E se per un giorno parlassimo solo di quel che serve alle imprese?
Modesta proposta de L’Economia per migliorare, o tentare di farlo, la qualità del dibattito sulle scelte economiche in campagna elettorale. Una giornata di tregua sul versante delle promesse distributive. Ovvero 24 ore nelle quali non ci si occupi delle proposte (ormai un florilegio) che incidono — senza peraltro in molti casi l’indicazione delle coperture — sul lato della spesa pubblica. Ma esclusivamente di tutto ciò che riguarda le scelte e gli investimenti necessari affinché si possa produrre di più e meglio.
Anziché temere il riproporsi di un «giorno della marmotta» — vecchie storie rivissute ossessivamente — una sorta di «giorno della formica», chiamiamolo così, nel quale si parli solo di impresa, competenze, studio, ricerca, innovazione, competitività. La parte più faticosa della costruzione di una società futura. La raccolta del consenso su queste materie non è immediata.
I vantaggi sono misurabili solo nel medio o lungo periodo. La continuità dell’esecuzione è fondamentale. Non si può cambiare indirizzo o gestione ogni anno. La capacità distributiva di un Paese non è illimitata. Farlo credere è semplicemente criminale.
Prima di distribuire bisogna produrre. Una verità misconosciuta. Non esistono il benessere di cittadinanza e il diritto inalienabile a ottenere sempre, e in ogni caso, un aiuto pubblico attraverso uno Stato generoso e proteiforme.
La trappola
A meno che non si pensi che l’indebitamento si sia trasformato in una sorta di virtù contemporanea. La trappola più insidiosa, disseminata lungo il cammino del Paese, non è però solo la sostenibilità dei suoi conti pubblici (argomento noioso, espunto dal dibattito elettorale) ma soprattutto — aspetto più culturale che economico — il rischio della perdita collettiva dell’idea di progresso.
Questo è il vero, grande pericolo che corre il Paese. La ricchezza, per essere più equamente distribuita, va prima creata. Anche e soprattutto con fatica e dedizione. Il modesto tasso di imprenditorialità giovanile è sintomo di una società che avversa il rischio, che quasi si arrende al declino.
L’esempio più calzante è quello dei tanti, e per fortuna floridi, distretti produttivi italiani. Le comunità locali sono del tutto consapevoli dell’importanza di avere imprese presenti nel territorio. E sanno che, se non vi fossero, se non investissero e innovassero, il loro benessere sarebbe fortemente compromesso e così il futuro dei loro figli.
La crescita dimensionale delle aziende, a livello locale, è motivo di orgoglio. Più il legame è forte, minore è la convenienza a delocalizzare. Questa consapevolezza scolora di colpo se la discussione avviene su scala nazionale.
L’impresa non è più al centro. Non è più il motore dello sviluppo. Se è piccola azienda suscita simpatie diffuse, ma se è grande e internazionalizzata assai meno. Occupa una posizione ancillare rispetto a un insieme di interessi costituiti che pesa fortemente, e a volte unicamente, sul lato distributivo: categorie, corporazioni. Sovrastrutture spesso piegate alla logica del vantaggio immediato che è poi reale misura del potere dei loro gruppi dirigenti.
Ciò che è pacifico sul piano dei distretti produttivi (grazie a concorrenza e innovazione esportiamo e cresciamo), lo è meno nel confronto nazionale dove prevalgono più facilmente spinte autarchiche e protezionistiche. Le stesse che, se fossero agitate contro le imprese del territorio, avrebbero effetti negativi devastanti.
In sintesi: se la logica delle concessioni balneari o di quelle dei taxi fosse stata adottata in tutte le attività produttive, noi saremmo ancora in un’era preindustriale.
Prove di nazionalizzazione
«Protezionismo e isolazionismo non sono nell’interesse nazionale» ha detto Mario Draghi nel suo discorso all’ultimo Meeting di Rimini. Perseguire, a qualsiasi costo — altro esempio — l’idea della nazionalità della compagnia di bandiera è costato, soltanto dal 2017, al momento dell’amministrazione straordinaria cui è seguito il lancio di Ita Airways, 2 miliardi ai contribuenti italiani che quando viaggiano, scelgono — come i turisti stranieri — in massima parte le low cost.
Non vi è alcun ritorno economico — se non quello modesto di un po’ di consenso come accadde durante la campagna elettorale del 2008 — nel mantenere in piedi un vettore che perde soldi. La certezza è solo quella di una lenta agonia che brucerà altri denari pubblici e posti di lavoro.
Un altro esempio: l’ipotesi di un’Opa (Offerta pubblica d’acquisto) della Cdp sulla Tim — anche nell’ottica di una rete unica — accolta con soddisfazione dai sindacati, sarebbe un inutile favore agli azionisti privati, italiani e stranieri, senza essere la soluzione, come molti sarebbero indotti a ritenere ai problemi dell’incumbent delle telecomunicazioni. Come se il genere della proprietà fosse la panacea di tutti i mali che pur derivano da una privatizzazione sbagliata.
Un conto è l’intervento — come la decisione francese di nazionalizzare del tutto Edf — quando una situazione del mercato dell’energia, alterata dalla guerra, rende insostenibile il conto economico di un’azienda strategica. Un altro, del tutto diverso, è nazionalizzare nell’illusione che così l’impresa si salvi e rifiorisca come per un sortilegio. Con un non secondario effetto distorsivo sugli investimenti in Italia.
A Vivendi, il socio francese di Tim, non interessa che la rete unica sia pubblicizzata, l’importante è la sua valutazione. Ovviamente molto superiore a quella di mercato. Se lo Stato è il compratore di ultima istanza — mosso cioè da valutazioni politiche e non economiche — il rischio per l’investitore si riduce a ben poco.
I capitali esteri si attraggono, così, per ragioni sbagliate. Il paradosso finale è che i sostenitori della proprietà nazionale o pubblica si trasformano d’incanto in generosi alleati dei soci privati e, soprattutto, esteri di cui denunciano l’ingordigia.
Riacquistare, attraverso la Cdp, la quota di Atlantia (9 miliardi) in Autostrade è stato tutt’altro che un gesto punitivo nei confronti dell’azionista Benetton dopo la tragedia nel 2018 del crollo del Ponte Morandi che causò 43 morti.
Sul versante del lavoro e della formazione, le proposte sono molteplici. E non staremo ad esaminarle nel dettaglio. Sfugge però la relazione perversa tra popolazione attiva e non. Nonostante il tasso di occupazione abbia ritoccato il 60 per cento, soglia che non si varcava più dagli anni Settanta, l’Italia è agli ultimi posti in Europa nel rapporto tra occupati e pensionati. Insomma, lavoriamo in meno degli altri.
L’amara verità
Questa è l’amara verità. Nel secondo Dopoguerra, il rapporto tra attivi e non era di cinque a uno. Nel 2050 sarà di 4 a 3. Promettere pensionamenti anticipati non migliora la situazione né crea una «staffetta generazionale». Quota 100 insegna.
La scarsa attenzione al tema della formazione continua aggrava ulteriormente le prospettive dell’occupazione. Secondo Boston Consulting Group, il 50 per cento delle attuali posizioni rischia di essere, nel giro di pochi anni, obsoleto per perdita di competenze. Le sole aziende manifatturiere non riescono a coprire il 30 per cento dei profili professionali di cui hanno necessità.
L’emergenza vera è nell’essere in Europa agli ultimi posti come numero di laureati e per la spaventosa carenza di tecnici specializzati. A questo punto parlare solo di salario minimo e di settimana lavorativa di 36 ore sembra un diversivo. Così come appare incomprensibile all’estero dividersi sull’anticipo o sull’estensione dell’obbligo scolastico. Altrove pacifico.
E veniamo all’ultimo, delicatissimo tema che riguarda l’immigrazione da cui dipende fortemente la creazione di ricchezza futura. Non è un costo, è un investimento. Per combattere il declino demografico l’Italia avrebbe bisogno, come ha detto sempre a Rimini, il presidente dell’Istat, Giancarlo Blangiardo, di un saldo netto di 360 mila immigrati l’anno. Un flusso chiaramente insostenibile.
Ma il tasso di natalità — Germania e Svezia sono casi positivi -— si innalza solo coordinando un’immigrazione più ordinata e di qualità a misure sociali e servizi avanzati a favore della famiglia. Costruire tanti begli asili nido (esemplare il caso della Val d’Aosta) con una popolazione mediamente anziana serve a poco.
Dirsi a favore dell’immigrazione non porta voti. Minacciare blocchi navali (peraltro impossibili sul piano del diritto internazionale) probabilmente sì. Ma un Paese che invecchia e si svuota, magari dei propri giovani più preparati, e non è attrattivo per immigrati che vogliono lavorare e produrre, non avrà un futuro con tante risorse da distribuire.
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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile
AGGIORNAMENTO ORE 19.30
E’ di almeno 12 morti e 270 feriti il bilancio parziale degli scontri a Baghdad e nel resto del paese. Intanto le autorità militari hanno annunciato l’estensione del coprifuoco a tutto lraq, dopo averlo proclamato a Baghdada partire dalle 15.30 locali (le 14.30 in Italia).
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della redazione
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.
Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.
Muqtada al Sadr
I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.
Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.
Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri
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Fr. #06 / v o y e u r
Voyeurismo fiscale, il nuovo kink statale
Ieri la BBC ha pubblicato una notizia in cui si parlava del nuovo kink dei burocrati francesi: spiare le persone che si fanno il bagno in piscina, grazie ai satelliti e all’intelligenza artificiale.
Un nuovo software sviluppato da un’azienda chiamata Capgemini ha permesso all’agenzia fiscale francese di scovare ben 20.000 piscine “nascoste” allo Stato, grazie all’analisi delle immagini satellitari.
Alla scoperta pare sia seguita una volontaria donazione alle casse dello Stato da parte dei proprietari pentiti di tale oltraggio, per circa 10 milioni di euro. Non tantissimo, se guardiamo alle cifre a cui sono abituati i burocrati statali, ma in tempi di crisi non si butta via nulla, no?
Il software è talmente bello che potrà essere usato per scoprire molte altre cose spiando i cittadini francesi. Ad esempio, se hanno gazebi, verande o estensioni non dichiarate. Insomma lo spionaggio satellitare promette un grande salto evoluzionistico per le tasse sul patrimonio.
L’attività non è certo ignota alla nostra agenzia fiscale, che da tempo adopera le immagini satellitari per scovare evasori fiscali, anche se - per ora - senza intelligenza artificiale ad agevolare il compito.
Sono certo che questo nuovo voyeurismo di stato sarà ben accolto da tutti i contribuenti che non hanno nulla da nascondere e che, in effetti, potrebbero aver sviluppato un certo esibizionismo nei confronti di uno stato che vuole guardarli sempre di più e sempre meglio. Una relazione perfetta, insomma.
Nel 1890 i due giuristi Warren e Brandeis ipotizzarono per la prima volta il “right to privacy” per trovare una protezione giuridica alle sempre più frequenti ingerenze dei giornalisti che avevano ormai a disposizione fotocamere “portatili” e potevano infilarsi nelle case e nei giardini di chiunque, a distanza.
Cosa direbbero oggi se sapessero che accettiamo passivamente di essere spiati dal nostro stesso governo nelle nostre case? Per cosa poi, per racimolare qualche spicciolo e continuare a pagare i burocrati incaricati di spiarci, in un circolo vizioso che non finisce mai?
Contenti voi, miei cari contribuenti esibizionisti.
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Sono finiti i chip per le tessere sanitarie
Dalla crisi della filiera produttiva ogni tanto qualche buona notizia! Pare che l’estrema scarsità di chip abbia costretto il governo italiano ad autorizzare la diffusione delle nuove tessere sanitarie senza microchip.
Questa è un’ottima notizia, poiché significa che le nuove tessere sanitarie non potranno essere usate come strumento per l’identificazione digitale della persona, ma potranno semplicemente essere usate per ciò per cui erano nate: come codice fiscale e tessera sanitaria.
Inutile dire che ogni inefficienza dell’apparato statale equivale a una maggiore libertà delle persone e minore sorveglianza e controllo delle nostre vite. Dobbiamo quindi accogliere con piacere notizie di questo tipo, che speriamo possano moltiplicarsi nei tempi a venire.
Meme del giorno
Citazione del giorno
“If the power of government rests on the widespread acceptance of false indeed absurd and foolish ideas, then the only genuine protection is the systematic attack of these ideas and the propagation and proliferation of true ones.”
― Hans-Hermann Hoppe
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CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Prima parte)
di Patrizia Zanelli
Pagine Esteri, 30 agosto 2022 – Acri, Giaffa e Haifa sono antiche città della sponda sud-orientale del Mediterraneo che a metà ‘700 cominciano a essere modernizzate grazie a sforzi locali di autogoverno. Un processo di modernizzazione poi accelerato dalle riforme (Tanzīmāt) applicate dalla Sublime Porta tra il 1839 e il 1876 in tutte le regioni dell’Impero Ottomano, inclusa appunto la Palestina, allora divisa in più distretti amministrativi.
Alla storia moderna e pre-1948 delle tre suddette città costiere è dedicata la quinta mostra annuale del Museo Palestinese di Bir Zeit, curata dall’artista e accademica Inass Yassin, inaugurata il 29 settembre 2021, aperta al pubblico fino al 31 ottobre del 2022 e intitolata A People by the Sea: Narratives from the Palestinian Coast. Pannelli informativi, fotografie, video-documentari, opere d’arte, documenti cartacei e svariati altri materiali raccontano la realtà sociale di un passato non troppo lontano, fatta di attività quotidiane, momenti straordinari e grandi sogni per il futuro.
Foto Patrizia Zanelli, diritti riservati
La città di Bir Zeit si trova a circa 25 km a nord di Gerusalemme, ed è la sede dell’omonima Università di prestigio internazionale, adiacente allo stesso Museo Palestinese di cui la scrittrice e accademica Adila Laidi-Hanieh è la direttrice generale. La missione di questa istituzione non-governativa indipendente, fondata nel 2016, è la produzione e divulgazione di conoscenze scientifiche riguardanti la Palestina, la storia, la cultura e la gente di questa terra.
Il tema principale di A People by the Sea è l’autodeterminazione, ossia una serie di esperienze governative avvenute nei due secoli precedenti il 1948, appunto nelle tre suddette città costiere lambite dal Mediterraneo e divenute parte d’Israele il 14 maggio di quell’anno. La conoscenza di questo passato serve a riesaminare la Nakba (Catastrofe), nome usato per indicare l’esodo coatto dalla patria subito da oltre 800.000 palestinesi, iniziato nel dicembre del 1947, continuato durante la prima guerra arabo-israeliana e accompagnato da atti di distruzione od occultamento compiuti per eliminare le prove dell’esistenza del popolo palestinese e cancellare la Palestina stessa dal mappamondo. Tutto ciò spiega il significato dei materiali presentati nella mostra: ogni oggetto nato prima del 1948 è un documento sopravvissuto alla Nakba.
Per quanto riguarda la missione del Museo, A People by the Sea costituisce una svolta proprio perché pone la Nakba in un contesto storico più ampio, caratterizzato dalla vibrante realtà palestinese, segnato però dalla crescente influenza europea in Palestina, sfociata nella caduta del paese. Il messaggio della narrazione, focalizzata appunto sul tema dell’autodeterminazione, è certamente rivolto anzitutto alla comunità internazionale, ma sotto vari aspetti anche alla società palestinese stessa e, in particolare, alla nuova generazione.
Una parte del racconto si svolge appunto in epoca ottomana, quando gli Stati nazionali attuali del Medio Oriente non erano ancora nati, né l’idea stessa di “Stato nazione” si era ancora diffusa nella cultura delle società locali.
La mostra è strutturata secondo un approccio didattico multidisciplinare: presenta la vita politica, economica, culturale e sociale della Palestina, durante il suddetto arco temporale, per dare l’opportunità di percepire e immaginare cosa significasse viverci allora. Il panorama storico che si delinea man mano è fatto al contempo di quotidianità e progettualità; e, a un certo punto, si sviluppa con un’attenzione particolare all’imprenditoria.
Foto Patrizia Zanelli, diritti riservati
Foto Patrizia Zanelli, diritti riservati
Il percorso della mostra inizia con la narrazione dell’ascesa di Acri, la cui storia moderna è strettamente legata all’indipendentismo di Daher al-Omar Zaydani (Ẓāhir al-‘Umar al-Zaydānī, 1689-1775), capo di una tribù della zona del Lago di Tiberiade ed esattore delle tasse sui redditi agricoli in due villaggi, ma che negli anni 1730 si ribella alla Porta con il sostegno popolare, prendendo il potere in Galilea e poi in altre aree. Diventa così de facto il governatore (wālī) o viceré di un territorio da lui stesso trasformato nella prima entità politica semi-indipendente dell’Impero Ottomano.
Consapevole dell’importanza della costa, nel 1748, Daher al-Omar elegge Acri a propria capitale, sancendo l’inizio di una nuova era. Durante il trentennale autogoverno, versa regolarmente le tasse alla tesoreria ottomana, mentre consolida la propria autorità nella Palestina settentrionale, sviluppando i centri urbani e trattenendo buoni rapporti con i mercanti delle località costiere, i beduini e i contadini dell’entroterra, nonché con i vari gruppi religiosi che convivono nella regione, la cui popolazione è formata da una maggioranza musulmana e da minoranze cristiane ed ebraiche. Nel 1775, Daher al-Omar viene ucciso a seguito di un assalto ottomano ad Acri.
Lungo il percorso di A People by the Sea si trova una video-installazione, accompagnata dal racconto narrato dalla voce narrante ispirato in ampia misura a un romanzo dell’autore palestinese Ibrahim Nasrallah (n. 1954), uscito in arabo nel 2011 e tradotto in inglese col titolo Lanterns of the King of Galilee: A Novel of 18th-Century Palestine (American University in Cairo Press, 2014), ed è dedicata proprio all’era di Daher al-Omar, caratterizzata dalla prosperità economica e da una politica della tolleranza e dell’inclusione. Nelle città vengono costruiti nuovi edifici ad uso amministrativo, commerciale e residenziale, castelli e luoghi di culto, come la Chiesa dell’Annunciazione di Nazareth e la Moschea al-Zaytuna di Acri, capitale neo-fortificata che, grazie alla ristrutturazione del porto marittimo, è il principale centro d’esportazione di cottone e olio d’oliva dalla Palestina all’Europa. L’economia di Giaffa cresce continuando a basarsi sulla tradizionale coltivazione delle arance, mentre l’antica città portuale di Haifa viene ricostruita, sempre per facilitare gli scambi con i mercati europei.
Tramontata l’era di Daher al-Omar – non a caso considerato un eroe nazionale dai palestinesi odierni -, governatori ottomani e per un certo periodo il viceré d’Egitto Ibrahim Pascià, guidano la Palestina, dove continuerà l’urbanizzazione della popolazione.
Con il graduale declino di Acri, si ha infatti l’ascesa di Giaffa, dovuta alla presenza del porto e alla crescita economica; e da qui il fiorire di attività culturali ed edili, e l’intensificarsi delle relazioni commerciali tra le comunità rurali e i mercanti della costa, il che comporta un cambiamento della struttura sociale della città, in cui si creano, perciò, nuovi quartieri.
Una riforma legislativa ottomana, del 1858, sulla registrazione delle proprietà terriere stimolerà l’avvio di lavori di bonifica dei terreni e, quindi, l’aumento della produzione agricola, e specialmente di un tipo di arance dalla buccia resistente, comparso per una mutazione genetica naturale di quello nostrano e battezzato Shamouti. Nascono quindi nuove attività necessarie per l’imballaggio e l’esportazione di questi agrumi facili da trasportare. Una scheda informativa della mostra riporta i termini dialettali palestinesi legati appunto alla filiera produttiva delle arance, così importante per l’economia della Palestina.
Un pannello, invece, spiega che, mentre avvengono questi sviluppi economici, Giaffa è meta di ondate migratorie interne, cioè da Nablus, Gerusalemme e Hebron, finalizzate alla ricerca di opportunità di investimento, specialmente nel settore dei frutteti. La città attira anche migranti provenienti dal resto del Levante e perfino dall’Egitto.
In A People by the Sea, è inoltre esposta un’icona ottocentesca sulla vita di San Giorgio, dipinta da Yanko Teadori Tadros, “un insegnante povero di Gerusalemme”, come recita la dicitura che compare sull’opera stessa, donata nel 1875 dalla famiglia Gerges Debbas a una chiesa di Giaffa.
Le riforme ottomane attuate in questo periodo sono improntate a modelli governativi, giuridici e amministrativi europei, incluso il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Lo scopo di Costantinopoli è di arrestare gli indipendentismi che rischiano di sfaldare l’Impero. Per la Palestina, altre due riforme importanti, oltre a quella già citata, sono una legge sulla suddivisione amministrativa territoriale, del 1864, e la promulgazione della Costituzione Ottomana, nel 1876 – ma sospesa nel 1878 -, che portano a un cambiamento della struttura sociale e del rapporto della società palestinese con lo Stato, proprio perché viene introdotta l’idea di cittadinanza. Tutto ciò si manifesta nel potenziamento delle élite politiche locali, nel collegamento dei rispettivi mercati all’economia capitalista mondiale e nel trasferimento delle sedi del potere dalle aree rurali alle città. I governanti locali devono però rinunciare alla propria autonomia, diventando funzionari dello Stato ottomano.
In questa stessa fase storica, in Palestina, avvengono lavori di costruzione di una rete ferroviaria. La prima ferrovia, inaugurata nel 1892, collega Gerusalemme a Giaffa, ormai uno dei principali centri commerciali del Mediterraneo.
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BEN(E)DETTO 30 agosto 2022
#Credo #Scegli #Pronti: le prime tre forze politiche lanciano questi tre slogan. Questa campagna elettorale andrà così. Evidentemente gli esperti di comunicazione hanno scelto. Allora ne propongo uno anche io: #Basta.
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Elezioni 2022: tra presidenzialismo e rara sostanza
Il PD, come il trio di destra, ormai sono confederazioni, nelle quali ogni pezzo vuole la sua soddisfazione
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Elezioni politiche 2022: gli smodati ‘centrini’ e gli ‘opposti estremismi’
Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) Le ricette economiche neoliberiste che tiranneggiano avendo disarticolato ceti e classi sociali nel mondo negli ultimi 40 anni hanno nel sub sistema politico i suoi riflessi, in quello che è comunemente chiamato liberalismo, appunto economico [...]
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 Dal #PNRR oltre 3,1 miliardi per asili nido e scuole dell’infanzia
🔸 #PNRRIstruzione, al via il “Piano Scuola 4.0”: 2,1 miliardi per 100.
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Russia: la guerra in Ucraina allontana il mercato asiatico delle armi
È probabile che l’importanza della Russia come fornitore di armi per gli Stati asiatici diminuisca nel breve termine a causa dei vincoli alle esportazioni derivanti dal conflitto Russia-Ucraina. La necessità della Russia di utilizzare più armamenti propri nel conflitto Russia-Ucraina, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea e la scarsa performance percepita delle [...]
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Russia: la guerra in Ucraina allontana il mercato delle armi asiatico
È probabile che l’importanza della Russia come fornitore di armi per gli Stati asiatici diminuisca nel breve termine a causa dei vincoli alle esportazioni derivanti dal conflitto Russia-Ucraina. La necessità della Russia di utilizzare più armamenti propri nel conflitto Russia-Ucraina, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea e la scarsa performance percepita delle [...]
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Perché l’Armenia è ucrainofobica?
Storicamente non c’è mai stato alcun conflitto tra armeni e ucraini. Gli armeni vivono in Ucraina da secoli e la Chiesa armena dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, modellata sull’antica cattedrale armena di Ani a Yerevan e costruita nel 1363-1370, si trova a Leopoli, nell’Ucraina occidentale. Gli ucraini commemorano la pulizia etnica da parte di Joseph [...]
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GAZA. Farouq, 6 anni, morto in attesa di un permesso che non è mai arrivato
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – Il caso Farouq Abu Naja, il bimbo di 6 anni gravemente ammalato al quale, denuncia il centro per i diritti umani Al Mezan, le autorità militari israeliane non ha consentito di uscire dalla Striscia di Gaza e di raggiungere l’ospedale Hadassah di Gerusalemme (dove era atteso), ha riportato sotto i riflettori le restrizioni discriminatorie ai movimenti e il sistema di permessi imposti ai pazienti palestinesi che ostacolano il loro accesso agli ospedali al di fuori di Gaza. Secondo Al Mezan le richieste di permesso di uscita dei pazienti presentate alle autorità israeliane tra il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di salute di Farouq e alla sua morte giovedì 25 agosto.
Farouq Abu Naja
Pagine Esteri vi invita a leggere l’approfondimento sull’impatto delle limitazioni al trasferimento di malati dalla Striscia di Gaza, scritto dal dottor Angelo Stefanini, medico, già responsabile dell’ufficio dell’OMS per i Territori palestinesi occupati, e da anni medico volontario per conto della ong PCRF-Italia.
di Angelo Stefanini
La sofferenza collettiva che subisce la popolazione della Striscia di Gaza non è causata soltanto dalle bombe, ma dalla “violenza burocratica”, ordinaria e oscena, esercitata da un meccanismo perverso di “autorizzazione alla sopravvivenza” a cui migliaia di malati gravi devono sottostare per potere accedere a cure non disponibili all’interno della Striscia.
La prolungata crisi umanitaria di Gaza è principalmente il risultato combinato dell’assedio illegale imposto da Israele e della sistematica distruzione delle infrastrutture pubbliche e private. Molte delle attuali restrizioni, originariamente volute dalle autorità israeliane all’inizio degli anni ’90, sono state intensificate dopo il giugno 2007, in seguito alla presa di controllo su Gaza da parte di Hamas, quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco al passaggio, da e verso la Striscia, di persone, mezzi di sussistenza e servizi essenziali. Come conseguenza, il sistema sanitario soffre di una crescente carenza in attrezzature, personale e forniture di elettricità e acqua.
Nel caso in cui a Gaza non siano disponibili cure mediche specialistiche o salvavita, i medici devono indirizzare i malati verso ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele, o altrove all’estero, a spese dell’Autorità Palestinese. Al momento dell’invio, il paziente entra in un lungo, oneroso e opaco percorso di autorizzazioni che inizia con una domanda alle autorità sanitarie palestinesi e si conclude con la risposta delle autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez sul confine con Israele.
I malati sono l’unico gruppo vulnerabile che gode di una certa clemenza riguardo al divieto generale di movimento che Israele impone agli abitanti di Gaza; tuttavia, mentre tale “esenzione umanitaria” consente alla maggior parte dei pazienti (muniti di permesso di invio, copertura finanziaria dall’Autorità Palestinese e appuntamento fissato) di accedere agli ospedali fuori dalla Striscia, a centinaia di loro viene impedito ogni mese di uscire. Nonostante seguano le procedure stabilite dalle autorità israeliane e dimostrino, attraverso referti medici, l’assoluta necessità del trasferimento, sempre più spesso, infatti, le richieste sono ritardate o respinte dalle autorità israeliane, con i malati lasciati in preda alle loro precarie condizioni di salute o alla morte. Uno studio dell’OMS sulla sopravvivenza comparativa dei malati di cancro nella Striscia di Gaza ha dimostrato una mortalità significativamente maggiore nei pazienti che non hanno ottenuto da Israele il permesso di uscire dalla Striscia per accedere a cure mediche adeguate, rispetto a quelli che l’hanno ottenuto.
Inoltre, il processo di richiesta del permesso comporta inevitabilmente stress, ansia e talvolta traumi nei pazienti e nelle loro famiglie che hanno sopportato per anni ritardi e cure mediche negate e a cui negli ultimi mesi Israele ha inasprito le restrizioni già rigorose senza chiari motivi. Inoltre, a causa della situazione economica di Gaza, il Ministero della salute palestinese deve sostenere un numero crescente di malati che necessitano di assistenza pubblica gratuita e di conseguenza i tempi di attesa possono allungarsi per anni.
Le decisioni israeliane di rifiuto all’autorizzazione vengono a volte ribaltate grazie al coinvolgimento di rappresentanti legali. Il lavoro del Gaza Community Mental Health Programme ha dimostrato che, nonostante le difficoltà crescenti e il lungo percorso da compiere, in mancanza di altre opzioni i pazienti mantengono la speranza nella concessione del permesso. L’attesa e la relativa impotenza a cambiare la situazione hanno gravi ripercussioni sulla salute mentale dei malati, che spesso necessitano di farmaci per gestire la costrizione psicologica che accompagna il processo.
Tipi di malati gravi che necessitano di cure al di fuori di Gaza:
- Pazienti oncologici che necessitano di chirurgia, chemioterapia o radioterapia. Gli ospedali di Gaza non dispongono delle attrezzature per l’assistenza olistica come PET e scanner a radioisotopi.
- Pazienti cardiopatici: di fronte ai circa 500 pazienti adulti che necessitano di un intervento chirurgico a cuore aperto ogni anno, Gaza ha un solo centro di cardiochirurgia che può eseguire 196 interventi chirurgici di quel tipo all’anno.
- Pazienti pediatrici: il Ministero della Salute segnala annualmente oltre 300 bambini che soffrono di disordini metabolici, difetti congeniti e malati di cancro che richiedono cure al di fuori di Gaza.
- Pazienti oculistici: gli ospedali di Gaza non hanno attrezzature né competenze adeguate a trattare problemi della camera posteriore del bulbo oculare, o i trapianti di cornea.
- Pazienti con malattie ossee: la carenza di protesi articolari, acutizzata dal blocco e dalle ferite prodotte dagli assalti armati israeliani, è il principale fattore determinante il bisogno di trasferimento in ospedali al di fuori di Gaza.
- Pazienti neurochirurgici: a Gaza mancano attrezzature e competenze in questo tipo di microchirurgia.
Criteri e fasi del trasferimento
Quando a Gaza un malato grave viene informato che la procedura diagnostica o il trattamento di cui ha bisogno non è disponibile localmente, riceve un dettagliato rapporto ufficiale sul suo caso e su quanto necessario per poter essere inviato ad altro ospedale fuori dalla Striscia. Il rapporto è approvato dai direttori ospedalieri e trasmesso al Ministero della Salute (MdS) palestinese che, in collegamento con gli ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele o altrove, prenota un appuntamento. Successivamente, il MdS invia i rapporti e la data dell’appuntamento al ministero incaricato di mantenere i contatti con l’occupazione israeliana, il Ministero degli Affari Civili (MoCA). Il MoCA a sua volta presenta la richiesta di autorizzazione di invio del paziente, con il giorno dell’appuntamento fissato, al Coordinatore delle attività di governo nei territori (COGAT), l’unità del Ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili nei territori palestinesi occupati.
Il monitoraggio di Al Mezan Centre for Human Rights indica che, anche nel caso in cui i pazienti seguano tutte le procedure previste fino all’ultimo passo dell’appuntamento fissato, non è comunque garantita la concessione di un permesso. Le politica israeliana di severe restrizioni al movimento rimane una barriera insormontabile per molti pazienti, anche se l’ospedale è a solo una o due ore di automobile.
Il processo di richiesta di autorizzazione può seguire tre percorsi: il primo riguarda le domande prioritarie per accedere a un intervento medico immediato aggirando le citate commissioni deliberanti e formulando la richiesta di trasferimento dal MdS entro 24 ore. Se tale richiesta è respinta dalle autorità israeliane, viene rapidamente intrapreso un altro processo accelerato (inadeguato per i pazienti che non possono permettersi un’attesa di uno o due giorni). Il secondo percorso riguarda le domande urgenti di pazienti in condizione critica, ad es. i pazienti oncologici, ma senza bisogno di un intervento immediato, che vengono esaminate da un comitato decisionale del MdS con l’appuntamento nell’ospedale di riferimento in genere fissato a due settimane dalla richiesta. Ogni ritardo da parte delle autorità israeliane oltre questo periodo richiede che il paziente ottenga un nuovo appuntamento nell’ospedale e ricominci da capo il processo di richiesta. Infine, le domande normali per pazienti meno urgenti seguono un terzo percorso che può durare da oltre due settimane a diversi mesi. Anche in questo caso, ogni ritardo oltre l’appuntamento ospedaliero o il rifiuto del permesso da parte delle autorità israeliane significa che il paziente deve fissare un nuovo appuntamento in ospedale ricominciando dall’inizio.
È importante notare che una domanda approvata non si traduce necessariamente in un esito finale positivo, a causa degli interrogatori, ritardi, molestie, ostacoli e arresti di pazienti o accompagnatori al valico di Erez che si possono frapporre sulla strada per l’ospedale. La pratica dell’arresto degli accompagnatori o la mancata concessione del loro permesso ha gravi ripercussioni anche sui pazienti, poiché quest’ultimi non sono in genere autosufficienti durante il viaggio da e per l’ospedale, e durante la degenza. In alcuni casi, bambini palestinesi sono stati costretti a recarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza senza i loro genitori.
A volte le autorità israeliane rispondono con un esplicito rifiuto alla richiesta di permesso accampando ragioni “di sicurezza”, poiché qualcuno potrebbe approfittarne per compiere attacchi contro Israele. Tuttavia, i motivi addotti da Israele nei confronti dei pazienti sono smentiti dalla comune pratica di concedere nulla osta a malati consentendo loro di viaggiare per poi bloccare o rifiutare i permessi per gli stessi pazienti con il pretesto dei requisiti di sicurezza.
Succede anche che le autorità israeliane respingano il permesso a un malato di cancro che ha già subito un ciclo di cure al di fuori di Gaza, durante il percorso terapeutico, interrompendo così il trattamento prescritto. Un ulteriore processo di richiesta deve allora essere di nuovo avviato dall’inizio. Tali pratiche confutano chiaramente le asserzioni di Israele sui problemi di sicurezza, dal momento che al paziente era già stato consentito il passaggio attraverso Erez almeno una volta prima del rifiuto.
I dati forniti dalla Direzione Coordinamento e Collegamento del MdS mostrano negli ultimi anni un costante aumento del tasso di risposte che giungono in ritardo: dal 14% del 2014 a una media del 44% nel 2017. Nel 2021 il 36% delle 15.301 richieste presentate è stato respinto, non ha ricevuto risposta o è stato ritardato con vari pretesti.
Nonostante l’esame approfondito delle cartelle cliniche compiuto dalle commissioni mediche palestinesi specializzati, le autorità israeliane bloccano sempre più i pazienti ritardando le risposte. Quando il malato non riceve risposta dalle autorità, è a quel punto costretto a cercare un altro appuntamento che, se confermato, esige una nuova domanda di permesso di uscita. Questa sequenza può essere ripetuta più volte, con appuntamenti in scadenza, nuovi appuntamenti fissati e domande di autorizzazione ripresentate, senza che venga concesso un permesso di uscita.
Il ritardo è la modalità più penosa per i pazienti per lo stress aggiuntivo dovuto al timore che l’autorizzazione non arrivi in tempo per il giorno dell’appuntamento. Rappresenta anche un modo, decisamente perverso, facendo perdere un appuntamento dietro l’altro, di vanificare le attese di un ricovero ospedaliero in cui il malato vede l’ultima speranza di sopravvivenza.
Durante l’attesa, ai pazienti può essere richiesto di presentarsi per un colloquio con le autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez, come prerequisito per la concessione del permesso. Questo momento, considerato da Israele come parte dello screening di sicurezza, mette il paziente e/o il suo accompagnatore in una posizione molto vulnerabile e la mancata presenza significa che la richiesta di permesso viene automaticamente respinta.
Tra il 2014 e il 2017 sono stati convocati a colloquio oltre 1.660 pazienti e accompagnatori. Molti di loro hanno riferito di essere stati sottoposti a veri e propri interrogatori con richieste di informazioni sulla situazione della sicurezza a Gaza e su parenti, vicini e amici. Ad alcuni pazienti è stato chiesto di collaborare con i servizi di sicurezza israeliani in cambio dell’accesso alle cure mediche. Alcuni che si sono rifiutati hanno visto respinta la richiesta di permesso dalle autorità israeliane. E ‘ noto il caso di almeno un paziente percosso durante il colloquio dagli agenti di sicurezza israeliani, in particolare nelle parti del corpo per le quali erano richieste cure mediche.
Il diritto internazionale vieta l’uso della coercizione fisica e morale contro le persone protette per ottenere informazioni sensibili. Tale pratica rientra nei criteri di definizione di tortura dell’UNCAT. Sono documentati casi in cui i servizi di intelligence israeliani hanno chiamato i pazienti per un colloquio, solo per poi rimandarli a Gaza dopo avere ispezionato i loro telefoni cellulari per raccogliere dati e ottenere informazioni private.
In una lettera al Ministro della difesa israeliano, procuratore generale e capo del COGAT, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono ai pazienti di Gaza di accedere alle cure di cui hanno bisogno. Il blocco della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, che costringe i malati bisognosi di cure non disponibili a Gaza ad affrontare interminabili processi burocratici, procedure di sicurezza arbitrarie e l’incertezza dell’esito finale.
Nel 2002, durante la seconda Intifada, allora responsabile dell’ufficio dell’OMS per i territori palestinesi occupati, scrivevo ad amici: “Quotidianamente vedo, sento e tocco con mano quello che a volte mi appare come ‘il male’ nella sua forma più ‘sofisticata’. La brutalità che vedo sempre più chiara non è tanto nelle azioni violente come i bombardamenti, ma in azioni molto meno visibili e per questo quasi mai riportate dai grandi media…[..] Quello che più mi spaventa è che in questo modo è proprio Israele a fissare gli standard morali a cui gli altri devono adeguarsi.”
La situazione non è migliorata e tutti noi continuiamo ad esserne responsabili. Pagine Esteri
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Angola: l’MPLA vince, ma in realtà perde
Le elezioni in Angola sono state, per la prima volta, una corsa serrata tra il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (MPLA) e una coalizione guidata dal suo rivale storico, l’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (UNITA). La coalizione UNITA-FPU (United Patriotic Front) includeva candidati indipendenti di altri partiti e formazioni di opposizione. I risultati [...]
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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni politiche dello scorso ottobre. Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.
Muqtada al Sadr
I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffuse sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.
Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo affermare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.
Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dall’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri
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USA: i falchi chiedono davvero una guerra preventiva alla Russia?
L’invasione dell’Ucraina da parte del Presidente Vladimir Putin alla fine di febbraio 2022 è stata un atto autoproclamato di guerra preventiva. È meglio entrare in guerra ora, prima che la testa di ponte ucraina della NATO ai confini della Russia diventi una minaccia esistenziale imminente, disse Putin all’epoca. Più a lungo la guerra sarebbe stata [...]
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Non parte oggi SLS con Artemis 1
Sarebbe dovuto partire oggi alle 8:33 ora della Florida, quindi appena da poco in Italia, un razzo colossale dalla piattaforma di lancio 39b del Kennedy Space Center. Prossima destinazione: Luna. C’è stato qualcosa che non ha funzionato ad uno dei motori del primo stadio e il lancio è stato riprogrammato per il prossimo 2 settembre. [...]
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Tommaso Subini – La via italiana alla pornografia
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"Non ho paura e non pago il pizzo."
L’imprenditore Libero Grassi, attraverso una lettera inviata al Giornale di #Sicilia alzava la testa contro la mafia, ribellandosi apertamente alla violenza di Cosa nostra.
Denunciare il racket, un coraggio che Grassi pagherà con la propria vita qualche mese dopo, il 29 agosto del 1991 a #Palermo.
Il suo coraggio contribuì a dotare l’Italia di uno strumento a favore degli imprenditori coraggiosi, il varo del decreto che porta alla legge anti-racket 172.
GAZA. Farouq, 6 anni, morto in attesa di un permesso che non è mai arrivato
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – Il caso Farouq Abu Naja, il bimbo di 6 anni gravemente ammalato al quale, denuncia il centro per i diritti umani Al Mezan, le autorità militari israeliane non ha consentito di uscire dalla Striscia di Gaza e di raggiungere l’ospedale Hadassah di Gerusalemme (dove era atteso), ha riportato sotto i riflettori le restrizioni discriminatorie ai movimenti e il sistema di permessi imposti ai pazienti palestinesi che ostacolano il loro accesso agli ospedali al di fuori di Gaza. Secondo Al Mezan le richieste di permesso di uscita dei pazienti presentate alle autorità israeliane tra il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di salute di Farouq e alla sua morte giovedì 25 agosto.
Farouq Abu Naja
Pagine Esteri vi invita a leggere l’approfondimento sull’impatto delle limitazioni al trasferimento di malati dalla Striscia di Gaza, scritto dal dottor Angelo Stefanini, medico, già responsabile dell’ufficio dell’OMS per i Territori palestinesi occupati, e da anni medico volontario per conto della ong PCRF-Italia.
di Angelo Stefanini
La sofferenza collettiva che subisce la popolazione della Striscia di Gaza non è causata soltanto dalle bombe, ma dalla “violenza burocratica”, ordinaria e oscena, esercitata da un meccanismo perverso di “autorizzazione alla sopravvivenza” a cui migliaia di malati gravi devono sottostare per potere accedere a cure non disponibili all’interno della Striscia.
La prolungata crisi umanitaria di Gaza è principalmente il risultato combinato dell’assedio illegale imposto da Israele e della sistematica distruzione delle infrastrutture pubbliche e private. Molte delle attuali restrizioni, originariamente volute dalle autorità israeliane all’inizio degli anni ’90, sono state intensificate dopo il giugno 2007, in seguito alla presa di controllo su Gaza da parte di Hamas, quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco al passaggio, da e verso la Striscia, di persone, mezzi di sussistenza e servizi essenziali. Come conseguenza, il sistema sanitario soffre di una crescente carenza in attrezzature, personale e forniture di elettricità e acqua.
Nel caso in cui a Gaza non siano disponibili cure mediche specialistiche o salvavita, i medici devono indirizzare i malati verso ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele, o altrove all’estero, a spese dell’Autorità Palestinese. Al momento dell’invio, il paziente entra in un lungo, oneroso e opaco percorso di autorizzazioni che inizia con una domanda alle autorità sanitarie palestinesi e si conclude con la risposta delle autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez sul confine con Israele.
I malati sono l’unico gruppo vulnerabile che gode di una certa clemenza riguardo al divieto generale di movimento che Israele impone agli abitanti di Gaza; tuttavia, mentre tale “esenzione umanitaria” consente alla maggior parte dei pazienti (muniti di permesso di invio, copertura finanziaria dall’Autorità Palestinese e appuntamento fissato) di accedere agli ospedali fuori dalla Striscia, a centinaia di loro viene impedito ogni mese di uscire. Nonostante seguano le procedure stabilite dalle autorità israeliane e dimostrino, attraverso referti medici, l’assoluta necessità del trasferimento, sempre più spesso, infatti, le richieste sono ritardate o respinte dalle autorità israeliane, con i malati lasciati in preda alle loro precarie condizioni di salute o alla morte. Uno studio dell’OMS sulla sopravvivenza comparativa dei malati di cancro nella Striscia di Gaza ha dimostrato una mortalità significativamente maggiore nei pazienti che non hanno ottenuto da Israele il permesso di uscire dalla Striscia per accedere a cure mediche adeguate, rispetto a quelli che l’hanno ottenuto.
Inoltre, il processo di richiesta del permesso comporta inevitabilmente stress, ansia e talvolta traumi nei pazienti e nelle loro famiglie che hanno sopportato per anni ritardi e cure mediche negate e a cui negli ultimi mesi Israele ha inasprito le restrizioni già rigorose senza chiari motivi. Inoltre, a causa della situazione economica di Gaza, il Ministero della salute palestinese deve sostenere un numero crescente di malati che necessitano di assistenza pubblica gratuita e di conseguenza i tempi di attesa possono allungarsi per anni.
Le decisioni israeliane di rifiuto all’autorizzazione vengono a volte ribaltate grazie al coinvolgimento di rappresentanti legali. Il lavoro del Gaza Community Mental Health Programme ha dimostrato che, nonostante le difficoltà crescenti e il lungo percorso da compiere, in mancanza di altre opzioni i pazienti mantengono la speranza nella concessione del permesso. L’attesa e la relativa impotenza a cambiare la situazione hanno gravi ripercussioni sulla salute mentale dei malati, che spesso necessitano di farmaci per gestire la costrizione psicologica che accompagna il processo.
Tipi di malati gravi che necessitano di cure al di fuori di Gaza:
- Pazienti oncologici che necessitano di chirurgia, chemioterapia o radioterapia. Gli ospedali di Gaza non dispongono delle attrezzature per l’assistenza olistica come PET e scanner a radioisotopi.
- Pazienti cardiopatici: di fronte ai circa 500 pazienti adulti che necessitano di un intervento chirurgico a cuore aperto ogni anno, Gaza ha un solo centro di cardiochirurgia che può eseguire 196 interventi chirurgici di quel tipo all’anno.
- Pazienti pediatrici: il Ministero della Salute segnala annualmente oltre 300 bambini che soffrono di disordini metabolici, difetti congeniti e malati di cancro che richiedono cure al di fuori di Gaza.
- Pazienti oculistici: gli ospedali di Gaza non hanno attrezzature né competenze adeguate a trattare problemi della camera posteriore del bulbo oculare, o i trapianti di cornea.
- Pazienti con malattie ossee: la carenza di protesi articolari, acutizzata dal blocco e dalle ferite prodotte dagli assalti armati israeliani, è il principale fattore determinante il bisogno di trasferimento in ospedali al di fuori di Gaza.
- Pazienti neurochirurgici: a Gaza mancano attrezzature e competenze in questo tipo di microchirurgia.
Criteri e fasi del trasferimento
Quando a Gaza un malato grave viene informato che la procedura diagnostica o il trattamento di cui ha bisogno non è disponibile localmente, riceve un dettagliato rapporto ufficiale sul suo caso e su quanto necessario per poter essere inviato ad altro ospedale fuori dalla Striscia. Il rapporto è approvato dai direttori ospedalieri e trasmesso al Ministero della Salute (MdS) palestinese che, in collegamento con gli ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele o altrove, prenota un appuntamento. Successivamente, il MdS invia i rapporti e la data dell’appuntamento al ministero incaricato di mantenere i contatti con l’occupazione israeliana, il Ministero degli Affari Civili (MoCA). Il MoCA a sua volta presenta la richiesta di autorizzazione di invio del paziente, con il giorno dell’appuntamento fissato, al Coordinatore delle attività di governo nei territori (COGAT), l’unità del Ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili nei territori palestinesi occupati.
Il monitoraggio di Al Mezan Centre for Human Rights indica che, anche nel caso in cui i pazienti seguano tutte le procedure previste fino all’ultimo passo dell’appuntamento fissato, non è comunque garantita la concessione di un permesso. Le politica israeliana di severe restrizioni al movimento rimane una barriera insormontabile per molti pazienti, anche se l’ospedale è a solo una o due ore di automobile.
Il processo di richiesta di autorizzazione può seguire tre percorsi: il primo riguarda le domande prioritarie per accedere a un intervento medico immediato aggirando le citate commissioni deliberanti e formulando la richiesta di trasferimento dal MdS entro 24 ore. Se tale richiesta è respinta dalle autorità israeliane, viene rapidamente intrapreso un altro processo accelerato (inadeguato per i pazienti che non possono permettersi un’attesa di uno o due giorni). Il secondo percorso riguarda le domande urgenti di pazienti in condizione critica, ad es. i pazienti oncologici, ma senza bisogno di un intervento immediato, che vengono esaminate da un comitato decisionale del MdS con l’appuntamento nell’ospedale di riferimento in genere fissato a due settimane dalla richiesta. Ogni ritardo da parte delle autorità israeliane oltre questo periodo richiede che il paziente ottenga un nuovo appuntamento nell’ospedale e ricominci da capo il processo di richiesta. Infine, le domande normali per pazienti meno urgenti seguono un terzo percorso che può durare da oltre due settimane a diversi mesi. Anche in questo caso, ogni ritardo oltre l’appuntamento ospedaliero o il rifiuto del permesso da parte delle autorità israeliane significa che il paziente deve fissare un nuovo appuntamento in ospedale ricominciando dall’inizio.
È importante notare che una domanda approvata non si traduce necessariamente in un esito finale positivo, a causa degli interrogatori, ritardi, molestie, ostacoli e arresti di pazienti o accompagnatori al valico di Erez che si possono frapporre sulla strada per l’ospedale. La pratica dell’arresto degli accompagnatori o la mancata concessione del loro permesso ha gravi ripercussioni anche sui pazienti, poiché quest’ultimi non sono in genere autosufficienti durante il viaggio da e per l’ospedale, e durante la degenza. In alcuni casi, bambini palestinesi sono stati costretti a recarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza senza i loro genitori.
A volte le autorità israeliane rispondono con un esplicito rifiuto alla richiesta di permesso accampando ragioni “di sicurezza”, poiché qualcuno potrebbe approfittarne per compiere attacchi contro Israele. Tuttavia, i motivi addotti da Israele nei confronti dei pazienti sono smentiti dalla comune pratica di concedere nulla osta a malati consentendo loro di viaggiare per poi bloccare o rifiutare i permessi per gli stessi pazienti con il pretesto dei requisiti di sicurezza.
Succede anche che le autorità israeliane respingano il permesso a un malato di cancro che ha già subito un ciclo di cure al di fuori di Gaza, durante il percorso terapeutico, interrompendo così il trattamento prescritto. Un ulteriore processo di richiesta deve allora essere di nuovo avviato dall’inizio. Tali pratiche confutano chiaramente le asserzioni di Israele sui problemi di sicurezza, dal momento che al paziente era già stato consentito il passaggio attraverso Erez almeno una volta prima del rifiuto.
I dati forniti dalla Direzione Coordinamento e Collegamento del MdS mostrano negli ultimi anni un costante aumento del tasso di risposte che giungono in ritardo: dal 14% del 2014 a una media del 44% nel 2017. Nel 2021 il 36% delle 15.301 richieste presentate è stato respinto, non ha ricevuto risposta o è stato ritardato con vari pretesti.
Nonostante l’esame approfondito delle cartelle cliniche compiuto dalle commissioni mediche palestinesi specializzati, le autorità israeliane bloccano sempre più i pazienti ritardando le risposte. Quando il malato non riceve risposta dalle autorità, è a quel punto costretto a cercare un altro appuntamento che, se confermato, esige una nuova domanda di permesso di uscita. Questa sequenza può essere ripetuta più volte, con appuntamenti in scadenza, nuovi appuntamenti fissati e domande di autorizzazione ripresentate, senza che venga concesso un permesso di uscita.
Il ritardo è la modalità più penosa per i pazienti per lo stress aggiuntivo dovuto al timore che l’autorizzazione non arrivi in tempo per il giorno dell’appuntamento. Rappresenta anche un modo, decisamente perverso, facendo perdere un appuntamento dietro l’altro, di vanificare le attese di un ricovero ospedaliero in cui il malato vede l’ultima speranza di sopravvivenza.
Durante l’attesa, ai pazienti può essere richiesto di presentarsi per un colloquio con le autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez, come prerequisito per la concessione del permesso. Questo momento, considerato da Israele come parte dello screening di sicurezza, mette il paziente e/o il suo accompagnatore in una posizione molto vulnerabile e la mancata presenza significa che la richiesta di permesso viene automaticamente respinta.
Tra il 2014 e il 2017 sono stati convocati a colloquio oltre 1.660 pazienti e accompagnatori. Molti di loro hanno riferito di essere stati sottoposti a veri e propri interrogatori con richieste di informazioni sulla situazione della sicurezza a Gaza e su parenti, vicini e amici. Ad alcuni pazienti è stato chiesto di collaborare con i servizi di sicurezza israeliani in cambio dell’accesso alle cure mediche. Alcuni che si sono rifiutati hanno visto respinta la richiesta di permesso dalle autorità israeliane. E ‘ noto il caso di almeno un paziente percosso durante il colloquio dagli agenti di sicurezza israeliani, in particolare nelle parti del corpo per le quali erano richieste cure mediche.
Il diritto internazionale vieta l’uso della coercizione fisica e morale contro le persone protette per ottenere informazioni sensibili. Tale pratica rientra nei criteri di definizione di tortura dell’UNCAT. Sono documentati casi in cui i servizi di intelligence israeliani hanno chiamato i pazienti per un colloquio, solo per poi rimandarli a Gaza dopo avere ispezionato i loro telefoni cellulari per raccogliere dati e ottenere informazioni private.
In una lettera al Ministro della difesa israeliano, procuratore generale e capo del COGAT, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono ai pazienti di Gaza di accedere alle cure di cui hanno bisogno. Il blocco della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, che costringe i malati bisognosi di cure non disponibili a Gaza ad affrontare interminabili processi burocratici, procedure di sicurezza arbitrarie e l’incertezza dell’esito finale.
Nel 2002, durante la seconda Intifada, allora responsabile dell’ufficio dell’OMS per i territori palestinesi occupati, scrivevo ad amici: “Quotidianamente vedo, sento e tocco con mano quello che a volte mi appare come ‘il male’ nella sua forma più ‘sofisticata’. La brutalità che vedo sempre più chiara non è tanto nelle azioni violente come i bombardamenti, ma in azioni molto meno visibili e per questo quasi mai riportate dai grandi media…[..] Quello che più mi spaventa è che in questo modo è proprio Israele a fissare gli standard morali a cui gli altri devono adeguarsi.”
La situazione non è migliorata e tutti noi continuiamo ad esserne responsabili. Pagine Esteri
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IRAQ. Il cambiamento climatico sta cancellando il Crescente fertile
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 26 agosto – L’Iraq è chiamato con urgenza a contenere le conseguenze del cambiamento climatico che rischiano di trasformare in un deserto totale una terra da sempre conosciuta come il Crescente fertile. Gli iracheni quest’anno affrontano una stagione di caldo torrido senza precedenti – già in tempi «normali» d’estate si raggiungono anche i 45 gradi – e continue tempeste di sabbia e polvere. La sfida è immensa. Nel 2019, le Nazioni unite hanno classificato l’Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici e alla desertificazione. Commentando l’aumento del numero e le proporzioni delle tempeste di sabbia, il direttore generale del ministero dell’ambiente Issa Al-Fayyad ha previsto che ci saranno una media di 300 giorni polverosi all’anno entro il 2050. «Il cambiamento climatico sta avendo impatto pesante sull’Iraq», ha detto in una recente intervista Hazbar Osama, uno dei responsabili dell’Organizzazione meteorologica irachena insistendo sulla necessità di attuare l’Accordo di Parigi e collaborare con gli Stati confinanti per la gestione dell’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate.
La desertificazione è esacerbata non solo dall’aumento delle temperature ma anche dalla scomparsa delle aree verdi, dalla diminuzione delle precipitazioni in Iraq e nei paesi vicini e dalla riduzione delle riserve idriche sotterranee. Il terreno si sta allentando ed è più a rischio di disperdersi nell’aria durante le tempeste di polvere che sono dannose anche per la salute. Nei primi sei mesi del 2022 migliaia di iracheni sono stati ricoverati negli ospedali per malattie respiratorie. E andrà peggio in futuro.
L’altro allarme riguarda l’acqua. In un rapporto pubblicato lo scorso novembre, la Banca Mondiale ha previsto che l’Iraq affronterà una grave penuria d’acqua entro il 2030, con meno di 1.000 metri cubi disponibili per persona. «La riduzione del 20% dell’approvvigionamento idrico provocherà mutamenti nei raccolti e il cambiamento climatico potrebbe ridurre il Pil reale fino al 4% (6,6 miliardi di dollari), rispetto ai livelli del 2016», si legge nel rapporto.
L’Eufrate
La dote millenaria del paese sono i fiumi Tigri ed Eufrate che forniscono circa il 98% delle acque superficiali. Dote che va spartita con altri paesi. Entrambi i fiumi hanno origine in Turchia. L’Eufrate attraversa la Siria prima di entrare in Iraq e i principali affluenti del Tigri scorrono dall’Iran. Quindi si uniscono allo Shatt Al Arab prima di sfociare nel Golfo. I flussi dei due fiumi sono diminuiti negli ultimi decenni, scendendo drasticamente da un picco di quasi 80 miliardi di metri cubi negli anni ’70. Gli ultimi dati resi disponibili dal ministero della pianificazione iracheno mostrano che nel 2020 la fornitura d’acqua dal Tigri era di 11 miliardi di metri cubi e quella dei suoi affluenti di 19 miliardi di metri cubi. La fornitura dall’Eufrate è stimata in 20 miliardi di metri cubi. L’approvvigionamento idrico totale dell’Iraq dai due fiumi, perciò, è stato due anni fa di 50 miliardi di metri cubi, 30 miliardi in meno rispetto agli anni ’70. E se le tendenze attuali dovessero continuare, l’Iraq potrebbe dover affrontare un deficit di 11 miliardi di metri cubi di acqua all’anno entro il 2035.
La diminuzione del livello dell’acqua del Tigri e dell’Eufrate in Iraq è in gran parte dovuta a dighe e progetti di irrigazione in Turchia e, in misura inferiore, in Iran. Ankara ha costruito decine di dighe che hanno ridotto i flussi a valle di entrambi i fiumi, Teheran è intervenuta sugli affluenti del Tigri approfittando della mancanza di accordi vincolanti per la condivisione dell’acqua. Presto sulle quote d’acqua è previsto un incontro tra Iraq, Siria e Turchia, ha annunciato il ministro iracheno delle risorse idriche Mahdi Rashid Al Hamdani. E l’esperto economico, Mazen Al Mayyali, in una intervista alla rivista Amwaj, sostiene che l’Iraq potrebbe convincere Turchia e Iran a una maggiore cooperazione usando lo sviluppo del commercio come carta vincente nei negoziati. Non ci sono certezze però.
Mentre lo stallo politico in cui si trova il paese da 10 mesi paralizza l’attività dello Stato, attivisti della società civile irachena e volontari hanno lanciato, anche sui social, una campagna per incoraggiare il rinverdimento delle terre aride in tre distretti a Baghdad, nonché nei governatorati di Karbala e Ninive. Consigliano la coltivazione di alcune specie di piante autoctone con la capacità di trattenere il suolo e l’acqua e dare ombra. E sollecitano i cittadini iracheni a piantare alberi e prendendosi cura di loro. Ma la portata della sfida è enorme e non può essere vinta senza piano d’azione delle autorità irachene in cooperazione con gli Stati confinanti. Pagine Esteri
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Dalle conchiglie alla carta
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Fonte: nakamotoinstitute.org/shelling-out/
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Quel che unisce
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