Breyer on Europol lawsuit: Courts must protect us where politics is hostile to fundamental rights
The European Data Protection Supervisor (EDPS) is going to court over the EU’s attempt to retroactively legalise large amounts of data Europol illegally collected on unsuspected citizens, including mobile phone and air traveller data. The EDPS is reacting to the heavily criticised Europol reform, which has given the agency broad powers since June 2022.
Member of the European Parliament Patrick Breyer (Pirate Party), a substitute member of the Europol supervisory body JPSG in the European Parliament, welcomes the decision:
“The data protection commissioner’s action against Europol is important and without alternative. For years, the police authority has illegally collected massive amounts of data on millions of unsuspected individuals, which were transmitted by national authorities. And politicians believe that they can now legitimise this bulk collection mania with the stroke of a pen. The controversial reform has already given Europol far too much control over innocent EU citizens. Now, the deletion of the absurd amount of 4 petabytes of data will need to be ordered by the courts.It’s true that police cooperation in Europe is of vital importance, but it needs to respect the rule of law. After, due to these vast data pools, millions of innocent citizens risk being wrongfully suspected of a crime just because they were in the wrong place at the wrong time. I am confident that the courts will protect us where politics is acting hostile to fundamental rights.”
Russia: quel che c’è da sapere su coscritti, riservisti, mobilitazione
Vladimir Putin ha annunciato l'immediata «mobilitazione parziale» dei cittadini russi. Cosa significa? Cosa c'è da sapere sui riservisti? Chi sono? E cosa comporta la mobilitazione? Chi sono i coscritti?
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Putin: l’anti-Gorbaciov al lavoro
L'intera epoca di Putin sembra essere una consistente liquidazione dell'eredità storica di Gorbaciov. La Russia di oggi è tornata all'era pre-perestrojka, è caduta in una sintesi dell'impero sovietico e zarista
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Summit dei leader USA – Africa: passare dalle parole ai fatti
Come l'America può trarre il massimo dalla sua nuova strategia per l'Africa. Il successo del vertice richiede agli USA e all'Amministrazione Biden un cambio di prospettiva. Le azioni, non le parole, determineranno se il prossimo vertice USA-Africa e la più recente strategia americana per l'Africa ripristineranno le relazioni con il continente
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Russia tra autocrazia e dialettica dell’autodistruzione
La cosiddetta “Operazione militare speciale” del governo russo, un’invasione militare dell’Ucraina, è fallita: la realtà distorta in cui il governo russo si è trovato di sua spontanea volontà ha portato al fallimento. Ciò è avvenuto non solo a causa della resistenza ucraina e dell’aiuto della comunità internazionale, ma anche a causa dei problemi interni del […]
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Filippine: la corruzione come minaccia alla sicurezza nazionale
Nel suo discorso durante la 77a Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York City il 20 settembre 2022, il presidente filippino Ferdinand R. Marcos Jr. ha discusso come priorità la ripresa economica post-pandemia, il cambiamento climatico, lo sviluppo di tecnologie avanzate, la sicurezza alimentare e le principali preoccupazioni geopolitiche per la cooperazione globale al […]
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PODCAST. Russia-Ucraina, la guerra si allarga. Biden e la Nato danno altre armi a Zelensky, Putin richiama 300mila riservisti.
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Con il suo ultimo discorso Vladimir Putin ha aperto una nuova fase della guerra cominciata a fine febbraio con l’attacco delle sue truppe all’Ucraina.
Non è passato inosservato il suo riferimento alle armi nucleari: “Per difenderci useremo tutti i mezzi a nostra disposizione”. Dall’altra parte il presidente Usa Biden continua a rifornire Kiev di armi nell’intento, evidente sin dall’inizio, di combattere una guerra americana alla Russia attraverso le truppe ucraine.
Nessuno spiraglio diplomatico in vista.
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STORIA. La Palestina nell’età elisabettiana: la Gran Bretagna espierà finalmente i suoi peccati?
di Ilan Pappé*
(traduzione di Romana Rubeo)
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Mentre milioni di persone in Gran Bretagna e nel resto del mondo cantano le lodi della defunta Regina portandola ad esempio di moderazione, tatto e buon senso, le vittime del regime di colonizzazione e i “sudditi di second’ordine” in Gran Bretagna hanno una visione ben più complessa dei suoi settant’anni di regno.
Certo, la Regina non è stata la principale responsabile delle politiche attuate in questi decenni, ma a livello simbolico, ogni decisione è stata presa sotto l’egida di Sua Maestà, nel bene e nel male. Pertanto, è indubbio che un’era stia volgendo al termine e questo è sempre un buon momento per riflettere e stilare bilanci. Vorrei soffermarmi ad analizzare, in particolare, la politica britannica nei confronti della Palestina durante questi anni e le inevitabili conseguenze.
Il regno della Regina Elisabetta è iniziato dopo la Nakba. Pertanto, la vergognosa condotta britannica, che ha di fatto affrancato la pulizia etnica dei palestinesi nel 1948 ad opera di Israele, è riconducibile al periodo in cui suo padre era sovrano del Regno Unito. Elisabetta è ascesa al trono nel momento in cui il Partito Conservatore si stava riprendendo da una clamorosa e inaspettata sconfitta alle elezioni del 1945. I Laburisti erano al governo della Gran Bretagna durante il periodo della Nakba, la cui responsabilità ricade, dunque, anche su di loro.
Quando i Conservatori tornarono al governo, prima con Winston Churchill e poi con Anthony Eden, il governo di Sua Maestà scrisse un altro capitolo vergognoso nelle relazioni con la Palestina e il mondo arabo. La Gran Bretagna collaborò con Francia e Israele nel tentativo di rovesciare Gamal Abdul Nasser, sostenendo l’intransigente rifiuto israeliano a consentire il ritorno dei profughi palestinesi. Un rifiuto seguito dall’ordine di sparare a vista contro i profughi palestinesi che cercavano di recuperare i raccolti, i capi di bestiame e quant’altro fosse rimasto dopo il saccheggio israeliano delle campagne palestinesi nel 1948.
Il Partito Laburista, nel periodo compreso tra la Nakba e la Naksa (la guerra del giugno 1967), fu quasi sempre all’opposizione. Restò comunque il più fedele alleato di Israele, a livelli inimmaginabili persino oggi. Tale alleanza era siglata anche dal Consiglio dell’Unione Sindacale, che, insieme ad altri organismi socialisti, chiuse un occhio sulle sofferenze inflitte alla popolazione araba a partire dal 1948. Il governo militare israeliano si fondava su regolamenti di emergenza redatti durante il periodo del colonialismo britannico, che hanno generato, tra le tante atrocità, il massacro di Kafr Qassem nel 1956, preceduto dal massacro del villaggio di Qibya e seguito da quello del villaggio di Samu’.
A quei giorni, risale la fondazione di un nuovo gruppo, The Labour Friends of Israel (Gli Amici Laburisti di Israele), che divenne un pilastro della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Nel Paese c’era già la massiccia presenza di una ben affermata lobby filo-sionista, sin dal 1900, anno in cui il Quarto Congresso Sionista si riunì a Londra. In quell’occasione, si diede avvio alla costruzione di una potente lobby, che portò alla Dichiarazione di Balfour e dunque all’impegno formale da parte della Gran Bretagna di consegnare la Palestina al movimento sionista, a discapito della popolazione nativa palestinese.
È proprio in quel periodo che si avviano due processi che si riveleranno cruciali per creare uno scudo di immunità intorno a Israele, tale da consentire a Tel Aviv di proseguire nelle sue politiche di colonizzazione e sottrazione di terre in Palestina fino ai giorni nostri, nel silenzio della comunità internazionale.
Il primo è consistito nel reclutare rispettose istituzioni nate con lo scopo di difendere gli interessi della comunità anglo-ebraica alla causa sionista prima, e israeliana poi. La più importante tra queste era il Board of Deputies, nato come parlamento degli ebrei britannici e trasformato in ambasciata israeliana. Il secondo processo ha visto l’associazione tra una brillante carriera politica all’interno del Partito Laburista e l’appartenenza si Labour Friends of Israel. Essere un amico di Israele, in parole povere, avrebbe assicurato di fare strada all’interno del partito.
Il panorama politico elisabettiano cambiò nel 1967, quando divenne più complicato vendere al pubblico britannico il mito del mini-impero israeliano che, come un povero Davide, si batteva contro l’arabo Golia. Il 1967 vide un cambiamento sostanziale in tutti i partiti politici, anche in risposta al riemergere del movimento di liberazione palestinese. La spinta di solidarietà nei confronti dei palestinesi influenzò inevitabilmente le forze politiche.
Due politici britannici, uno laburista e uno conservatore, incarnano questo cambiamento di mentalità. Non sempre per una genuina spinta solidale, che pure era presente, ma anche perché capivano che un sostegno incondizionato a Israele avrebbe avuto un impatto negativo sull’immagine della Gran Bretagna nel mondo arabo.
Il primo era il Ministro degli Esteri laburista George Brown, il secondo il Ministro degli Esteri conservatore, Alex Douglass Home. Entrambi sono stati descritti dalla lobby con appellativi che sarebbero stati poi riservati al leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Il peccato originale di questi politici è stato quello di avere il coraggio di assumere una posizione equilibrata sulla questione palestinese, immediatamente bollata da Israele e dalla sua lobby come antisemita.
Brown chiese alle Nazioni Unite il ritiro totale di Israele dai Territori Occupati nel 1967 e accese i riflettori sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi. Douglass Home, in un celebre discorso ad Harrogate nel 1970, si spinse oltre, collocando la questione palestinese al centro del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano”. Sicuramente, le loro proposte erano distanti anni luce da ciò che sarebbe stato necessario per portare pace e giustizia alla Palestina storica, ma sicuramente le loro posizioni avrebbero potuto indirizzare il dibattito nella giusta direzione.
Più incisiva, negli anni successivi al 1967, è stata la campagna di solidarietà istituita dai nostri amici Ghada Karmi, Christopher Mayhew e Michael Adams, per citare solo alcuni tra coloro che aderirono, e che erano coinvolti nella politica britannica nelle tre formazioni principali: il partito laburista, quello conservatore e quello liberale.
Insieme agli ebrei antisionisti britannici ed ex israeliani, unitamente alla comunità palestinese in Gran Bretagna, hanno avuto il merito di sfidare una lobby potentissima, che aveva aggiunto alla struttura già esistente una folta schiera di nuovi gruppi, tra cui il Conservative Friends of Israel, il più potente a livello europeo. Oggi, l’80% dei parlamentari conservatori è membro di questa organizzazione.
Tony Blair
Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che Brown e Douglass Home non abbiano minimamente influito sulla politica britannica per quanto concerne la questione palestinese. In questo senso, ad avere un ruolo determinante sono stati i primi ministri, per lo più del Partito Laburista, come Harold Wilson, Tony Blair e Gordon Brown. Furono tutti premiati dal Jewish National Fund, che decise di piantare una pineta europea sulle rovine di tre villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, in segno di gratitudine verso i politici britannici filo-israeliani.
I tre erano, per certi versi, dei cristiani sionisti, che hanno lasciato carta bianca a Israele tra gli anni ‘70 e il 2010, periodo in cui l’ebraicizzazione della Cisgiordania e il progetto della Grande Gerusalemme, unitamente alle brutali aggressioni ai danni della Striscia di Gaza, hanno caratterizzato la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
La Gran Bretagna si è distinta per essere stata il membro meno filo-palestinese all’interno dell’Unione Europea, prima dell’aggiunta dei nuovi membri in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica. Ha sempre seguito la linea della disonesta intermediazione statunitense nel cosiddetto processo di pace, continuando a fornire a Israele armi e sostegno diplomatico, in un mondo in cui le sue ex colonie cercavano di imporre un’agenda di decolonizzazione che includeva anche la liberazione della Palestina.
*Questo articolo è apparso in esclusiva in lingua inglese sul Palestine Chronicle
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Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea, alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.
Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento internazionale riscontrato dopo l’aggressione militare da parte azera.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in gran parte militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud-est del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni compiute dagli azeri.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto di Baku non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco mediato da Mosca. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei violenti combattimenti.
La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, oltre che la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. Nella notte, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, accusato di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente anche a Stepanakert, la capitale del territorio a maggioranza armena assegnato nel 1923 all’Azerbaigian dalla dirigenza sovietica.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e non siano comunque sufficienti a evitare nuove pretese da parte del dittatore azero Ilham Aliyev.
Proteste contro Pashinyan a Erevan
Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenuti nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente la Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua, le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.
L’aggressione diretta ha stavolta consentito a Pashinyan – salito paradossalmente al potere nel 2018 in seguito ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’assistenza militare delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, infatti, prevede che se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata contraddittoria e molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non vuole inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari; soprattutto, non vuole rompere con la Turchia, grande sponsor di Baku, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, questa settimana i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.
La CSTO scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian (dove stazionano comunque alcune centinaia di militari russi dei 2000 schierati nel 2020). Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.
Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni commerciali contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di nuovi accordi su diversi fronti.
L’area di confine tra Tagikistan e Kirghizistan interessata dagli scontri
Duri scontri tra Tagikistan e KirghizistanI grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia – non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si stanno combattendo lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni. Già lo scorso anno, ad aprile, i due paesi si erano affrontati militarmente con un bilancio di 31 morti.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con parecchie decine di morti e feriti e decine di migliaia di abitanti sfollati a scopo precauzionale. Anche in questo caso, un primo cessate il fuoco raggiunto dopo alcune ore dall’inizio degli scontri è stato ben presto violato e i combattimenti sono ripresi con maggiore foga fino a ieri sera.
Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e incassare nuove conquiste territoriali.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai necessarie a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).
Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’UE.
In particolare l’amministrazione statunitense sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatica – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
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Storie che non finiscono
Se una mattina, come ogni mattina, prepari il tè per la colazione.
Se quella mattina il mare ti appare verticale e tanto ti riporta alla considerazione che sei tornata a casa e non c’è più il mare orizzontale della vacanza.
Se la routine dei gesti che non hanno più bisogno di essere pensati ti rassicura.
Se il profumo dei gelsomini non proviene più dalle notti stellate, ma dalla fumante tazza di tè.
Se pregustando la noia della quotidianità apri il tablet per leggere le ultime notizie e non ci puoi credere, ti blocchi.
È morto.
È morto lo scrittore spagnolo Javier Marías. Improvvisamente, per noi lettori che nulla sapevamo della breve polmonite assassina che lo ha ucciso. Non ci sono altri dettagli, non c’erano coccodrilli pronti, troppo in buona salute, troppo recente l’ultimo romanzo, l’ultimo premio, l’ultima intervista.
Cerchiamo, seguendo il suo suggerimento – “quando una persona muore in modo inatteso cerchiamo di ricostruire quel che ha detto l’ultima volta che l’abbiamo visto come se potessimo salvarlo con questo” – qual è stata l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, pur sapendo che non riusciremo a salvarlo lo stesso.
La mia ultima volta è stata alcuni mesi fa, con la lettura di Tomas Nevinson pubblicato in Italia all’inizio di quest’anno. Ricordo, questo sì, di avere chiuso il libro con un gesto definitivo e già nostalgico. Mi ero detta, lo so perché lo avevo appuntato, “com’è difficile lasciare andare un libro di Marías? È una vita, una storia che si chiude.”
Era il 22 maggio.
Chi ama un autore, come ogni amato, non può fare a meno delle sue parole e della sua presenza. Allora lo segue, fa ricerche su Google per sapere se sta per uscire un nuovo romanzo, e quando finalmente – perché Marías non è uno scrittore a getto continuo – l’editore annuncia la prossima uscita, la prenota. Anche se sa che vetrine di librerie reali e online saranno tappezzate dell’opera.
Perché di Javier Marías stiamo parlando.
Che dire? Da dove cominciare? Che cosa ricordare? Che cosa omettere? Cosa nascondere? Cosa evidenziare?
Ci tocca procedere senza sapere bene come fare; così come faceva lui quando si accingeva a scrivere una storia. “Non è che non sappia dove voglio andare, ma non conosco la strada da percorrere, comincio senza sapere molto di quello che racconterò, non cambio nulla dei miei romanzi, come non possiamo cambiare nulla del nostro passato.”
Possiamo cercare di salvarlo attraverso le sue storie, che si svelano attraverso ciò che accade e ciò che sarebbe potuto accadere, quello che è reale e quello che è mistero. Potremmo cercare di decifrare il tragico, l’imponderabile, gli enigmi della vita che mai si possono spiegare. Possiamo rassegnarci alle infinite letture che ogni evento e ogni persona nascondono. Possiamo tentare di capire il mondo nella sua indecifrabile complessità da un punto di vista etico, di fare del bene l’oggetto della narrazione anche se sappiamo che difficilmente potremmo raggiungerlo.
Oppure possiamo tentare la strada seguendo i suoi personaggi, quelli che per la lunga frequentazione (tre anni mediamente per completare un romanzo) diventavano suoi amici, persone sulle quali esercitava una capacità decisionale impossibile in qualsiasi altra circostanza o situazione. Uomini e donne ai quali affida una storia nella sofferta convinzione che non c’è nulla di certo, che quello che può proporre è solo un punto di vista e che anch’esso non è univoco. Tomas Nevinson, Berta Isla, Julianin, Marta e Victor, Tupra, Pérez Nuix, Sir Peter Wheeler, dall’inizio alla fine della narrazione si contraddicono di fronte ad eventi che potrebbero essere così come appaiono o esattamente al contrario. Li ritroviamo dietro una parete, una porta dove, casualmente o volutamente, finiscono per origliare una contrastante verità che propone una visione del tutto nuova o semplicemente interrogativa di fatti che sembravano certezze.
O ancora possiamo salvarlo lasciandoci ammaliare da una scrittura nella quale ci si perde come in un oceano senza rive o approdi. Un discorso fatto di un fraseggio colto, ricco di citazioni – su tutte quelle shakespeariane – di digressioni che affiancano la storia non sostituendosi ad essa ma divenendo a loro volta storia.
“La mia intenzione, il mio desiderio, è che tutte le digressioni dei miei libri siano abbastanza interessanti in sé stesse da far soffermare il lettore”, quelle digressioni che spesso servono a rompere una tensione narrativa altrimenti insostenibile, a riportare alla realtà la vita, già di suo inspiegabilmente tragica.
Ecco allora un fiorire di indicativi e condizionali, di presenti e passati prossimi e futuri anteriori che coniugano il grande mistero del Tempo, le ombre che in esso si nascondono, le maschere multiple che consegna ad ognuno di noi che tanto poco sappiamo di noi stessi.
Sorseggio il mio tè e penso che sì, forse queste sono strade praticabili per non perdere un autore che molto amiamo, e tuttavia so che ce ne deve essere ancora una, o tante, da cercare nei suoi libri che ora affiancati nello scaffale mi aspettano.
La storia non è finita.
Alcune storie non muoiono mai.
Patologia: stati di sgomento, dolore, nostalgia.
Terapia: leggere e rileggere e leggere e rileggere tutti i libri di Javier Marías, che non sono molti ma i necessari, lasciandosi aiutare da un buon tè per mandare giù il groppo in gola.
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"A Scuola di OpenCoesione", il progetto di didattica innovativa rivolto alle scuole secondarie di primo e secondo grado. La domanda di partecipazione dovrà essere presentata entro il 24 ottobre.
Info ▶️ miur.
Gulasch
Squisito. Anzi: squisita, perché è una zuppa. La sua origine non è geograficamente esclusiva, perché i mandriani la cucinavano spostandosi. Ma se si dice Gulasch si pensa all’Ungheria. La carne che si usava non era certo la migliore e le spezie abbondanti ne celavano l’odore. Meglio guardare dentro la pentola, quando anche da noi si parla di zuppe all’ungherese.
Perché la destra italiana, in quel caso accomunando Fratelli d’Italia e Lega, prese Orbán in gran simpatia? (Berlusconi anche, ma poi il Partito popolare europeo lo buttò fuori, e già questo dice molto). Orbán è un nazionalista, del resto figlio della ritrovata indipendenza, dopo la fine dell’impero sovietico, e vive a cavallo fra l’Ue e l’Est post sovietico, il che, paradossi della storia, lo rende simpatico a chi ammira in chiave neo nazionalista e spirituale il risorgere dell’impero russo.
Da Orbán, però, le nostre destre potrebbero prendere anche i buoni e non solo i cattivi esempi: lui il debito pubblico lo fece scendere, non si mise a regalare soldi e pensioni, portandolo fino al 66% del prodotto interno lordo. Poi la pandemia lo ha fatto risalire, ma è avvenuto ovunque. Vuole bloccare gli immigrati, epperò ne ha dentro assai più di noi. Va a finire che gli diventa antipatico.
Dopo l’ultima vittoria elettorale s’è identificato con il potere. Per non perderlo (a Budapest l’opposizione è significativa), ha deciso di usare i soldi pubblici per finanziare l’informazione amica, dedicando i tribunali all’altra. I tribunali li ha trasformati e assoggettati. Ragioni per cui l’Unione europea gli dice: o raddrizzi o te ne vai. Lui sa che gli ungheresi non lo vorrebbero, quindi promette di raddrizzare.
Meloni, però, disse che non si deve osteggiarlo, dato che è legittimo perché eletto. E questa è una curiosa obiezione: la democrazia non è votocrazia, è il voto, certo, ma anche lo Stato di diritto. Varrà la pena ricordare che Hitler e Mussolini furono eletti. Lenin e Mao manco quello.
Per anni la destra e la sinistra radicali intonarono la gnagnera dell’Europa tutta mercato e priva di anima politica. Era falso già allora, ma eccoli serviti: l’Ue boccia Orbán per ragioni politiche, non economiche. E ora gli stessi dicono: ma questa è un’operazione politica. Ragazzi, l’avete reclamata fino a sfinirci.
Certo. Perché non esiste libertà, democrazia e mercato dove non c’è lo Stato di diritto. E dicono anche che minacciare il ritiro dei fondi è un “ricatto”, il che tradisce l’idea di un’Europa che si reclama solidale e unita quando si tratta di avere, ma la si vuole ritratta e inerte quando si deve controllare. Troppo fessa per essere presa in considerazione, un’idea simile.
E si arriva alle ultime due cose. Salvini dice che dopo la guerra ha cambiato idea su Putin. Interessante, ma siamo a settembre ed è cominciata a Febbraio. E quella è l’ultima, perché la Crimea se la prese nel 2014. Quella contro la Georgia è del 2008. Tutto prima dell’amore e delle oscene magliettine. Dice Meloni che spera la sua vittoria spiani la strada a Vox, in Spagna. La fratellanza è una bella cosa, ma le amicizie e colleganze dell’uno e dell’altra, che litigano su tutto, a sommarle in tutta Ue ci restano teste e lische. Che manco il Gulasch ci fai.
Dice Marcello Pera, già presidente del Senato, eletto con Berlusconi, e ora candidato con FdI, passata l’infatuazione per Renzi, che ci vuole il presidenzialismo perché: <<vuol dire trasparenza: chi vince governa (…) e lo fa per il tempo fissato; e vuol dire bipolarismo>>. Dove? Mai sentito parlare delle elezioni di medio termine in Usa o della coabitation in Francia, dove morirono i partiti?
Gli elettori italiani sono liberi. Ogni tentativo di condizionamento o induzione è un boomerang. Ma i problemi sono tre: la confusione fra elezione e libertà di agire a piacimento; quella fra governare e comandare; le alleanze europee imbarazzanti. Serve a nulla straparlare del ventennio del secolo scorso, si vorrebbe sapere qualche cosa di più sul biennio a venire.
L'articolo Gulasch proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
USA vs Russia: la pace ha fretta
Le parole di Joe Biden sul nucleare sono pietre su una speranza di pacificazione universale. La Russia indebolita dagli Stati Uniti preoccupa Cina e India
L'articolo USA vs Russia: la pace ha fretta proviene da L'Indro.
STORIA. La Palestina nell’età elisabettiana: la Gran Bretagna espierà finalmente i suoi peccati?
di Ilan Pappé*
(traduzione di Romana Rubeo)
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Mentre milioni di persone in Gran Bretagna e nel resto del mondo cantano le lodi della defunta Regina portandola ad esempio di moderazione, tatto e buon senso, le vittime del regime di colonizzazione e i “sudditi di second’ordine” in Gran Bretagna hanno una visione ben più complessa dei suoi settant’anni di regno.
Certo, la Regina non è stata la principale responsabile delle politiche attuate in questi decenni, ma a livello simbolico, ogni decisione è stata presa sotto l’egida di Sua Maestà, nel bene e nel male. Pertanto, è indubbio che un’era stia volgendo al termine e questo è sempre un buon momento per riflettere e stilare bilanci. Vorrei soffermarmi ad analizzare, in particolare, la politica britannica nei confronti della Palestina durante questi anni e le inevitabili conseguenze.
Il regno della Regina Elisabetta è iniziato dopo la Nakba. Pertanto, la vergognosa condotta britannica, che ha di fatto affrancato la pulizia etnica dei palestinesi nel 1948 ad opera di Israele, è riconducibile al periodo in cui suo padre era sovrano del Regno Unito. Elisabetta è ascesa al trono nel momento in cui il Partito Conservatore si stava riprendendo da una clamorosa e inaspettata sconfitta alle elezioni del 1945. I Laburisti erano al governo della Gran Bretagna durante il periodo della Nakba, la cui responsabilità ricade, dunque, anche su di loro.
Quando i Conservatori tornarono al governo, prima con Winston Churchill e poi con Anthony Eden, il governo di Sua Maestà scrisse un altro capitolo vergognoso nelle relazioni con la Palestina e il mondo arabo. La Gran Bretagna collaborò con Francia e Israele nel tentativo di rovesciare Gamal Abdul Nasser, sostenendo l’intransigente rifiuto israeliano a consentire il ritorno dei profughi palestinesi. Un rifiuto seguito dall’ordine di sparare a vista contro i profughi palestinesi che cercavano di recuperare i raccolti, i capi di bestiame e quant’altro fosse rimasto dopo il saccheggio israeliano delle campagne palestinesi nel 1948.
Il Partito Laburista, nel periodo compreso tra la Nakba e la Naksa (la guerra del giugno 1967), fu quasi sempre all’opposizione. Restò comunque il più fedele alleato di Israele, a livelli inimmaginabili persino oggi. Tale alleanza era siglata anche dal Consiglio dell’Unione Sindacale, che, insieme ad altri organismi socialisti, chiuse un occhio sulle sofferenze inflitte alla popolazione araba a partire dal 1948. Il governo militare israeliano si fondava su regolamenti di emergenza redatti durante il periodo del colonialismo britannico, che hanno generato, tra le tante atrocità, il massacro di Kafr Qassem nel 1956, preceduto dal massacro del villaggio di Qibya e seguito da quello del villaggio di Samu’.
A quei giorni, risale la fondazione di un nuovo gruppo, The Labour Friends of Israel (Gli Amici Laburisti di Israele), che divenne un pilastro della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Nel Paese c’era già la massiccia presenza di una ben affermata lobby filo-sionista, sin dal 1900, anno in cui il Quarto Congresso Sionista si riunì a Londra. In quell’occasione, si diede avvio alla costruzione di una potente lobby, che portò alla Dichiarazione di Balfour e dunque all’impegno formale da parte della Gran Bretagna di consegnare la Palestina al movimento sionista, a discapito della popolazione nativa palestinese.
È proprio in quel periodo che si avviano due processi che si riveleranno cruciali per creare uno scudo di immunità intorno a Israele, tale da consentire a Tel Aviv di proseguire nelle sue politiche di colonizzazione e sottrazione di terre in Palestina fino ai giorni nostri, nel silenzio della comunità internazionale.
Il primo è consistito nel reclutare rispettose istituzioni nate con lo scopo di difendere gli interessi della comunità anglo-ebraica alla causa sionista prima, e israeliana poi. La più importante tra queste era il Board of Deputies, nato come parlamento degli ebrei britannici e trasformato in ambasciata israeliana. Il secondo processo ha visto l’associazione tra una brillante carriera politica all’interno del Partito Laburista e l’appartenenza si Labour Friends of Israel. Essere un amico di Israele, in parole povere, avrebbe assicurato di fare strada all’interno del partito.
Il panorama politico elisabettiano cambiò nel 1967, quando divenne più complicato vendere al pubblico britannico il mito del mini-impero israeliano che, come un povero Davide, si batteva contro l’arabo Golia. Il 1967 vide un cambiamento sostanziale in tutti i partiti politici, anche in risposta al riemergere del movimento di liberazione palestinese. La spinta di solidarietà nei confronti dei palestinesi influenzò inevitabilmente le forze politiche.
Due politici britannici, uno laburista e uno conservatore, incarnano questo cambiamento di mentalità. Non sempre per una genuina spinta solidale, che pure era presente, ma anche perché capivano che un sostegno incondizionato a Israele avrebbe avuto un impatto negativo sull’immagine della Gran Bretagna nel mondo arabo.
Il primo era il Ministro degli Esteri laburista George Brown, il secondo il Ministro degli Esteri conservatore, Alex Douglass Home. Entrambi sono stati descritti dalla lobby con appellativi che sarebbero stati poi riservati al leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Il peccato originale di questi politici è stato quello di avere il coraggio di assumere una posizione equilibrata sulla questione palestinese, immediatamente bollata da Israele e dalla sua lobby come antisemita.
Brown chiese alle Nazioni Unite il ritiro totale di Israele dai Territori Occupati nel 1967 e accese i riflettori sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi. Douglass Home, in un celebre discorso ad Harrogate nel 1970, si spinse oltre, collocando la questione palestinese al centro del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano”. Sicuramente, le loro proposte erano distanti anni luce da ciò che sarebbe stato necessario per portare pace e giustizia alla Palestina storica, ma sicuramente le loro posizioni avrebbero potuto indirizzare il dibattito nella giusta direzione.
Più incisiva, negli anni successivi al 1967, è stata la campagna di solidarietà istituita dai nostri amici Ghada Karmi, Christopher Mayhew e Michael Adams, per citare solo alcuni tra coloro che aderirono, e che erano coinvolti nella politica britannica nelle tre formazioni principali: il partito laburista, quello conservatore e quello liberale.
Insieme agli ebrei antisionisti britannici ed ex israeliani, unitamente alla comunità palestinese in Gran Bretagna, hanno avuto il merito di sfidare una lobby potentissima, che aveva aggiunto alla struttura già esistente una folta schiera di nuovi gruppi, tra cui il Conservative Friends of Israel, il più potente a livello europeo. Oggi, l’80% dei parlamentari conservatori è membro di questa organizzazione.
Tony Blair
Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che Brown e Douglass Home non abbiano minimamente influito sulla politica britannica per quanto concerne la questione palestinese. In questo senso, ad avere un ruolo determinante sono stati i primi ministri, per lo più del Partito Laburista, come Harold Wilson, Tony Blair e Gordon Brown. Furono tutti premiati dal Jewish National Fund, che decise di piantare una pineta europea sulle rovine di tre villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, in segno di gratitudine verso i politici britannici filo-israeliani.
I tre erano, per certi versi, dei cristiani sionisti, che hanno lasciato carta bianca a Israele tra gli anni ‘70 e il 2010, periodo in cui l’ebraicizzazione della Cisgiordania e il progetto della Grande Gerusalemme, unitamente alle brutali aggressioni ai danni della Striscia di Gaza, hanno caratterizzato la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
La Gran Bretagna si è distinta per essere stata il membro meno filo-palestinese all’interno dell’Unione Europea, prima dell’aggiunta dei nuovi membri in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica. Ha sempre seguito la linea della disonesta intermediazione statunitense nel cosiddetto processo di pace, continuando a fornire a Israele armi e sostegno diplomatico, in un mondo in cui le sue ex colonie cercavano di imporre un’agenda di decolonizzazione che includeva anche la liberazione della Palestina.
*Questo articolo è apparso in esclusiva in lingua inglese sul Palestine Chronicle
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Hezbollah, il «guardiano» del gas del Libano
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 15 settembre 2022 – Il sogno dei libanesi è sfruttare il giacimento sottomarino di gas di Karish che lascia immaginare entrate per miliardi di dollari. La realtà è Beirut per metà al buio per la scarsa elettricità disponibile, gli aumenti del prezzo del carburante, l’inflazione fuori controllo e il crollo continuo della lira scambiata ieri a 36mila per un dollaro. E chi i dollari non li ha, gira avendo in tasca dozzine di banconote tenute strette da un elastico, necessarie anche solo per comprare qualcosa al minimarket sotto casa. Ammesso che si abbiano lire da spendere. Il 78% dei libanesi vive in condizioni di povertà. Jihad, il taxista che ci porta dal quartiere centrale di Hamra a quello periferico di Haret Hreik sente sulle sue spalle tutto il peso della crisi. «Ormai non si vive più, ogni giorno aumenta il prezzo della benzina e la lira non vale nulla. Se solo potessi partire e andare via da questo paese di politici falliti, tutti senza eccezione», ci dice dando una accelerata alla sua vecchia auto. Due giorni fa è arrivato un altro pugno allo stomaco della maggioranza dei libanesi. La Banca centrale ha revocato i sussidi per le importazioni di carburante facendo schizzare verso l’alto il prezzo di benzina e gasolio.
Tra una maledizione scagliata a questo o quel politico, Jihad ci fa notare che le lunghe code e gli ingorghi nelle strade di Beirut sono meno intensi di qualche tempo fa. «Muoversi in auto costa troppo, fare rifornimento non è più per tutti», ci spiega lasciandoci davanti all’ufficio del religioso Ali Daamoush, vicepresidente dell’esecutivo del movimento sciita Hezbollah. Esponente tra i più noti dell’ala politica del movimento sciita, Daamoush ha accettato di rispondere alle nostre domande sull’andamento della trattativa indiretta che il Libano sta portando avanti, con la mediazione statunitense, per la definizione del confine marittimo con Israele. Tel Aviv è decisa ad avviare nelle acque tra i due paesi lo sfruttamento del giacimento sottomarino di Karish entro settembre. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha reagito a questa intenzione minacciando in una intervista a Mayadeen Tv che «Se l’estrazione di petrolio e gas dal giacimento di Karish inizierà a settembre prima che il Libano ottenga i suoi diritti, allora faremo di tutto per raggiungere i nostri obiettivi…Nessuno desidera la guerra e la decisione è nelle mani di Israele, non nelle nostre». Qualche settimana fa, Hezbollah ha inviato droni – abbattuti quasi subito – verso la nave mandata da Israele per effettuare i primi rilievi a Karish. Un messaggio inequivocabile.
Daamoush smorza l’ottimismo generato dalle ultime dichiarazioni del mediatore Usa, Amos Hochstein sui progressi fatti dalla trattativa. «Si parla di segnali positivi – ci dice – ma dobbiamo vedere come andranno le cose alla fine, ci sono punti molto importanti da discutere. Noi restiamo fermi sulla nostra posizione, a ciò che ha detto il segretario Nasrallah sui diritti irrinunciabili del Libano». Quindi aggiunge di non fidarsi della mediazione statunitense: «Non vediamo negli Stati uniti una parte affidabile e credibile. Stanno sempre dalla parte di Israele. Hochstein ci offre condizioni che sono sempre favorevoli per Israele».
Il movimento sciita Hezbollah – sostenuto dall’Iran e forte di un’ala militare ben addestrata ed armata di decine di migliaia di razzi – malgrado il calo registrato dal suo schieramento politico («8 marzo») alle ultime elezioni, resta la forza più influente nella politica libanese. E non manca di far sentire il suo peso recitando, con l’approvazione di tanti libanesi e la disapprovazione di molti altri, il ruolo di unico difensore degli interessi economici del paese. Dall’esito del negoziato dipenderà la possibilità del Libano di poter sfruttare riserve di gas sottomarino al momento di entità incerta. La differenza se sarà deciso un confine marittimo piuttosto di un altro, è di miliardi di dollari, vitali per un paese che ha disperato bisogno di valuta pregiata per stabilizzare la lira e ridare fiducia ai libanesi che nel 2019 hanno manifestato in massa contro corruzione, malgoverno e l’intera classe politica.
Nell’ultimo periodo si sono intensificati raduni e manifestazioni, anche in mare, di libanesi che chiedono al governo uscente di adottare una posizione più ferma tale da garantire al paese una quota maggiore di riserve di gas. Daamoush rispondendo a una nostra domanda afferma che Hezbollah rispetterà le decisioni del governo. Poi avverte: «Pensiamo che il governo non rinuncerà ai diritti del popolo libanese. Se invece vedremo che non ci saranno benefici per la nostra gente allora faremo sentire forte la nostra voce». E ancora: «Se Israele estrarrà gas dalla zona contesa senza un accordo, allora difenderemo i nostri diritti. In quel caso sarà Israele che avrà scelto la guerra non noi». Ad agosto anche il premier israeliano Yair Lapid ha usato toni bellicosi avvertendo che il suo governo non esiterà a proteggere gli interessi del paese.
Il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie in Libano è parallelo allo stallo politico. Il premier incaricato Najib Mikati non è ancora riuscito a formare una maggioranza. Inoltre, il 31 ottobre scadrà il mandato del presidente Aoun e al momento non c’è ancora accordo sul nome del futuro capo dello Stato. Si pensa che in assenza di un nuovo gabinetto Aoun si rifiuterà di lasciare il palazzo di Baabda. I cittadini libanesi intanto già guardano con preoccupazione all’inverno che si avvicina con il carburante alle stelle e la poca elettricità disponibile. Charbel, nel suo piccolo negozio di souvenir, pensa di procurarsi quanta più legna da ardere possibile per la sua vecchia stufa. «Da anni era solo decorativa lì a casa ma ora dovrà riscaldarci per tutto l’inverno. Trovare la legna però non è facile» dice con un mezzo sospiro. Come lui proveranno a fare decine di migliaia di libanesi. Il paese famoso per i suoi cedri e gli alberi secolari ora rischia anche il disboscamento. «Non ci hanno lasciato altra scelta, comprare il gasolio ti porta via quanto spendi per sfamarti un mese», si giustifica Charbel. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto
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L’obsolescenza degli smartphone e la raccolta massiccia di dati mettono in pericolo il futuro del digitale
Vorrei segnalare un altro articolo molto interessante pubblicato da Basta!, media francese indipendente e autofinanziato (se potete, sostenetelo da qui: basta.media/don):
“L’obsolescenza degli smartphone e la raccolta massiccia di dati mettono in pericolo il futuro del digitale” di Emma Bougerol:
basta.media/l-obsolescence-des…
Questo è il sommario che apre l’articolo:
“Dai minerali indispensabili per gli smartphone all'energia consumata dai data center, la tecnologia digitale ha un pesante impatto ecologico. Anche in questo caso la sobrietà è essenziale, ma non passa necessariamente dalla riduzione dell'uso di Internet”.
Qui sotto trovate una sintesi dei temi trattati, l’articolo è distribuito con una licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 che non ne permette la traduzione.
L’articolo mette in evidenza alcuni dati dell’impatto della tecnologia digitale sull’ambiente: questa rappresenta in Francia il 10% del consumo di elettricità e il 2,5% dell'impronta di carbonio che sintetizzata in un’immagine piuttosto efficace è l’equivalente delle emissioni di CO2 di 12 milioni di automobili, che percorrano ciascuna 12.000 km all'anno.
L’articolo sottolinea poi come la valutazione dell’impatto ambientale debba tener conto di molteplici fattori: il consumo di tutti i dispositivi usati dagli utenti, ma anche i consumi della rete che trasporta questa enorme quantità di dati e interazioni e quello dei data center che li archiviano.
Il testo prosegue ricordando come la produzione dei terminali degli utenti, televisori, computer, smartphone costituisca la parte maggiore e più dannosa dell’impatto ambientale del digitale (esaurimento delle risorse, emissioni, consumo di energia, produzione di rifiuti).
Buona parte di questi danni ambientali colpiscono soprattutto i paesi in via di sviluppo in cui si estraggono i metalli preziosi e quelli in cui vengono scaricati i nostri rifiuti elettronici.
A questo aspetto si aggiunge l’esaurimento di alcuni minerali necessari per la costruzione dei dispositivi, ad esempio litio e cobalto per le batterie o il tantalio per i circuiti degli smartphone.
Anche in questo caso non è possibile pensare che la quantità di dispositivi prodotti possa essere infinita.
Un altro grave problema affrontato è quello dell’obsolescenza dei dispositivi: in Francia la vita media di uno smartphone è stimata tra i due e i tre anni, è chiaro che per ridurre l’impatto ambientale sarebbe necessario aumentare e non di poco la durata dell’utilizzo dei dispositivi, secondo un esperto dell’associazione GreenIT.fr si dovrebbe arrivare ad 8 anni per gli smartphone, 10-15 anni per i computer e 20 per i televisori.
La conclusione dell’articolo si apre con un titolo un po’ forte, "Eliminiamo il digitale ogni volta che è possibile” che però viene meglio articolato nelle righe successive: non si tratta di fermare del tutto lo sviluppo della tecnologia digitale, ma si tratta di optare per scelte “low tech” che pratichino anche alternative analogiche là dove disponibili. Questo processo non può essere un percorso individuale è fondamentale un intervento politico dello stato che deve regolamentare in qualche modo la vendita e la distribuzione dei prodotti digitali.
L’obsolescence des smartphones et la collecte massive de données mettent en péril l’avenir du numérique
Le numérique représente 10% de la consommation d'électricité en France, et 2,5% de ses émissions de CO2.Basta!
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Oscar, La Stranezza del palermitano Andò tra i 12 film italiani in gara per la candidatura
C'è anche il film "La Stranezza" del regista palermitano Roberto Andò, con protagonisti Toni Servillo e il duo pure palermitano formato da Salvo Ficarra e Valentino Picone nell'elenco delle 12 pellicole che concorreranno alla designazione del titolo candidato a rappresentare l'Italia nella selezione per la categoria International Feature Film Award dell'edizione numero 95 dell'Academy Awards, il prestigioso Premio Oscar.
gds.it/foto/cinema/2022/09/21/…
Oscar, La Stranezza del palermitano Andò tra i 12 film italiani in gara per la candidatura
C'è anche il film "La Stranezza" del regista palermitano Roberto Andò , con protagonisti Toni Servillo e il duo pure palermitano formato da Salvo Ficarra e Valentino...redazione (Giornale di Sicilia)
Ucraina: i referendum dinamitardi
I referendum aprono la strada all'annessione formale di aree di territorio ucraino da parte della Russia. Se Mosca includesse le quattro regioni alla Russia, l'Ucraina, se proseguisse con la guerra, nel tentativo di riprendersi quelle aree, combatterebbe contro la Russia stessa, aumentando il rischio di un confronto militare diretto tra la Russia e la NATO
L'articolo Ucraina: i referendum dinamitardi proviene da L'Indro.
Coma la Russia legge il conflitto nel Nagorno-Karabakh
Nelle prime ore del mattino di martedì 13 settembre, l’Azerbaigian ha lanciato un aggressivo assalto militare lungo i confini della Repubblica armena. Gli osservatori della politica nello spazio post-sovietico possono essere perdonati per aver pensato che il centro dei combattimenti fosse la regione contesa e abitata dagli armeni del Nagorno-Karabakh (conosciuta anche come Artsakh dagli […]
L'articolo Coma la Russia legge il conflitto nel Nagorno-Karabakh proviene da L'Indro.
L’imminente ed autoinflitta crisi energetica della Germania (e dell’Europa)
Alla fine di settembre 2021, il progetto Nord Stream 2 era una realtà dopo molti anni di incertezza. A quel tempo, c’erano solo pochi altri ostacoli normativi per la Germania e la Russia per siglare l’accordo sul gasdotto tanto atteso e molto controverso. Il raggiungimento di una tale impresa sarebbe stata una pietra miliare nella […]
L'articolo L’imminente ed autoinflitta crisi energetica della Germania (e dell’Europa) proviene da L'Indro.
Salari arretrati in Russia: rischio campo minato per Putin
Probabilmente stiamo assistendo solo all'inizio di un'ondata di arretrati salariali e crescente disoccupazione. Se l'opinione pubblica russa perde la fiducia sul fatto che il proprio Paese vinca la guerra, il Paese sarà un campo minato politico
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Regno Unito: frammentazione e declino sotto il governo conservatore
Dopo 12 tristi anni di vari governi conservatori, il Regno Unito è in ginocchio. La democrazia è sotto attacco come mai prima d'ora. Polarizzazione sociale, isolazionismo e tribalismo rabbioso dominano. Ma ecco anche i movimenti di ribellione sociale
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Le radici dell’equilibrio tra Turchia e Russia sull’Ucraina
Con le elezioni incombenti, Erdogan sa che deve mantenere intatte le relazioni economiche di Ankara con Mosca, il rischio è la sconfitta elettorale. Così, la posizione della Turchia in Ucraina è direttamente legata al suo futuro politico. Il suo è un difficile atto di equilibrismo che confeziona come 'autonomia strategica' della Turchia in politica estera
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L’educazione come arma: la Russia prende di mira gli scolari nell’Ucraina occupata
L’Ucraina ha iniziato un nuovo anno accademico il 1 settembre con il Paese ancora impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro l’invasione russa in corso. Per milioni di scolari ucraini, ciò significava un ritorno in classe con la prospettiva che le lezioni venissero regolarmente interrotte dalle sirene dei raid aerei. Le scuole senza adeguati […]
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La sovranità perduta e una politica evaporata
La conferma dello scontro culturale e di valori è rappresentato dalla guerra in Ucraina, dove il vero scontro è la definizione degli equilibri globali tra il modello occidentale e quello alternativo proposto dai Paesi ex-emergenti. Lo scontro è non solo politico, ma anche finanziario e funzionale a togliere al dollaro il ruolo di moneta globale
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MATTEO COLOMBO (ASSO DPO) ‘SANITÀ DIGITALE, PER LA BANCA DATI SI ASCOLTI IL GARANTE PRIVACY’
Matteo Colombo, Ad di Labor Project e presidente di Asso DPO, analizza i motivi della doppia bocciatura da parte del Garante Privacy dei decreti sulla banca dati Ecosistema Dati Sanitari (EDS) e quello sul Fascicolo sanitario elettronico (Fse).
Il Garante Privacy ha recentemente bocciato i decreti sulla banca dati Ecosistema Dati Sanitari (EDS) e quello sul Fascicolo sanitario elettronico (Fse). Abbiamo chiesto un parere al riguardo a Matteo Colombo, Ad Labor Project e presidente di Asso DPO.
privacyitalia.eu/matteo-colomb…
Matteo Colombo (Asso DPO) ‘Sanità digitale, per la banca dati si ascolti il Garante Privacy’
Matteo Colombo, Ad di Labor Project e presidente di Asso DPO, analizza i motivi della doppia bocciatura da parte del Garante Privacy dei decreti... Leggi tuttoRedazione Privacy Italia (Privacy Italia)
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Belgio: anche i magistrati ‘provano’ il carcere
Una buona idea, un ottimo suggerimento, viene dal Belgio: sono stati ‘incarcerati’ 55 magistrati tra pubblici ministeri e giudici che volontariamente hanno scelto di sperimentare la vita dei detenuti. L’istituto di pena che si trova nella zona di Bruxelles è il carcere di Haren, una nuova strutturacon una capacità di 1.190 detenuti che saràinaugurata il 30 settembre. L’obiettivo è stato […]
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Briefing online dell’inviato speciale degli USA Mike Hammer per il Corno d’Africa [Trascrizione]
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U.S DIPARTIMENTO DI STATO – 20 settembre 2022
Briefing online speciale
L’ambasciatore Mike Hammer
Inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa
20 settembre 2022
Hub dei media regionali dell’Africa
MODERATORE: Buon pomeriggio a tutti dall’Africa Regional Media Hub del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Vorrei dare il benvenuto ai nostri partecipanti da tutto il continente e ringraziare tutti voi per aver preso parte a questa discussione. Oggi siamo molto lieti di essere raggiunti dall’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Mike Hammer. L’inviato speciale Hammer discuterà del suo recente viaggio nella regione a sostegno degli sforzi dell’Unione africana per avviare colloqui volti a porre fine al conflitto nell’Etiopia settentrionale. Si unisce a noi da New York City.
Inizieremo la telefonata di oggi con il commento di apertura dell’inviato speciale Hammer, quindi passeremo alle tue domande. Cercheremo di raggiungerne il maggior numero possibile durante il tempo che abbiamo.
Come promemoria, il briefing di oggi è registrato e, con ciò, lo consegnerò all’inviato speciale Hammer. Penso che tu sia muto.
AMBASCIATORE HAMMER: Grazie. Spero che ora tu possa sentirmi. Un piccolo difetto tecnico. Grazie mille, Tiffany, per aver organizzato questa chiamata al centro multimediale e grazie a tutti per aver partecipato, qui negli Stati Uniti, in tutto il continente o ovunque voi siate. Spero che nel corso del mio mandato avrò la possibilità di incontrare alcuni di voi se non tutti di persona. Il lavoro che svolgete come giornalisti è fondamentale e importante non solo per il continente ma per la democrazia in generale, e apprezzo molto il vostro interesse.
Come accennato da Tiffany, parlerò del mio recente viaggio, ma volevo solo iniziare, poiché questa è la mia prima opportunità per impegnarmi con tutti voi, per notare che la politica degli Stati Uniti nei confronti del continente e dell’Unione africana è stata definita molto chiaramente dal presidente Biden nel suo video al vertice dell’UA nel febbraio del 2021, dove ha affermato molto chiaramente che gli Stati Uniti vogliono collaborare ed essere di sostegno all’Unione africana, ai nostri partner africani, poiché si cercano soluzioni africane per affrontare l’Africa i problemi.
Probabilmente avete letto con grande interesse la recente Strategia di sicurezza nazionale per l’Africa, pubblicata ad agosto. E quindi il mio lavoro come inviato speciale è quello di rafforzare ciò nelle attività in cui gli Stati Uniti sono coinvolti nel Corno d’Africa.
Come forse saprai, questo recente viaggio è il mio terzo viaggio nella regione da quando ho iniziato come inviato speciale. Sono stato in grado di andare a giugno in Etiopia, e poi ho viaggiato in – beh, in Egitto, in Etiopia e negli Emirati Arabi Uniti, e ho anche avuto alcuni impegni sudanesi su GERD nel mio secondo viaggio in luglio-agosto, e poi sono appena tornato da un viaggio iniziato il 5 settembre e terminato lo scorso venerdì 16.
Quest’ultimo viaggio è stato molto incentrato sul tentativo di convincere le parti, l’autorità regionale del Tigrano e il governo dell’Etiopia, a smettere di combattere e ad accettare e partecipare a un processo di colloqui di pace guidato dall’UA, come è nostra ferma convinzione – e uno che è stato affermato dalle parti – che non esiste una soluzione militare al conflitto. Il popolo etiope ha già sofferto troppo ed è di fondamentale importanza che le parti partecipino, ancora una volta, a un solido processo guidato dall’Africa. Potrebbero esserci domande su come sta prendendo forma, ma il mio impegno diplomatico si è concentrato principalmente sul tentativo di vedere cosa potremmo fare per portare avanti gli sforzi guidati dall’Unione africana.
E in particolare, mentre ero ad Addis, ho avuto l’opportunità di impegnarmi con i livelli più alti del governo etiope, di ascoltare le loro problematiche, di provare a lavorare con il governo in termini di come potremmo portare avanti i colloqui di pace ; e allo stesso modo è stato in grado di impegnarsi con i rappresentanti dell’Autorità regionale del Tigray per cercare, ancora una volta, di sollecitare la cessazione delle ostilità e certamente di avviare immediatamente i colloqui di pace.
Abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con l’Alto rappresentante Obasanjo insieme al mio collega, il nostro abile e talentuoso ambasciatore presso l’Unione africana Jessye Lapenn, in più occasioni. Abbiamo anche parlato con il presidente Faki e il suo team e abbiamo avuto l’opportunità di coinvolgere anche le mie controparti delle Nazioni Unite, l’SRSG Hanna Tetteh, nonché l’inviata speciale dell’UE Annette Weber. Insieme alla mia collega, l’incaricata d’affari ad Addis, Tracey Jacobson, abbiamo anche fatto un giro di impegni molto soddisfacente, ancora una volta, incentrati sul tentativo di portare avanti un processo di pace che possa produrre il tipo di pace duratura che tutti gli etiopi desiderano .
Dovrei essere chiaro che la politica degli Stati Uniti, come probabilmente saprai, è che gli Stati Uniti sono impegnati per l’unità, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Etiopia e che i nostri unici obiettivi sono cercare la pace e fornire assistenza umanitaria a tutti gli etiopi in bisogno, compresi coloro che soffrono di una grave siccità. E quindi lo facciamo in uno spirito di collaborazione e amicizia e cercando di affrontare alcune questioni molto difficili e complesse, ma rimaniamo piuttosto preoccupati per il fatto che i combattimenti siano in corso e infatti questa settimana qui alle Nazioni Unite, insieme al mio collega, l’Assistente Segretario Molly Phee, anch’essa a Nairobi per l’inaugurazione del presidente Ruto, sta lavorando con una serie di altri partner, partner internazionali, per, ancora una volta, esortare le parti a dialogare. Non c’è altra via praticabile da seguire.
E state certi che gli Stati Uniti sono impegnati diplomaticamente ai massimi livelli, a più livelli e con molti dei miei colleghi del Dipartimento di Stato, per provare a vedere come lavorare di concerto con l’Unione Africana e, ancora, coloro che sono interessati a perseguire la pace nel Corno, come possiamo avanzare su queste questioni.
Quindi lasciatemi fermare qui perché so che ci sono una moltitudine di domande, che sarò felice di occupare per il tempo che abbiamo, e se non le risolviamo tutte in questa occasione confido che ci saranno altre opportunità per noi di scambio su questi temi di grande importanza nella speranza che, ancora una volta, siamo in grado di avviare un processo che produca dividendi per il popolo etiope, che metta fine a circostanze orribili e sofferenze in modo che tutti gli etiopi può godere di un futuro migliore. Grazie mille.
MODERATORE: Grazie, inviato speciale Hammer. Inizieremo ora la parte di domande e risposte della chiamata di oggi. Vi chiediamo di limitarvi a una domanda relativa al tema del briefing di oggi: il recente viaggio dell’inviato speciale nella regione a sostegno degli sforzi dell’Unione africana per avviare colloqui volti a porre fine al conflitto nel nord dell’Etiopia. Il briefing è molto completo. A titolo di cortesia per i tuoi colleghi giornalisti, per favore mantieni le tue domande succinte.
La nostra prima domanda è stata avanzata in anticipo da Tsedale Lemma dell’Addis Standard , che chiede: “Quale leva diplomatica è rimasta agli Stati Uniti per portare i due belligeranti ai colloqui – per colloqui sulla risoluzione pacifica della guerra che non hanno schierato nel passato?”
AMBASCIATORE HAMMER: Bene, grazie mille, Tsedale. Apprezzo la tua domanda. Non è tanto una questione di leva che gli Stati Uniti portano. Penso che ciò che abbiamo visto, date le nostre relazioni storiche e la nostra partnership strategica con l’Etiopia, ci sia praticamente un’ottima comprensione del fatto che possiamo essere un intermediario onesto, che possiamo aiutare le parti a unirsi in un ruolo di supporto dell’Unione africana. Potresti aver visto che il presidente Obasanjo il 4 agosto, dopo un incontro, ha chiarito che il processo guidato dall’UA sarebbe stato accompagnato da altri partner, partner internazionali, compresi gli Stati Uniti. Ha menzionato l’UE; ha menzionato l’IGAD e l’ONU.
Quindi penso che ciò che è importante qui è che le parti riconoscano che gli Stati Uniti stanno cercando di servire i loro migliori interessi, i migliori interessi dell’Etiopia, che è, ancora una volta, avviare un processo che consenta loro attraverso il dialogo di risolvere problemi eccezionali e complessi e questioni politiche difficili; che i combattimenti non produrranno la vittoria per nessuna delle due parti e che, quindi, l’obiettivo deve essere quello di fermare i combattimenti, garantire la fornitura di assistenza umanitaria, guardare al ripristino dei servizi e poi, ovviamente, vedere come quei duri le questioni politiche che solo gli etiopi possono decidere vengono affrontate attraverso il dialogo.
MODERATORE: Grazie mille. La nostra prossima domanda andrà in diretta a Nick Schifrin della PBS negli Stati Uniti. Operatore, puoi aprire la linea?
AMBASCIATORE HAMMER: Ciao, Nick.
DOMANDA: Ehi, Mike. Come stai? Grazie mille per averlo fatto. Bello vederti. Grazie. Grazie a tutti.
AMBASCIATORE HAMMER: Bello per… beh, bello vederti virtualmente, immagino. Speriamo di incontrarci da qualche parte.
DOMANDA: Assolutamente.
AMBASCIATORE HAMMER: Sei qui a New York?
DOMANDA: Sì, sì, sarò sveglio entro domani, quindi ti mando un messaggio. Lo apprezzo.
AMBASCIATORE HAMMER: Suona bene.
DOMANDA: Quindi, come sapete, gli eritrei – scusate, i tigrini hanno annunciato oggi che l’Eritrea ha lanciato quello che i tigrini chiamano un assalto o mobilitazione su vasta scala. È qualcosa che stai vedendo, uno? E due, di cosa è un segno? Cosa stai, cosa temi che accada dopo e qual è il tuo messaggio ad Addis se, davvero, gli eritrei sono di nuovo in movimento? Grazie.
AMBASCIATORE HAMMER: Grazie mille, Nick. Sì, abbiamo seguito i movimenti delle truppe eritree attraverso il confine. Sono estremamente preoccupanti e lo condanniamo. Tutti gli attori stranieri esterni dovrebbero rispettare l’integrità territoriale dell’Etiopia ed evitare di alimentare il conflitto. Non potremmo essere più chiari. L’abbiamo detto più volte. Incoraggeremo coloro che potrebbero essere in grado di comunicare direttamente con Asmara che questo è di estrema preoccupazione e deve cessare. Non ho intenzione di sporgermi in avanti in termini di altre misure che potremmo essere in grado di intraprendere, ma in realtà questo è un conflitto di cui hanno sofferto molto gli etiopi, i tigrini, gli afari, gli amhariani. E la presenza di truppe eritree in Etiopia serve solo a complicare le cose e ad infiammare una situazione già tragica.
MODERATORE: Grazie. La nostra prossima domanda andrà a Giulia Paravicini di Reuters in Etiopia. Puoi aprire la linea, per favore? Sono 6-1-1-5-2-5 – 5-2-1-5. La tua linea è aperta.
DOMANDA: Mi senti adesso?
AMBASCIATORE HAMMER: Sì, posso.
DOMANDA: Ciao, Mike. Ciao, ambasciatore. Come stai?
AMBASCIATORE HAMMER: Bene, bene. Grazie per aver chiamato.
DOMANDA: Quindi ho una domanda, che è se lei può confermare che i colloqui tra le parti hanno avuto luogo a Gibuti e, in caso affermativo, cosa è stato ottenuto? E come ha chiesto il collega prima di me, chiaramente è in corso un’offensiva, quindi pensi davvero che le parti negoziali o almeno il governo etiope ei suoi alleati siano ancora interessati ai colloqui di pace?
AMBASCIATORE HAMMER: Rispondo prima alla seconda parte. Abbiamo visto dopo che l’autorità regionale del Tigray ha pubblicato una lettera, una dichiarazione sull’11 settembre, che è stato anche il nuovo anno dell’Etiopia, che sono pronti ad avviare colloqui e in effetti si sono offerti di rispettare una cessazione delle ostilità reciprocamente accettabile. Successivamente, abbiamo visto dichiarazioni del governo etiope ripetere e ribadire la loro precedente posizione secondo cui sono pronti ad andare ai colloqui ovunque e in qualsiasi momento. E prendiamo entrambi in parola, nel senso che sono impegnati a cercare di trovare una soluzione pacifica. Naturalmente, la continua escalation della violenza è estremamente preoccupante e li esortiamo a smettere di combattere e ad avviare i colloqui.
Per quanto riguarda la tua prima domanda, apprezzo l’interesse. Come probabilmente capirete, gli Stati Uniti sono molto attivamente coinvolti diplomaticamente nel tentativo di portare le parti ai colloqui e non sarò nella posizione di condividere ogni elemento dei nostri sforzi. Ma state tranquilli, stiamo facendo quello che stiamo facendo nella piena aspettativa che le parti vogliano trovare una via da seguire per arrivare al dialogo e ai nostri sforzi, in particolare nel periodo in cui sono stato lì ad Addis Abeba e continueremo questa settimana , sta collaborando con l’Unione africana che sta prendendo decisioni sul modo migliore per avviare questo processo di pace. C’è l’Alto Rappresentante Obasanjo; Capisco che altri mediatori potrebbero essere coinvolti per rafforzare lo sforzo. Come ho già detto, stanno cercando di avere partner internazionali come gli Stati Uniti per accompagnare questo sforzo.
E quindi avremo altri incontri qui a New York, che spero saranno produttivi, anche con l’Unione africana e altri, per vedere come possiamo proporre attraverso l’UA un processo di pace fattibile e solido che dia fiducia alle parti e ciò consentirà loro di sedersi dall’altra parte del tavolo e di elaborare alcune delle loro differenze politiche.
Ma ancora una volta, il coinvolgimento di attori stranieri serve solo ad esacerbare la crisi e portare a crescenti sofferenze per gli etiopi. Quindi li invitiamo a smettere.
MODERATORE: Grazie. La nostra prossima domanda è in diretta da AFP, Nick Perry in Kenya, credo. Potresti aprire la linea, per favore? La tua linea è aperta.
DOMANDA: Ciao, Mike. Riesci a sentirmi?
AMBASCIATORE HAMMER: Sì, possiamo. Ciao, Nick.
DOMANDA: Ciao. Sì, ciao, ambasciatore. Grazie mille per il briefing di oggi. Volevo dare un seguito in generale, hai incontrato il più alto livello di governo, ma anche funzionari del Tigray e attori internazionali, l’AU. Che senso ha l’ottimismo sul fatto che questi discorsi si stiano effettivamente avvicinando alla realizzazione? C’è stata molta retorica sulla speranza che – o sull’incoraggiare gli eritrei a ritirarsi e chiedere la cessazione delle ostilità, ma come hanno sottolineato i miei colleghi, in realtà si sta solo andando nella direzione opposta. Puoi darci un’idea di quanto è probabile che i negoziati avranno effettivamente successo? C’è la convinzione che entrambe le parti siano sinceramente impegnate in un processo di pace? Grazie.
AMBASCIATORE HAMMER: Sì, grazie mille, Nick. Apprezzo la domanda. È positivo in quanto alla fine della giornata è difficile determinare quale sia il vero intento delle parti, ma possiamo – dobbiamo prenderli in parola quando dicono che sono impegnati a cercare di trovare una soluzione pacifica a questo. E anche noi siamo realisti. Tutto ciò che possiamo fare in quanto gli Stati Uniti stanno lavorando con i nostri partner internazionali, con l’Unione africana, per fornire loro un veicolo per essere in grado di affrontare questi problemi. Le due parti si conoscono molto bene.
Questi problemi sono difficili ma non dovrebbero richiedere la guerra. E continuerò a provare. È mio mandato farlo dal Segretario di Stato, dalla Casa Bianca, fare tutto il possibile nel nostro arsenale diplomatico per cercare di renderlo possibile. E penso sia quello che state vedendo: impegno a tutti i livelli, come ho detto, con la nostra sottosegretaria Molly Phee in regione per l’inaugurazione di Ruto, ora di nuovo qui; ieri abbiamo avuto una serie di incontri qui a New York; abbiamo un programma completo. E quindi no, nessuno di noi ha una sfera di cristallo ed è molto difficile da prevedere. Ma quello che posso riposare – vi assicuro è che stiamo lavorando intensamente su questo tema non solo con le parti, ma in coordinamento con un certo numero di nostri stretti partner e alleati, sia nel continente, nella regione, sia in Europa.
E quindi penso che tu abbia visto molte dichiarazioni di altri governi che esortavano allo stesso modo. Penso che ci sia un coro di appelli per l’avvio di colloqui di pace e speriamo che le parti prendano decisioni coraggiose per fermare i combattimenti sul campo di battaglia e sedersi dall’altra parte del tavolo per il bene di tutti gli etiopi. E penso che più sentono che c’è supporto internazionale per un solido processo che può aiutare a portare quella pace, più è probabile che si spera che abbandonino qualsiasi pensiero di continuare a perseguire i loro obiettivi attraverso mezzi militari.
MODERATORE: Grazie. La nostra prossima domanda andrà in diretta a Mohammed Tewekel di Al Jazeera. Puoi aprire la linea, per favore?
DOMANDA: Una domanda.
MODERATORE: Jazeera. È l’ultimo. Grazie, la tua linea è aperta. Può riattivare l’audio, signor Tawakal?
DOMANDA: Pronto? (Impercettibile), parlerò a nome del signor Tewekel dell’ufficio di Al Jazeera.
AMBASCIATORE HAMMER: Va bene, possiamo sentirti.
DOMANDA: Ambasciatore, (non udibile).
DOMANDA: Salve, ambasciatore. Grazie per questo, per averci permesso di partecipare a questa conferenza stampa. La nostra domanda è la seguente. Il primo è, qual è la soluzione – qual è la soluzione degli Stati Uniti alla crisi che sta attraversando in Etiopia? E la nostra seconda domanda è: qual è il coordinamento tra gli Stati Uniti e l’UA quando si arriva a risolvere questa guerra? E in terzo luogo, perché l’attenzione su questa guerra da parte della comunità internazionale è maggiore rispetto a quando ci sono altre crisi in corso in Africa?
AMBASCIATORE HAMMER: Grazie mille per la domanda. Solo per la cronaca, quando Al Jazeera fa reportage, dovrebbero assicurarsi di ottenerlo accuratamente. Hanno dato al mio predecessore, David Satterfield, molta aria in termini di continuare questi sforzi. Amo David, ma è in pensione, quindi ora sono io. Sono solo – in ogni caso, questo è solo un vantaggio per assicurarsi che la segnalazione sia fattuale e accurata, soprattutto quando è facile da verificare.
In termini di – penso che la tua domanda sia fuori luogo in termini di quale sia la soluzione degli Stati Uniti. La soluzione deve venire dagli etiopi. È il loro paese. Tutto ciò che possiamo fare come Stati Uniti è incoraggiarli a lavorare per risolvere diplomaticamente queste difficili differenze attraverso il dialogo, ed è quello che stiamo facendo. Vediamo il grande potenziale dell’Etiopia, un’Etiopia in cui tutti gli etiopi possono prosperare. E questo è il tipo di partnership strategica che avevamo con l’Etiopia prima che questo conflitto iniziasse nel novembre del 2020.
E quindi, se i partiti sono in grado di prendere la dura decisione di fermare le ostilità, di avviare un dialogo, allora saranno in una posizione migliore per porre fine alle sofferenze del loro popolo e quindi cercare di fare progressi, come accade nella maggior parte delle democrazie, attraverso il dialogo e con mezzi pacifici.
In secondo luogo, per quanto riguarda il coordinamento tra USA e UA, non potrebbe essere più stretto – ancora una volta, grazie all’ottimo lavoro del nostro ambasciatore presso l’Unione africana Jessye Lapenn, abbiamo avuto più incontri con alti dirigenti dell’Unione africana. Abbiamo un dialogo continuo. In effetti, mentre venivo qui, stavo ricevendo una chiamata da qualcuno dell’UA. Non ho potuto rispondere alla sua chiamata perché dovevo occuparmi di questa faccenda di questa importante conferenza stampa, ma appena tutto sarà finito lo richiamerò. E penso che ci sia un grande spirito di partenariato – partenariato che il presidente Biden ha offerto al suo ingresso in carica e un partenariato che intendiamo cercare di fornire a sostegno dell’Unione africana. E quindi c’è un’ottima comunicazione, un’ottima comprensione di ciò che stiamo cercando di fare, ed è solo attraverso il nostro lavoro collettivo che abbiamo la possibilità che le parti si impegnino e, si spera, portino la pace, che è nel loro migliore interesse. Devono rendersi conto che con la pace arriva la prosperità. I combattimenti porteranno solo miseria.
MODERATORE: Grazie. Vorrei leggere una domanda che è stata presentata in anticipo da Mohamed Maher del quotidiano Al-Masry Alyum in Egitto. Chiede: “Ambasciatore Hammer, hai visitato gli Emirati Arabi Uniti. In che modo gli Emirati Arabi Uniti possono aiutare a stabilizzare il Corno d’Africa?”
AMBASCIATORE HAMMER: Grazie per la tua domanda, Mohamed. E sì, ho visitato gli Emirati Arabi Uniti e in effetti ho consultazioni con altri governi mediorientali. È davvero importante che lavoriamo tutti insieme, ancora una volta, per incoraggiare le parti a vedere che la pace e la stabilità possono portare sviluppo economico e condizioni migliori per gli etiopi e per i popoli del Corno. E apprezziamo molto le nostre discussioni con i nostri amici e partner degli Emirati. Portano il loro punto di vista e comprendono la regione estremamente bene, ed è solo grazie a noi che lavoriamo tutti insieme, sperando di portare le nostre prospettive nell’aiutare le parti a capire come risolvere al meglio le loro divergenze ai colloqui di pace, che allora potremmo avere successo .
Ma ho molto apprezzato i loro impegni, ovvero gli Emirati, i sauditi e altri che sono interessati a vedere che la pace metta radici in Etiopia. E ovviamente, come ho già detto, parte del mio mandato consiste anche nel cercare di incoraggiare le parti a raggiungere un accordo GERD che serva gli interessi di tutti e tre i paesi: Etiopia, Sudan ed Egitto. E ancora, un tale accordo sarebbe anche qualcosa che porterebbe stabilità alla regione e sarebbe importante in termini di opportunità per maggiori investimenti economici e sviluppo, che, ancora una volta, serve tutti e tre i paesi.
MODERATORE: Grazie. Prenderemo una domanda dal vivo da Zayid al-Harari (ph), che credo sia con Al Araby TV in Etiopia. Operatore, può aprire la linea, per favore? Sì, ecco qua. Puoi parlare ora.
DOMANDA: (In arabo.)
MODERATORE: Mi scusi, signor al-Harari, se desidera porre una domanda in arabo, purtroppo possiamo ospitare solo traduzioni scritte. Quindi, per favore, scrivi la domanda in arabo nelle domande e risposte e la leggeremo ad alta voce. Grazie mille.
Successivamente andremo da Peter Fabricius dal Sud Africa. Operatore, può aprire la linea, per favore?
DOMANDA: Ciao. Grazie, Tiffany. Grazie, ambasciatore Hammer. Volevo farle una domanda che ho sentito da un esperto etiope su questo argomento che i Tigrini non sono molto contenti del signor Obasanjo come mediatore poiché lo considerano troppo vicino agli etiopi. Mi chiedevo se potevi affrontare quel problema, quella domanda. È vero ed è – voglio dire vero, perché è il sentimento dei Tigray e, in tal caso, c’è una soluzione a questo?
E se posso anche chiederti, quale vedi come la causa di questa nuova esplosione di guerra dopo nove mesi circa di relativa calma e pace? Grazie.
AMBASCIATORE HAMMER: Sì, grazie mille, Peter. Davvero, per le opinioni del Tigrino sul processo guidato dall’UA e le personalità coinvolte, devo davvero rimandare a loro per esprimersi. So che si sono espressi pubblicamente in precedenza. Vorrei sottolineare la loro dichiarazione dell’11 settembre che chiarisce che sono pronti ad andare a colloqui sotto l’UA, e lo accogliamo con favore. Ancora una volta, penso: so che entrambe le parti vogliono garantire un processo di pace solido e credibile, ed è ciò che gli Stati Uniti stanno lavorando per sostenere mentre l’UA mette insieme come questi colloqui potrebbero andare avanti.
Sul perché del più recente scoppio delle ostilità, ancora una volta, penso che le parti rimangano in una situazione di stallo, risolvibile solo attraverso colloqui, e purtroppo le ostilità sono riprese. Ora, quando ho visitato Mekele insieme ad altri colleghi il 2 agosto, le autorità tigriane erano molto chiare sul fatto che si stavano preparando per potenziali ostilità se non ci fosse stato un ripristino dei servizi poiché stavano sostenendo che i tigrini stavano soffrendo gravemente. Voglio dire, non sono solo i Tigrani; infatti, anche gli Afar e gli Amhara sono privi di servizi.
E quindi questo, ancora una volta, sta andando alle questioni fondamentali che devono essere affrontate, e ciò che ho apprezzato dal governo etiope è che ha riconosciuto la propria responsabilità nel cercare di fornire servizi a tutti gli etiopi. Ma per farlo è necessario un ambiente favorevole. Hai bisogno di un ambiente di sicurezza favorevole. E il modo migliore per arrivarci è, ovviamente, concordare una cessazione delle ostilità per elaborare le modalità di ripristino dei servizi, e ciò dovrebbe essere fatto in breve tempo ed è quello che abbiamo sollecitato.
Ancora una volta, non posso dirlo abbastanza: non esiste una soluzione militare a questo conflitto, e prima entrambe le parti lo riconosceranno, prima saremo su una strada migliore verso la pace.
MODERATORE: La nostra prossima domanda va in diretta ad Ashenafi Endale da The Reporter in Etiopia. Operatore, apra la sua linea, per favore.
DOMANDA: Ciao, mi senti?
AMBASCIATORE HAMMER: Non molto bene. Potresti per favore parlare?
DOMANDA: Va bene. Salve, ambasciatore. Mi senti ora?
AMBASCIATORE HAMMER: Un po’ meglio, sì.
DOMANDA: Va bene. Grazie mille. Quindi ho solo una domanda. Gli Stati Uniti stanno valutando di riprendere i disegni di legge delle sanzioni preparati in precedenza alla luce del perdurare del conflitto e (non udibile) le due parti non si sono presentate al tavolo dei negoziati?
AMBASCIATORE HAMMER: Penso di aver sentito più o meno la tua domanda. State tranquilli, ancora una volta, gli Stati Uniti stanno esaminando una serie di opzioni per incoraggiare le parti ad avviare colloqui di pace. E voglio concentrarmi solo sul positivo che può derivarne. E mentre ovviamente c’è sempre un’opzione di sanzioni disponibile e non esiteremo a sanzionare coloro che meritano di essere sanzionati, in questo momento il nostro – gran parte della nostra attenzione è, ancora una volta, su questi intensi sforzi diplomatici che l’UA sta intraprendendo, che i miei colleghi, i colleghi internazionali si stanno impegnando, che noi come gli Stati Uniti ci stiamo impegnando in una questione, si spera, in breve tempo, ad avviare quei colloqui e arrivare a una cessazione delle ostilità e garantire, ancora una volta, un ambiente favorevole per cercare di risolvere queste questioni pacificamente.
MODERATORE: La prossima domanda è a Fred Harter, in diretta dal Times di Londra ad Addis. Operatore, può aprire la linea, per favore?
DOMANDA: Ciao, mi senti?
AMBASCIATORE HAMMER: Possiamo sentirti, sì, Fred.
DOMANDA: Ottimo. Grazie mille per il briefing, ambasciatore. La mia domanda fa seguito ad alcune delle altre. Lei ha affermato che entrambe le parti hanno espresso una preferenza per un solido processo di pace e che è necessario creare un’atmosfera favorevole per ripristinare i servizi. Mi stavo solo chiedendo se potresti dirci, nelle tue discussioni con entrambe le parti, quali sembrano essere i principali ostacoli in questo momento verso la fine delle ostilità e l’arresto dei combattimenti?
MARTELLO AMBASCIATORE: Sì, grazie, Fred. È una questione di fiducia, fiducia e fiducia. Non c’è fiducia da nessuna delle due parti che ci si possa fidare dell’altra, ed è per questo che possiamo sperare di riunirli sia attraverso gli sforzi guidati dall’UA, attraverso gli sforzi degli Stati Uniti, attraverso gli sforzi degli altri. Lo sono: in pratica le due parti erano una volta una famiglia e le controversie tra le famiglie possono essere molto aspre. Ma devi pensare a tutte le persone che stanno soffrendo, che sono vittime di questo conflitto, e dare la possibilità di costruire fiducia reciproca e fiducia sufficiente che porti a passi graduali da entrambe le parti per garantire, ancora una volta, la fine ai combattimenti e per arrivare a una situazione come quella che abbiamo avuto almeno durante la tregua umanitaria, che è stata significativa nel governo che l’ha offerta e nel TPLF che l’ha rispettata,
E mentre ci sono voluti diversi mesi, era arrivato a un livello decente e il carburante aveva finalmente iniziato a fluire nel Tigray che avrebbe consentito un’ulteriore distribuzione a tutti coloro che ne avevano bisogno, quando, poi, le ostilità sono riprese e abbiamo avuto quello sfortunato incidente del sequestro di 12 camion di carburante – WFP da parte del TPLF. E anche questo deve essere affrontato.
Ma state certi che noi, come Stati Uniti e altri, continueremo i nostri sforzi per cercare di aiutare le parti a costruire un po’ di fiducia, in modo che possano essere fiduciosi che, con il sostegno della comunità internazionale, gli impegni presi saranno impegni rispettati e quello che comincerà – di nuovo, avviaci lungo una strada verso la pace.
MODERATORE: Abbiamo tempo per due domande. Ne faremo uno dal vivo da Samuel Tamene di EBS Television. Operatore, può aprire la linea, per favore? Ha sede in Etiopia. Samuel Tamene, se riesci a riattivare l’audio, sei aperto a parlare.
Ok, penso che mentre lo risolviamo leggerò una domanda che è stata inviata in anticipo dal signor Vincent Léonard di RFI Africa Service in Francia. Sta chiedendo dell’ONU. Chiede: “Per quanto riguarda l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, c’è un’iniziativa degli Stati Uniti sull’Africa? Macron sta facendo pressioni sul Sudafrica per fornire supporto politico e diplomatico alla posizione occidentale sull’Ucraina. Gli Stati Uniti stanno facendo lo stesso?”
AMBASCIATORE HAMMER: Bene, ancora, grazie mille per la tua domanda. Di grande attualità visto che siamo qui a New York per l’ennesimo UNGA. E ieri stavo parlando con il segretario Blinken, e chiaramente – e il presidente Biden ha l’opportunità di parlare al mondo domani, mercoledì, e quindi non voglio anticipare il mio presidente. Ma è molto chiaro che abbiamo reso una priorità lavorare sulla salute globale, il nostro supporto per le esperienze nella Repubblica Democratica del Congo, ma lo vedo in Etiopia e in tutto il continente per aiutare a sviluppare soluzioni mediche e know-how per affrontare alcune malattie enormi. È iniziato con i nostri sforzi con PEPFAR, di cui sono sicuro tutti voi siete a conoscenza, molti decenni, un paio di decenni fa. Ma ora è stato ampliato per affrontare la crisi del COVID e ora stiamo esaminando le possibilità per combattere la malaria.
E quindi è sottostimato ciò che gli Stati Uniti hanno fatto attraverso la generosità del popolo americano in termini di progressi su questioni chiave della salute globale che alla fine salvano vite africane, che salvano vite in tutto il mondo.
In secondo luogo, avete visto gli sforzi di ciò che abbiamo fatto in termini di sicurezza alimentare e continueremo a farlo. È una crisi in corso aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina e dalla limitazione delle esportazioni di grano e altre forniture critiche. Siamo incoraggiati dal fatto che ora un po’ di grano stia iniziando a fluire, ma ci rendiamo pienamente conto delle lotte di molti paesi africani che dipendono da questo grano per la loro sicurezza alimentare e che le persone hanno un disperato e disperato bisogno. Il modo migliore per affrontare questo problema è che i russi si fermino, si ritirino e mettano fine alla loro invasione dell’Ucraina.
Continueremo a lavorare su questo. Sono stato molto onorato di sapere di ulteriori 488 milioni di dollari che gli Stati Uniti forniranno all’Etiopia specificamente per aumentare l’assistenza umanitaria e affrontare i soccorsi in caso di siccità. Sapete che le questioni del cambiamento climatico sono primarie per il Presidente Biden, per questa amministrazione, grazie agli sforzi del Segretario Kerry come nostro inviato speciale. C’è la COP27 in arrivo in Egitto. Proprio ieri abbiamo avuto un incontro con il ministro degli Esteri Shoukry in cui questo è stato uno dei principali argomenti di conversazione.
Quindi state certi che abbiamo un’agenda molto ampia. Ciò che gli Stati Uniti fanno nel continente conta. È importante perché salva vite. Aiuta lo sviluppo delle persone. Abbiamo programmi educativi e di scambio straordinari. E che a volte – quelle storie non vengono raccontate così frequentemente perché ci concentriamo su crisi e guerre. Ma sono molto orgoglioso di ciò che fanno gli Stati Uniti e sono molto orgoglioso di cosa: il lavoro che il nostro USAID attraverso Administration Power e i team che abbiamo sul campo per fornire l’assistenza umanitaria tanto necessaria alle persone più bisognose , ai più vulnerabili. Sono orgoglioso del lavoro che svolgiamo per aiutare i rifugiati e come grandi sostenitori del CICR e di altre organizzazioni che si occupano dei più bisognosi.
E quindi penso che questa settimana ci consentirà di sfruttare questi sforzi per cercare di lavorare con altri partner per condividere la generosità del popolo americano e per – e per ottenere il massimo effetto. E ancora, questa è solo un’opportunità per evidenziare che le relazioni con gli Stati Uniti vanno ben oltre i titoli dei giornali del tentativo di – e ovviamente questo interesse – questa disponibilità della stampa si collega direttamente ad esso perché sei preoccupato per questioni di guerra e pace. E allo stesso tempo, continuiamo a fornire assistenza agli etiopi bisognosi in tutto il paese. E ho avuto l’opportunità di parlare con diversi gruppi della diaspora negli Stati Uniti che rappresentano più etnie, che si tratti degli Oromo, degli Amhara, degli Afar, dei Tigrini ovviamente, di quelli della regione della Somalia e di altre regioni,
MODERATORE: Bene, grazie mille, ambasciatore, inviato speciale Hammer. E questo è tutto il tempo che abbiamo oggi. Ci hai dedicato una generosa quantità del tuo tempo. So che ci seguono molti incontri e interviste. Hai avuto brevi parole mentre chiudiamo?
AMBASCIATORE HAMMER: No, ancora una volta, un grido a tutti voi giornalisti in questa telefonata. Secondo la mia esperienza, che sia stato nella Repubblica Democratica del Congo o prestando servizio in altri paesi e ora nel Corno, il lavoro che fai è coraggioso, è importante, è difficile. Apprezzo tutte le tue domande: quelle difficili; Preferisco forse quelli facili. Ma ritenerci responsabili come governo. Ritieni responsabili i governi da cui stai segnalando. Smascherare la corruzione, denunciare le violazioni dei diritti umani e chiedere a chi detiene il potere di renderne conto.
I vostri lavori sono davvero importanti per la democrazia e per le persone che state cercando di informare, e ho il massimo rispetto per i vostri sforzi e, ancora una volta, non vedo l’ora di avere l’opportunità di incontrare alcuni o la maggior parte di voi di persona ad un certo punto. Nel corso della mia carriera ho davvero apprezzato i media e la stampa e la loro importanza in – per una democrazia. La libertà di espressione e la libertà di stampa sono fondamentali. Quindi, anche nei tuoi giorni più difficili, sappi che quello che stai facendo conta. Grazie mille.
MODERATORE: Grazie. E questo conclude il briefing di oggi. Vorrei ringraziare l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Mike Hammer, per averci parlato oggi e ringraziare tutti i nostri giornalisti per aver partecipato. In caso di domande sul briefing di oggi, è possibile contattare l’Africa Regional Media Hub all’indirizzo AFMediaHub@state.gov. Grazie.
AMBASCIATORE HAMMER: E grazie, Tiffany e l’hub. Ricordo il tempo in cui ero assistente segretario per gli affari pubblici e questo stava appena iniziando, ed è fiorente. Quindi, ancora una volta, grazie per l’opportunità di interagire con così tanti giornalisti, e spero che lo rifaremo presto.
MODERATORE: È reciproco. Grazie. Arrivederci.
Domotica: cresce il mercato dei dispositivi per le smart home
Quello della domotica e delle soluzioni per smart home è uno dei settori più dinamici in assoluto, forte di una crescita costante sostenuta da una notevole ricerca tecnologica. L’espansione del mercato di questa particolare categoria merceologica fa registrare numeri importanti anche in Italia: nel 2021, dopo lo stop causato dallo scoppio della pandemia e dal […]
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A dieci giorni dalla vittoriosa offensiva ucraina su Kharkiv le operazioni proseguono. A Izium si scoprono fosse comuni, sul fiume Oskil i russi si rinforzano mentre Kherson è sempre sotto attacco. Qual è la situazione a meno di un mese dalle piogge d’autunno?
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Un biglietto per il Metaverso
A Palermo, a Palazzo Reale il futuro è già arrivato, dal 21 settembre, μετα Experience, uno spazio permanente tra arte e dimensioni parallele. Immersi nella dimensione dell'Infinity Room i visitatori potranno assistere alla smaterializzazione e materializzazione dei capolavori d'arte originali e scoprire come avviene la creazione dell'identità dell'opera provando il processo sulla propria pelle.
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Palermo, a Palazzo Reale uno spazio permanente tra arte e dimensioni parallele
Un biglietto per il metaverso. A Palazzo Reale il futuro è già arrivato. Apre, dal 21 settembre, μετα Experience, uno spazio permanente tra arte e dimensioni...Maria Vera Genchi (Giornale di Sicilia)
Palermo, da luogo di mafia a simbolo di riscatto: nel quartiere Cruillas una piccola oasi verde anche per le api
Il progetto Terra Franca nasce nel 2019, promosso dall'associazione Hryo, in un terreno confiscato a Cosa nostra. Obiettivo è restituire alla comunità un luogo naturale in un contesto cittadino che diventi vessillo di inclusione sociale e legalità.
Al suo interno, tra le altre cose, un apiario olistico e una serra della biodiversità.
Fonte notizia: Palermotoday
VIDEO | Da luogo di mafia a simbolo di riscatto: a Cruillas una piccola oasi verde anche per le api
Il progetto Terra Franca nasce nel 2019, promosso dall'associazione Hryo, in un terreno confiscato a Cosa nostra. Obiettivo è restituire alla comunità un luogo...Rosaura Bonfardino (PalermoToday)
La leggenda del fantasma della Suora del Teatro Massimo di Palermo
𝗟𝗮 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗲𝗻𝗱𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗳𝗮𝗻𝘁𝗮𝘀𝗺𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘀𝘂𝗼𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗧𝗲𝗮𝘁𝗿𝗼 𝗠𝗮𝘀𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗱𝗶 𝗣𝗮𝗹𝗲𝗿𝗺𝗼
i Palermo. Pima della costruzione del Teatro furono demolite alcune strutture preesistenti tra cui la Chiesa di San Francesco delle Stimate, compreso il monastero ed il cimitero annessi, consistenti nella Chiesa di San Giuliano e la Chiesa di Sant’A…panormus
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