ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
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La visita di Pelosi e la nuova normalità a Taiwan
Le aziende ora sono giustamente più preoccupate per lo scoppio delle ostilità nello Stretto di Taiwan e il suo impatto sulla sicurezza fisica, sui beni/investimenti e sulla continuità aziendale. Data la risposta cinese alla visita del presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan il 2-3 agosto 2022, si ritiene che il rischio [...]
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Carlo Alberto dalla Chiesa: quarant’anni da via Carini
Nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione del centenario della nascita del Generale (ilcaffeonline.it/2020/09/27/fe…), il professor Nando dalla Chiesa ha fornito ai lettori de «ilcaffeonline» due spunti particolarmente importanti.
In primo luogo ci ha tolto ogni illusione: gli italiani la corruzione ce l’hanno nella testa e non basteranno dieci anni per estirpargliela, ma ci vorranno secoli.
In secondo luogo, alla domanda su quali “frutti” abbia dato, contro l’intenzione dei suoi carnefici, l’assassinio di Carlo Alberto dalla Chiesa, ha risposto senza indugio che la scuola di suo padre è stata quella del “primato delle istituzioni”. Non in contrapposizione con la famiglia e il suo valore, bensì in armonia con essi, poiché tra le funzioni della prima e fondamentale delle istituzioni vi è proprio la trasmissione del senso dello Stato.
La sfida epocale che ci lancia il quarantennale della strage di Via Carini, in cui persero la vita anche Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale, e l’agente di scorta Domenico Russo, è allora quella di ragionare sullo stato di salute del rapporto che noi italiani intratteniamo con le istituzioni, cioè con la Costituzione e con la nostra storia.
Per ragioni logiche non si può che partire dalla scuola, alla quale compete la trasmissione del contenuto e dell’ethos della Carta. La domanda, formulata qualche anno fa dall’ANCI, di introdurre o, meglio, reintrodurre l’insegnamento dell’educazione civica, in quanto vera e propria disciplina dotata di un monte ore e di un voto, ha ottenuto una risposta politica con la legge 92/2019. Si tratta di una norma che presenta diverse criticità, ma che certamente ha il merito di costringere ogni collegio docenti ad affrontare sistematicamente, a livello didattico, la formazione civile delle ragazze e dei ragazzi, attraverso la produzione di curricoli efficaci e valutabili.
Ciò sta avendo una ricaduta positiva, anzitutto, su noi insegnanti, costringendoci a prendere conscienza del nostro rapporto con la Costituzione e con la politica – che è come dire con la virtù della speranza (vera e propria competenza professionale per un insegnante) – sia attraverso inevitabili discussioni sia grazie a corsi di aggiornamento (non tutto oro, ovviamente) dedicati ai molti importanti temi inerenti l’insegnamento dell’educazione civica. Come andrà con i ragazzi lo vedremo tra qualche anno (intanto loro ci danno diverse lunghezze sui temi dell’ambiente e dei diritti).
Che dire della politica o, meglio, di chi fa politica? Una tessera di partito continua a contare più delle istituzioni? Discorsi universali non se ne possono fare. Se faccio riferimento alla mia esperienza riesco a sentire una silenziosa foresta che cresce. Certo, parlare di contrasto al riciclaggio (e in generale delle mafie) continua a non portare voti e ancora troppo spesso le logiche che governano la costruzione delle liste e la suddivisione degli incarichi di governo e sottogoverno sono di tipo spartitorio, tra correnti e filiere (per non dire clientele).
Ma ho conosciuto anche tanti militanti, amministratori, deputati e senatori che davvero hanno a cuore le istituzioni. E sono disposti a difenderle con coraggio e a renderle efficaci e prossime sudando su documenti complessi o a corsi di formazione. E ovviamente consumando suole in giro per i territori che amministrano o rappresentano.
Sono processi lunghi, è ovvio. Non toccherà a noi vedere la terra promessa, ma certo abbiamo il dovere di perseverare nel cammino e nella rotta indicata da Carlo Alberto dalla Chiesa. Quel che soprattutto dobbiamo fare, però, è connettere l’impegno che viene dalla società con quello della parte migliore della classe dirigente, come minimo attraverso un’attenta selezione della medesima (il 25 settembre ne avremo l’occasione, non perdiamola!), ma anche senza temere di impegnarci direttamente. Magari prendendo una tessera di partito e facendola contare meno delle istituzioni.
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Tigray, Affrontare l’Assedio Abusivo dell’ Etiopia
La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in silos bloccati a seguito dell’invasione su vasta scala della Russia, ha attraccato a Gibuti il 30 agosto. Il passaggio gratuito di questa spedizione, destinata all’Etiopia, ha seguito la pressione concertata dell’Africa governi sulla Russia e negoziati guidati dalle Nazioni Unite. Ma sono necessari più forza diplomatica, anche da parte dei paesi africani, per porre fine alla stretta soffocata da quasi due anni del governo etiope sull’assistenza umanitaria alla regione assediata del Tigray. Altrimenti, è improbabile che molti degli etiopi più a rischio di fame ne traggano beneficio.
L’Etiopia è uno dei sei paesi che le Nazioni Unite hanno individuato per avere persone a rischio di fame. Milioni di persone nel sud e nell’est del Paese sono alle prese con livelli allarmanti di fame e malnutrizione a causa di una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Le comunità nelle aree colpite dal conflitto nel nord del paese fanno affidamento sull’assistenza umanitaria. Ma è nella regione del Tigray, in particolare, che una grave crisi di fame persiste da oltre un anno e potrebbe essere invertita attraverso azioni del governo.
Dallo scoppio della guerra nel Tigray nel novembre 2020, le forze etiopi e i loro alleati hanno frequentemente violato illeggi di guerra. Hanno saccheggiato e preso di mira case e infrastrutture civili – crimini che le forze del Tigray avrebbero poi replicato in altre regioni – interrompendo i servizi di base e ostacolando gravemente gli aiuti ai civili coinvolti nei combattimenti. Quindi le autorità hanno imposto un effettivo assedio all’intera regione, escludendo praticamente tutta l’assistenza umanitaria ai civili in violazione del diritto interno etiope, dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario.
Per i primi otto mesi del conflitto, le forze etiopi e i loro alleati hanno saccheggiato aziende, ospedali, banche, bestiame e raccolti, lasciando la regione dipendente dall’assistenza. L’impatto di questa distruzione è stato devastante. Ha impedito alle persone di ottenere assistenza sanitaria , cibo e altri servizi di base e ostacolato il recupero di un sistema sanitario rotto dal conflitto. Per mesi, le forze federali e regionali hanno bloccato le strade, rendendo quasi impossibile per attori privati o agenzie umanitarie trasportare forniture mediche o cibo. Rifornimenti ridotti a livelli allarmanti.
I ricercatori di Human Rights Watch hanno parlato a febbraio con medici che avevano curato dozzine di sopravvissuti a un attacco mortale di droni senza accesso a fluidi per via endovenosa o guanti protettivi. Un giornalista che si è recato in Tigray tra la fine di maggio e l’inizio di giugno ci ha detto di aver visto “fame ovunque”. Ad agosto, le Nazioni Unite hanno avvertito che un bambino tigrino su tre di età inferiore ai 5 anni è gravemente malnutrito.
Da quando il governo etiope ha dichiarato una tregua umanitaria alla fine di marzo, i convogli umanitari precedentemente bloccati dall’ingresso nel Tigray stavano finalmente arrivando nella regione. Ma ciò che stava ottenendo non si avvicinava a soddisfare le crescenti esigenze di una popolazione vulnerabile. Con le consegne di carburante e i flussi di cassa ostacolati, e il governo che continua a tenere chiuse le banche e le telecomunicazioni, le organizzazioni umanitarie stanno lottando per salvare vite umane.
La ripresa dei combattimenti nel nord dell’Etiopia il 24 agosto mette ulteriormente a rischio gli sforzi delle agenzie umanitarie. Un portavoce delle Nazioni Unite ha osservato che i combattenti del Tigray sono entrati in un magazzino delle Nazioni Unite nella capitale del Tigray, Mekelle, e hanno sequestrato 12 autocisterne destinate all’uso umanitario. Le forze del Tigray si sono anche spinte nella vicina regione di Amhara. Secondo quanto riferito, un attacco aereo del governo etiope a Mekelle il 26 agosto ha colpito un asilo e ucciso almeno sette persone, compresi i bambini. Da allora la consegna di forniture umanitarie su strada rimane sospesa , così come i voli umanitari. L’assedio nel Tigray rimane molto attivo.
Gli attacchi aerei e il saccheggio delle limitate scorte di carburante danneggeranno solo i Tigrini che stanno già subendo gli effetti del conflitto e dell’assedio. La maggior parte delle persone nel Tigray non può acquistare il cibo disponibile perché il costo dei prodotti di base continua a salire. Un residente della città di Shire ha affermato che il costo del teff, un cereale che è uno dei principali alimenti di base del paese, è triplicato negli ultimi cinque mesi.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato di affrontare le ampie restrizioni sugli aiuti e sui beni essenziali nei conflitti in Yemen e Sud Sudan, approvando una risoluzione nel 2018 che condannava il rifiuto illegale degli aiuti umanitari salvavita e dei servizi essenziali come strategia di guerra. Nella speranza di impedirlo altrove, la risoluzione del Consiglio di sicurezza invita espressamente il segretario generale delle Nazioni Unite a informare rapidamente il consiglio quando sorge il rischio di carestia indotta dal conflitto.
Eppure, di fronte a flagranti violazioni della sua stessa risoluzione in Etiopia, il Consiglio di Sicurezza non ha mai sanzionato i maggiori responsabili di azioni illegali durante il conflitto. Inoltre, il consiglio non ha nemmeno inserito l’assedio in corso nel Tigray nella sua agenda formale.
La diplomazia africana concertata intorno alla crisi del grano in Ucraina e al blocco russo è in netto contrasto con l’inerzia dell’Africa nei confronti dell’Etiopia nel Consiglio di sicurezza. I tre membri eletti che rappresentano l’Unione africana nel Consiglio di sicurezza – Gabon, Ghana e Kenya, noto come A3 – hanno ripetutamente bloccato qualsiasi discussione pubblica sull’Etiopia, consentendo a questo palese disprezzo per le norme internazionali di persistere.
Nel frattempo, l’Etiopia ei suoi partner nella regione e oltre hanno consentito che l’accesso ai beni di prima necessità diventasse una merce di scambio politica. Il ministro degli Esteri dell’Etiopia ha recentemente affermato che i servizi di base non saranno ripristinati fino a quando le due parti non inizieranno i colloqui di pace, mentre le autorità del Tigray vogliono che i servizi vengano ripristinati prima che i colloqui possano iniziare. Con la ripresa dei combattimenti, è ancora più essenziale per il mondo chiarire che i negoziati e l’accesso agli aiuti devono essere disaccoppiati.
Allora, cosa si deve fare?
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, a cominciare dall’A3, e l’Unione africana devono agire ora. Dovrebbero chiedere pubblicamente all’Etiopia di revocare completamente la sua stretta sugli aiuti umanitari disperatamente necessari e la chiusura dei servizi di base. Dovrebbero insistere affinché le parti in guerra, comprese le forze del Tigray, rispettino il diritto internazionale e facilitino l’assistenza a chi ne ha bisogno senza alcuna precondizione o ritardo. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe tenere un dibattito pubblico per affrontare la fame indotta dal conflitto e inserire l’Etiopia nell’agenda regolare del consiglio.
È fondamentale che tali pratiche governative non siano normalizzate. I responsabili del blocco di cibo, carburante e medicinali, nonché dell’utilizzo dei servizi di base come merce di scambio, dovrebbero essere ritenuti responsabili. Coloro che usano la fame di civili come metodo di guerra ostacolando i rifornimenti di soccorso o privando i civili di ciò di cui hanno bisogno per la loro sopravvivenza possono essere perseguiti percrimini di guerra. Affinché ciò avvenga, sarà fondamentale anche il proseguimento del lavoro della Commissione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Etiopia, che sarà rinnovato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra a settembre.
L’impegno dell’Africa e delle Nazioni Unite sul blocco della Russia nel Mar Nero ha dimostrato quale pressione pubblica combinata con la diplomazia può fornire sugli aiuti umanitari. Le navi in partenza dai porti ucraini carichi di grano sono il miglior tipo di dividendo di tale approccio. Ma abbiamo anche visto il contrario: una crisi in gran parte dimenticata in Etiopia, dove la fame armata di un’intera regione non ha generato neanche lontanamente la stessa attenzione. A meno che la comunità internazionale non si raduni per garantire che tutti nel Tigray abbiano pieno accesso all’assistenza umanitaria, le spedizioni di grano che finalmente arrivano in Etiopia potrebbero non arrivare a una delle popolazioni più bisognose. Se questo è il risultato finale, l’accordo sul grano sarà una vittoria vana.
Kenneth Roth – Ex Direttore Esecutivo del HRW – Human Rights Watch
FONTE: hrw.org/news/2022/08/31/confro…
ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
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Oggi tifiamo Cile
Se per uno scherzo del destino i sondaggi dovessero essere smentiti, potrebbe essere un piccolo grande tsunami
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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre
AGGIORNAMENTO ORE 22
Il prigioniero politico palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 172 giorni contro la sua detenzione “amministrativa” (senza processo), ha annunciato di aver sospeso il suo sciopero della fame dopo che le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 2 ottobre. La liberazione di Awawdeh rientrava in un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e il Jihad islami che ha posto fine a tre giorni di attacchi aerei israeliani alla Striscia di Gaza il 7 agosto e lanci di razzi verso Israele che hanno ucciso circa 50 palestinesi tra cui 17 bambini e quattro donne.
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di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
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GAZA. Farouq, 6 anni, morto in attesa di un permesso che non è mai arrivato
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – Il caso Farouq Abu Naja, il bimbo di 6 anni gravemente ammalato al quale, denuncia il centro per i diritti umani Al Mezan, le autorità militari israeliane non ha consentito di uscire dalla Striscia di Gaza e di raggiungere l’ospedale Hadassah di Gerusalemme (dove era atteso), ha riportato sotto i riflettori le restrizioni discriminatorie ai movimenti e il sistema di permessi imposti ai pazienti palestinesi che ostacolano il loro accesso agli ospedali al di fuori di Gaza. Secondo Al Mezan le richieste di permesso di uscita dei pazienti presentate alle autorità israeliane tra il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di salute di Farouq e alla sua morte giovedì 25 agosto.
Farouq Abu Naja
Pagine Esteri vi invita a leggere l’approfondimento sull’impatto delle limitazioni al trasferimento di malati dalla Striscia di Gaza, scritto dal dottor Angelo Stefanini, medico, già responsabile dell’ufficio dell’OMS per i Territori palestinesi occupati, e da anni medico volontario per conto della ong PCRF-Italia.
di Angelo Stefanini
La sofferenza collettiva che subisce la popolazione della Striscia di Gaza non è causata soltanto dalle bombe, ma dalla “violenza burocratica”, ordinaria e oscena, esercitata da un meccanismo perverso di “autorizzazione alla sopravvivenza” a cui migliaia di malati gravi devono sottostare per potere accedere a cure non disponibili all’interno della Striscia.
La prolungata crisi umanitaria di Gaza è principalmente il risultato combinato dell’assedio illegale imposto da Israele e della sistematica distruzione delle infrastrutture pubbliche e private. Molte delle attuali restrizioni, originariamente volute dalle autorità israeliane all’inizio degli anni ’90, sono state intensificate dopo il giugno 2007, in seguito alla presa di controllo su Gaza da parte di Hamas, quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco al passaggio, da e verso la Striscia, di persone, mezzi di sussistenza e servizi essenziali. Come conseguenza, il sistema sanitario soffre di una crescente carenza in attrezzature, personale e forniture di elettricità e acqua.
Nel caso in cui a Gaza non siano disponibili cure mediche specialistiche o salvavita, i medici devono indirizzare i malati verso ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele, o altrove all’estero, a spese dell’Autorità Palestinese. Al momento dell’invio, il paziente entra in un lungo, oneroso e opaco percorso di autorizzazioni che inizia con una domanda alle autorità sanitarie palestinesi e si conclude con la risposta delle autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez sul confine con Israele.
I malati sono l’unico gruppo vulnerabile che gode di una certa clemenza riguardo al divieto generale di movimento che Israele impone agli abitanti di Gaza; tuttavia, mentre tale “esenzione umanitaria” consente alla maggior parte dei pazienti (muniti di permesso di invio, copertura finanziaria dall’Autorità Palestinese e appuntamento fissato) di accedere agli ospedali fuori dalla Striscia, a centinaia di loro viene impedito ogni mese di uscire. Nonostante seguano le procedure stabilite dalle autorità israeliane e dimostrino, attraverso referti medici, l’assoluta necessità del trasferimento, sempre più spesso, infatti, le richieste sono ritardate o respinte dalle autorità israeliane, con i malati lasciati in preda alle loro precarie condizioni di salute o alla morte. Uno studio dell’OMS sulla sopravvivenza comparativa dei malati di cancro nella Striscia di Gaza ha dimostrato una mortalità significativamente maggiore nei pazienti che non hanno ottenuto da Israele il permesso di uscire dalla Striscia per accedere a cure mediche adeguate, rispetto a quelli che l’hanno ottenuto.
Inoltre, il processo di richiesta del permesso comporta inevitabilmente stress, ansia e talvolta traumi nei pazienti e nelle loro famiglie che hanno sopportato per anni ritardi e cure mediche negate e a cui negli ultimi mesi Israele ha inasprito le restrizioni già rigorose senza chiari motivi. Inoltre, a causa della situazione economica di Gaza, il Ministero della salute palestinese deve sostenere un numero crescente di malati che necessitano di assistenza pubblica gratuita e di conseguenza i tempi di attesa possono allungarsi per anni.
Le decisioni israeliane di rifiuto all’autorizzazione vengono a volte ribaltate grazie al coinvolgimento di rappresentanti legali. Il lavoro del Gaza Community Mental Health Programme ha dimostrato che, nonostante le difficoltà crescenti e il lungo percorso da compiere, in mancanza di altre opzioni i pazienti mantengono la speranza nella concessione del permesso. L’attesa e la relativa impotenza a cambiare la situazione hanno gravi ripercussioni sulla salute mentale dei malati, che spesso necessitano di farmaci per gestire la costrizione psicologica che accompagna il processo.
Tipi di malati gravi che necessitano di cure al di fuori di Gaza:
- Pazienti oncologici che necessitano di chirurgia, chemioterapia o radioterapia. Gli ospedali di Gaza non dispongono delle attrezzature per l’assistenza olistica come PET e scanner a radioisotopi.
- Pazienti cardiopatici: di fronte ai circa 500 pazienti adulti che necessitano di un intervento chirurgico a cuore aperto ogni anno, Gaza ha un solo centro di cardiochirurgia che può eseguire 196 interventi chirurgici di quel tipo all’anno.
- Pazienti pediatrici: il Ministero della Salute segnala annualmente oltre 300 bambini che soffrono di disordini metabolici, difetti congeniti e malati di cancro che richiedono cure al di fuori di Gaza.
- Pazienti oculistici: gli ospedali di Gaza non hanno attrezzature né competenze adeguate a trattare problemi della camera posteriore del bulbo oculare, o i trapianti di cornea.
- Pazienti con malattie ossee: la carenza di protesi articolari, acutizzata dal blocco e dalle ferite prodotte dagli assalti armati israeliani, è il principale fattore determinante il bisogno di trasferimento in ospedali al di fuori di Gaza.
- Pazienti neurochirurgici: a Gaza mancano attrezzature e competenze in questo tipo di microchirurgia.
Criteri e fasi del trasferimento
Quando a Gaza un malato grave viene informato che la procedura diagnostica o il trattamento di cui ha bisogno non è disponibile localmente, riceve un dettagliato rapporto ufficiale sul suo caso e su quanto necessario per poter essere inviato ad altro ospedale fuori dalla Striscia. Il rapporto è approvato dai direttori ospedalieri e trasmesso al Ministero della Salute (MdS) palestinese che, in collegamento con gli ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele o altrove, prenota un appuntamento. Successivamente, il MdS invia i rapporti e la data dell’appuntamento al ministero incaricato di mantenere i contatti con l’occupazione israeliana, il Ministero degli Affari Civili (MoCA). Il MoCA a sua volta presenta la richiesta di autorizzazione di invio del paziente, con il giorno dell’appuntamento fissato, al Coordinatore delle attività di governo nei territori (COGAT), l’unità del Ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili nei territori palestinesi occupati.
Il monitoraggio di Al Mezan Centre for Human Rights indica che, anche nel caso in cui i pazienti seguano tutte le procedure previste fino all’ultimo passo dell’appuntamento fissato, non è comunque garantita la concessione di un permesso. Le politica israeliana di severe restrizioni al movimento rimane una barriera insormontabile per molti pazienti, anche se l’ospedale è a solo una o due ore di automobile.
Il processo di richiesta di autorizzazione può seguire tre percorsi: il primo riguarda le domande prioritarie per accedere a un intervento medico immediato aggirando le citate commissioni deliberanti e formulando la richiesta di trasferimento dal MdS entro 24 ore. Se tale richiesta è respinta dalle autorità israeliane, viene rapidamente intrapreso un altro processo accelerato (inadeguato per i pazienti che non possono permettersi un’attesa di uno o due giorni). Il secondo percorso riguarda le domande urgenti di pazienti in condizione critica, ad es. i pazienti oncologici, ma senza bisogno di un intervento immediato, che vengono esaminate da un comitato decisionale del MdS con l’appuntamento nell’ospedale di riferimento in genere fissato a due settimane dalla richiesta. Ogni ritardo da parte delle autorità israeliane oltre questo periodo richiede che il paziente ottenga un nuovo appuntamento nell’ospedale e ricominci da capo il processo di richiesta. Infine, le domande normali per pazienti meno urgenti seguono un terzo percorso che può durare da oltre due settimane a diversi mesi. Anche in questo caso, ogni ritardo oltre l’appuntamento ospedaliero o il rifiuto del permesso da parte delle autorità israeliane significa che il paziente deve fissare un nuovo appuntamento in ospedale ricominciando dall’inizio.
È importante notare che una domanda approvata non si traduce necessariamente in un esito finale positivo, a causa degli interrogatori, ritardi, molestie, ostacoli e arresti di pazienti o accompagnatori al valico di Erez che si possono frapporre sulla strada per l’ospedale. La pratica dell’arresto degli accompagnatori o la mancata concessione del loro permesso ha gravi ripercussioni anche sui pazienti, poiché quest’ultimi non sono in genere autosufficienti durante il viaggio da e per l’ospedale, e durante la degenza. In alcuni casi, bambini palestinesi sono stati costretti a recarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza senza i loro genitori.
A volte le autorità israeliane rispondono con un esplicito rifiuto alla richiesta di permesso accampando ragioni “di sicurezza”, poiché qualcuno potrebbe approfittarne per compiere attacchi contro Israele. Tuttavia, i motivi addotti da Israele nei confronti dei pazienti sono smentiti dalla comune pratica di concedere nulla osta a malati consentendo loro di viaggiare per poi bloccare o rifiutare i permessi per gli stessi pazienti con il pretesto dei requisiti di sicurezza.
Succede anche che le autorità israeliane respingano il permesso a un malato di cancro che ha già subito un ciclo di cure al di fuori di Gaza, durante il percorso terapeutico, interrompendo così il trattamento prescritto. Un ulteriore processo di richiesta deve allora essere di nuovo avviato dall’inizio. Tali pratiche confutano chiaramente le asserzioni di Israele sui problemi di sicurezza, dal momento che al paziente era già stato consentito il passaggio attraverso Erez almeno una volta prima del rifiuto.
I dati forniti dalla Direzione Coordinamento e Collegamento del MdS mostrano negli ultimi anni un costante aumento del tasso di risposte che giungono in ritardo: dal 14% del 2014 a una media del 44% nel 2017. Nel 2021 il 36% delle 15.301 richieste presentate è stato respinto, non ha ricevuto risposta o è stato ritardato con vari pretesti.
Nonostante l’esame approfondito delle cartelle cliniche compiuto dalle commissioni mediche palestinesi specializzati, le autorità israeliane bloccano sempre più i pazienti ritardando le risposte. Quando il malato non riceve risposta dalle autorità, è a quel punto costretto a cercare un altro appuntamento che, se confermato, esige una nuova domanda di permesso di uscita. Questa sequenza può essere ripetuta più volte, con appuntamenti in scadenza, nuovi appuntamenti fissati e domande di autorizzazione ripresentate, senza che venga concesso un permesso di uscita.
Il ritardo è la modalità più penosa per i pazienti per lo stress aggiuntivo dovuto al timore che l’autorizzazione non arrivi in tempo per il giorno dell’appuntamento. Rappresenta anche un modo, decisamente perverso, facendo perdere un appuntamento dietro l’altro, di vanificare le attese di un ricovero ospedaliero in cui il malato vede l’ultima speranza di sopravvivenza.
Durante l’attesa, ai pazienti può essere richiesto di presentarsi per un colloquio con le autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez, come prerequisito per la concessione del permesso. Questo momento, considerato da Israele come parte dello screening di sicurezza, mette il paziente e/o il suo accompagnatore in una posizione molto vulnerabile e la mancata presenza significa che la richiesta di permesso viene automaticamente respinta.
Tra il 2014 e il 2017 sono stati convocati a colloquio oltre 1.660 pazienti e accompagnatori. Molti di loro hanno riferito di essere stati sottoposti a veri e propri interrogatori con richieste di informazioni sulla situazione della sicurezza a Gaza e su parenti, vicini e amici. Ad alcuni pazienti è stato chiesto di collaborare con i servizi di sicurezza israeliani in cambio dell’accesso alle cure mediche. Alcuni che si sono rifiutati hanno visto respinta la richiesta di permesso dalle autorità israeliane. E ‘ noto il caso di almeno un paziente percosso durante il colloquio dagli agenti di sicurezza israeliani, in particolare nelle parti del corpo per le quali erano richieste cure mediche.
Il diritto internazionale vieta l’uso della coercizione fisica e morale contro le persone protette per ottenere informazioni sensibili. Tale pratica rientra nei criteri di definizione di tortura dell’UNCAT. Sono documentati casi in cui i servizi di intelligence israeliani hanno chiamato i pazienti per un colloquio, solo per poi rimandarli a Gaza dopo avere ispezionato i loro telefoni cellulari per raccogliere dati e ottenere informazioni private.
In una lettera al Ministro della difesa israeliano, procuratore generale e capo del COGAT, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono ai pazienti di Gaza di accedere alle cure di cui hanno bisogno. Il blocco della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, che costringe i malati bisognosi di cure non disponibili a Gaza ad affrontare interminabili processi burocratici, procedure di sicurezza arbitrarie e l’incertezza dell’esito finale.
Nel 2002, durante la seconda Intifada, allora responsabile dell’ufficio dell’OMS per i territori palestinesi occupati, scrivevo ad amici: “Quotidianamente vedo, sento e tocco con mano quello che a volte mi appare come ‘il male’ nella sua forma più ‘sofisticata’. La brutalità che vedo sempre più chiara non è tanto nelle azioni violente come i bombardamenti, ma in azioni molto meno visibili e per questo quasi mai riportate dai grandi media…[..] Quello che più mi spaventa è che in questo modo è proprio Israele a fissare gli standard morali a cui gli altri devono adeguarsi.”
La situazione non è migliorata e tutti noi continuiamo ad esserne responsabili. Pagine Esteri
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Gorbaciov e quella voglia di cambiare in testa
Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) La morte di Mikhail Sergeevic Gorbačëv, uomo, politico e personalità dallo spessore fondamentale nella storia recente della Russia e del mondo chiude definitivamente con il XX secolo, secolo breve o lungo che sia secondo opposte interpretazioni [...]
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Il Cardinale Carlo Maria Martini come imprenditore sociale
In questi giorni, nel decennale della morte del cardinale Carlo Maria Martini (Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002), questa figura ieratica di grande gentilezza è stata vista sotto varie e molteplici angolature: uomo di fede, gesuita, teologo e biblista, grande mediatore, altamente diplomatico, professore e rettore. Figura ed opere di uno dei vescovi che [...]
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Bambino in una scatola
Un bambino appena nato abbandonato è sempre una notizia triste, che ci lascia amareggiati e sconvolti. L’ultimo di questi casi riguarda un bambino lasciato appena nato, con il cordone ombelicale appena chiuso, in una scatola di scarpe nel parcheggio di un ospedale. Un’infermiera, andando al lavoro la mattina presto, l’ha sentito piangere e, fortunatamente, l’ha messo in sicurezza.
Riguardo a questa vicenda ho letto alcuni commenti di questo tipo: “chissà la disperazione della madre” e, ancora, “l’abbiamo lasciata sola, non siamo stati capaci di essere vicini a quella donna”.
Ecco, sono commenti che non mi convincono affatto, perché sono rivelatori della concezione di libertà e, di conseguenza, di responsabilità di ciascuno di noi. Questa storia della colpa che è sempre della società è una cretinata: presuppone che siamo collettivi, che siamo sbagliati alla nascita e, quindi, abbiamo tutte le colpe. È un modo di pensare che deresponsabilizza.
In Italia vige una legge assolutamente civile che consente ad una donna in stato interessante di andare in ospedale, partorire e, se non intende tenere il bambino, può lasciarlo in ospedale nel totale anonimato. Questa legge è importante, perché mette in sicurezza un bambino appena nato.
Se la donna partorisce per i fatti suoi e lascia il bambino in una scatola di scarpe non è una poverella. È una criminale da acchiappare. Tanto è vero – ed è giusto così – che c’è un’indagine aperta, perché questa donna ha commesso un reato. Innanzitutto, c’è l’abbandono di minore, ma potrebbe starci anche il tentato omicidio. Infatti, per quel bambino poteva andare in modo diverso: poteva essere messo sotto da una macchina, visto che era notte e buio. Poteva non avere la forza di piangere e, quindi, morire.
Perché bisogna essere comprensivi? Perché nella mentalità dei cosiddetti “comprensivi” c’è il fatto che ciascuno di noi non è responsabile delle proprie azioni. La responsabilità è sempre della società, della collettività, della legge o dello Stato.
Invece no, perché ciascuno è artefice della propria vita. Ciascuno di noi fa le proprie scelte e ne paga le conseguenze o ne incassa i benefici, perché il merito è personale e, quindi, anche la responsabilità è personale e non della collettività.
Se uno studente studia e va avanti prendendo buoni voti, il merito è suo. Se, invece, non vuole studiare e non apprende niente la responsabilità è sua e, finché minorenne, anche dei genitori che non lo prendono a scapaccioni.
Quello che vuole lavorare, cerca il lavoro, lo trova e ha un reddito e questo è un beneficio per lui, è un suo merito e, quindi, giustamente, ne incassa i risultati.
Non c’è la società che ci corrompe. Sì, è vero che siamo praticamente delle pecore, perché chi non ha la responsabilità di quello che fa è un gregge che viene portato al pascolo da una presunta responsabilità collettiva.
Quindi, fortunatamente, questo bambino è stato preso e messo in assoluta sicurezza. La sua partenza non è stata delle migliori, ma avrà sicuramente una vita migliore di quella disgraziata che l’ha lasciato in quelle condizioni e che è bene che paghi e che si assuma le proprie responsabilità.
Bisogna capire che si è responsabili delle scelte che si fanno.
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Cile: la Costituzione è la più progressista, e i cileni?
La Costituzione più progressista alla prova della lungimiranza dei cileni. Persone fisiche, popoli, Nazioni indigene e natura saranno soggetti di diritti
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Regno Unito: le grane di Liz
Liz Truss il 6 settembre sarà probabilmente il nuovo Primo Ministro del Regno Unito. Ecco le sfide principali in patria e all'estero della signora di Downing Street
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Consumati
Siamo elettori, ma anche consumatori. Siamo le stesse persone, ma che si tratti di votare o consumare sia il comportamento che la comunicazione sono assai differenti. Non relativamente alla tecnica, dato che la politica ha imparato da tempo ad usare il marketing e la pubblicità, è diversa proprio la sostanza.
Quando si tratta di consumare usiamo un metro e un approccio positivo. Scelgo di mangiare quel che mi piace, di vestire quel che considero adeguato, di viaggiare dove m’interessa o mi diverto. Nello scegliere tengo conto dei limiti e delle possibilità, mi regolo a seconda dei soldi che credo di potere spendere e se anche non compro la cosa che considero migliore, scelgo quella che ha il migliore rapporto fra qualità è prezzo.
Non compro quel che so essere una schifezza. Da compratore, insomma, ho un atteggiamento positivo e razionale. Non mi capiterà si volere mangiare spinacino solo perché uno che mi sta sul gozzo mangia bistecche, non indosserò un pinocchietto con fantasmino debordante la scarpa solo perché il mio peggior nemico circola in doppiopetto, non andrò a prendere una camera d’albergo in un sobborgo inquinato sol perché la detestata cognata se ne è andata a Parigi. Mi sentirei stupido, pagando per soffrire.
Da elettore mi comporto diversamente: scelgo quello che serve a fregare gli altri. Le rispettive propagande elettorali lo sanno, sicché s’industriano a suggerirmi: vota per noi, altrimenti vincono loro. Il che, per funzionare, comporta una descrizione demoniaca degli “altri”. Ricambiata.
Sono disposto a pagare il prezzo di eletti incapaci, pur di non subire i trionfi altrui. Perché succede questo? Il sistema elettorale c’entra, ma marginalmente: il clima che si respira negli Usa è simile, eppure sono un sistema presidenziale; in Francia il doppio turno limita i danni se si elegge uno, ma se si elegge l’Assemblea legislativa vincono opposti estremismi. Perché?
Il consumatore conosce il proprio bene, sa cosa gli serve e lo soddisfa. Il cittadino elettore delle democrazie occidentali non lo sa più. Il che discende da una condizione molto positiva: abbiamo cancellato le guerre dalle nostre biografie; chiamiamo “povertà” il non accesso al lusso; viviamo nel posto più sicuro, sano e ricco, ma non abbiamo più memoria di come ci siamo arrivati né ci arrovelliamo a rendere migliore il mondo.
L’enorme differenza, rispetto al passato, è che si considerava migliore il tempo a venire (per forza, con due guerre!), mentre ora lo si considera quello andato. Barando sulla memoria. E non a caso questo è il difetto dei vecchi, perché invecchiamo.
Ad avere diritto a votare, il prossimo 25 settembre, sono 4milioni 714mila giovani fra i 18 e i 26 anni. Proteggiamoli come i Panda, perché si è più numerosi nelle classi d’età più anziane: 20milioni e 900mila fra i 36 e i 62 anni; ma anche 5milioni 83mila fra i 72 e gli 80 anni; pochi meno dei giovani i 4 milioni dagli 81 in su.
Anche se si rendessero conto che continuare a facilitare e anticipare le pensioni o sfondare i bilanci contraendo ulteriori debiti è contro i loro interessi, quei giovani sarebbero in minoranza. Non a caso ci fu il tempo della retorica giovanilistica e viviamo quello della retorica dedicata a una senilità che si pretende giovane nel vivere e nel sesso, ma reclama rendite come fosse incerta sulle gambe.
E se i più giovani, a quel che emerge dai sondaggi e, del resto, è coerente con l’età, hanno pensieri positivi, i più anziani votano “contro” alla memoria, dissociando la loro condotta di elettori da quella di consumatori.
Vero che l’offerta sugli scaffali è più allettante di quella sulle schede, ma vero anche che questo dipende sì dalla povertà d’idee della politica, ma anche dalla povertà di aspettative che sulla politica si ripongono. Ma non è una gran vanto astenersi e digiunare, meglio impegnarsi e reclamare. Se non si sa essere consumatori di vita è facile che se ne sia consumati.
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Pannelli solari portatili: cosa sono e perché utilizzarli
Per tutti gli amanti del campeggio, dei viaggi con il proprio camper o per alimentare la propria casa o il proprio giardino, è impossibile non possedere tra i propri strumenti i pannelli solari portatili. Sono dei dispositivi che, quindi, si possono utilizzare sia outdoor sia indoor e possono soddisfare ogni tipo di esigenza. Andiamoli a [...]
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Presupposti errati ostacolano la risposta occidentale alla guerra della Russia in Ucraina
Gli Stati Uniti e altri governi occidentali stanno armando l’Ucraina per difendersi dall’aggressione russa, ma finora sono solo a metà strada. Questo approccio deludente potrebbe finire in un disastro. Le armi e l’assistenza attualmente fornite dall’Occidente non consentiranno all’Ucraina di recuperare il territorio perduto e sconfiggere in modo decisivo la Russia. Per raggiungere tale obiettivo, [...]
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Allende e la nuova Costituzione del Cile
Ci sono date che hanno una risonanza speciale per i Paesi. È quello che succede al popolo cileno con il 4 settembre, questa domenica in cui deve decidere se approvare o meno una nuova Costituzione, e che è anche il giorno, 52 anni fa, in cui gli elettori del Cile, in un altro cruciale giorno, [...]
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Borsa: canapa, USA ancora in discesa, Canada risicato positivo
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono con andamento alternato, in linea con la settimana precedente: Borsa USA ancora in rosso, Borsa Canada in lieve e risicato positivo. Pesa sempre una forte volatilità nel contesto borsistico internazionale, peraltro in forte [...]
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La Russia deve essere ritenuta responsabile per aver commesso un genocidio in Ucraina
Molti osservatori ritengono che l’attuale guerra in Ucraina avrebbe potuto essere evitata se la Russia avesse affrontato in precedenza il suo preoccupante passato. Non c’è modo di sapere con certezza se questo sia vero, ma resta un dato di fatto che nessuno è mai stato ritenuto responsabile delle innumerevoli atrocità del regime sovietico. È altrettanto [...]
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Lula e le relazioni USA – Brasile
Cosa significherebbe una presidenza Lula per le relazioni USA-Brasile
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L’unione tra tecnologia e canapa per combattere insieme il cambiamento climatico
La Hemp Blockchain ha sede nello Utah e mira a mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Dall’inizio del 2020, l’azienda sta sviluppando «una soluzione di gestione della catena di approvvigionamento blockchain-nativa per l’industria della canapa». Questa tecnologia blockchain permetterebbe alle aziende di superare i tradizionali approcci alla catena di approvvigionamento nel settore agricolo, sfruttando una [...]
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Il turismo internazionale vittima della guerra in Ucraina
I viaggiatori russi scompaiono, le strutture turistiche di tutto il mondo entrano in crisi e devono correre alla ricerca di nuovi mercati
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Clear lines against chat control: Liberals’ paper puts German Interior Minister Faeser on the spot
Original article here. This article was translated by Patrick Breyer’s team with the consent of the original authors.
Screening chat messages, scanning private photos: For the German ministries led by the liberal FDP, the plans for chat control by the EU Commission crosses “red lines” in many places. An internal document shows that the federal government is not united on the issue.
The FDP-led federal ministries are apparently putting internal pressure on the federal government, because the EU Commission’s plans for chat control go too far for them. This becomes clear from a list of “red lines” that the Ministry of Justice and the Ministry of Digital Affairs have sent to the SPD-led Ministry of the Interior, according to Tagesspiegel Background. (We publish the list in full text.)
Chat control refers to plans by the EU Commission to combat the spread of recordings of sexualised violence against children. The Commission presented a draft in May which demands far-reaching obligations for tech companies. Among other things, they are to automatically recognise known and previously unknown depictions of sexualised violence against children, even in private chats. The plans have been met with scathing criticism, including warnings from the EU data protection authorities of unnecessary mass surveillance.
The German government also criticised the planned measures. In a letter, it badgered the EU Commission with more than 60 questions, some of them very pointed, including the importance of encrypted communication or the error rates to be expected when recognising such images. Now a letter shows that the critical attitude within the German government is apparently not consistent. As Tagesspiegel Background reports, in the letter the ministries of justice and digital affairs address the ministry of the interior (BMI) led by SPD minister Nancy Faeser, the ministry in charge of the matter.
“Red lines”: No scanning for unknown recordings
The “red lines” drawn in the letter concern the core of the planned EU legislation. Among other things, the ministries demand: “No regulations that lead to chat control”. Messages sent via messenger or email must be explicitly excluded from automated searches. This would remove the central and name-given measure from the planned regulation.
Material that users upload to personal cloud storage and do not share with anyone, such as a backup of their own photos on their mobile phone, should also not be subject to the search orders.
Another point revolves around a particularly controversial part of the planned EU regulation. Tech companies should not only be forced to search for already known material in their users’ data. This is possible with less invasive procedures. The companies are also supposed to track down new, previously unknown material. In addition, they should automatically detect the initiation of sexual contact with minors, so-called grooming. This means far-reaching invasions of the privacy of millions of innocent users. According to the paper, both measures should be discarded.
End-to-end encryption is to remain
In the paper, the ministries also discuss the confidentiality of private communications. According to the paper, the EU regulation should explicitly rule out the possibility of companies undermining end-to-end encryption in order to automatically screen content. End-to-end encryption ensures that only recipient and sender can read a sent message. Removing encryption from messages would overall weaken the ability to communicate securely.
The paper also explicitly rejects so-called client-side scanning. In this process, providers scan the messages of their users directly on the device, even before they are sent end-to-end encrypted. This method is considered one of the few ways to check content despite end-to-end encryption. But scanning before sending also weakens anonymous communication. The EU data protection authorities had previously warned against this.
Non-negotiable “red lines” for the FDP ministries are apparently also crossed by the Commission’s plans on age verification. The EU Commission wants providers to check the age of their users. The ministries demand that the text of the regulation exclude the requirement to present an identity card or other means of identification. In Germany, the age of majority can be confirmed with the online ID function without revealing further data. However, such technologies are not available for all EU citizens. They could then be forced to disclose not needed further data.
The ministries also demand that content and behaviour that is not punishable under national law be excluded from the regulation. This is a central problem which complicates international action against depictions of sexualised violence. Depending on national law, certain recordings are not punishable – for example, because the age of sexual consent differs. This applies, for example, to nude images sent during consensual sexting between young people. Even today, more than half of the suspects in so-called child pornography are minors themselves.
No screening of audio messages
The FDP ministries attack another point that has hardly been taken into account so far. Most recently, the EU data protection authorities had stated in their assessment: voice messages and audio communication in real time, i.e. telephone calls, are to be explicitly excluded from the regulation. So far, the EU Commission’s draft does not explicitly exclude that providers also have to screen audio files such as voice messages and telephone calls.
The demands in the list are mostly kept very concise and mainly formulated in a negative way: It is about what must not happen in the regulation. We asked the Ministry of Justice whether the ministries will also propose their own alternatives and when exactly the paper was sent out. The answer was that they do not comment on details of ongoing internal government consultations. Instead, the ministry referred to a general statement by Justice Minister Marco Buschmann on chat control. He was “very sceptical about this new draft” and rejected a “general blanket surveillance of private correspondence”.
The Federal Ministry of the Interior, too, wrote on request only that in the context of the current negotiations “according to common practice” all ministries involved were asked to submit their position for further discussion.
The demands from the FDP ministries are clearly set out in the paper. The question is what the Federal Ministry of the Interior will do with them now. At least some of the demands can be derived directly from the coalition agreement of the federal government, which states: “We reject measures to scan private communications and an identification obligation.” In a next step, the ministry is to present a report on the commission’s plans to the digital committee of the Bundestag, as Tagesspiegel Background reports.
Red lines for Ministry of Justice (BMJ) and the Ministry of Digital Affairs (BMDV)
In order for the FDP- led ministries to be able to agree to the draft regulation of the COM the following requirements must at least be met (“red lines”):
- Clear requirements for the issuance of disclosure orders (sufficient limitation of the “significant risk” in the Regulation, more detailed requirements for the balancing decision according to Art. 7 (4) b) of the Draft Regulation).
- No provisions leading to chat control (to be excluded by deleting the applicability of Art. 7 of the Draft Regulation to interpersonal communication services (esp. email services, messenger) according to Art. 2 b) of the Draft Regulation).
- Exclusion of personal memories that are not shared. Cloud memories, which serve as a backup of one’s own photos on the mobile phone, for example, must explicitly not be covered by the regulations on the discovery order (to be excluded by excluding the applicability of Art. 7 Draft Regulation to personal memories).
- Deletion of the applicability of Art. 7 Draft Regulation to so-called unknown material and grooming.
- Explicitly exclude the use of client-side scanning and the removal of end-to-end encryption to fulfil obligations under the Draft Regulation (to be excluded in a separate article of the Draft Regulation).
- Audio communications (voice recordings and real-time audio communications) are to be explicitly excluded from the scope of the Draft Regulation, as in the Interim Regulation.
- Providers must be able to fulfil the obligations under the Draft Regulation (risk assessment, risk mitigation, deletion/blocking) without using the detection technologies described in Article 10(1) Draft Regulation. This is to be specified in the text of the Draft Regulation.
- Age verification for the implementation of the obligations from the Draft Regulation (such as risk reduction, Article 4 Draft Regulation, obligation for app stores in Article 6 (1)(c) Draft Regulation) only if the possibility of anonymous or pseudonymous use of the services concerned is preserved. To this end, the text of the Draft Regulation must exclude the presentation of an identity card or other means of identification for the purpose of age verification.
- No inclusion of content or conduct that is not punishable under national law (definitions in Article 2 of the Draft Regulation must take into account the scope for decision-making granted to member states in Directive 2011/93/EU on combating the sexual abuse and sexual exploitation of children and child pornography and replacing Council Framework Decision 2004/68/JHA (FD), in particular with regard to determining the age of sexual consent (Article 6 of the FD) and the impunity of certain acts (Article 5(8) of the FD)).
Confessioni di una maschera “Il crepuscolo degli Dei”
Pensare che qualcuno ancora non è riuscito a capire la differenza che c’è tra i social network e la realtà, è un qualcosa che mi annichilisce, sotto tutti i punti di vista. Non è ancora stato creato un antidepressivo in grado di aiutarmi a rialzarmi dalla catatonia che mi assale ogni volta che realizzo quanto sia radicata l’idea che i due contesti siano sullo stesso piano.
In queste giornate estive l’idea che si possa anche solo pensare di fare politica attraverso la rete, e in particolare, anzi, in maniera quasi esclusiva, grazie ai social network, mi fa capire una volta di più come mai la situazione sociale italiana sia inevitabilmente indirizzata verso un tracollo che, per certi versi, mi spingo a considerare, pur se a malincuore, meritato. Toccando il fondo, come forse mai in passato, riusciremo finalmente a capire che c’è un mondo oltre lo schermo dei nostri cellulari, e che questo mondo è infinitesimamente distante da quello dorato dei social network? Ho ancora forti dubbi in merito, ma una piccola speranza la conservo.
iyezine.com/confessioni-di-una…
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IRAQ. Ascesa e caduta di Muqtada al-Sadr… di nuovo
della redazione –
Pagine Esteri, 2 settembre 2022 – Per capire la genesi dell’ultima escalation di violenze a Baghdad, Bassora e altre città irachene occorre tornare a lunedì scorso. Alle 12 in punto, Kazem al-Haeri, un’importante autorità sciita (marjaa) in Iraq – in particolare tra i sostenitori del leader politico e religioso Muqtada al-Sadr – ha annunciato il suo ritiro dalla vita pubblica e ha esortato tutti i credenti a seguire solo il leader della rivoluzione islamica iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei. All’interno di questa dichiarazione di due pagine, Haeri ha affrontato la posizione di Muqtada al Sadr – il cui blocco sadrista ha ottenuto il maggior numero di voti nelle elezioni dell’ottobre 2021 – e lo ha accusato apertamente di non possedere né le conoscenze religiose né la capacità di guidare gli sciiti o il popolo iracheno.
Per Al Sadr in un colpo solo sono crollate ambizione e forza. Quindi ha preso una decisione: ha annunciato il suo ritiro dalla politica irachena. Un passo che aveva già mosso altre nove volte dal 2013 per poi fare retromarcia, ma che questa volta è avvenuto sotto la pressione di un esponente religioso che non poteva assolutamente ignorare. Al Haeri è l’erede del padre di Muqtada, Mohammad Sadeq al-Sadr, una delle autorità più influenti nella storia recente dell’Iraq e dello sciismo. Prima del suo assassinio nel 1999, l’anziano Sadr aveva esortato i suoi seguaci a obbedire a Kazem Al Haeri al suo posto. Nei 23 anni successivi, Muqtada ha raccolto un sostegno molto ampio tra i seguaci di suo padre ma non è l’erede religioso designato di Mohammad Sadeq. Perciò la dichiarazione pubblica di Al Haeri è stata particolarmente significativa.
L’annuncio di abbandono della vita politica è stata una mossa astuta per evitare che il movimento sadrista si dividesse in due: Al Sadr temeva che un gruppo gli sarebbe rimasto fedele, mentre il secondo avrebbe obbedito al successore di suo padre. Ma la dichiarazione di Al Haeri ha colpito ugualmente colpito in profondità le ambizioni di Muqtada Al Sadr che tra fine luglio e inizio agosto ha per due volte lanciato i suoi sostenitori all’assalto del Parlamento e di altre istituzioni per non aver ottenuto la guida del governo in oltre dieci mesi di stallo politico.
A giugno, dopo mesi di lotte senza successo per formare una maggioranza con il suo blocco parlamentare vincente, Al Sadr ha tentato di scuotere la scena politica irachena ordinando al suo blocco politico di dimettersi. Tuttavia, le dimissioni dei suoi deputati non hanno raccolto i frutti sperati e i suoi avversari nella comunità sciita – il Quadro di coordinamento che racchiude le formazioni filo-Iran e Stato di Diritto – hanno subito occupato lo spazio politico lasciato vuoto proponendosi per la formazione del nuovo esecutivo. Al Sadr inoltre non è riuscito a far sciogliere il parlamento e a portare il paese a nuove elezioni perché la magistratura si è rifiutata di fornire supporto legale a questa mossa.
La seconda importante decisione di Sadr lunedì è stata eseguita attraverso il braccio armato del suo partito, Saraya al-Salam (Brigate della Pace). È inconcepibile che la folla di sadristi armati che quella sera ha preso d’assalto la Green Zone di Baghdad, sia stata protagonista di un’azione spontanea. Al Sadr piuttosto ha voluto inviare un messaggio agli iracheni: lascio la guida del mio blocco nelle mani dei comandanti di Saraya al-Salam, saranno loro a portare avanti i miei disegni, con la forza delle armi. E in effetti i sadristi si sono rapidamente mossi per dimostrare di avere il controllo della capitale con una dimostrazione di forza senza precedenti. In strada c’era il supervisore generale di Saraya al Salam, Tahseen al Hamidawi, uno stretto collaboratore di Al Sadr che ha partecipato per anni alle battaglie contro le forze di occupazione statunitensi in Iraq nei ranghi del disciolto Esercito del Mahdi. Sotto la sua direzione, i miliziani di Saraya al Salam sono confluiti a Sadr City, al Shaab e Ur, a est di Baghdad, nella Green Zone. Non solo si sono impegnati in uno scontro armato nel cuore di Baghdad ma hanno anche raggiunto la periferia della città per dare alle fiamme le sedi di alcune Unità di Mobilitazione Popolare (Hashd al Shaabi), tra le quali l’Organizzazione Badr, Asaib Ahl al-Haq e la coalizione Stato di Diritto dell’ex primo ministro Nouri al-Maliki, il più accanito degli avversari di Muqtada Al Sadr. Durante gli scontri hanno lanciato razzi contro l’ambasciata statunitense e hanno dato fuoco a poster con le immagini dei leader iraniani. Hanno cercato lo scontro con le Unità di Mobilitazione Popolare che invece sono rimaste da parte e hanno lasciato alle forze di sicurezza governative irachene il compito di fermare i sadristi. Gli scontri sono proseguiti martedì mattina, coinvolgendo anche clan familiari come spesso accade in Iraq durante le crisi più gravi.
Per Al Sadr il danno d’immagine è stato enorme. I suoi sostenitori stavano combattendo, uccidendo e ferendo uomini delle forze di sicurezza ma non erano riusciti a trascinare gli avversari delle Unità di Mobilitazione Popolare in strada. In quelle stesse ore Mohammed Ridha, figlio dell’Ayatollah Ali Sistani, la principale autorità sciita dell’Iraq, ha chiamato Al Sadr per organizzare un incontro con suo padre. Durante il faccia a faccia, Sistani ha intimato al leader sadrista a fermare subito lo spargimento di sangue. Al termine della conversazione Al Sadr ha mandato in onda una dichiarazione televisiva chiedendo ai suoi sostenitori di porre fine all’assedio della Green Zone di Baghdad. Non solo, ha anche ringraziato le Unità di Mobilitazione Popolare per la moderazione mostrata e per non aver partecipato agli scontri. Umiliato dai suoi errori di calcolo, Al Sadr si è definito un “cittadino normale” e ha sconfessato la propria milizia, Saraya al-Salam, definendo le sue azioni “vergognose”. Il quadro generale però non si è affatto stabilizzato. Gli avversari di Muqtada Al Sadr restano in allerta, pronti allo scontro e puntano il dito anche contro il primo ministro uscente, Mustafa Al Kadhimi, responsabile a loro dire di aver consentito l’escalation per rafforzare la sua posizione – attraverso l’impiego delle forze di sicurezza nazionali – e provare ad avere un secondo mandato.
Di sicuro da questa settimana Muqtada Al Sadr esce perdente. Gli ultimi giorni hanno confermato la sua imprevedibilità cominciata venti anni fa combattendo gli americani con le armi e proseguita oggi lottando con la politica contro l’influenza iraniana in Iraq. Tutti sanno che le sue dichiarazioni contro Washington e Teheran possono cambiare da un giorno all’altro. Se davvero manterrà le distanze dalla politica, questo creerà un vuoto che sia gli Stati Uniti che l’Iran vorranno colmare. L’appello agli sciiti dell’Ayatollah Al Haeri di obbedire al leader supremo dell’Iran Ali Khamenei potrebbe dare a Teheran l’occasione per recuperare posizioni in Iraq. Gli Stati uniti e i loro alleati del Golfo non resteranno a guardare e proveranno a convogliare su altre personalità politiche il nazionalismo anti-iraniano che al Sadr ha rappresentato in questi ultimi anni.
Tuttavia, sarebbe un errore grave dare per sconfitto definitivamente e fuori dai giochi Muqtada al Sadr che continua ad avere in Iraq una solida base di appoggio e che con ogni probabilità tornerà in campo, alla prima occasione. Pagine Esteri
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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
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Perché è scoppiato l’incendio del gas
L’economista della Fondazione Einaudi spiega cosa c’è dietro l’impennata del metano. La fine della pandemia ha innescato una domanda che l’offerta ha soddisfatto solo a metà, poi è arrivata la guerra. La speculazione? C’entra, ma fino a un certo punto
Il prezzo, alla Borsa di Amsterdam, sarà anche sceso sotto i 240 euro al megawattora. Ma dopo settimane di crescita costante, scandita solo da qualche tonfo e in una Europa ancora sprovvista di price cap, con il quale tenere a freno il costo del metano. Ce ne è abbastanza per interrogarsi sul come e il perché il gas, ancora la principale fonte energetica del Vecchio Continente, sia improvvisamente diventato un bene di lusso. Certo, la guerra in Ucraina e lo scontro dell’Occidente con la Russia rimangono il combustibile. Ma è davvero tutto?
Formiche.net lo ha chiesto a Simona Benedettini, economista esperta di energia in forza alla Fondazione Einaudi. “Bisogna sempre ricordare che l’indice del gas naturale alla Borsa di Amsterdam (Ttf, ndr) nei fatti esprime oggi il prezzo che secondo il mercato il gas avrà tra una settimana, un mese e così via. Il prezzo dunque che vediamo oggi è il costo che ci si aspetta in futuro”, chiarisce l’economista. “Perché il gas è aumentato? La risposta è che è salito per diversi motivi. Tanto per cominciare ci sono diversi titoli legati al Ttf che sono in crescita da prima della guerra, sulla scia dell’alleggerimento della pandemia. L’offerta non è stata in grado di soddisfare la domanda che si è risvegliata con la fine dei lockdown e allora il prezzo è salito”.
Il fattore Ucraina
Poi però, è arrivata la guerra. “Il conflitto si è inserito in un contesto di crescita dei prezzi, per i motivi appena spiegati, fungendo da booster. Dunque, ulteriore riduzione dell’offerta da parte della Russia e conseguente impennata dei costi. Vorrei chiarire che la speculazione nella crescita dei prezzi c’entra fino a un certo punto. Il mercato scommette sul prezzo futuro, questo è abbastanza normale, il peso vero nella fiammata del gas è dato da elementi geopolitici e anche sociali, come la guerra e la fine della pandemia. Poi, certamente, c’è un elemento speculativo ma non è tutto”, spiega Benedettini.
Tetto sì, ma…
Chiarito il punto, resta una questione, quel price cap su cui l’Europa sembra un poco alla volta convergere. “Il tetto al prezzo del gas deve essere una misura temporanea e non strutturale, perché gli aumenti ai quali stiamo assistendo sono un fenomeno temporaneo e non dureranno per sempre, è un qualcosa di anomalo. Se si rende il tetto permanente, ci potrebbero essere in futuro problemi di approvvigionamento. E poi va strutturato, pensato, per esempio si mette solo sul gas che viaggia nel tubo o si mette anche sul Gnl? Sono domande da porsi, perché se tetto deve essere, deve esserlo pro-tempore e ben calibrato”.
L’intervista a Simona Benedettini di Gianluca Zapponini su Formiche
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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile
[color="#ff0000"]LIVE 30 AGOSTO. Al-Sadr chiede ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green Zone di Baghdad[/color]
AGGIORNAMENTO ORE 19.30
E’ di almeno 12 morti e 270 feriti il bilancio parziale degli scontri a Baghdad e nel resto del paese. Intanto le autorità militari hanno annunciato l’estensione del coprifuoco a tutto lraq, dopo averlo proclamato a Baghdada partire dalle 15.30 locali (le 14.30 in Italia).
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della redazione
Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.
Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.
Muqtada al Sadr
I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.
Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.
Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri
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Fr.#07 / c o m p l y
Noi tutti siamo la Cina
Chi sono i cinesi? Sono alieni? Zombie lobotomizzati? Servi a cui è stato fatto il lavaggio del cervello?
No amici miei, i cinesi sono persone normali, che lavorano, hanno una famiglia, nel tempo libero passeggiano, siedono al bar, parlano con gli amici, fanno shopping. Persone normali, con vite normali. Come noi.
Loro sono come noi. E noi, beh, siamo loro - ma nel passato. Mi spiego meglio. La Cina oggi è un incubo socialista tecnocratico; non perché i cinesi siano dei rammolliti senza capacità di pensiero o perché abbiano un modo di pensare diverso dal nostro. No, semplicemente il loro governo ha iniziato molto prima un processo che da noi ha invece avuto inizio solo negli ultimi anni.
Fonte: twitter.com/songpinganq
E allora, non stupiamoci davanti alle immagini di droni che pattugliano città, strade e case dall’alto. Non stupiamoci se le persone ritratte nei video e nelle immagini, che guardiamo come se fossero un film, obbediscono pazientemente agli ordini impartiti dall’autorità che li intima di rimanere chiusi in casa, nonostante il rischio concreto di morire di fame e sete.
Fonte: twitter.com/songpinganq
Non stupiamoci se i bambini sono trattati come animali con QR code al collo, obbidientemente in fila per un tampone che ancora oggi deve essere fatto da tutta la popolazione ogni due giorni per mantenere il privilegio di vivere in società.
Non stupiamoci di sapere che in Cina il contante è quasi sparito del tutto, che ogni cittadino è dotato di un’identità digitale collegata al covid pass e al conto corrente, che con un click possono essere bloccati dal governo a chi la pensa diversamente.
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Divergente
Non temete, stiamo iniziando a recuperare il distacco con la Cina!
La Casa Bianca ci ricorda infatti che chiunque la pensi diversamente dalla maggioranza sarà considerato un estremista. Sappiamo tutti come alla Casa Bianca piaccia gestire gli “estremisti” dal 2001 a oggi.
Fonte: Disclose.tv
Non ci sarà più alcuna differenza tra noi e i cinesi quando gli stati occidentali avranno finalmente a disposizione tutte le leggi per il controllo e sorveglianza delle comunicazioni e di Internet, che sono in discussione in questo momento.
Non ci sarà più alcuna differenza quando ognuno di noi sarà dotato di identità digitale connessa a ogni servizio pubblico e finanziario; quando avranno il potere di accendere e spegnere i conti corrente a chiunque con un click; quando l’energia sarà razionata, la disoccupazione sarà alle stelle e bisognerà bloccare le proteste sul nascere.
E infine non ci sarà alcuna differenza quando inizieranno a perseguire chiunque cercherà di proteggere la propria privacy e vita privata, nonostante tutto. D’altronde, la maggior parte della gente crede fermamente di non avere nulla da nascondere, tu invece, che la pensi diversamente… cosa stai nascondendo?
Immagine del discorso di ieri di Biden a Philadephia, in cui ha esortato gli americani a combattere gli estremismi per difendere la democrazia. Come dici? Ricorda il cancelliere supremo di V per Vendetta? Nahhh
Una breve intervista
In questi giorni sono stato intervistato da Matrice Digitale, con alcune domande molto interessanti. Abbiamo parlato di Cypherpunk, anarco-capitalismo, pistole, sorveglianza di massa e social scoring. Insomma difficile fare meglio di così.
Qui il link, per chi volesse leggerla.
Meme del giorno
Citazione del giorno
“My philosophy, in essence, is the concept of man as a heroic being, with his own happiness as the moral purpose of his life, with productive achievement as his noblest activity, and reason as his only absolute.”
― Ayn Rand
Elezioni 2022: Meloni, ovvero pochezza e sciocchezze
Si può pensare di gestire uno Stato moderno, europeo, con le proposte meloniane?
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Russia: reclutamento aggressivo sì, coscrizione su larga scala no
La necessità di preservare la stabilità interna riflette i limiti del potere di Putin e la natura superficiale del sostegno alla guerra in Russia
L'articolo Russia: reclutamento aggressivo sì, coscrizione su larga scala no proviene da L'Indro.
Giustizia
Impazzano i sondaggi sulle quotazioni dei diversi partiti. Un gioco ozioso, visto che un fetta enorme non andrà a votare e di quelli che affermano di volerlo fare 1 su 3 non ha ancora deciso dove mettere la croce. Dopo essersela fatta, suppongo. Interessante il sondaggio Euromedia Research, sui temi più sentiti: praticamente le cose più dibattute fino a qualche tempo addietro sono scomparse dall’agenda dei cittadini, mentre prezzi ed energia la dominano.
Che le politiche monetarie accomodanti avrebbero portato inflazione e che l’Italia si ritrova un mix energetico squilibrato, però, lo ripetiamo da tempo. Questo è il punto: la politica inutile segue i sondaggi, la politica seria vede in anticipo quel che peserà sulla vita collettiva. Con questo spirito volgiamo lo sguardo a un tema decisivo, ma di cui sembra importare poco: la giustizia.
Nel corso di questa legislatura si è passati dalle riforme incivili del governo Conte 1, a cominciare da quella relativa alla prescrizione (l’onorevole Bongiorno si ricordi che era al governo è quella robaccia l’ha fatta passare pur sapendo che era robaccia, sicché sia prudente nel trarre bilanci legislativi), alle riforme che portano il nome del ministro Cartabia.
Queste ultime hanno il merito d’avere mosso il macigno, ma sono poca cosa, tanto più che per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura i magistrati votano il 18 e 19 settembre e come stavano messi stanno. Le assunzioni vanno bene, l’ufficio del processo anche (ma esiste da dieci anni, vedere per credere), il fascicolo digitale penale resta sull’orizzonte, mentre in qualsiasi sistema produttivo è il passato da lustri. Comunque, qualche cosa si è fatto. Si deve proseguire. Potrà farlo la maggioranza che uscirà (se uscirà) dalle elezioni? No.
Non ci riuscirà, purtroppo, perché i magistrati sono iper correntizzati, ma ciascuna corrente, da destra a sinistra, è iper corporativa. Quindi gli amici della destra e gli amici della sinistra si dividono non sulla sostanza, ma su chi si prende i posti migliori. Mentre sarà sufficiente un avviso di garanzia inviato da chicchessia a chicchessia nel governo per riscatenare la buriana buzzurra del giustizialismo. Civiltà vorrebbe che si disinnescasse questa trappola. Tanto chiunque la piazzi poi ci finisce.
È naturale che ci sia una differenza culturale, su questo tema. Lo Stato ha il compito di punire i colpevoli, ma, al tempo stesso, ha il dovere di farlo offrendo tutte le garanzie agli accusati, altrimenti non c’è giusto processo e non c’è giusta condanna. Nel mondo civile il pendolo non sta mai tutto da una parte o dall’altra, ma nell’intorno di un equilibrio centrale, talora più sensibile alla repressione, talaltra alle garanzie.
Rozzamente si potrebbe dire: più di destra la prima e più di sinistra la seconda. Ma da noi non funziona manco il rozzo, perché la sinistra è stata giustizialista quando l’accusato era di destra, con i destri a far da innocentisti, salvo scambiarsi le parti. Come le correnti. Un tripudio di trinariciuta faziosità.
Per come la vedo io, la giustizia penale avrebbe bisogno di:
- separare le carriere fra accusa e giudicante;
- cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale, sicché la procura sia responsabile di chi porta in giudizio;
- valutare i giudici sulla base della correttezza delle sentenze, giudicate dai loro colleghi nei gradi successivi;
- rendere prevalente questo criterio nell’assegnazione degli incarichi;
- tornare a leggere e far valere l’articolo 110 della Costituzione: <<… spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia>> (basta con l’autogestione autoreferenziale togata).
Si può ben pensarla in modo diverso, ma almeno si prenda, tutti, un impegno: ci batteremo per le nostre convinzioni, ma non accetteremo di abbattere l’avversario con un atto giudiziario che non sia una condanna definitiva. Sarebbe già un ritorno alla civiltà, dopo decenni di barbarie.
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Il tentativo di Stati Uniti e Russia di governare il cuore della Grande Eurasia
Con la fine dell’ordine bipolare, le teorie geopolitiche classiche come base principale della politica estera delle potenze durante la Guerra Fredda sembrano non aver perso importanza. La crisi ucraina ha mostrato che queste teorie sono ancora uno strumento adatto per analizzare la competizione delle grandi potenze in diverse regioni del mondo, in particolare il motivo [...]
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Intensificazione dell’asse Russia-Cina: implicazioni per l’India
Con l’intensificazione dell’asse Russia-Cina nel 2022 più significativamente evidente dopo l’Ucraina, Mosca e Pechino si sono schierate in modo provocatorio contro praticamente il mondo intero che ricorda i modelli della Guerra Fredda 1.0 Di conseguenza, gravi implicazioni per la sicurezza ne derivano per l’India oltre a imporre a New Delhi gli imperativi di ricalibrazione della [...]
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L’Iraq si infiamma
Il 30 luglio centinaia di sostenitori di Moqtada al-Sadr, una delle figure politiche di spicco dell’Iraq, hanno fatto irruzione nell’edificio del parlamento nella zona verde fortificata di Baghdad, sono entrati con la forza e hanno avviato un sit-in coordinato per protestare contro la recente nomina di Mohammed Shia al-Sudani per la premiership. Sessanta manifestanti sono [...]
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Ucraina: l’esercito di Kiev deve riorganizzarsi per sconfiggere la Russia
Mentre l’Ucraina lotta per difendere la sua sovranità e riconquistare il territorio occupato dalla Russia, i moderni sistemi d’arma forniti dalle potenze occidentali sono assolutamente necessari, ma la riorganizzazione delle forze di terra ucraine è altrettanto importante. L’Ucraina ha iniziato la guerra con circa 38 brigate di manovra (fanteria e carri armati) e 9 brigate [...]
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La tragedia di Mikhail Gorbaciov
Putin ha creato uno Stato antitetico agli ideali di Gorbaciov. E nella negazione finale di quegli ideali, la Russia ha invaso l'Ucraina in nome di un brutale nazionalismo di grande potenza
L'articolo La tragedia di Mikhail Gorbaciov proviene da L'Indro.
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Gorbaciov: i sudafricani hanno un motivo speciale per ringraziarlo
La fine dell'apartheid, nel 1994, avvenne grazie al crollo dei regimi comunisti dell'Europa orientale e alla fine dell'Unione Sovietica
L'articolo Gorbaciov: i sudafricani hanno un motivo speciale per ringraziarlo proviene da L'Indro.
Isabella Morra, il canto di una esistenza infelice
Dobbiamo inerpicarci tra vicoli stretti e case di pietra addossate l’una all’altra per raggiungere il castello di Valsinni, antica Favale, al confine tra la Basilicata e la Calabria. Ci fa compagnia in questo luogo salvato dai rumori delle auto e delle TV accese, la voce del fiume Siri, del “torbido Siri”. Se poi ci addentriamo tra le antiche mura del castello e ci affacciamo da una delle strette finestre contempleremo un paesaggio di creste alte, pendici ripide, e la valle nella quale il fiume scorre. La rocca tutta sembra quasi inghiottita, sprofondata nel paesaggio e nel silenzio.
Non ci sarà allora difficile immaginare la giovane Isabella dietro quella finestra, e non ci sarà difficile raccontare una vicenda che tante volte abbiamo già ascoltato, che riconosciamo nella solitudine di una vita, nella disperata speranza di un’evasione impossibile, nel lamento tutto interiore che sfocia infine in rime, nel vagheggiamento di un amore, reale o tutto da inventarsi.
La storia di Isabella Morra è lineare nel suo percorso, oggi potremmo sovrapporla a centinaia di vicende simili. Basterebbero poche righe su un giornale e una lettura non più di tanto curiosa in quanto sappiamo in partenza come vanno queste storie di donne uccise da un familiare. Non eccitano più la fantasia, giusto qualche particolare morboso.
Isabella è giovane, certo bella anche se non c’è nessun ritratto a confermarlo, aristocratica, colta, ammalata di solitudine. Vorrebbe leggere, viaggiare, conoscere. Disprezza la elementare visione di vita dei suoi fratelli, la sottomessa pavidità della madre, la rozzezza del volgo che la circonda, le vette aspre che imprigionano il castello. Invoca invano il ritorno del padre in esilio. Ricorre allora alla sola fuga possibile, un carteggio letterario con un ardito poeta, Diego Sandoval de Castro. Solo letterario? O in quelle lettere ricevute e spedite con sotterfugio si nasconde cifrato tra versi un ricambiato amore? Chi può dirlo.
Quel carteggio non è arrivato a noi, resta solo la testimonianza della moglie del fuggiasco Diego che diceva “che dicto don Diego havea festeggiato la sorella del dicto barone et fratelli” e che pertanto se l’era meritata una morte giunta a colpi di archibugio della quale furono assolti i “dicti fratelli”. Isabella non pianse l’amato o amico che fosse non perché non fosse addolorata da quella notizia, ma semplicemente perché lo aveva preceduto nella stessa sorte per mano degli stessi fratelli, lei non in un infido bosco ma nelle rassicuranti mura della casa natale. Solo i colpi di archibugio non furono sparati bastando, visto la familiarità delle persone deputate a difendere l’onore, un più casalingo coltello.
Caddero dalle sue mani le lettere incriminate? Si bagnarono del suo sangue? Fece in tempo Isabella a scrutare ancora una volta il lontano mare con le sue onde di speranza? Ricordò il suo Diego e, ci auguriamo, poté riassaporare momenti di amore? O non le restò che lo sgomento per visi e coltelli che credeva fratelli?
Storie antiche ma anche contemporanee di catene vere o solo interiori che legano la vita, e con la vita la gioia il presente il futuro, e che fatalmente conducono alla morte.
Povera baronessa di Carini: ” Signuri patri chi venisti a fari? Signora figghia, vi vegnu ammazzari”, povera Francesca “ colomba dal disio chiamata”, povera spavalda Carmen, “Ah! Carmen! Mia Carmen adorata” e pertanto uccisa da don José. E povere Ornella Tina Silvia, e altre 100 solo in Italia nel 2021, la cui morte per mano di un familiare non è stata cantata da nessun poeta.
Isabella se la cantò da sola la sua infelice esistenza prendendo Petrarca come modello senza ridurlo tuttavia a uno sterile esercizio letterario, ma aggiungendovi una sensibilità tutta personale, una voce artistica distinguibile tra quelle delle altre poetesse del ‘500 per eleganza formale malgrado lei dichiarasse il suo stile “ruvido e frale”. I suoi versi non esprimono un dramma intimo, ma diventano paradigma umano e artistico di una dimensione ampia e condivisa del dolore. Non a caso molti critici le affiancano Leopardi.
Sono belli i pochi sonetti e le canzoni, soltanto 13 in tutto, che sono giunti a noi. Certo la poetessa ne scrisse molto di più, non le sarà mancato il tempo di intrecciare trame di parole su un ordito di interminabili vuote giornate e lunghi silenzi.
Non si lascia consolare nelle sue rime Isabella dal paesaggio che la circonda, dall’attesa del padre con cui condivideva cultura e affetto, dal desiderio di andare via, e pertanto grida la sua disperata speranza, il suo rifiuto di accettare la volgarità di persone e luoghi che la circondano, rivendicando una statura personale che con loro nulla ha a che fare. Isabella è consapevole di trovarsi in una posizione culturale, spirituale, intellettuale al di sopra dell’antica Favale, di quello che Favale comporta, del suo tempo. Da questa estraneità deriva l’approdo ad una visione religiosa che caratterizza gli ultimi componimenti e che pare recare se non felicità almeno pace.
Sono versi coraggiosi i suoi, hanno l’impeto della rivolta e la forza di un elevato linguaggio poetico. Certo per questo furono pubblicati per la prima volta a pochi anni dalla sua morte. La giusta collocazione di Isabella Morra nella storia della letteratura però è dovuta soprattutto alla critica che ne fece Benedetto Croce alla quale seguirono molti studi e scritti e tra tanti, i lavori teatrali di Dacia Maraini e Andrè Pierre de Mandiargue. Infine l’istituzione di un Parco letterario a lei intitolato che produce molte e interessanti attività.
Il rischio per Isabella Morra è che ci si innamori più della sua tragica storia che della sua autentica arte. Che la visita del “denigrato sito”, l’ascolto delle leggende che la vedono aggirarsi per il lugubre castello, la voce del “torbido Siri” che ne piange la feroce e giovanile fine, possano ucciderla ancora una volta nella banalità di un’arte raccontata come una favola e non come una pagina di autentica letteratura quale in realtà è.
“de’ gravi affanni deporrò la salma,
e queste chiome cingerò d’ alloro.”
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Lo stupro moltiplicato dai telefonini
Domenica 21 di questo mese e di questo anno orribile per violenza su donne, alle 6 del mattino scendeva in strada nella città di Piacenza una signora ucraina di 55 anni. Da pochi mesi era arrivata in Italia (in fuga da dove non vi è chi possa ignorare), ospite di una sua conoscente. Viene avvicinata da un signore di anni 27, guineano, da alcuni anni in Italia con provvedimento di protezione internazionale e residente a Reggio Emilia.
Accade, a questo punto, quello che un signore racconta alla Polizia nelle vesti di persona informata sui fatti. “Mi ero appena svegliato, ho sentito in strada voci anomale. Mi sono affacciato alla finestra e ho visto l’uomo che si avvicinava alla signora. Sulle prime ho pensato che stesse confabulando… poi mi sono accorto che stava mettendo le mani addosso. A quel punto ho telefonato subito al 112 e intanto ho ripreso la scena col telefonino. Credo di aver fatto la cosa giusta e il più velocemente possibile”.
Il più velocemente possibile il video di quanto accaduto ha preso il suo bel virus ed è impazzito in Rete. La Polizia riesce a metterlo in quarantena oscurandolo, ma il danno è fatto. Ce lo dice la vittima di che danno si tratta:” In quel video c’erano la mia voce, il mio volto… amici e familiari mi hanno riconosciuta”.
Noi siamo qui a farci una domanda semplice: di quante violenze è stata vittima questa signora ucraina? Di almeno tre ci viene da pensare. La prima è costituita dal fattaccio, la seconda dalla diffusione, la terza dalla strumentalizzazione.
Troppo poco dare notizia di uno stupro. Se ne sono consumati tanti e ciascuno – abbiamo già appreso – fa caso a sé. Pertanto, importanti sono i particolari; ghiotto, addirittura, è poter disporre di un filmato. E allora, sì, che può dirsi l’effetto che fa. L’effetto che fa è una persona sofferente con nome e cognome, che è vittima reale e che viene liquidata con “una donna”, una specie di attrice di cui c’è bisogno per comporre la scena. Di contro la vittima ci ha detto “la mia voce”, “il mio volto”. Questo avrebbero dovuto sapere coloro che il filmato hanno messo in Rete e coloro che lo hanno visto, artefici e spettatori di un film che non è stato una finzione ma un dramma vero e proprio. Quando si dice che la finzione diventa realtà e la realtà viene consumata come una finzione!
E questo a tutto vantaggio di quell’arnese che portiamo in tasca, utile certamente come lo è stato anche nel nostro caso ai fini dell’accertamento delle prove, ma tanto dannoso quando promette e conferisce uno spazio di libertà che sconfina nella violenza. Quando la vittima dice: “amici e familiari mi hanno riconosciuta” sta dicendo nient’altro che questo: c’è tra gli spettatori del video chi ha visto un film, ma badate bene che altri (amici e familiari) hanno potuto vedere quello che né io né loro avremmo voluto conoscere mai, ovvero il dramma di una violenza lacerante.
Poi, come nella migliore consuetudine, dopo aver visto il film c’è il commento o la prova documentale per sostenere un discorso. L’ha fatto la politica, l’ha fatto Giorgia Meloni senza distinguere che un film si può citare come documento, ma un filmato di un fatto di cronaca, semplicemente, non è un film e neanche una finzione, ma un dramma vivo e vero i cui protagonisti non lavorano a pagamento ma hanno pagato di persona. Non saper distinguere è atto miope e anche segno di una voracità che per metabolizzare costruzioni ideologiche o tattiche perde la capacità di vedere e si abbandona al vezzo di guardare e basta. Il film si guarda, la realtà si vede. La realtà può finire in un film, e in questo viene diluita per il gusto e l’utilità di tornare a guardarla con attenzione.
Ma c’è anche un’altra violenza alla quale sembra ci stiamo abituando ogni giorno sempre più. Sta sotto la moda di dirla (la battuta) o di farla (girare in rete come nel caso nostro) per vedere l’effetto che fa. Se ha riscontro positivo, è andata a buon segno. Se è negativo, si è stati fraintesi. La signora Meloni non si è scusata perché – a suo giudizio – non è stata la prima a immettere in circuito il filmato. Come se, primo in assoluto o primo dopo mille, faccia differenza. Forse ignora che c’è sempre uno stupido che le inventa e un cretino che le mette in circolazione. Peccato che non si tratta di una battuta sciocca ma della tristissima storia di una signora ucraina violentata prima da un giovane “senza freni inibitori” e poi da tanti altri senza freno a mano sul telefonino.
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Cos’è il CBD e quali sono i suoi benefici
Perché il CBD riscuote tanto successo Sei curioso di sapere qualcosa in più sul CBD? Come potremmo darti torto! Qualche tempo fa ci siamo imbattuti in un post di Crystalweedche spiega cos’è il CBD e siamo rimasti sorpresi dalle sue innumerevoli proprietà benefiche. Si tratta di un potente lenitivo, emolliente, antidolorifico e antinfiammatorio, in grado [...]
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Sull’equità fiscale orizzontale
Normalmente, quando si parla di equità fiscale, si ragiona di equità fiscale “verticale”, in base alla quale persone con capacità contributiva minore concorrono in misura minore alla spesa pubblica e viceversa. Esistono diverse scuole di pensiero, ma tutte concordano con il principio della progressività dell’aliquota fiscale media al crescere dei livelli del reddito, allo scopo di ridurre il divario economico esistente tra le varie classi sociali ed effettuare una redistribuzione del reddito a favore delle classi meno abbienti.
I limiti all’interno dei quali le scelte di politica tributaria si collocano sono i seguenti: limite minimo: redditi di sussistenza, fino al quale il livello di tassazione non può che essere pari a zero; limite massimo: un’aliquota percentuale, sui redditi maggiori, che non sia così elevata da rappresentare un deterrente alla produzione di ricchezza, come spiegato dalla Curva di Laffer.
Proviamo invece ora a ragionare di equità fiscale “orizzontale”, a domandarci cioè se uguali livelli di reddito vadano tassati alla stessa aliquota, oppure vadano fatte distinzioni in base alla fonte di produzione del reddito stesso.
In finanza, uno dei principi fondamentali e più comunemente conosciuti è quello del rapporto rischio-rendimento: quanto più il mio investimento sarà rischioso, tanto maggiore dovrà essere il mio ritorno atteso dall’investimento stesso. Ad esempio, se da un investimento sul mercato azionario (più rischioso) non mi aspettassi un rendimento maggiore rispetto ad un investimento sul mercato obbligazionario (meno rischioso), io investitore razionale sceglierei sempre l’investimento meno rischioso.
Può lo stesso principio rischio-rendimento essere applicato al mercato del lavoro? Attualmente, se un lavoratore dipendente fa un lavoro più rischioso di un altro lavoratore, questo maggior rischio viene tenuto in conto, e viene remunerato dal datore di lavoro con un premio, solitamente un’indennità per lavoro rischioso o usurante, ed in ogni caso con un salario complessivo più elevato, quindi in linea con il principio “rischio maggiore compensato con un rendimento maggiore”.
Arthur Laffer, economista dell’University of Southern California, teorizzò l’esistenza di un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente e pertanto il gettito fiscale si riduce, anche a causa dell’aumento dell’elusione e dell’evasione fiscale.
Analizziamo invece il caso di due lavoratori che alla fine dell’anno portano a casa la stessa retribuzione lorda complessiva. E’ giusto che entrambi paghino la stessa aliquota media, indipendentemente dal tipo di lavoro effettuato?
Oggi, in Italia, è esattamente così. Che io sia un dipendente pubblico con contratto “blindato”, un dirigente nel settore privato (quindi facilmente licenziabile) o un imprenditore, a parità di reddito lordo mi sarà applicata la stessa aliquota fiscale. Ma è ciò giusto ed equo?
Se riprendiamo il principio rischio-rendimento, dovremmo dare un beneficio maggiore a coloro che hanno portato a casa tale reddito con un’attività più rischiosa, quella dell’imprenditore, dove c’è addirittura il rischio di lavorare tutto l’anno, pagare dipendenti, fornitori e tasse, per poi trovarsi senza utili per poter remunerare il proprio lavoro.
Quindi sarebbe equo – secondo questo principio – che un imprenditore che guadagna 100 beneficiasse di un’aliquota inferiore al dipendente pubblico che guadagna 100. La logica è chiara: anche in una crisi indipendente dal mercato come quella recente dovuta al Covid, il dipendente pubblico porta a casa per intero la propria retribuzione, mentre l’imprenditore è molto probabile che porti a casa un reddito molto inferiore, se non addirittura reddito negativo, ossia perdite, con necessità di ricapitalizzare la propria società.
Vediamo ora il punto di vista dello Stato. Ha lo Stato interesse ad incentivare l’attività imprenditoriale dei propri cittadini rispetto all’attività di lavoratore dipendente? Se in un Paese non vi fosse alcuna impresa, lo Stato non potrebbe esistere. Non vi sarebbe alcuna risorsa economica per pagare i dipendenti del settore pubblico, né vi sarebbe alcun gettito fiscale. E quindi l’intero settore pubblico – che esiste per fornire servizi ai cittadini che lavorano – non potrebbe esistere e mantenersi, visto che viene finanziato per la quasi totalità dalle imposte versate. Quindi la presenza delle imprese è di vitale importanza per ogni paese.
È possibile, con gli elevati tassi di disoccupazione presenti tra i giovani, continuare a considerare come due compartimenti stagni i lavoratori dipendenti e gli imprenditori/lavoratori autonomi/partite IVA?
Non avrebbe lo Stato tutto l’interesse ad incoraggiare i più intraprendenti tra i lavoratori dipendenti e tra disoccupati a rinunciare rispettivamente ad uno stipendio certo ed al reddito di cittadinanza per far partire una nuova attività economica? Ogni nuova attività economica contribuisce alla creazione di ricchezza, ed aumentando il livello di concorrenza sul mercato aiuta anche a tenere basso il livello dei prezzi per i consumatori.
E quale incentivo migliore a tale imprenditorialità che dire loro: “Sappi che se decidessi di intraprendere, e fossi così bravo da riuscire a generare per te un reddito uguale a quello che avevi già assicurato come dipendente, avrai diritto ad una tassazione complessiva molto inferiore, come premio per la tua imprenditorialità!”
Fino a questo momento, invece, nessuno ha mai messo in dubbio il principio dell’equità fiscale “orizzontale”, non considerando adeguatamente la diversa rischiosità e livelli di maggiore/minore incertezza con cui stessi livelli del reddito sono raggiunti.
Senza questi o altri incentivi, a nostro avviso, è probabile che una gran parte dell’Italia continuerà a vivere per altri 30 anni con il “solito” sogno del “posto fisso”. E di questo il Paese certamente non beneficerà
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Guerra civile in Etiopia: perché sono ripresi i combattimenti in Tigray e Amhara
La guerra in Etiopia, tra il governo federale e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF), è ripresa su vasta scala. La via del ritorno ai negoziati è nella migliore delle ipotesi incerta.
Le due parti concordano sul fatto che i primi colpi siano stati sparati la mattina presto del 24 agosto ai confini meridionali del Tigray, dove confina con il vicino stato di Amhara nella città di Kobo. Ciascuna parte incolpa l’altra per aver sparato quei colpi.
Ciò che è chiaro – dalle informazioni ottenute dai diplomatici occidentali – è che la Forza di difesa nazionale etiope e la sua milizia alleata Amhara, nota come Fano, avevano mobilitato un’enorme forza in quel luogo nelle settimane precedenti.
Nel frattempo, la coscrizione di massa da parte del TPLF aveva ingrossato i suoi ranghi e aveva dedicato gran parte delle sue risorse all’addestramento e al riarmo, sebbene avesse negato il reclutamento forzato.
Ha catturato un enorme arsenale dall’esercito federale nei combattimenti dell’anno scorso e si vocifera che avesse anche acquistato nuove armi dall’estero.
Le tensioni stavano crescendo. Eppure, solo poche settimane fa c’era ottimismo sul fatto che i colloqui di pace potessero presto essere avviati.
Il primo ministro Abiy Ahmed aveva autorizzato il suo vice, Demeke Mekonnen, a dirigere un comitato per la pace, che ha iniziato a lavorare a luglio.
Anche prima, secondo quanto riferito, il signor Abiy aveva inviato alti funzionari per incontrare segretamente il TPLF.
Nelle sessioni alle Seychelles e a Gibuti, sembra che sia stato raggiunto un accordo sul fatto che le forze etiopi avrebbero revocato il blocco del Tigray, che l’Eritrea avrebbe ritirato le truppe inviate a sostegno del governo e che le due parti avrebbero aperto colloqui completi nella capitale del Kenya Nairobi, ospitato dal presidente Uhuru Kenyatta.
Il primo punto all’ordine del giorno sarebbe un cessate il fuoco permanente.
Dietro le quinte, gli Stati Uniti hanno sostenuto con forza questi colloqui e stavano lavorando in collaborazione con il Kenya.Quasi cinque milioni di persone hanno bisogno di aiuto in Tigray
In visita alla capitale del Tigray Mekelle il 2 agosto, l’inviato speciale degli Stati Uniti Mike Hammer e gli inviati dell’Unione europea e delle Nazioni Unite hanno chiesto “un rapido ripristino dell’elettricità, delle telecomunicazioni, delle banche e di altri servizi di base” e “accesso umanitario illimitato”, suggerendo che il signor Abiy aveva acconsentito a fare queste cose.
Tuttavia, l’inviato dell’Unione africana, Olusegun Obasanjo, rimase in silenzio durante l’assedio. Informando gli inviati, il generale Obasanjo ha insistito sul fatto di essere l’unico mediatore e li ha sorpresi proponendo di invitare ai colloqui l’alleato dell’Etiopia, l’Eritrea.
Il TPLF accusa il governo di rinnegare i suoi impegni. Il governo non ammette che ci siano stati incontri. Anche gli inviati internazionali stanno zitti sul motivo esatto per cui i colloqui si sono interrotti.
Per tutto luglio e agosto, Addis Abeba ha mantenuto in gran parte il blocco dei servizi essenziali, consentendo solo un filo di cibo, medicine e fertilizzanti per i raccolti di questa stagione.
Il TPLF non è impressionato dagli elogi internazionali per una “tregua umanitaria” di cinque mesi, che ha consentito al Programma alimentare mondiale (WFP) di riprendere le operazioni in Tigray, anche se su scala limitata.
Insiste sul fatto che il continuo blocco di Addis Abeba equivale a usare la fame come arma di guerra e che le operazioni di aiuto sono state pietosamente insufficienti.
Il WFP afferma che stava raggiungendo “decine di migliaia” di persone. È stato un inizio, ma molto al di sotto dei 4,8 milioni di bisognosi.
In una lettera aperta ai leader internazionali alla vigilia dei combattimenti, il leader del TPLF Debretsion Gebremichael ha dichiarato: “Ci stiamo avvicinando rapidamente al punto in cui affrontiamo la morte in qualunque modo ci volgiamo. La nostra scelta è solo se moriremo di fame o se moriremo di fame. muoiono combattendo per i nostri diritti e la nostra dignità”.
La fame di massa sta decimando i Tigrani. Nessuno sa quanti siano morti, ma un’indagine condotta all’inizio di quest’anno da un gruppo accademico guidato dal Belgio ha stimato che fino a 500.000 tigrini erano morti di fame e cause correlate dall’inizio della guerra nel novembre 2020 a seguito di una massiccia ricaduta tra il Il governo regionale controllato dal TPLF e l’amministrazione federale di Abiy.
Con la sola eccezione di una troupe televisiva francese del canale ARTE, non c’è stato nessun corrispondente straniero in Tigray da quando il TPLF ha ripreso il controllo della maggior parte della regione nel giugno 2021.
I pochi operatori umanitari autorizzati ad entrare non sono stati in grado di raccogliere dati di base sulle morti infantili, con la portavoce del WFP che ha ammesso che “semplicemente non sappiamo”, se ci fosse una carestia o meno.
A breve termine, il disastro umanitario non può che aggravarsi. Quelle limitate operazioni di aiuto sono ora interrotte. I primi magri raccolti non verranno raccolti per più di un mese e i combattimenti causeranno ulteriore devastazione.
L’aviazione etiope ha bombardato Mekelle la scorsa settimana, colpendo un asilo e uccidendo sette persone, tra cui tre bambini, secondo il personale medico. Il governo ha negato l’account e ha insistito sul fatto che prendesse di mira solo i siti militari. Martedì notte è stato segnalato un secondo attacco aereo su Mekelle.I tigrini affermano che un attacco aereo ha causato vittime civili quando ha colpito un asilo
I tigrini hanno requisito 12 cisterne di carburante dalle Nazioni Unite, suscitando furiosa condanna da alti funzionari umanitari.
Il TPLF ha affermato di aver prestato carburante alle Nazioni Unite alcuni mesi fa e di averlo solo reclamato, ma le modalità e i tempi del loro atto suggeriscono che non era per fornire servizi di routine, come ha affermato il loro portavoce.
L’aviazione etiope ha affermato di aver abbattuto un aereo che portava armi nel Tigray dallo spazio aereo sudanese. Il TPLF ha negato.
Ci sono notizie di grandi movimenti di truppe in Eritrea – sia eritrei che etiopi – in posizioni vicino al confine con il Tigray. Il governo eritreo, tipicamente, è rimasto in silenzio. Mercoledì sono stati segnalati combattimenti nel Tigray occidentale verso il confine con il Sudan.
Attraverso la nebbia della guerra, la notizia che filtra è che la battaglia per Kobo è stata enorme. Fonti tigriane riportano una vittoria decisiva contro una massiccia forza di 20 divisioni, in cui fu catturato un enorme arsenale. Non ci sono conferme indipendenti di questo.
Il governo etiope nega di aver subito perdite. Ha inoltre incaricato i media di “gestire con attenzione le loro segnalazioni e l’accesso alle informazioni in tempi di crisi al fine di riflettere l’interesse nazionale del Paese”.
Diceva di aver evacuato Kobo e rapporti dalla città di Woldia, 50 km (30 miglia) a sud, indicano che l’esercito non si vede da nessuna parte.
Finora il TPLF non ha spostato le sue forze a sud, dicendo che non ha intenzione di ripetere l’avanzata dello scorso anno che è arrivata entro i 200 km dalla capitale. In effetti, il suo portavoce ha deciso di negare i rapporti secondo cui aveva catturato Woldia.
La posizione dichiarata del TPLF è che vuole colloqui di pace immediati. Sebbene abbia una coalizione formale con l’Esercito di Liberazione Oromo, che combatte una feroce guerra contro il governo federale nel sud e nell’ovest dell’Etiopia, il TPLF non ha una coalizione che possa governare il paese.
E il sentimento della maggior parte dei tigrini è che dovrebbero combattere solo per la loro regione d’origine.
Al momento, non esiste un processo credibile. A un anno dalla sua nomina, senza alcun progresso, alcuni diplomatici africani e occidentali affermano tranquillamente che la posizione del generale Obasanjo è insostenibile sebbene mantenga l’appoggio del governo etiope.
Ma l’iniziativa USA-Kenya ha vacillato a metà agosto quando William Ruto è stato dichiarato vincitore delle elezioni in Kenya, sconfiggendo il candidato sostenuto da Kenyatta, Raila Odinga.
Il piano era imperniato sul coinvolgimento personale del signor Kenyatta e, sebbene sia possibile che il signor Ruto possa nominare il signor Kenyatta a capo dei colloqui di pace, c’è molta incertezza nella politica keniota prima che ciò possa accadere.
Gli americani sembrano non avere avuto alcun “piano B”.
Il segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto un ritorno ai colloqui “senza alcuna precondizione”. È improbabile che entrambe le parti ascolteranno le sue parole.
Il signor Abiy non vorrà sembrare debole negoziando sulla scia delle perdite sul campo di battaglia. Addis Abeba è tornato a un linguaggio che condanna il TPLF come “terroristi”.
Il TPLF chiede la revoca dell’assedio – che chiamano crimine di guerra – come precondizione per qualsiasi colloquio.
Insiste sul fatto che al governo federale non dovrebbe essere data carta bianca per rinnegare impegni già presi.
La sofferenza e la morte della scorsa settimana hanno finora solo dimostrato qualcosa che gli etiopi e la comunità internazionale avrebbero dovuto già sapere: non esiste una soluzione militare alla guerra nel Tigray.
Alex de Waal è il direttore esecutivo della World Peace Foundation presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University negli Stati Uniti.
FONTE: jpost.com/opinion/article-7160…
Ridenti piagnoni
Le drammatizzazioni vanno maneggiate con cura, specie quando sono in corso drammi. A sentire le propagande elettorali l’Italia è un Paese distrutto e diretto verso il disastro, la povertà dilaga e si devono subito dare soldi pubblici, per evirate il collasso generale.
Stiano attenti, perché il 26 settembre arriva in fretta e suonerà strano che i vincitori s’apprestino a governare un Paese che nel secondo trimestre dell’anno in corso ha realizzato una crescita congiunturale dell’1% (Germania 0 e Francia 0.5) e una tendenziale (rispetto al secondo trimestre 2021) del 4.6 (Germania 1.5 Francia 4.2). Ci si descrive miserrimi l’anno in cui facciamo la crescita più significativa in Ue: 3.4%.
Un Paese che ha 1.600 miliardi di euro stagnanti nei conti privati dovrebbe porsi il problema di come premiarli nel condurli alla produzione. Si prediligono i mendici per supporsi elemosinieri ed elemosinare un voto. Certo che ci sono problemi seri, fra questi una classe politica di ridenti piagnoni.
L'articolo Ridenti piagnoni proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
CAMBIAMENTO CLIMATICO. Il potenziamento militare degli USA nell’Artico pone nuovi rischi geopolitici e ambientali
della redazione
Pagine Esteri, 1 settembre 2022 – Da diversi anni, le forze armate statunitensi si preparano ad espandere la propria presenza nell’Artico. Il 3 agosto, i membri del Senato hanno espresso il proprio interesse per una maggiore presenza militare in quella regione con l’introduzione dell’Artico Commitment Act. Presentata da Lisa Murkowski (R-Alaska) e Angus King (I-Maine), la legislazione propone “una presenza per tutto l’anno della Marina e della Guardia Costiera nella regione artica”. La legislazione si concentra anche sulla concorrenza degli Stati Uniti con la Russia nella regione. La sezione 7 dell’atto richiede l’”eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica”.
L’Artico è la regione che si riscalda più velocemente rispetto al resto del mondo.
Il Piano strategico della Marina per un Artico Blu pubblicato nel gennaio dello scorso anno spiega: “Le opinioni contrastanti su come controllare nell’Artico le risorse marine e le rotte marittime sempre più frequentate, gli incidenti militari, i conflitti e le ricadute della concorrenza tra le principali potenze, hanno tutte il difetto di minacciare gli interessi e la prosperità degli Stati Uniti”.
Mentre il segretario di Stato Antony Blinken annuncia, attraverso il suo portavoce, che ci sarà un nuovo ambasciatore generale per la regione artica, gli esperti avvertono che in un momento in cui le tensioni tra Stati Uniti e Russia stanno aumentando e la minaccia dei cambiamenti climatici cresce, un accumulo di forze militare in quella parte di mondo comporta nuovi rischi geopolitici e ambientali.
La ricercatrice Gabriella Gricius spiega che un rafforzamento degli Stati Uniti previsto nel disegno di legge del Senato alimenterà l’attrito con la Russia.”Ci sono certamente conseguenze reali per la maggiore presenza militare degli Usa nell’Artico”, ha detto Gricius. “Potrebbe essere vista come una provocazione dalla Russia e comportare un aumento delle esercitazioni militari russe”, ha aggiunto. In passato il Consiglio Artico ha supervisionato la cooperazione di vari paesi e nazioni indigene riguardo i rischi geopolitici e climatici ma l’invasione russa dell’Ucraina, il consiglio ha sospeso le sue attività.
Gricius avverte che la mancanza di cooperazione nella regione è un pericolo. “L’Artico russo costituisce circa il 50 percento dell’intero Artico, il che significa che non è possibile che la Russia sia esclusa, Mosca non può essere rimossa dall’Artico e continuerà ad essere un attore chiave nella regione”, ha spiegato.
Oltre al rischio di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, un potenziamento militare statunitense nell’Artico minaccia di esacerbare il cambiamento climatico. Sebbene il Dipartimento della Difesa e vari rami delle forze armate statunitensi abbiano recentemente pubblicato piani di “adattamento climatico”, il contenuto si concentra principalmente sull’adeguamento delle operazioni, piuttosto che sulla riduzione delle emissioni. La Marina ha pubblicato a maggio un piano che è stato redatto omettendo riferimenti alle sue navi e aerei da combattimento, le due principali fonti di inquinamento delle forze armate Usa. Peraltro, gran parte dell’impatto delle emissioni militari rimane sconosciuto a causa di una scappatoia nell’accordo di Parigi sul clima che esenta i governi dal segnalare le emissioni dei loro militari.
Secondo una ricerca il 30 percento delle emissioni dei militari provengono da “installazioni”, ossia dall’uso di energia in basi e altri impianti. L’altro 70 percento è generato da “emissioni operative” o dall’uso di energia durante le attività di addestramento, missioni, trasporti e altre attività. Pertanto, l’aumento delle attività militari nell’Artico si tradurrà in un aumento inevitabile dell’inquinamento. Gli aerei in particolare contribuiscono al 70 percento delle emissioni operative.
“Nonostante la frenesia dei media per la militarizzazione e il conflitto nell’Artico, il cambiamento climatico è la minaccia più grande e pervasiva per la regione”, ha affermato Gricius. Il cambiamento climatico, dice, dovrebbe essere un’opportunità di cooperazione. “Gli Stati Uniti, in particolare, dovrebbero e possono svolgere un ruolo importante sia nel sostenere le iniziative locali in Alaska sui cambiamenti climatici sia nell’unire progetti di cooperazione tra scienziati, diplomatici e altri attori nella regione”. Pagine Esteri.
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Dall’Iraq a Gorbaciov, il ‘secolo lungo’ finisce ora
Il caos e le violenze in Iraq e la morte di Michail Gorbaciov chiudono definitivamente un mondo che ormai già non c’è più, e che ha generato la Grande Guerra, con noi europei periferia dell’impero
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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre
AGGIORNAMENTO ORE 22
Il prigioniero politico palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 172 giorni contro la sua detenzione “amministrativa” (senza processo), ha annunciato di aver sospeso il suo sciopero della fame dopo che le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 2 ottobre. La liberazione di Awawdeh rientrava in un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e il Jihad islami che ha posto fine a tre giorni di attacchi aerei israeliani alla Striscia di Gaza il 7 agosto e lanci di razzi verso Israele che hanno ucciso circa 50 palestinesi tra cui 17 bambini e quattro donne.
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di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
L'articolo Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre proviene da Pagine Esteri.
L’Africa deve fare la sua parte per rompere l’assedio abusivo del Tigray in Etiopia
La stretta del governo etiope sugli aiuti umanitari deve finire.
La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in silos bloccati a seguito dell’invasione su vasta scala della Russia, ha attraccato a Gibuti il 30 agosto. Il passaggio gratuito di questa spedizione, destinata all’Etiopia, è seguito dalla pressione concertata di Governi africani sulla Russia e negoziati guidati dalle Nazioni Unite. Ma sono necessari più muscoli diplomatici, anche da parte dei paesi africani, per porre fine alla stretta soffocata da quasi due anni del governo etiope sull’assistenza umanitaria alla regione assediata del Tigray. Altrimenti, è improbabile che molti degli etiopi più a rischio di fame ne traggano beneficio.
L’Etiopia è uno dei sei paesi che le Nazioni Unite hanno individuato per avere persone a rischio di fame. Milioni di persone nel sud e nell’est del Paese sono alle prese con livelli allarmanti di fame e malnutrizione a causa di una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Le comunità nelle aree colpite dal conflitto nel nord del paese fanno affidamento sull’assistenza umanitaria. Ma è nella regione del Tigray, in particolare, che una grave crisi di fame persiste da oltre un anno e potrebbe essere invertita attraverso azioni del governo.L’Africa deve fare la sua parte per rompere l’assedio abusivo del Tigray in Etiopia
Dallo scoppio della guerra nel Tigray nel novembre 2020, le forze etiopi ei loro alleati hanno spesso violato le leggi di guerra. Hanno saccheggiato e preso di mira case e infrastrutture civili – crimini che le forze del Tigrino avrebbero poi replicato in altre regioni – interrompendo i servizi di base e ostacolando gravemente gli aiuti ai civili coinvolti nei combattimenti. Quindi le autorità hanno imposto un effettivo assedio all’intera regione, escludendo praticamente tutta l’assistenza umanitaria ai civili in violazione del diritto interno etiope, dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario.
Per i primi otto mesi del conflitto, le forze etiopi ei loro alleati hanno saccheggiato aziende, ospedali, banche, bestiame e raccolti, lasciando la regione dipendente dall’assistenza. L’impatto di questa distruzione è stato devastante. Ha impedito alle persone di ottenere assistenza sanitaria, cibo e altri servizi di base e ostacolato il recupero di un sistema sanitario rotto dal conflitto. Per mesi, le forze federali e regionali hanno bloccato le strade, rendendo quasi impossibile per attori privati o agenzie umanitarie trasportare forniture mediche o cibo. Rifornimenti ridotti a livelli allarmanti.
La mia organizzazione, Human Rights Watch, ha parlato a febbraio con medici che avevano curato dozzine di sopravvissuti a un attacco mortale di droni senza accesso a fluidi per via endovenosa o guanti protettivi. Un giornalista che si è recato in Tigray tra la fine di maggio e l’inizio di giugno ci ha detto di aver visto “fame ovunque”. Ad agosto, le Nazioni Unite hanno avvertito che un bambino tigrino su tre di età inferiore ai 5 anni è gravemente malnutrito.
Da quando il governo etiope ha dichiarato una tregua umanitaria alla fine di marzo, i convogli umanitari precedentemente bloccati dall’ingresso nel Tigray stavano finalmente arrivando nella regione. Ma ciò che stava entrando non si avvicinava a soddisfare le crescenti esigenze di una popolazione vulnerabile. Con le consegne di carburante e i flussi di cassa ostacolati, e il governo che continua a tenere chiuse le banche e le telecomunicazioni, le organizzazioni umanitarie stanno lottando per salvare vite umane.
La ripresa dei combattimenti nel nord dell’Etiopia il 24 agosto mette ulteriormente a rischio gli sforzi delle agenzie umanitarie. Un portavoce delle Nazioni Unite ha osservato che i combattenti del Tigray sono entrati in un magazzino delle Nazioni Unite nella capitale del Tigray, Mekelle, e hanno sequestrato 12 petroliere destinate all’uso umanitario. Secondo quanto riferito, un attacco aereo a Mekelle il 26 agosto, probabilmente da parte del governo etiope, ha colpito un asilo e ucciso almeno sette persone, compresi bambini. Da allora la consegna di forniture umanitarie su strada rimane sospesa , così come i voli umanitari. L’assedio rimane molto attivo.
Gli attacchi aerei e il saccheggio delle limitate scorte di carburante danneggeranno solo i tigrini che stanno già subendo gli effetti del conflitto e dell’assedio. La maggior parte delle persone nel Tigray non può acquistare il cibo disponibile perché il costo dei prodotti di base continua a salire. Un residente della città di Shire ha affermato che il costo del teff, un cereale che è uno dei principali alimenti di base del paese, è triplicato negli ultimi cinque mesi.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato di affrontare le ampie restrizioni sugli aiuti e sui beni essenziali nei conflitti in Yemen e Sud Sudan, approvando una risoluzione nel 2018 che condannava il rifiuto illegale degli aiuti umanitari salvavita e dei servizi essenziali come strategia di guerra. Nella speranza di impedirlo altrove, la risoluzione invita espressamente il segretario generale delle Nazioni Unite a informare rapidamente il Consiglio di sicurezza quando sorge il rischio di carestia indotta dal conflitto.
Eppure, di fronte a flagranti violazioni della sua stessa risoluzione sull’Etiopia, il Consiglio di Sicurezza non ha mai sanzionato i maggiori responsabili di azioni illegali durante il conflitto. Inoltre, il Consiglio di sicurezza non ha nemmeno inserito l’assedio in corso nel Tigray nella sua agenda formale.
La diplomazia africana concertata intorno alla crisi del grano in Ucraina e al blocco russo è in netto contrasto con l’inerzia dell’Africa nei confronti dell’Etiopia nel Consiglio di sicurezza. I tre membri eletti che rappresentano l’Unione africana nel Consiglio di sicurezza – Gabon, Ghana e Kenya, noti collettivamente come A3 – hanno ripetutamente bloccato qualsiasi discussione pubblica sull’Etiopia, consentendo a questo palese disprezzo per le norme internazionali di persistere.
Nel frattempo, l’Etiopia ei suoi partner nella regione e oltre hanno consentito che l’accesso ai beni di prima necessità diventasse una merce di scambio politica. Il ministro degli Esteri dell’Etiopia ha recentemente affermato che i servizi di base non saranno ripristinati fino a quando le due parti non inizieranno i colloqui di pace, mentre le autorità del Tigray vogliono che i servizi vengano ripristinati prima che i colloqui possano iniziare. Con la ripresa dei combattimenti, è ancora più essenziale per il mondo chiarire che i negoziati e l’accesso agli aiuti devono essere disaccoppiati.
Allora, cosa si deve fare?
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, a cominciare dall’A3, e l’Unione africana devono agire ora. Dovrebbero chiedere pubblicamente all’Etiopia di revocare completamente la sua stretta sugli aiuti umanitari disperatamente necessari e la chiusura dei servizi di base. Dovrebbero insistere affinché le parti in guerra, comprese le forze del Tigray, rispettino il diritto internazionale e facilitino l’assistenza a chi ne ha bisogno senza alcuna precondizione o ritardo. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe tenere un dibattito pubblico per affrontare la fame indotta dai conflitti e inserire l’Etiopia nella sua agenda regolare.
È fondamentale che tali pratiche governative non siano normalizzate. I responsabili del blocco di cibo, carburante e medicinali, nonché dell’utilizzo dei servizi di base come merce di scambio, dovrebbero essere ritenuti responsabili. Coloro che usano la fame di civili come metodo di guerra impedendo i soccorsi o privando i civili di ciò di cui hanno bisogno per la loro sopravvivenza possono essere perseguiti per crimini di guerra. Affinché ciò avvenga, sarà fondamentale anche il proseguimento del lavoro della Commissione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Etiopia, che sarà rinnovata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a settembre.
L’impegno dell’Africa e delle Nazioni Unite sul blocco russo del Mar Nero ha dimostrato quale pressione pubblica, combinata con la diplomazia, può fornire sugli aiuti umanitari. Le navi in partenza dai porti ucraini carichi di grano sono il miglior tipo di dividendo di tale approccio. Ma abbiamo anche visto il contrario: una crisi in gran parte dimenticata in Etiopia, dove la fame armata di un’intera regione non ha generato neanche lontanamente la stessa attenzione. A meno che la comunità internazionale non si raduni per garantire che tutti nel Tigray abbiano pieno accesso all’assistenza umanitaria, le spedizioni di grano che finalmente arrivano in Etiopia potrebbero non arrivare a una delle popolazioni più bisognose. Se questo è il risultato finale, l’accordo sul grano sarà una vittoria vana.
Kenneth Roth è il direttore esecutivo di Human Rights Watch. Twitter: @KenRoth
FONTE: foreignpolicy.com/2022/08/31/e…
Guerra in Ucraina: l’attrito incombe sulla battaglia di Kherson
L’oblast di Kherson è stata una delle prime regioni dell’Ucraina a subire l’assalto delle forze russe dopo il lancio dell’invasione a febbraio. Con i difensori in gran parte colti alla sprovvista, le forze russe hanno guadagnato un solido punto d’appoggio nella maggior parte dell’oblast, stabilizzando le sue linee di difesa nonostante l’Ucraina sia riuscita a [...]
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Putin: cancellare Gorbaciov
Putin ha dedicato tutto il tempo in cui è stato in carica, a creare esattamente l'opposto di ciò che Mikhail Gorbaciov voleva per la Russia
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Decolonizzare la storia della Crimea
La guerra della Russia contro l’Ucraina non è iniziata con l’invasione del 24 febbraio. Invece, il conflitto è iniziato quasi esattamente otto anni prima, nel febbraio 2014, con la presa della penisola di Crimea in Ucraina. L’occupazione russa della Crimea è stata un momento spartiacque nella storia europea moderna. Era la prima volta dalla Seconda [...]
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Ravenna, alla tomba di Dante il gran finale di «Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare» – Setteserequi
Alla tomba di Dante a Ravenna venerdì 2 settembre il gran finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola.
L’iniziativa, curata dal Festival Dantesco e patrocinata tra gli altri dalla Società Dante Alighieri e dalla Fondazione Luigi Einaudi, è ora nella fase decisiva che coinvolge artisti ed ensemble teatrali con esibizioni dal vivo.
Il concorso è basato sull’omonimo libro di Monaldi & Sorti (Solferino Editore), ogni esibizione è tratta o ispirata da passi del romanzo teatrale-narrativo, e può vantare due sostenitori d’eccezione: il regista Pupi Avati, che ha lodato lo «sguardo sacrale» di Monaldi & Sorti, e l’attrice Monica Guerritore, che li ha definiti «direttori artistici della pagina scritta» (in fondo i link alla stampa e al materiale fotografico).
Il teatro di strada è uno dei temi caratteristici nel romanzo ispiratore del concorso. In tutte le località coinvolte, gli spettacoli della finale sono subito riconoscibili grazie alle quinte con le figure inconfondibili di Dante e Shakespeare.
Dante e la Divina Commedia diventano protagonisti di un dramma di Shakespeare, rappresentato in brevi spettacoli (tra i 15 minuti e i 30 minuti di durata), replicati nel corso della giornata, secondo la formula del teatro di strada in tutta la sua ricchezza espressiva: attori, musicisti, acrobati e anche figure peculiari dell’arte popolare come cantastorie, con tanto di teloni dipinti, e uomini-orchestra. La tipologia di partecipanti è straordinariamente varia: ci sono anche compagnie teatrali già rodate, o singoli attori di teatro, e perfino ensemble shakespeariani che usciranno in strada per l’occasione.
Tra l’inaugurazione a Firenze l’8 agosto, città natale di Dante, e la chiusura a Ravenna il 2 settembre presso la tomba del Sommo Poeta, questo “giro d’Italia” all’insegna del teatro di strada si è snodato finora da Verona a Vibo Valentia, toccando varie regioni, dalla Liguria alla Campania, tra grandi città come Roma, preziosi borghi storici come Assisi (dove l’esibizione è stata filmata da RAI 1 Weekly) e panorami naturali mozzafiato quali le scogliere di Cagliari. In scena sono andate un po’ tutte le arti performative di strada, dalla recita alla musica e canto, alla danza acrobatica e giocoleria, fino ad arrivare ad artistici giochi di fuoco che in Liguria e Toscana hanno riempito la piazza con diverse centinaia di spettatori, guadagnando applausi a scena aperta e richieste di bis.
Si giunge ora al gran finale nel capoluogo bizantino con lo spettacolo “Dante e Piccarda”, proposto – a pochi metri dalla Tomba di Dante, fra le sculture e le installazioni della mostra Dante Plus 2022 di Marco Miccoli – dagli attori Cristina Ugolini, nei panni della Chiacchiera e di Piccarda, e Riccardo Cecere, nei panni di Dante. Cecere curerà anche le musiche da vivo.Si tratta di un dialogo inatteso fra il Poeta e la religiosa, tratto dal I atto di “Ahi, serva Italia!” di Monaldi & Sorti.
Dante confessa le sue visioni a Piccarda. Occasione per toccare i temi danteschi più diversi, tra cui il famoso Veglio di Creta, che Dante riprende dal sogno di Nabucodonosor di Riccardo di San Vittore, fonte principale di Dante ogni volta che nel Poema parla di visione. Sorte vuole che lo spettacolo si svolga nel giardino della Biblioteca Oriani, intitolato a Rinaldo da Concorezzo, personaggio ampiamente in azione nel romanzo ispiratore del concorso.
Appuntamento dunque a Ravenna venerdì 2 settembre negli spazi della mostra Dante Plus 2022, c/o Biblioteca Alfredo Oriani, Via Corrado Ricci 26. Orario spettacoli: 16.15 / 17.15 / 18.15
Premiazione infine a Roma il 14 settembre, anniversario della morte di Dante, presso il Globe Theatre, luogo shakespeariano per eccellenza della capitale, con un banchetto nello stile del Trecento fiorentino.
Monica Guerritore ha commentato: «L’incontro tra Dante e Shakespeare funziona: Shakespeare ci mostra come le passioni agitino l’uomo sulla terra, e Dante quale direzione invece gli fanno prendere nell’aldilà. Qui in Ahi, serva Italia! si fa questo doppio viaggio, nella lingua di Shakespeare e nella vita e nelle opere di Dante».
«Gli spettacoli di piazza sono nel DNA sia della Commedia che del teatro elisabettiano», spiegano Monaldi & Sorti, tradotti in 26 lingue e definiti in Francia da L’Express «gli eredi di Umberto Eco» e in Germania dalla Frankfurter Allgemeine «la coppia letteraria italiana di livello internazionale».
«Dante vola così in alto – dicono i due autori – che può essere raccontato solo da Shakespeare. La Commedia era ben nota in Inghilterra sin dal Medioevo: i drammi shakespeariani sono pieni di richiami ai suoi personaggi, dal conte Ugolino a Pier delle Vigne, oltre al parallelo tra le coppie Romeo-Giulietta e Paolo-Francesca. Non a caso il primo ritratto a stampa dell’Alighieri è stato pubblicato in Inghilterra da un editore della cerchia di Shakespeare».
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Il Teatro di Strada, il primo settembre ecco Ahi, serva Italia!, Dante secondo Shakespeare – Cagliari Post
Approda giovedì 1° settembre a Cagliari la fase finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola.
L’iniziativa, patrocinata tra gli altri dalla Società Dante Alighieri e dalla Fondazione Luigi Einaudi, è ora nella fase decisiva che coinvolge artisti ed ensemble teatrali con esibizioni dal vivo.
Il concorso è basato sull’omonimo libro di Monaldi & Sorti (Solferino Editore), ogni esibizione è tratta o ispirata da passi del romanzo teatrale-narrativo, e può vantare due sostenitori d’eccezione: il regista Pupi Avati, che ha lodato lo «sguardo sacrale» di Monaldi & Sorti, e l’attrice Monica Guerritore, che li ha definiti «direttori artistici della pagina scritta» (in fondo i link alla stampa e al materiale fotografico).
Il teatro di strada è uno dei temi caratteristici nel romanzo ispiratore del concorso. In tutte le località coinvolte, gli spettacoli della finale sono subito riconoscibili grazie alle quinte con le figure inconfondibili di Dante e Shakespeare
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Ci sono buone possibilità che la politica ucraina di Liz Truss sia peggiore
Ci si aspetta che Liz Truss diventi Primo Ministro la prossima settimana, ma non importa chi sia nel ruolo, gli inglesi continueranno a seguire Washington ovunque
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A Dante Plus 2022 arriva il premio ’Ahi, serva Italia!’ – Il Resto del Carlino
Venerdì accanto alla Tomba di Dante, performance dedicate al Sommo Poeta e a Shakespeare
l Premio “Ahi, serva Italia!”, organizzato da Xenia in collaborazione con il Festival Dantesco e con Solferino Editore, chiude il suo percorso a Ravenna, venerdì 2 settembre, negli spazi della mostra Dante Plus 2022, curata da Marco Miccoli.
Accanto alla Tomba di Dante, luogo simbolo legato al poeta, alle 16.15, alle 17.15 e alle 18.15, gli appassionati di Dante e di Shakespeare (e del teatro in strada) potranno assistere a una delle esibizioni finaliste del Premio, che in questo mese di agosto ha selezionato le migliori street performance dedicate al libro “Ahi, serva Italia!” della coppa Monaldi & Sorti, secondo volume della trilogia Dante di Shakespeare.
Dopo Firenze (tappa dantesca “obbligata” di apertura), dopo Verona, Salerno, Benevento, Vibo Valentia, Assisi e Roma, è dunque la volta di Ravenna (tappa dantesca altrettanto “obbligata” di chiusura), che proporrà un divertente dialogo fra Dante e Piccarda tratto appunto dall’opera di Monaldi & Sorti e realizzato dal gruppo Futura di Cristina Ugolini e Riccardo Cecere. Si terrà negli spazi suggestivi spazi della mostra Dante Plus 2022, che peraltro patrocina il Premio assieme alla Società Dante Alighieri, alla Fondazione Luigi Einaudi, alla Casa di Shakespeare di Verona, al Centro Studi Storici PP. Barnabiti e a Feditart.
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La guerra in Ucraina promuove gli interessi dell’Iran
Un vincitore sta emergendo dalla guerra in Ucraina, ma non è né la Russia né l'Ucraina. È l'Iran
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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.
Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.
L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.
Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.
Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.
Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.
Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.
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Giustizia, parola d’ordine dei partiti: indifferenza
Un’aneddotica nota nei palazzi di Giustizia vuole che quando la mafia deve trescare per il posto di capo di una procura ‘delicata’, se a concorrere è un magistrato ammanicato con il potere politico, uno onesto e un cretino, la scelta, invariabilmente cade sul cretino. Non ci si azzarda certo a sostenere (neppure a pensare) [...]
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Serie A, B, Champions, Mondiali: le date della stagione calcistica 2022/2023
La stagione calcistica 2022/2023 sarà particolare per il calcio europeo, e di conseguenza quello italiano, a causa dei Mondiali che si disputeranno in Qatar nei mesi invernali. Per la prima volta nella storia della competizione, infatti, i principali campionati europei subiranno una sosta prolungata per consentire ai calciatori la trasferta in terra qatariota e disputare [...]
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CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Seconda parte)
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 –
Con il declino di Acri, negli anni 1830, i consolati europei si erano trasferiti a Haifa, determinando l’ascesa anche di questa città che diventerà un importante polo industriale nel secolo successivo.
La mostra A People by the Sea al Museo Palestinese di Bir Zeit racconta soprattutto la realtà palestinese della prima metà del Novecento.
Uno dei risultati più importanti delle riforme ottomane è la nascita in Palestina di una stampa moderna locale, che si sviluppa con maggiore rapidità dopo il ripristino della Costituzione ottomana, nel 1908, e il conseguente allentamento della censura. Su un pannello della mostra ci sono due documenti interessanti: uno è la copertina del quarto numero della rivista Bākūrat al-adab (La primizia della letteratura), datato 1905, anno di fondazione a Giaffa della stessa testata il cui nome indica appunto l’esistenza di una nascente letteratura moderna palestinese. L’altro è la prima pagina dell’edizione del 2 settembre 1911 di Annafayr (Annafire), un giornale dedito a questioni politiche, letterarie e socioculturali, fondato a Gerusalemme nel 1906. L’articolo d’apertura è intitolato “La morte della libertà in Egitto” – all’epoca guidato dal khedivè Abbas II e sotto occupazione britannica sin dal 1882 – e denuncia proprio i problemi che sta subendo l’organo ufficiale di un partito nazionalista egiziano a causa della presenza militare inglese nel paese. Ciò indica che il nazionalismo anticolonialista è già emerso anche in Palestina, dove evidentemente c’è una discreta libertà di stampa. In fondo alla stessa pagina compare la pubblicità di una compagnia navale francese che organizza viaggi per l’America e ha appunto un ufficio a Gerusalemme. Entrambi questi documenti sono interessanti anche a livello artistico ossia grafico: l’abbinamento di disegni in stile Liberty alla calligrafia araba è particolarmente affascinante.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
Nella mostra sono esposti altri annunci pubblicitari di crociere su transatlantici di lusso che indicano sia la domanda crescente di questo tipo di viaggi in Palestina, e ovviamente l’agiatezza dell’alta borghesia palestinese sia la dinamicità economica delle città portuali. Con la fioritura di giornali e riviste, inoltre, si rivitalizza la vita culturale a Haifa e Giaffa, dove si organizzano spettacoli teatrali e concerti, spesso in riva al mare, come confermano più fotografie esposte in A People by the Sea.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
L’effettiva presenza, nelle case delle famiglie borghesi e nei caffè, di radioricevitori, grammofoni e dischi in vinile, su cui sono registrate canzoni interpretate dalle voci più celebri dell’Egitto e del Levante, è invece documentata da alcuni annunci pubblicitari presentati nella mostra.
Lungo il percorso di A People by the Sea, a un certo punto, si trova una scheda informativa che indica la prima ondata migratoria colonialista ebraica, legata al sionismo internazionale, iniziata nel 1882, e l’avvio della costruzione dell’insediamento sionista di Tel Aviv, nel 1909, sul confine settentrionale del distretto amministrativo di Giaffa, e la stessa nota segnala la pericolosità della fondazione di questa colonia per le sorti della Palestina e degli abitanti autoctoni del paese, cioè i palestinesi. Poi la narrazione si sofferma sugli eventi cruciali per l’assetto geo-politico regionale, avvenuti nell’ambito della I Guerra Mondiale. Una scheda informativa ricorda l’accordo Sykes-Picot (1915-1916), negoziato e firmato segretamente da Francia e Inghilterra, e interventi militari che dimostrano le intenzioni delle maggiori potenze coloniali europee di alterare per sempre il volto della Palestina, del Levante e dell’intero Medio Oriente. Una teca della mostra contiene, invece, un opuscolo intitolato The Balfour Declaration – an Analysis; si tratta di un inserto speciale pubblicato a Giaffa dal giornale Falasṭīn (Palestina) proprio nel 1917. La ben nota lettera firmata il 2 novembre di quell’anno appunto dal ministro degli Esteri inglese, certifica la volontà dell’Inghilterra di sostenere il sionismo internazionale. Con lo smantellamento dell’Impero Ottomano, a seguito della I Guerra Mondiale, e l’inizio del mandato britannico sulla Palestina nel 1920, emerge concretamente il significato della Dichiarazione Balfour – l’accelerazione della colonizzazione sionista -, la cui prevedibile conseguenza è l’accendersi di un conflitto regionale tuttora in corso e in evoluzione.
D’altra parte, lo scopo principale di A People by the Sea è di raccontare una realtà sociale, la vita della gente di un paese. Durante il periodo mandatario, in risposta alla minaccia sionista, la società palestinese esprime la propria vitalità, proseguendo sulla via verso la modernizzazione. Ormai ci si può spostare da una città all’altra del paese sia in treno sia in pullman, come indicano i biglietti esposti nella mostra. Su un pannello, invece, sono presentate le pagine di più giornali che suggeriscono la possibilità di andare a teatro oppure al cinema a vedere, per esempio, un musical egiziano – all’epoca l’Egitto è la Hollywood sul Nilo a livello panarabo – o un cartone animato della Walt Disney. In questo periodo nasce anche la passione per lo sport. Nel 1931, viene fondata una federazione sportiva nazionale per unire circoli già esistenti in varie città della Palestina, tra cui Gerusalemme, Giaffa e Haifa, e frequentati da giovani che sperano di vincere una coppa come quelle esposte in A People by the Sea.
Un’altra teca della mostra contiene, invece, due scatole di fiammiferi, con il marchio di una piccola impresa di Acri, e un pacchetto di sigarette prodotto a Giaffa, dove ci sono aziende appunto del tabacco, nonché del sapone, del cuoio, del vetro, di carpenteria, tessili e alimentari, oltre a quelle della filiera delle arance. Su un pannello inoltre sono esposti documenti di tipo amministrativo aziendale, tra cui una lettera su carta intestata e quattro buste affrancate e con timbro postale.
Nel 1933, viene inaugurato il porto di Haifa, costruito dall’Inghilterra. Lo scopo di Londra è di avere la possibilità di accogliere grandi navi commerciali e petroliere e di accordare concessioni a società di capitali straniere e a capitalisti sionisti internazionali. Lo scalo nasce e si sviluppa grazie a investimenti esteri legati alle industrie pesanti, petrolifere e del trasporto ferroviario.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
Haifa, inoltre, è sin dagli anni ‘20 la roccaforte del movimento operaio. Certo, ci sono problemi sindacali e sperequazioni socioeconomiche anche in Palestina, dove non mancano neppure casi di corruzione. Ne parlano diversi articoli giornalistici esposti in A People by the Sea, ma, nel paese, prevale la consapevolezza anticolonialista che fa da collante del tessuto sociale. Su un pannello si vede, per esempio, un volantino che rientra in una campagna per la promozione e difesa della produzione locale: gli imprenditori e investitori palestinesi devono affrontare, oltre alla concorrenza straniera privilegiata dall’Inghilterra, gli ostacoli posti dai militari inglesi e/o da gruppi di coloni.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
La minaccia sionista aumenta di giorno in giorno, materializzandosi nella monopolizzazione d’ogni aspetto della vita sociale in Palestina nell’ambito di un progetto colonizzatore esclusivista. Quindi, nascono partiti politici e associazioni palestinesi di autodifesa nazionale.
E, naturalmente, come sempre e ovunque nella storia dell’umanità, dalla tragedia nasce la commedia. Nella Palestina mandataria fiorisce infatti il giornalismo satirico palestinese. In A People by the Sea, si vede una vignetta dedicata proprio alla Dichiarazione Balfour e pubblicata su Falasṭīn il 17 giugno del 1936, mentre gli articoli annessi parlano – con la cauta ironia necessaria per evitare la censura – delle proteste popolari appena esplose nel paese appunto contro il mandato britannico e la colonizzazione sionista.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
Donne e uomini palestinesi d’ogni estrazione religiosa e sociale partecipano alla Grande Rivolta che durerà nelle città e nelle campagne della Palestina per tre anni. Nel 1939, infatti i militari inglesi e miliziani sionisti intensificano la repressione della resistenza palestinese, perché l’Inghilterra vuole impiegare tutti i propri sforzi nella II Guerra Mondiale in cui sta entrando.
In Palestina, la crisi economica provocata dal conflitto internazionale colpisce soprattutto i proprietari degli aranceti e, quindi, i lavoratori della filiera delle arance. A People by the Sea include infatti anche una sezione dedicata proprio al mondo del lavoro. Una teca contiene una tessera sindacale, rilasciata a Haifa il 15 marzo 1947 dal Sindacato Arabo Palestinese dei Lavoratori. È intestata ad Abd al-Salam Abd al-Halim Hanieh che faceva il caposquadra a Giaffa. Una scheda informativa ricorda il duplice ruolo svolto dal Sindacato stesso negli anni ’30: l’organizzazione di scioperi per rivendicare migliori condizioni lavorative per i lavoratori del reparto agrumario e ferroviario; e la mobilitazione del movimento operaio nella lotta contro la colonizzazione sionista, e ciò a cominciare dalla Grande Rivolta nell’ambito delle attività rivoluzionarie coordinate e sostenute dai comitati nazionali.
La mostra riesce effettivamente a dare la possibilità di percepire la realtà pre-1948 palestinese; e lo fa senza menzionare personalità pubbliche, ma parlando della vita della gente “comune”. Si nota un’attenzione, una cura a ricordare laddove possibile i nomi delle persone per evidenziare l’importanza di ogni individuo. In Palestina, la società palestinese era organizzata a vari livelli, era politicizzata e impegnata a costruirsi un futuro e a difendersi da un pericolo crescente.
L’ultima parte del percorso di A People by the Sea è dedicata alla Nakba. Un pannello informativo ricorda gli atti compiuti da gruppi paramilitari sionisti nel decennio precedente, cioè sin dal 1937: crimini contro la persona, una campagna di attacchi dinamitardi e oltre 7 massacri, il cui bilancio è di 250 palestinesi uccisi e migliaia di altri feriti. Questo è il preludio della Nakba che inizia all’indomani dell’annuncio dell’approvazione della risoluzione 181 dell’Onu sulla Spartizione della Palestina, approvata il 29 novembre 1947 – e mai attuata. Nel marzo 1948, i dirigenti paramilitari sionisti, basati a Tel Aviv, decidono di lanciare la campagna Piano Dalet, volta appunto alla pulizia etnica nei confronti dei palestinesi nella porzione del territorio assegnata al futuro Stato ebraico.
Tra i dodici artisti che partecipano alla mostra c’è anche Abed Abdi (n. 1942) che il 22 aprile 1948 aveva appunto appena sei anni ma, nelle sue memorie, ricorda perfettamente i fatti vissuti quel giorno a Haifa, la fuga verso il porto per salvarsi dagli attacchi lanciati da miliziani sionisti e la posa da “gentleman” dei militari inglesi che invitavano i palestinesi a lasciare la città, perché – all’insaputa dei palestinesi stessi – non ci tornassero mai più. Si tratta della più nota delle tante espulsioni di massa avvenute nell’ambito della Nakba. In A People by the Sea la testimonianza di Abed Abdi è infatti presentata su una scheda accanto alla fotografia (scattata a Haifa dopo il 1948) di un giovane soldato inglese, seduto su un muro a osservare dall’alto un gruppo di palestinesi indotti appunto a salire in barca e a lasciare la città, convinti che ci sarebbero presto tornati, un diritto al ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu, approvata l’11 dicembre 1948 – e mai attuata.
Un pannello informativo della mostra ricorda che l’operazione di pulizia etnica si intensifica a partire dal 16 maggio 1948 – cioè all’indomani della scadenza del mandato britannico sulla Palestina – e continua per quasi due decenni. La fase più intensa della Nakba dura fino al 1950 ed è caratterizzata anche da attacchi in diversi centri urbani; il mercato dei contadini a Haifa e un quartiere residenziale a Giaffa vengono demoliti. In A People by the Sea, la Nakba è raccontata soprattutto tramite una serie di video in cui si vedono o demolizioni di case e interi villaggi (ne furono distrutti 418 di cui 70 lungo la fascia costiera), o le testimonianze dirette di diversi sopravvissuti ai massacri. Su un pannello ci sono anche alcune lettere scritte da pescatori espulsi.
Nella mostra è inoltre esposta l’opera pittorica, The Dove, creata nel 1993 da Nasser Soumi (n. 1948), ispirandosi alla storia di un marinaio di Giaffa, divenuto profugo e morto di crepacuore a Tiro, in Libano, negli anni ’50, dopo che i militari israeliani gli avevano impedito di realizzare il desiderio di rivedere la sua città, chiamata dai marinai “La Colomba”, perché così sembrava da lontano a largo della costa durante il viaggio di ritorno per raggiungerla. Mentre cercava di arrivarci in barca, quei soldati lo avevano arrestato, lui aveva spiegato loro tutto ciò. E loro, per tutta risposta, lo avevano rinchiuso a bordo della sua stessa barca, per non dargli la possibilità di scorgere neppure da lontano la sua città, e tenuto lì senza provviste per un paio di giorni, prima di rispedirlo indietro. Giaffa era famosa per l’estrazione dell’indaco, colore scelto dall’artista per riprodurre sulla tela l’immagine del mare, sfondo su cui ha applicato conchigline gialle e pezzetti di buccia d’arancia essiccata, componendo di fatto un collage con al centro una piccola scultura che simboleggia Baal, dio cananeo della fertilità.
Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati
A People by the Sea racconta una realtà storicamente documentata e quindi parla da sé. Il problema è che viene continuamente oscurata da un’incessante campagna dilagante di disinformazione, tutta eurocentrica; stesso eurocentrismo che caratterizza le narrazioni più diffuse riguardanti il colonialismo europeo e il conflitto mediorientale in genere. Questa iniziativa del Museo Palestinese infatti chiama direttamente in causa l’Europa e denuncia soprattutto il modus operandi del regime mandatario britannico in Palestina. Il significato vero e completo della Nakba – che continua tuttora – va conosciuto e riconosciuto, perché il non riconoscimento è una licenza a uccidere concessa all’occupazione militare israeliana.
A People by the Sea veicola un messaggio politico molto chiaro. La mostra, accompagnata da seminari, conferenze e altri momenti di incontro, serve a riesaminare la Nakba alla luce della narrazione storica presentata. I due secoli di storia della Palestina, che vengono narrati, corrispondono all’arco temporale 1748-1948: la prima data indica appunto la nascita dell’era di autogoverno di Daher al-Omar, seguita da un continuum di altre esperienze in cui la società palestinese, pur non avendo un proprio Stato indipendente, ha sempre messo in campo la propria vitalità e capacità di gestirsi; quindi, quel passato è la testimonianza di una ferma volontà di autodeterminazione. Questo è il sunto di quanto si legge nella pagina web dedicata alla mostra, un progetto culturale che, però, sembra finalizzato anche ad affrontare un’emergenza parallela, anzi quella più urgente sotto ogni aspetto. La gioventù palestinese ha bisogno di essere sostenuta psicologicamente tramite un messaggio di speranza, proprio perché non cada nella disperazione. In Palestina, i giovani e specialmente i minori sono le vittime principali delle azioni oppressive e omicide commesse dai militari israeliani e da coloni sionisti. Questa violazione quotidiana della Convenzione IV di Ginevra (12/08/1949) è la continuazione della Nakba che va fermata subito. L’Europa dovrebbe finalmente assumersene tutte le responsabilità e agire per mettere fine a un conflitto che ha causato, che poteva e doveva essere evitato.
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*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Oltre a Warda ha tradotto diverse altre opere letterarie, tra cui la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad e il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.
L'articolo CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Seconda parte) proviene da Pagine Esteri.
MESSICO. La strage di studenti di Ayotzinapa fu un “crimine di stato”
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Che alcuni politici locali, agenti di polizia e militari messicani avessero avuto un qualche ruolo nella strage di Ayotzinapa è sempre stato più che un sospetto. Ma le accuse formulate dalla Commissione d’Inchiesta governativa di Città del Messico contro alcuni comandanti delle Forze Armate rendono assai più nitide le circostanze in cui si produsse il massacro del 26/27 settembre 2014.
Quel giorno, un centinaio di studenti della Escuela Normal Rural “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, in viaggio a bordo di tre autobus che avevano requisito a Iguala (nello stato del Guerrero) per recarsi a una manifestazione nella capitale federale per commemorare il massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968, furono intercettati e attaccati dagli agenti della polizia locale e dai narcos su ordine del sindaco José Luis Abarca (un indipendente del Partito Rivoluzionario Democratico) e di sua moglie. Questi ultimi in seguito furono arrestati perché considerati i mandanti della carneficina insieme ad un boss della criminalità locale.
La polizia sparò per errore contro un autobus che trasportava una squadra di calcio locale, uccidendo il suo autista e uno dei giocatori a bordo. Anche una donna che viaggiava in un taxi è stata raggiunta e uccisa da un proiettile.
Insabbiamenti e depistaggiSecondo le ricostruzioni ufficiali fornite a seguito dell’inchiesta condotta dal Procuratore Generale Jesus Murillo Karam, sei studenti morirono subito, 25 riportarono gravi ferite ma sopravvissero ed altri 43 furono rapiti. Alcuni dei ragazzi furono torturati selvaggiamente. I rapiti, sempre secondo la versione ufficiale, furono poi consegnati dagli agenti ai membri di una banda criminale locale, i Guerreros Unidos, e assassinati. I corpi degli uccisi sarebbero stati bruciati per renderne difficile l’identificazione e i resti sarebbero stati gettati nella discarica di Cocula e nel fiume San Juan. Per questo i “43 di Ayotzinapa” sono rimasti a lungo – e vengono in gran parte tuttora – dei desaparecidos.
Prima per reclamare la liberazione degli studenti “dispersi” e poi per chiedere “verità e giustizia” sul massacro, nel paese si sono susseguite proteste e manifestazioni, mentre decine di agenti di polizia sono stati arrestati.
Ma già dal 2015 le organizzazioni sociali e studentesche del Guerrero, insieme ai familiari delle vittime, hanno puntato il dito contro alcuni distaccamenti dell’Esercito e della Marina, denunciando il loro ruolo nell’eccidio.
Nei giorni scorsi, finalmente, ad avvalorare quelli che fino ad ora erano rimasti solo dei sospetti è stata una speciale commissione istituita dall’attuale governo per far luce su quanto accadde nel 2014.
Il viceministro Alejandro Encinas
Il ruolo dell’esercitoSecondo la nuova inchiesta realizzata dalla “Commissione per la verità e la giustizia”, creata nel 2018 per volontà del presidente messicano Lopez Obrador, l’eccidio fu un vero e proprio “crimine di Stato”, frutto del coordinamento tra l’amministrazione comunale di Iguala e altre istituzioni locali e federali, la polizia locale, le forze armate e i narcos dei Guerreros Unidos, con l’obiettivo di infliggere una dura ed esemplare punizione agli studenti di una delle realtà politicamente più combattive dello stato. Tra gli studenti le forze armate avrebbero infiltrato alcune spie e comunque le comunicazioni tra i leader della protesta sarebbero state monitorate attraverso degli spyware.
Secondo Alejandro Encinas, viceministro messicano ai Diritti Umani, anche l’allora presidente della Repubblica Enrique Peña Nieto e il suo entourage sarebbero stati informati della reale dinamica dei fatti, impegnandosi a nascondere parte della verità.
Nello specifico, sei dei 43 studenti sequestrati furono separati dai loro compagni e detenuti ad Iguala per quattro giorni, per poi essere consegnati agli uomini del colonnello José Rodríguez Pérez, che allora era comandante del 27imo battaglione di fanteria. Fu il colonnello, che nel frattempo è diventato generale, a ordinarne l’uccisione. Secondo la Commissione, nella strage sarebbero coinvolti anche il generale Alejandro Saavedra Hernández, che all’epoca era a capo della 35ima zona militare con sede nella capitale del Guerrero, Chilpancingo. Nel mirino della nuova inchiesta e prima ancora dei reportage della stampa messicana indipendente sono finiti in particolare i legami tra l’ex sindaco di Iguala Abarca e l’esercito: fu proprio grazie ai favori delle forze armate che l’esponente politico avrebbe potuto iniziare la sua ascesa dopo la realizzazione di un centro commerciale – denominato “Plaza Tamarindos” – su un terreno donato dai militari.
Il generale José Rodríguez Pérez
In manette l’ex procuratore generaleSulla base di quanto stabilito dalla Commissione, la magistratura ha emesso 64 mandati di arresto a carico dei responsabili dell’esercito implicati e di altri agenti di polizia; in manette, la scorsa settimana, è finito addirittura Murillo Karam, il procuratore generale al quale furono affidate le prime indagini e che si dimise due mesi dopo l’inizio dell’inchiesta, ritenuto complice dei depistaggi orchestrati per garantire l’impunità dei massimi responsabili della strage. Anche Tomás Zerón, un altro degli investigatori, è accusato di collegamenti con vari gruppi criminali e da tempo si è rifugiato in Israele.
L’inchiesta dell’epoca, rivelano le nuove indagini, mirarono a occultare il fatto che dentro i corpi di polizia delle città di Iguala, Huitzuco e Cocula esisteva un gruppo d’élite denominato “Los Bélicos”, di fatto una banda di sicari al servizio dei narcos e delle autorità politiche locali.
Il fatto che il governo di Andrés Manuel López Obrador abbia deciso di accusare esplicitamente i militari deve essere considerato un elemento rilevante, perché il presidente ha scelto le Forze Armate come uno dei pilastri della “Quarta trasformazione”, il suo progetto politico. Solo poche settimane fa Obrador ha assorbito la Guardia Nacional (così si chiama l’ex Polizia Federale dopo la rifondazione) nell’Esercito, istituzione che gestisce settori sempre più consistenti dell’economia e delle infrastrutture del paese. Ora occorrerà capire quanto a fondo vorrà andare il governo nell’accertamento delle responsabilità. Finora, infatti, sono stati rinvenute soltanto le tracce di tre degli studenti desaparecidos e il rapporto non chiarisce dove possano essere nascosti davvero i resti dei ragazzi assassinati.
Un video ritrovato dopo l’apertura degli archivi della Marina per ordine del governo messicano mostra infatti Murillo Karam e Zerón mentre di fatto fabbricano una scena del crimine presso la discarica di Cocula, accendendo un fuoco e spargendo delle buste di plastica (quelli in cui sarebbero stati trasportati i resti degli studenti).
“Verità e giustizia”I familiari delle vittime dell’eccidio, così come Amnesty International ed altre organizzazioni locali per i diritti umani, hanno apprezzato le nuove rivelazioni ma chiedono ora che il governo federale si impegni davvero a cercare e fornire prove certe sul destino degli studenti rapiti e uccisi e a risarcire i parenti e i sopravvissuti. «Continueremo a reclamare la restituzione dei 43. Non possiamo rinunciare alla lotta finchè non avremo una prova certa che riveli cosa è accaduto loro e dove si trovano. Sarebbe doloroso per le nostre famiglie conoscere il loro destino soprattutto se fossero morti, ma se ci forniranno una prova oggettiva, scientifica e certa ce ne andremo a casa a piangere e a vivere il nostro lutto» ha detto un rappresentante dei familiari nel corso dell’ultima manifestazione organizzata il 26 agosto nella capitale messicana dai parenti e dagli scampati dell’eccidio del 2014, alla quale si sono uniti studenti, professori e varie organizzazioni politiche e sociali.
In un intervento realizzato lunedì mattina, il presidente Obrador ha garantito che non ci sarà impunità per i responsabili dei crimini contro gli studenti di Ayotzinapa e per coloro che nascosero la verità. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI
comisionayotzinapa.segob.gob.m…
jornada.com.mx/notas/2022/08/2…
jornada.com.mx/2022/08/23/opin…
jornada.com.mx/2022/08/30/poli…
jornada.com.mx/notas/2022/08/2…
france24.com/es/am%C3%A9rica-l…
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Personalmente se aggiungere questa funzione signfica sacrificare ulteriormente la velocità con cui si accede ai nodi e vari sottonodi preferisco non averla...
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