disperdersi nell’aria durante le tempeste di polvere che sono dannose anche per la salute. Nei primi sei mesi del 2022 migliaia di iracheni sono stati ricoverati negli ospedali per malattie respiratorie. E andrà peggio in futuro.

L’altro allarme riguarda l’acqua. In un rapporto pubblicato lo scorso novembre, la Banca Mondiale ha previsto che l’Iraq affronterà una grave penuria d’acqua entro il 2030, con meno di 1.000 metri cubi disponibili per persona. «La riduzione del 20% dell’approvvigionamento idrico provocherà mutamenti nei raccolti e il cambiamento climatico potrebbe ridurre il Pil reale fino al 4% (6,6 miliardi di dollari), rispetto ai livelli del 2016», si legge nel rapporto.

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L’Eufrate

La dote millenaria del paese sono i fiumi Tigri ed Eufrate che forniscono circa il 98% delle acque superficiali. Dote che va spartita con altri paesi. Entrambi i fiumi hanno origine in Turchia. L’Eufrate attraversa la Siria prima di entrare in Iraq e i principali affluenti del Tigri scorrono dall’Iran. Quindi si uniscono allo Shatt Al Arab prima di sfociare nel Golfo. I flussi dei due fiumi sono diminuiti negli ultimi decenni, scendendo drasticamente da un picco di quasi 80 miliardi di metri cubi negli anni ’70. Gli ultimi dati resi disponibili dal ministero della pianificazione iracheno mostrano che nel 2020 la fornitura d’acqua dal Tigri era di 11 miliardi di metri cubi e quella dei suoi affluenti di 19 miliardi di metri cubi. La fornitura dall’Eufrate è stimata in 20 miliardi di metri cubi. L’approvvigionamento idrico totale dell’Iraq dai due fiumi, perciò, è stato due anni fa di 50 miliardi di metri cubi, 30 miliardi in meno rispetto agli anni ’70. E se le tendenze attuali dovessero continuare, l’Iraq potrebbe dover affrontare un deficit di 11 miliardi di metri cubi di acqua all’anno entro il 2035.

La diminuzione del livello dell’acqua del Tigri e dell’Eufrate in Iraq è in gran parte dovuta a dighe e progetti di irrigazione in Turchia e, in misura inferiore, in Iran. Ankara ha costruito decine di dighe che hanno ridotto i flussi a valle di entrambi i fiumi, Teheran è intervenuta sugli affluenti del Tigri approfittando della mancanza di accordi vincolanti per la condivisione dell’acqua. Presto sulle quote d’acqua è previsto un incontro tra Iraq, Siria e Turchia, ha annunciato il ministro iracheno delle risorse idriche Mahdi Rashid Al Hamdani. E l’esperto economico, Mazen Al Mayyali, in una intervista alla rivista Amwaj, sostiene che l’Iraq potrebbe convincere Turchia e Iran a una maggiore cooperazione usando lo sviluppo del commercio come carta vincente nei negoziati. Non ci sono certezze però.

Mentre lo stallo politico in cui si trova il paese da 10 mesi paralizza l’attività dello Stato, attivisti della società civile irachena e volontari hanno lanciato, anche sui social, una campagna per incoraggiare il rinverdimento delle terre aride in tre distretti a Baghdad, nonché nei governatorati di Karbala e Ninive. Consigliano la coltivazione di alcune specie di piante autoctone con la capacità di trattenere il suolo e l’acqua e dare ombra. E sollecitano i cittadini iracheni a piantare alberi e prendendosi cura di loro. Ma la portata della sfida è enorme e non può essere vinta senza piano d’azione delle autorità irachene in cooperazione con gli Stati confinanti. Pagine Esteri

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Il Ministero dell’Istruzione ha inviato oggi alle scuole un vademecum con le principali indicazioni per il contrasto della diffusione del Covid-19 in ambito scolastico in vista dell'avvio dell'anno 2022/2023.


USA: condono del debito studentesco, l’impatto del piano di Biden


Il Presidente Joe Biden ha annunciato un programma per fornire la riduzione del debito studentesco a milioni di mutuatari di prestiti federali. Il piano offrirebbe fino a $ 10.000 di perdono per le persone che guadagnano meno di $ 125.000 – $ 250.000 per le coppie – e fino a $ 20.000 per i beneficiari [...]

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L’affidavit dell’FBI rivela come Trump potrebbe aver compromesso la sicurezza nazionale


Il Dipartimento di Giustizia il 26 agosto 2022 ha rilasciato una dichiarazione giurata scritta da un agente speciale dell’FBI che è stata utilizzata per ottenere un’ingiunzione del tribunale per la ricerca da parte dell’FBI della proprietà dell’ex Presidente Donald Trump in Florida per documenti relativi alla difesa nazionale e altri documenti del governo. Gran parte [...]

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Per un pugno di dollari


La moneta è la più importante tecnologia umana. Moltissime persone danno per scontata la sua esistenza e natura, ma l'ignoranza sta diventando sempre più pericolosa. È ora di iniziare a riflettere.
Articolo riservato agli abbonati


Oggi parliamo di un tema che potrebbe sembrare avulso da quello di cui parlo di solito, ma che in verità è strettamente legato con il concetto di privacy e libertà: la moneta. Tutti la usiamo fin da piccoli, talmente tanto e spesso che ne dimentichiamo il suo significato. Eppure la moneta è la tecnologia che più di ogni altra plasma la nostra società.

Non conoscere almeno le basi di questa tecnologia è molto rischioso: da anni viene usata contro di noi e siamo oggi sull’orlo di un enorme sconvolgimento globale alla cui base c’è proprio il concetto di moneta.


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Dalle conchiglie alla carta


I primi esempi di conchiglie e oggetti usati come moneta risalgono a più di 75.000 anni fa, in Sud Africa.

2332042Fonte: nakamotoinstitute.org/shelling-out/

Da quel che sappiamo, praticamente tutte le culture umane, fin dalla preistoria, ebbero l’abitudine e l’interesse di collezionare oggetti artistici composti da conchiglie, denti e ossa di vario tipo, che poi venivano usati come gioielli, collane o cimeli da trasferire alle future generazioni.

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Sono 1.737 le proposte ideative e progettuali arrivate alla chiusura del bando di concorso per la progettazione e la realizzazione di 212 nuove scuole finanziate con le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il #PNRR.
#pnrr


Quel che unisce


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Questo articolo si può probabilmente considerare come il primo di una serie sulla filosofia del sitoctt, se così vogliam dire. Per iniziare, di cosa è...




La centrale nucleare di Zaporizhzhia è rimasta isolata dalla rete elettrica, facendo temere il peggio per i suoi reattori. Per ora il pericolo è scampato. Ma molti segnali fanno intuire che il conflitto sarà purtroppo lungo.


Cortesie per gli ospitiAncora una delegazione Usa a Taiwan. Si tratta della terza visita di un funzionario americano a Taipei (un senatore repubblicano in questo caso) nelle ultime tre settimane.


USA: primarie dem, largo ai moderati (per ora)


Gli esiti delle primarie che si sono svolte negli scorsi giorni a New York, in Florida e in Oklahoma hanno offerto alcuni segnali potenzialmente indicativi sia in vista delle prossime elezioni di midterm, sia di quelli che sono le dinamiche di lungo periodo della politica statunitense. In Oklahoma, dove a novembre si voterà per il [...]

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Australia, consulente di coppia nella rivalità tra Stati Uniti e Cina


La concorrenza USA-Cina è una sfida decisiva del presente. Molta attenzione si è concentrata sul comportamento di queste due grandi potenze e sul loro impatto sugli affari globali. Ma poiché la rivalità tra Stati Uniti e Cina persiste, una domanda importante è cosa possono fare le terze parti, in particolare Paesi come l’Australia che hanno [...]

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Harleysti ed extraprofitto sociale: il caso ‘FESTABiKERS’


Harley Davidson: bike icona che ha una lunga tradizione che risale al prototipo del 1901 per consolidarsi, in seguito, nella fondazione dell’impresa Harley Davidson nel 1903 negli Usa. Spesso vediamo queste moto sfrecciare con un rombo a volte con qualche decibel in più inconfondibile! Oggi Harley Davidson vuol dire tradizione e innovazione, nonché stile particolare. [...]

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La Turchia prova a riconciliarsi con Assad: come tirare fuori il coniglio dal cilindro?


A prima vista, c’è poco che il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, islamista e nazionalista, abbia in comune con Dogu Perincek, socialista anticonformista, eurasista, militante laico e kemalista. Eppure è Perincek – un uomo con un mondo di contatti in Russia, Cina, Iran e Siria, la cui visione del mondo cospirativa identifica gli Stati Uniti [...]

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La Cina si espande nel ‘Triangolo del Litio’


La Cina mira ad espandere la sua influenza nel ‘Triangolo del litio’ come componente di una campagna più ampia per costruire un quasi monopolio nel mercato globale del litio. Il triangolo del litio, che comprende Argentina, Bolivia e Cile, rappresenta circa il 56% per cento della fornitura mondiale di litio. L’acquisizione da parte di Pechino [...]

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Borsa: canapa, USA in discesa, Canada in ripresa


Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono con andamento alternato, la Borsa Canapa USA chiude in negativo, la Borsa Canapa Canada chiude in positivo, il che dimostra ancora una volta quanto sia instabile il clima borsistico internazionale, soprattutto dopo aver [...]

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Non la Cina, ma l’America è la vincitrice di un’uscita militare USA dal Medioriente


Se c’era qualche dubbio sul fatto che il Presidente Joe Biden non avrebbe dovuto visitare l’Arabia Saudita, per non parlare del pugno di ferro del suo dittatore, le velate minacce del gigante petrolifero che avrebbe potuto tagliare piuttosto che aumentare la produzione di petrolio dovrebbero risolvere la questione una volta per tutte. Biden è andato [...]

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Ucraina: lo stallo al fronte, l’indispensabilità urgente della pace


La guerra si è stabilizzata in stallo. E quella che si sta combattendo ora non è quindi più una lotta 'esistenziale' per l'Ucraina, mentre le conseguenze sono 'essenziali' per la distruzione dell'umanità

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Amnesty annuncia la revisione mentre il contraccolpo del rapporto sull’Ucraina continua


Amnesty International ha provocato indignazione all’inizio di questo mese con un comunicato stampa controverso e fuorviante che accusava le forze armate ucraine di mettere in pericolo i civili. La ricaduta è in corso. Il capo della filiale ucraina di Amnesty, Oksana Pokalchuk, si è dimesso. Diversi colleghi hanno seguito l’esempio, tra cui il co-fondatore di [...]

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IRAQ. Il cambiamento climatico sta cancellando il Crescente fertile


Le Nazioni unite hanno classificato l'Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici e alla desertificazione. Nel 2030 avrà meno di 1.000 metri cubi di acqua disponibili per persona. L'articolo IRAQ. Il cambiamento climatico

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 26 agosto – L’Iraq è chiamato con urgenza a contenere le conseguenze del cambiamento climatico che rischiano di trasformare in un deserto totale una terra da sempre conosciuta come il Crescente fertile. Gli iracheni quest’anno affrontano una stagione di caldo torrido senza precedenti – già in tempi «normali» d’estate si raggiungono anche i 45 gradi – e continue tempeste di sabbia e polvere. La sfida è immensa. Nel 2019, le Nazioni unite hanno classificato l’Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici e alla desertificazione. Commentando l’aumento del numero e le proporzioni delle tempeste di sabbia, il direttore generale del ministero dell’ambiente Issa Al-Fayyad ha previsto che ci saranno una media di 300 giorni polverosi all’anno entro il 2050. «Il cambiamento climatico sta avendo impatto pesante sull’Iraq», ha detto in una recente intervista Hazbar Osama, uno dei responsabili dell’Organizzazione meteorologica irachena insistendo sulla necessità di attuare l’Accordo di Parigi e collaborare con gli Stati confinanti per la gestione dell’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate.

La desertificazione è esacerbata non solo dall’aumento delle temperature ma anche dalla scomparsa delle aree verdi, dalla diminuzione delle precipitazioni in Iraq e nei paesi vicini e dalla riduzione delle riserve idriche sotterranee. Il terreno si sta allentando ed è più a rischio di disperdersi nell’aria durante le tempeste di polvere che sono dannose anche per la salute. Nei primi sei mesi del 2022 migliaia di iracheni sono stati ricoverati negli ospedali per malattie respiratorie. E andrà peggio in futuro.

L’altro allarme riguarda l’acqua. In un rapporto pubblicato lo scorso novembre, la Banca Mondiale ha previsto che l’Iraq affronterà una grave penuria d’acqua entro il 2030, con meno di 1.000 metri cubi disponibili per persona. «La riduzione del 20% dell’approvvigionamento idrico provocherà mutamenti nei raccolti e il cambiamento climatico potrebbe ridurre il Pil reale fino al 4% (6,6 miliardi di dollari), rispetto ai livelli del 2016», si legge nel rapporto.

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L’Eufrate

La dote millenaria del paese sono i fiumi Tigri ed Eufrate che forniscono circa il 98% delle acque superficiali. Dote che va spartita con altri paesi. Entrambi i fiumi hanno origine in Turchia. L’Eufrate attraversa la Siria prima di entrare in Iraq e i principali affluenti del Tigri scorrono dall’Iran. Quindi si uniscono allo Shatt Al Arab prima di sfociare nel Golfo. I flussi dei due fiumi sono diminuiti negli ultimi decenni, scendendo drasticamente da un picco di quasi 80 miliardi di metri cubi negli anni ’70. Gli ultimi dati resi disponibili dal ministero della pianificazione iracheno mostrano che nel 2020 la fornitura d’acqua dal Tigri era di 11 miliardi di metri cubi e quella dei suoi affluenti di 19 miliardi di metri cubi. La fornitura dall’Eufrate è stimata in 20 miliardi di metri cubi. L’approvvigionamento idrico totale dell’Iraq dai due fiumi, perciò, è stato due anni fa di 50 miliardi di metri cubi, 30 miliardi in meno rispetto agli anni ’70. E se le tendenze attuali dovessero continuare, l’Iraq potrebbe dover affrontare un deficit di 11 miliardi di metri cubi di acqua all’anno entro il 2035.

La diminuzione del livello dell’acqua del Tigri e dell’Eufrate in Iraq è in gran parte dovuta a dighe e progetti di irrigazione in Turchia e, in misura inferiore, in Iran. Ankara ha costruito decine di dighe che hanno ridotto i flussi a valle di entrambi i fiumi, Teheran è intervenuta sugli affluenti del Tigri approfittando della mancanza di accordi vincolanti per la condivisione dell’acqua. Presto sulle quote d’acqua è previsto un incontro tra Iraq, Siria e Turchia, ha annunciato il ministro iracheno delle risorse idriche Mahdi Rashid Al Hamdani. E l’esperto economico, Mazen Al Mayyali, in una intervista alla rivista Amwaj, sostiene che l’Iraq potrebbe convincere Turchia e Iran a una maggiore cooperazione usando lo sviluppo del commercio come carta vincente nei negoziati. Non ci sono certezze però.

Mentre lo stallo politico in cui si trova il paese da 10 mesi paralizza l’attività dello Stato, attivisti della società civile irachena e volontari hanno lanciato, anche sui social, una campagna per incoraggiare il rinverdimento delle terre aride in tre distretti a Baghdad, nonché nei governatorati di Karbala e Ninive. Consigliano la coltivazione di alcune specie di piante autoctone con la capacità di trattenere il suolo e l’acqua e dare ombra. E sollecitano i cittadini iracheni a piantare alberi e prendendosi cura di loro. Ma la portata della sfida è enorme e non può essere vinta senza piano d’azione delle autorità irachene in cooperazione con gli Stati confinanti. Pagine Esteri

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E’ israeliano l’aeroporto per i palestinesi


Si tratta del piccolo scalo "Ramon", nei pressi di Eilat. A Israele conviene perché continuerebbe a controllare i movimenti dei palestinesi dei Territori occupati e rilancerebbe un aeroporto poco usato. Per i palestinesi sarebbe la rinuncia a un loro aero

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 25 agosto 2022 – Forse resterà solo un esperimento il volo della Arkia Airlines che lunedì è partito dal piccolo aeroporto israeliano «Ramon», 20 chilometri a nord di Eilat, con a bordo 43 palestinesi di Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerico e Nablus, a fianco di passeggeri israeliani, ed è atterrato poco più di un’ora dopo a Cipro. L’iniziativa è stata subito congelata. Prima per le proteste (dietro le quinte) della Giordania, che non vuole perdere milioni di dollari dal mancato arrivo di palestinesi al suo aeroporto di Amman, «Queen Alia». Poi per il fastidio dei viaggiatori israeliani per la presenza dei palestinesi, mascherato dalla presunta paura del «terrorismo». Infine, per la contrarietà politica dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen (Hamas a Gaza non si è ancora espresso) a una soluzione che, palesemente, nega ai palestinesi un loro aeroporto. Per questo e altri motivi i voli per Antalya e Istanbul, sono stati annullati.

Spinti da qualche pressione statunitense – l’entourage di Joe Biden, durante la visita del presidente il mese scorso in Israele, ha chiesto al premier Lapid di favorire i movimenti dei palestinesi – e da un concreto interesse economico e di immagine, i dirigenti israeliani hanno attuato il piano del generale Ghassan Alian (un druso), capo del Cogat, l’ufficio di collegamento per gli affari civili con i palestinesi, che prevede che i palestinesi dei Territori occupati non siano più obbligati – per decisione israeliana – ad andare in Giordania per volare all’estero ma abbiano la possibilità di farlo dall’aeroporto israeliano «Ramon», nel Neghev. I vantaggi per Israele sono notevoli. Da un lato ne guadagna in termini di immagine – i risultati già si vedono, l’agenzia italiana Nova, in un lancio del 22 agosto, scrive citando un giornale israeliano che l’iniziativa «si inserisce nel quadro degli sforzi profusi da Israele per facilitare la vita dei palestinesi», come se le autorità di occupazione fossero la Croce Rossa -, dall’altro rilancia «Ramon» usato ben poco, perciò in perdita, e che grazie al possibile flusso di viaggiatori palestinesi incasserebbe annualmente decine di milioni di dollari. Senza dimenticare che trattandosi di uno scalo israeliano sarebbero i servizi dello Stato ebraico a gestire la sicurezza e a decretare se un palestinese può viaggiare. Nel 2021, riporta Haaretz, circa 10.000 palestinesi sono stati messi da Israele in una lista nera. Molti di loro non lo sanno.

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Vantaggi ci sono anche per i palestinesi sotto occupazione – ai quali Israele non permette di volare da Tel Aviv – che pur dovendo raggiungere la lontana Eilat comunque risparmierebbero del tempo, considerando l’affollamento costante dei valichi per la Giordania. E anche del denaro, tenendo conto di tasse e pedaggi salati che il regno hashemita chiede per il passaggio del confine e all’aeroporto di Amman. Non sorprende che la Giordania sia furiosa per il volo di lunedì. Ogni anno vengono registrati circa tre milioni di ingressi ed uscite per il terminal al ponte di Allenby tra Cisgiordania e Giordania e centinaia di migliaia di palestinesi usano l’aeroporto di Amman per raggiungere le loro destinazioni. Ognuno dei palestinesi decollati l’altro giorno da «Ramon» per Larnaka ha speso in media, tra tasse e biglietto aereo, 350 dollari. Partendo dalla Giordania avrebbero avuto spese ben superiori.

Ma dal punto di vista politico, questa soluzione rappresenta una normalizzazione dell’occupazione israeliana e una rinuncia all’aspirazione ad avere uno scalo palestinese totalmente indipendente da Israele. I palestinesi per decenni hanno chiesto di poter usare il loro aeroporto, a Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah, molto attivo prima dell’occupazione nel 1967, che Israele ha abbandonato dopo l’inizio, nel 2000, della seconda Intifada palestinese e dove ora intende costruire un nuovo insediamento coloniale. Non è un caso che il Cogat israeliano non si sia coordinato in alcun modo con l’Autorità Nazionale sull’iniziativa a «Ramon» e per la gestione dei flussi di passeggeri dalla Cisgiordania. Tanto che il ministro dei trasporti palestinese, Asem Salem, ha minacciato di sanzionare i palestinesi che utilizzeranno lo scalo nel sud di Israele. L’Anp condanna i «tentativi di Israele di mostrare al mondo che sta aiutando i palestinesi», mentre, aggiunge, vuole solo salvare l’aeroporto «Ramon», utilizzato pochissimo da quando è stato inaugurato nel gennaio 2019. Pesano sull’Anp anche le pressioni della Giordania che non manca di ricordare l’«ospitalità» data da decenni a milioni di profughi palestinesi che non vivono solo dell’assistenza fornita dall’Onu ma anche degli aiuti dello Stato.

Sullo sfondo, non per importanza, ci sono i malumori e i «disagi» degli israeliani poco interessati alle strategie governative diplomatiche, economiche e di immagine. Il sindaco di Eilat, Eli Lankri, contesta il piano per rilanciare «Ramon» facendo partire da lì i palestinesi dei Territori diretti all’estero senza aver pensato a una soluzione diversa. Intervistati dai giornali locali, diversi viaggiatori israeliani a «Ramon» hanno detto di «temere per la sicurezza dei passeggeri ebrei». Haaretz ha scritto che lunedì, oltre al generale Ghassan Alian, all’aeroporto c’erano anche agenti della polizia di Eilat per paura di raduni di protesta da parte di chi i palestinesi lì non li vuole vedere. Pagine Esteri

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GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen


I soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei int

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.

Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.

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Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).

Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.

Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili. Pagine Esteri

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La coltivazione della canapa ora raggiunge lo Spazio


La statunitense Redwire Corporation si sta preparando per consentire la coltivazione della canapa nella Stazione Spaziale Internazionale. Secondo l’azienda, la serra Redwire potrebbe essere lanciata nella primavera del prossimo anno, in quanto è l’unica piattaforma di crescita di piante di proprietà e gestita commercialmente in grado di crescere dai semi alla maturità nello spazio. I [...]

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Francesco Rocchetti, segretario generale ISPI, e Silvia Boccardi, giornalista di Will, fanno il punto sulla guerra in Ucraina a sei mesi dall'inizio del conflitto, e cercano di capire cosa ci aspetta nei prossimi sei con Aldo Ferrari, professore all’…



Sproporzione


Inutile girarci attorno o avere timore nell’osservarlo: colpisce la sproporzione. Non si tratta di mettere a confronto le personalità o le biografie, ma le parole e la visione del futuro, gli interessi italiani e il modo in cui, nel presente, si difendono

Inutile girarci attorno o avere timore nell’osservarlo: colpisce la sproporzione. Non si tratta di mettere a confronto le personalità o le biografie, ma le parole e la visione del futuro, gli interessi italiani e il modo in cui, nel presente, si difendono. Mario Draghi non ha tratto un bilancio dell’azione del governo che ancora presiede, ha disegnato un progetto, ha esposto un programma. Ha invitato tutti ad andare a votare (giusto) e ricordato che saranno gli elettori a decidere del prossimo Parlamento e, quindi, del prossimo governo (giustissimo). Su questo punto torno. Ma ha anche esposto una visione che ha messo in luce la sproporzione con ciascuno e con l’insieme che su quello stesso palco si era esibito.

Non esiste Italia ricca e sicura senza collocazione indissolubilmente interna all’Unione europea e all’Alleanza atlantica. Non esiste Italia prospera se non dentro i mercati globali, laddove protezionismo e isolazionismo impoveriscono. E immiseriscono, aggiungerei. Non esiste alcuna sovranità nazionale senza l’affrancarsi dalle forniture di gas che una potenza imperialista e aggressiva, la Russia, utilizza per ricattare. Già oggi abbiamo dimezzato quella dipendenza, nell’autunno del 2024 sarà totale. Indietro non si torni <<mai più>>. Non esiste Italia autorevole se non partendo dal riconoscimento che altri europei hanno accettato di tassare i propri cittadini per permettere al nostro Paese, con i fondi NGEU, di riprendersi rapidamente, né potrà esserci credibilità se non dando attuazione a quanto il Pnrr prevede, non solo nella spesa, ma anche nelle riforme che ci siamo impegnati a fare, che abbiamo il dovere di varare, che è nel nostro interesse realizzare. E non esiste libertà se non al fianco dell’Ucraina, Paese libero aggredito brutalmente da un’azione criminale. È con questi principi che si è riusciti a realizzare il più veloce recupero produttivo, dopo la pandemia; la più consistente riduzione percentuale, dal dopo guerra a oggi, del debito pubblico; una crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 3.4%; un record di occupazione. Fatti, non promesse.

Non c’è un “lascito politico”, né una “agenda” da consegnare ai successori. C’è il quadro in cui chiunque governi dovrà muoversi. E ove intenda muoversi fuori da quel quadro c’è la rovina dei risultati fin qui raggiunti e degli interessi nazionali indisponibili. Non c’è, né doveva o poteva esserci, una indicazione elettorale. C’è il rammentare che fuori dall’Unione europea, fuori dall’euro e fuori dalla Nato, tutte cose reclamate da taluni, qualche volta nel recentissimo passato e qualche altra nel loro detestabile presente, l’Italia si rattrappirà in un nazionalismo capace di demolire la Patria.

Osservando la sproporzione vien da chiedersi se lo stesso Draghi non avrebbe potuto essere più accomodante, in modo da restare qualche altro mese al governo, scrivere la legge di bilancio e riconsegnare la guida nell’estate del 2023. E, sebbene la sproporzione stringa il cuore di chi l’Italia la ama per convinzione e non per slogan, la risposta è: No. Avrebbe sbagliato. Anzi, è proprio nel non avere abbozzato che c’è il solo e profondo lascito politico. E morale. Perché si dimostra che un’Italia in linea con la forza del Paese esiste. Perché una democrazia non può campare di supplenze. Perché una classe dirigente si misura con i problemi che deve affrontare e con l’esempio che ha ricevuto. Perché agli elettori è consegnato il delicato potere di scegliere: se volessero farlo per tifo e contrapposizione, senza visione degli interessi italiani, ne pagherebbero, ne pagheremmo le conseguenze. Tocca al palco dei politici razionalizzare la sproporzione con il palco di Draghi, ricordando che il vincitore non è chi entra a Palazzo di sghembo, con falsi alleati, ma chi può uscirne solitario ed eretto.

Il tempo per raddrizzare questa campagna elettorale stortignaccola c’è ancora. Se ne trovi la lucidità e il coraggio.

La Ragione

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