Cosa significherebbe Giorgia Meloni per l’Europa
Ripubblichiamo, tradotta in italiano, l’analisi ‘What Giorgia Meloni would mean for Europe’ di Luigi Scazzieri, senior research fellow del CER. *** È probabile che le elezioni italiane del 25 settembre si traducano in un governo di coalizione di destra composto dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, dalla Lega di Matteo Salvini e da Forza Italia […]
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Basta! Contro la barbarie dell’alternanza scuola-lavoro
Basta! Contro la barbarie dell’alternanza scuola-lavoro | La Fionda
Ha un nome proprio, Giuliano, lo studente schiacciato da un blocco di acciaio di due tonnellate durante uno stage, che le cronache hanno frettolosamenteSalvatore Bianco (La Fionda)
Russia: ‘mobilitazione parziale’, pericolo esistenziale totale (per Putin)
La 'mobilitazione parziale' pone una serie di problemi -dall'addestramento alle armi che già scarseggiano per gli uomini attualmente in servizio- e non è una soluzione alla mancanza di uomini in campo in Ucraina, oltre a rompere il contratto sociale con i russi. Il regime di Putin potrebbe non sopravvivere
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Alla ricerca della sicurezza cooperativa in Medio Oriente
Il venir meno delle speranze di un rilancio dell’accordo internazionale del 2015 capace di frenare il programma nucleare iraniano mette potenzialmente un chiodo in più nella bara di un’architettura di sicurezza regionale che includa, anziché prendere di mira, la Repubblica islamica. La potenziale fine dell’accordo, insieme al fatto che l’America ridefinisca il suo impegno per […]
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Elezioni politiche 2022: la politica social senza persone
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Una delle tendenze e del divenire sociale di quest’epoca è rappresentata dal progressivo allontanamento del tempo della contemporaneità tra […]
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Presentazione del libro “La scuola della libertà e del merito” di Ottavia Munari e Andrea Davola
A conclusione del ciclo di incontri “La scuola in Italia: quali principi e quali ideali da seguire”, gli studenti del Liceo Luigi Einaudi di Siracusa sono invitati a partecipare alla presentazione del libro “La scuola della libertà e del merito – L’abolizione del valore legale del titolo di studio” di Ottavia Munari e Andrea.
L’evento si terrà sabato 1° ottobre, alle ore 11.30, a Siracusa, presso il The Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights, in via Logoteta 27.
Il libro, curato da Giancristiano Desiderio ed edito da Rubbettino, è una elaborazione di ciò che Luigi Einaudi, assieme a molti altri pensatori liberali, ha affrontato in varie opere, ovvero l’importanza di ripensare la scuola italiana, a partire dall’abolizione del valore legale del titolo di studio.
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Shanghai Cooperation Organisation alla ricerca di una nuova identità
La Shanghai Cooperation Organisation (SCO) sta diventando un'organizzazione regionale con molteplici obiettivi di sviluppo, piuttosto che un blocco politico, malgrado Russia e Cina
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Breyer on Europol lawsuit: Courts must protect us where politics is hostile to fundamental rights
The European Data Protection Supervisor (EDPS) is going to court over the EU’s attempt to retroactively legalise large amounts of data Europol illegally collected on unsuspected citizens, including mobile phone and air traveller data. The EDPS is reacting to the heavily criticised Europol reform, which has given the agency broad powers since June 2022.
Member of the European Parliament Patrick Breyer (Pirate Party), a substitute member of the Europol supervisory body JPSG in the European Parliament, welcomes the decision:
“The data protection commissioner’s action against Europol is important and without alternative. For years, the police authority has illegally collected massive amounts of data on millions of unsuspected individuals, which were transmitted by national authorities. And politicians believe that they can now legitimise this bulk collection mania with the stroke of a pen. The controversial reform has already given Europol far too much control over innocent EU citizens. Now, the deletion of the absurd amount of 4 petabytes of data will need to be ordered by the courts.It’s true that police cooperation in Europe is of vital importance, but it needs to respect the rule of law. After, due to these vast data pools, millions of innocent citizens risk being wrongfully suspected of a crime just because they were in the wrong place at the wrong time. I am confident that the courts will protect us where politics is acting hostile to fundamental rights.”
Russia: quel che c’è da sapere su coscritti, riservisti, mobilitazione
Vladimir Putin ha annunciato l'immediata «mobilitazione parziale» dei cittadini russi. Cosa significa? Cosa c'è da sapere sui riservisti? Chi sono? E cosa comporta la mobilitazione? Chi sono i coscritti?
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Putin: l’anti-Gorbaciov al lavoro
L'intera epoca di Putin sembra essere una consistente liquidazione dell'eredità storica di Gorbaciov. La Russia di oggi è tornata all'era pre-perestrojka, è caduta in una sintesi dell'impero sovietico e zarista
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Summit dei leader USA – Africa: passare dalle parole ai fatti
Come l'America può trarre il massimo dalla sua nuova strategia per l'Africa. Il successo del vertice richiede agli USA e all'Amministrazione Biden un cambio di prospettiva. Le azioni, non le parole, determineranno se il prossimo vertice USA-Africa e la più recente strategia americana per l'Africa ripristineranno le relazioni con il continente
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Russia tra autocrazia e dialettica dell’autodistruzione
La cosiddetta “Operazione militare speciale” del governo russo, un’invasione militare dell’Ucraina, è fallita: la realtà distorta in cui il governo russo si è trovato di sua spontanea volontà ha portato al fallimento. Ciò è avvenuto non solo a causa della resistenza ucraina e dell’aiuto della comunità internazionale, ma anche a causa dei problemi interni del […]
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Filippine: la corruzione come minaccia alla sicurezza nazionale
Nel suo discorso durante la 77a Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York City il 20 settembre 2022, il presidente filippino Ferdinand R. Marcos Jr. ha discusso come priorità la ripresa economica post-pandemia, il cambiamento climatico, lo sviluppo di tecnologie avanzate, la sicurezza alimentare e le principali preoccupazioni geopolitiche per la cooperazione globale al […]
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PODCAST. Russia-Ucraina, la guerra si allarga. Biden e la Nato danno altre armi a Zelensky, Putin richiama 300mila riservisti.
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Con il suo ultimo discorso Vladimir Putin ha aperto una nuova fase della guerra cominciata a fine febbraio con l’attacco delle sue truppe all’Ucraina.
Non è passato inosservato il suo riferimento alle armi nucleari: “Per difenderci useremo tutti i mezzi a nostra disposizione”. Dall’altra parte il presidente Usa Biden continua a rifornire Kiev di armi nell’intento, evidente sin dall’inizio, di combattere una guerra americana alla Russia attraverso le truppe ucraine.
Nessuno spiraglio diplomatico in vista.
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STORIA. La Palestina nell’età elisabettiana: la Gran Bretagna espierà finalmente i suoi peccati?
di Ilan Pappé*
(traduzione di Romana Rubeo)
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Mentre milioni di persone in Gran Bretagna e nel resto del mondo cantano le lodi della defunta Regina portandola ad esempio di moderazione, tatto e buon senso, le vittime del regime di colonizzazione e i “sudditi di second’ordine” in Gran Bretagna hanno una visione ben più complessa dei suoi settant’anni di regno.
Certo, la Regina non è stata la principale responsabile delle politiche attuate in questi decenni, ma a livello simbolico, ogni decisione è stata presa sotto l’egida di Sua Maestà, nel bene e nel male. Pertanto, è indubbio che un’era stia volgendo al termine e questo è sempre un buon momento per riflettere e stilare bilanci. Vorrei soffermarmi ad analizzare, in particolare, la politica britannica nei confronti della Palestina durante questi anni e le inevitabili conseguenze.
Il regno della Regina Elisabetta è iniziato dopo la Nakba. Pertanto, la vergognosa condotta britannica, che ha di fatto affrancato la pulizia etnica dei palestinesi nel 1948 ad opera di Israele, è riconducibile al periodo in cui suo padre era sovrano del Regno Unito. Elisabetta è ascesa al trono nel momento in cui il Partito Conservatore si stava riprendendo da una clamorosa e inaspettata sconfitta alle elezioni del 1945. I Laburisti erano al governo della Gran Bretagna durante il periodo della Nakba, la cui responsabilità ricade, dunque, anche su di loro.
Quando i Conservatori tornarono al governo, prima con Winston Churchill e poi con Anthony Eden, il governo di Sua Maestà scrisse un altro capitolo vergognoso nelle relazioni con la Palestina e il mondo arabo. La Gran Bretagna collaborò con Francia e Israele nel tentativo di rovesciare Gamal Abdul Nasser, sostenendo l’intransigente rifiuto israeliano a consentire il ritorno dei profughi palestinesi. Un rifiuto seguito dall’ordine di sparare a vista contro i profughi palestinesi che cercavano di recuperare i raccolti, i capi di bestiame e quant’altro fosse rimasto dopo il saccheggio israeliano delle campagne palestinesi nel 1948.
Il Partito Laburista, nel periodo compreso tra la Nakba e la Naksa (la guerra del giugno 1967), fu quasi sempre all’opposizione. Restò comunque il più fedele alleato di Israele, a livelli inimmaginabili persino oggi. Tale alleanza era siglata anche dal Consiglio dell’Unione Sindacale, che, insieme ad altri organismi socialisti, chiuse un occhio sulle sofferenze inflitte alla popolazione araba a partire dal 1948. Il governo militare israeliano si fondava su regolamenti di emergenza redatti durante il periodo del colonialismo britannico, che hanno generato, tra le tante atrocità, il massacro di Kafr Qassem nel 1956, preceduto dal massacro del villaggio di Qibya e seguito da quello del villaggio di Samu’.
A quei giorni, risale la fondazione di un nuovo gruppo, The Labour Friends of Israel (Gli Amici Laburisti di Israele), che divenne un pilastro della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Nel Paese c’era già la massiccia presenza di una ben affermata lobby filo-sionista, sin dal 1900, anno in cui il Quarto Congresso Sionista si riunì a Londra. In quell’occasione, si diede avvio alla costruzione di una potente lobby, che portò alla Dichiarazione di Balfour e dunque all’impegno formale da parte della Gran Bretagna di consegnare la Palestina al movimento sionista, a discapito della popolazione nativa palestinese.
È proprio in quel periodo che si avviano due processi che si riveleranno cruciali per creare uno scudo di immunità intorno a Israele, tale da consentire a Tel Aviv di proseguire nelle sue politiche di colonizzazione e sottrazione di terre in Palestina fino ai giorni nostri, nel silenzio della comunità internazionale.
Il primo è consistito nel reclutare rispettose istituzioni nate con lo scopo di difendere gli interessi della comunità anglo-ebraica alla causa sionista prima, e israeliana poi. La più importante tra queste era il Board of Deputies, nato come parlamento degli ebrei britannici e trasformato in ambasciata israeliana. Il secondo processo ha visto l’associazione tra una brillante carriera politica all’interno del Partito Laburista e l’appartenenza si Labour Friends of Israel. Essere un amico di Israele, in parole povere, avrebbe assicurato di fare strada all’interno del partito.
Il panorama politico elisabettiano cambiò nel 1967, quando divenne più complicato vendere al pubblico britannico il mito del mini-impero israeliano che, come un povero Davide, si batteva contro l’arabo Golia. Il 1967 vide un cambiamento sostanziale in tutti i partiti politici, anche in risposta al riemergere del movimento di liberazione palestinese. La spinta di solidarietà nei confronti dei palestinesi influenzò inevitabilmente le forze politiche.
Due politici britannici, uno laburista e uno conservatore, incarnano questo cambiamento di mentalità. Non sempre per una genuina spinta solidale, che pure era presente, ma anche perché capivano che un sostegno incondizionato a Israele avrebbe avuto un impatto negativo sull’immagine della Gran Bretagna nel mondo arabo.
Il primo era il Ministro degli Esteri laburista George Brown, il secondo il Ministro degli Esteri conservatore, Alex Douglass Home. Entrambi sono stati descritti dalla lobby con appellativi che sarebbero stati poi riservati al leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Il peccato originale di questi politici è stato quello di avere il coraggio di assumere una posizione equilibrata sulla questione palestinese, immediatamente bollata da Israele e dalla sua lobby come antisemita.
Brown chiese alle Nazioni Unite il ritiro totale di Israele dai Territori Occupati nel 1967 e accese i riflettori sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi. Douglass Home, in un celebre discorso ad Harrogate nel 1970, si spinse oltre, collocando la questione palestinese al centro del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano”. Sicuramente, le loro proposte erano distanti anni luce da ciò che sarebbe stato necessario per portare pace e giustizia alla Palestina storica, ma sicuramente le loro posizioni avrebbero potuto indirizzare il dibattito nella giusta direzione.
Più incisiva, negli anni successivi al 1967, è stata la campagna di solidarietà istituita dai nostri amici Ghada Karmi, Christopher Mayhew e Michael Adams, per citare solo alcuni tra coloro che aderirono, e che erano coinvolti nella politica britannica nelle tre formazioni principali: il partito laburista, quello conservatore e quello liberale.
Insieme agli ebrei antisionisti britannici ed ex israeliani, unitamente alla comunità palestinese in Gran Bretagna, hanno avuto il merito di sfidare una lobby potentissima, che aveva aggiunto alla struttura già esistente una folta schiera di nuovi gruppi, tra cui il Conservative Friends of Israel, il più potente a livello europeo. Oggi, l’80% dei parlamentari conservatori è membro di questa organizzazione.
Tony Blair
Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che Brown e Douglass Home non abbiano minimamente influito sulla politica britannica per quanto concerne la questione palestinese. In questo senso, ad avere un ruolo determinante sono stati i primi ministri, per lo più del Partito Laburista, come Harold Wilson, Tony Blair e Gordon Brown. Furono tutti premiati dal Jewish National Fund, che decise di piantare una pineta europea sulle rovine di tre villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, in segno di gratitudine verso i politici britannici filo-israeliani.
I tre erano, per certi versi, dei cristiani sionisti, che hanno lasciato carta bianca a Israele tra gli anni ‘70 e il 2010, periodo in cui l’ebraicizzazione della Cisgiordania e il progetto della Grande Gerusalemme, unitamente alle brutali aggressioni ai danni della Striscia di Gaza, hanno caratterizzato la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
La Gran Bretagna si è distinta per essere stata il membro meno filo-palestinese all’interno dell’Unione Europea, prima dell’aggiunta dei nuovi membri in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica. Ha sempre seguito la linea della disonesta intermediazione statunitense nel cosiddetto processo di pace, continuando a fornire a Israele armi e sostegno diplomatico, in un mondo in cui le sue ex colonie cercavano di imporre un’agenda di decolonizzazione che includeva anche la liberazione della Palestina.
*Questo articolo è apparso in esclusiva in lingua inglese sul Palestine Chronicle
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Armenia sotto shock, scontri anche tra Kirghizistan e Tagikistan
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea, alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.
Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento internazionale riscontrato dopo l’aggressione militare da parte azera.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in gran parte militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud-est del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni compiute dagli azeri.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto di Baku non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco mediato da Mosca. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei violenti combattimenti.
La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, oltre che la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. Nella notte, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, accusato di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente anche a Stepanakert, la capitale del territorio a maggioranza armena assegnato nel 1923 all’Azerbaigian dalla dirigenza sovietica.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e non siano comunque sufficienti a evitare nuove pretese da parte del dittatore azero Ilham Aliyev.
Proteste contro Pashinyan a Erevan
Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenuti nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente la Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua, le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.
L’aggressione diretta ha stavolta consentito a Pashinyan – salito paradossalmente al potere nel 2018 in seguito ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’assistenza militare delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, infatti, prevede che se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata contraddittoria e molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non vuole inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari; soprattutto, non vuole rompere con la Turchia, grande sponsor di Baku, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, questa settimana i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.
La CSTO scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian (dove stazionano comunque alcune centinaia di militari russi dei 2000 schierati nel 2020). Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.
Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni commerciali contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di nuovi accordi su diversi fronti.
L’area di confine tra Tagikistan e Kirghizistan interessata dagli scontri
Duri scontri tra Tagikistan e KirghizistanI grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia – non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si stanno combattendo lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni. Già lo scorso anno, ad aprile, i due paesi si erano affrontati militarmente con un bilancio di 31 morti.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con parecchie decine di morti e feriti e decine di migliaia di abitanti sfollati a scopo precauzionale. Anche in questo caso, un primo cessate il fuoco raggiunto dopo alcune ore dall’inizio degli scontri è stato ben presto violato e i combattimenti sono ripresi con maggiore foga fino a ieri sera.
Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e incassare nuove conquiste territoriali.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai necessarie a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).
Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’UE.
In particolare l’amministrazione statunitense sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatica – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
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Storie che non finiscono
Se una mattina, come ogni mattina, prepari il tè per la colazione.
Se quella mattina il mare ti appare verticale e tanto ti riporta alla considerazione che sei tornata a casa e non c’è più il mare orizzontale della vacanza.
Se la routine dei gesti che non hanno più bisogno di essere pensati ti rassicura.
Se il profumo dei gelsomini non proviene più dalle notti stellate, ma dalla fumante tazza di tè.
Se pregustando la noia della quotidianità apri il tablet per leggere le ultime notizie e non ci puoi credere, ti blocchi.
È morto.
È morto lo scrittore spagnolo Javier Marías. Improvvisamente, per noi lettori che nulla sapevamo della breve polmonite assassina che lo ha ucciso. Non ci sono altri dettagli, non c’erano coccodrilli pronti, troppo in buona salute, troppo recente l’ultimo romanzo, l’ultimo premio, l’ultima intervista.
Cerchiamo, seguendo il suo suggerimento – “quando una persona muore in modo inatteso cerchiamo di ricostruire quel che ha detto l’ultima volta che l’abbiamo visto come se potessimo salvarlo con questo” – qual è stata l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, pur sapendo che non riusciremo a salvarlo lo stesso.
La mia ultima volta è stata alcuni mesi fa, con la lettura di Tomas Nevinson pubblicato in Italia all’inizio di quest’anno. Ricordo, questo sì, di avere chiuso il libro con un gesto definitivo e già nostalgico. Mi ero detta, lo so perché lo avevo appuntato, “com’è difficile lasciare andare un libro di Marías? È una vita, una storia che si chiude.”
Era il 22 maggio.
Chi ama un autore, come ogni amato, non può fare a meno delle sue parole e della sua presenza. Allora lo segue, fa ricerche su Google per sapere se sta per uscire un nuovo romanzo, e quando finalmente – perché Marías non è uno scrittore a getto continuo – l’editore annuncia la prossima uscita, la prenota. Anche se sa che vetrine di librerie reali e online saranno tappezzate dell’opera.
Perché di Javier Marías stiamo parlando.
Che dire? Da dove cominciare? Che cosa ricordare? Che cosa omettere? Cosa nascondere? Cosa evidenziare?
Ci tocca procedere senza sapere bene come fare; così come faceva lui quando si accingeva a scrivere una storia. “Non è che non sappia dove voglio andare, ma non conosco la strada da percorrere, comincio senza sapere molto di quello che racconterò, non cambio nulla dei miei romanzi, come non possiamo cambiare nulla del nostro passato.”
Possiamo cercare di salvarlo attraverso le sue storie, che si svelano attraverso ciò che accade e ciò che sarebbe potuto accadere, quello che è reale e quello che è mistero. Potremmo cercare di decifrare il tragico, l’imponderabile, gli enigmi della vita che mai si possono spiegare. Possiamo rassegnarci alle infinite letture che ogni evento e ogni persona nascondono. Possiamo tentare di capire il mondo nella sua indecifrabile complessità da un punto di vista etico, di fare del bene l’oggetto della narrazione anche se sappiamo che difficilmente potremmo raggiungerlo.
Oppure possiamo tentare la strada seguendo i suoi personaggi, quelli che per la lunga frequentazione (tre anni mediamente per completare un romanzo) diventavano suoi amici, persone sulle quali esercitava una capacità decisionale impossibile in qualsiasi altra circostanza o situazione. Uomini e donne ai quali affida una storia nella sofferta convinzione che non c’è nulla di certo, che quello che può proporre è solo un punto di vista e che anch’esso non è univoco. Tomas Nevinson, Berta Isla, Julianin, Marta e Victor, Tupra, Pérez Nuix, Sir Peter Wheeler, dall’inizio alla fine della narrazione si contraddicono di fronte ad eventi che potrebbero essere così come appaiono o esattamente al contrario. Li ritroviamo dietro una parete, una porta dove, casualmente o volutamente, finiscono per origliare una contrastante verità che propone una visione del tutto nuova o semplicemente interrogativa di fatti che sembravano certezze.
O ancora possiamo salvarlo lasciandoci ammaliare da una scrittura nella quale ci si perde come in un oceano senza rive o approdi. Un discorso fatto di un fraseggio colto, ricco di citazioni – su tutte quelle shakespeariane – di digressioni che affiancano la storia non sostituendosi ad essa ma divenendo a loro volta storia.
“La mia intenzione, il mio desiderio, è che tutte le digressioni dei miei libri siano abbastanza interessanti in sé stesse da far soffermare il lettore”, quelle digressioni che spesso servono a rompere una tensione narrativa altrimenti insostenibile, a riportare alla realtà la vita, già di suo inspiegabilmente tragica.
Ecco allora un fiorire di indicativi e condizionali, di presenti e passati prossimi e futuri anteriori che coniugano il grande mistero del Tempo, le ombre che in esso si nascondono, le maschere multiple che consegna ad ognuno di noi che tanto poco sappiamo di noi stessi.
Sorseggio il mio tè e penso che sì, forse queste sono strade praticabili per non perdere un autore che molto amiamo, e tuttavia so che ce ne deve essere ancora una, o tante, da cercare nei suoi libri che ora affiancati nello scaffale mi aspettano.
La storia non è finita.
Alcune storie non muoiono mai.
Patologia: stati di sgomento, dolore, nostalgia.
Terapia: leggere e rileggere e leggere e rileggere tutti i libri di Javier Marías, che non sono molti ma i necessari, lasciandosi aiutare da un buon tè per mandare giù il groppo in gola.
L'articolo Storie che non finiscono proviene da ilcaffeonline.
"A Scuola di OpenCoesione", il progetto di didattica innovativa rivolto alle scuole secondarie di primo e secondo grado. La domanda di partecipazione dovrà essere presentata entro il 24 ottobre.
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Gulasch
Squisito. Anzi: squisita, perché è una zuppa. La sua origine non è geograficamente esclusiva, perché i mandriani la cucinavano spostandosi. Ma se si dice Gulasch si pensa all’Ungheria. La carne che si usava non era certo la migliore e le spezie abbondanti ne celavano l’odore. Meglio guardare dentro la pentola, quando anche da noi si parla di zuppe all’ungherese.
Perché la destra italiana, in quel caso accomunando Fratelli d’Italia e Lega, prese Orbán in gran simpatia? (Berlusconi anche, ma poi il Partito popolare europeo lo buttò fuori, e già questo dice molto). Orbán è un nazionalista, del resto figlio della ritrovata indipendenza, dopo la fine dell’impero sovietico, e vive a cavallo fra l’Ue e l’Est post sovietico, il che, paradossi della storia, lo rende simpatico a chi ammira in chiave neo nazionalista e spirituale il risorgere dell’impero russo.
Da Orbán, però, le nostre destre potrebbero prendere anche i buoni e non solo i cattivi esempi: lui il debito pubblico lo fece scendere, non si mise a regalare soldi e pensioni, portandolo fino al 66% del prodotto interno lordo. Poi la pandemia lo ha fatto risalire, ma è avvenuto ovunque. Vuole bloccare gli immigrati, epperò ne ha dentro assai più di noi. Va a finire che gli diventa antipatico.
Dopo l’ultima vittoria elettorale s’è identificato con il potere. Per non perderlo (a Budapest l’opposizione è significativa), ha deciso di usare i soldi pubblici per finanziare l’informazione amica, dedicando i tribunali all’altra. I tribunali li ha trasformati e assoggettati. Ragioni per cui l’Unione europea gli dice: o raddrizzi o te ne vai. Lui sa che gli ungheresi non lo vorrebbero, quindi promette di raddrizzare.
Meloni, però, disse che non si deve osteggiarlo, dato che è legittimo perché eletto. E questa è una curiosa obiezione: la democrazia non è votocrazia, è il voto, certo, ma anche lo Stato di diritto. Varrà la pena ricordare che Hitler e Mussolini furono eletti. Lenin e Mao manco quello.
Per anni la destra e la sinistra radicali intonarono la gnagnera dell’Europa tutta mercato e priva di anima politica. Era falso già allora, ma eccoli serviti: l’Ue boccia Orbán per ragioni politiche, non economiche. E ora gli stessi dicono: ma questa è un’operazione politica. Ragazzi, l’avete reclamata fino a sfinirci.
Certo. Perché non esiste libertà, democrazia e mercato dove non c’è lo Stato di diritto. E dicono anche che minacciare il ritiro dei fondi è un “ricatto”, il che tradisce l’idea di un’Europa che si reclama solidale e unita quando si tratta di avere, ma la si vuole ritratta e inerte quando si deve controllare. Troppo fessa per essere presa in considerazione, un’idea simile.
E si arriva alle ultime due cose. Salvini dice che dopo la guerra ha cambiato idea su Putin. Interessante, ma siamo a settembre ed è cominciata a Febbraio. E quella è l’ultima, perché la Crimea se la prese nel 2014. Quella contro la Georgia è del 2008. Tutto prima dell’amore e delle oscene magliettine. Dice Meloni che spera la sua vittoria spiani la strada a Vox, in Spagna. La fratellanza è una bella cosa, ma le amicizie e colleganze dell’uno e dell’altra, che litigano su tutto, a sommarle in tutta Ue ci restano teste e lische. Che manco il Gulasch ci fai.
Dice Marcello Pera, già presidente del Senato, eletto con Berlusconi, e ora candidato con FdI, passata l’infatuazione per Renzi, che ci vuole il presidenzialismo perché: <<vuol dire trasparenza: chi vince governa (…) e lo fa per il tempo fissato; e vuol dire bipolarismo>>. Dove? Mai sentito parlare delle elezioni di medio termine in Usa o della coabitation in Francia, dove morirono i partiti?
Gli elettori italiani sono liberi. Ogni tentativo di condizionamento o induzione è un boomerang. Ma i problemi sono tre: la confusione fra elezione e libertà di agire a piacimento; quella fra governare e comandare; le alleanze europee imbarazzanti. Serve a nulla straparlare del ventennio del secolo scorso, si vorrebbe sapere qualche cosa di più sul biennio a venire.
L'articolo Gulasch proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
USA vs Russia: la pace ha fretta
Le parole di Joe Biden sul nucleare sono pietre su una speranza di pacificazione universale. La Russia indebolita dagli Stati Uniti preoccupa Cina e India
L'articolo USA vs Russia: la pace ha fretta proviene da L'Indro.
STORIA. La Palestina nell’età elisabettiana: la Gran Bretagna espierà finalmente i suoi peccati?
di Ilan Pappé*
(traduzione di Romana Rubeo)
Pagine Esteri, 22 settembre 2022 – Mentre milioni di persone in Gran Bretagna e nel resto del mondo cantano le lodi della defunta Regina portandola ad esempio di moderazione, tatto e buon senso, le vittime del regime di colonizzazione e i “sudditi di second’ordine” in Gran Bretagna hanno una visione ben più complessa dei suoi settant’anni di regno.
Certo, la Regina non è stata la principale responsabile delle politiche attuate in questi decenni, ma a livello simbolico, ogni decisione è stata presa sotto l’egida di Sua Maestà, nel bene e nel male. Pertanto, è indubbio che un’era stia volgendo al termine e questo è sempre un buon momento per riflettere e stilare bilanci. Vorrei soffermarmi ad analizzare, in particolare, la politica britannica nei confronti della Palestina durante questi anni e le inevitabili conseguenze.
Il regno della Regina Elisabetta è iniziato dopo la Nakba. Pertanto, la vergognosa condotta britannica, che ha di fatto affrancato la pulizia etnica dei palestinesi nel 1948 ad opera di Israele, è riconducibile al periodo in cui suo padre era sovrano del Regno Unito. Elisabetta è ascesa al trono nel momento in cui il Partito Conservatore si stava riprendendo da una clamorosa e inaspettata sconfitta alle elezioni del 1945. I Laburisti erano al governo della Gran Bretagna durante il periodo della Nakba, la cui responsabilità ricade, dunque, anche su di loro.
Quando i Conservatori tornarono al governo, prima con Winston Churchill e poi con Anthony Eden, il governo di Sua Maestà scrisse un altro capitolo vergognoso nelle relazioni con la Palestina e il mondo arabo. La Gran Bretagna collaborò con Francia e Israele nel tentativo di rovesciare Gamal Abdul Nasser, sostenendo l’intransigente rifiuto israeliano a consentire il ritorno dei profughi palestinesi. Un rifiuto seguito dall’ordine di sparare a vista contro i profughi palestinesi che cercavano di recuperare i raccolti, i capi di bestiame e quant’altro fosse rimasto dopo il saccheggio israeliano delle campagne palestinesi nel 1948.
Il Partito Laburista, nel periodo compreso tra la Nakba e la Naksa (la guerra del giugno 1967), fu quasi sempre all’opposizione. Restò comunque il più fedele alleato di Israele, a livelli inimmaginabili persino oggi. Tale alleanza era siglata anche dal Consiglio dell’Unione Sindacale, che, insieme ad altri organismi socialisti, chiuse un occhio sulle sofferenze inflitte alla popolazione araba a partire dal 1948. Il governo militare israeliano si fondava su regolamenti di emergenza redatti durante il periodo del colonialismo britannico, che hanno generato, tra le tante atrocità, il massacro di Kafr Qassem nel 1956, preceduto dal massacro del villaggio di Qibya e seguito da quello del villaggio di Samu’.
A quei giorni, risale la fondazione di un nuovo gruppo, The Labour Friends of Israel (Gli Amici Laburisti di Israele), che divenne un pilastro della lobby filo-israeliana in Gran Bretagna. Nel Paese c’era già la massiccia presenza di una ben affermata lobby filo-sionista, sin dal 1900, anno in cui il Quarto Congresso Sionista si riunì a Londra. In quell’occasione, si diede avvio alla costruzione di una potente lobby, che portò alla Dichiarazione di Balfour e dunque all’impegno formale da parte della Gran Bretagna di consegnare la Palestina al movimento sionista, a discapito della popolazione nativa palestinese.
È proprio in quel periodo che si avviano due processi che si riveleranno cruciali per creare uno scudo di immunità intorno a Israele, tale da consentire a Tel Aviv di proseguire nelle sue politiche di colonizzazione e sottrazione di terre in Palestina fino ai giorni nostri, nel silenzio della comunità internazionale.
Il primo è consistito nel reclutare rispettose istituzioni nate con lo scopo di difendere gli interessi della comunità anglo-ebraica alla causa sionista prima, e israeliana poi. La più importante tra queste era il Board of Deputies, nato come parlamento degli ebrei britannici e trasformato in ambasciata israeliana. Il secondo processo ha visto l’associazione tra una brillante carriera politica all’interno del Partito Laburista e l’appartenenza si Labour Friends of Israel. Essere un amico di Israele, in parole povere, avrebbe assicurato di fare strada all’interno del partito.
Il panorama politico elisabettiano cambiò nel 1967, quando divenne più complicato vendere al pubblico britannico il mito del mini-impero israeliano che, come un povero Davide, si batteva contro l’arabo Golia. Il 1967 vide un cambiamento sostanziale in tutti i partiti politici, anche in risposta al riemergere del movimento di liberazione palestinese. La spinta di solidarietà nei confronti dei palestinesi influenzò inevitabilmente le forze politiche.
Due politici britannici, uno laburista e uno conservatore, incarnano questo cambiamento di mentalità. Non sempre per una genuina spinta solidale, che pure era presente, ma anche perché capivano che un sostegno incondizionato a Israele avrebbe avuto un impatto negativo sull’immagine della Gran Bretagna nel mondo arabo.
Il primo era il Ministro degli Esteri laburista George Brown, il secondo il Ministro degli Esteri conservatore, Alex Douglass Home. Entrambi sono stati descritti dalla lobby con appellativi che sarebbero stati poi riservati al leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Il peccato originale di questi politici è stato quello di avere il coraggio di assumere una posizione equilibrata sulla questione palestinese, immediatamente bollata da Israele e dalla sua lobby come antisemita.
Brown chiese alle Nazioni Unite il ritiro totale di Israele dai Territori Occupati nel 1967 e accese i riflettori sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi. Douglass Home, in un celebre discorso ad Harrogate nel 1970, si spinse oltre, collocando la questione palestinese al centro del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano”. Sicuramente, le loro proposte erano distanti anni luce da ciò che sarebbe stato necessario per portare pace e giustizia alla Palestina storica, ma sicuramente le loro posizioni avrebbero potuto indirizzare il dibattito nella giusta direzione.
Più incisiva, negli anni successivi al 1967, è stata la campagna di solidarietà istituita dai nostri amici Ghada Karmi, Christopher Mayhew e Michael Adams, per citare solo alcuni tra coloro che aderirono, e che erano coinvolti nella politica britannica nelle tre formazioni principali: il partito laburista, quello conservatore e quello liberale.
Insieme agli ebrei antisionisti britannici ed ex israeliani, unitamente alla comunità palestinese in Gran Bretagna, hanno avuto il merito di sfidare una lobby potentissima, che aveva aggiunto alla struttura già esistente una folta schiera di nuovi gruppi, tra cui il Conservative Friends of Israel, il più potente a livello europeo. Oggi, l’80% dei parlamentari conservatori è membro di questa organizzazione.
Tony Blair
Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che Brown e Douglass Home non abbiano minimamente influito sulla politica britannica per quanto concerne la questione palestinese. In questo senso, ad avere un ruolo determinante sono stati i primi ministri, per lo più del Partito Laburista, come Harold Wilson, Tony Blair e Gordon Brown. Furono tutti premiati dal Jewish National Fund, che decise di piantare una pineta europea sulle rovine di tre villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, in segno di gratitudine verso i politici britannici filo-israeliani.
I tre erano, per certi versi, dei cristiani sionisti, che hanno lasciato carta bianca a Israele tra gli anni ‘70 e il 2010, periodo in cui l’ebraicizzazione della Cisgiordania e il progetto della Grande Gerusalemme, unitamente alle brutali aggressioni ai danni della Striscia di Gaza, hanno caratterizzato la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
La Gran Bretagna si è distinta per essere stata il membro meno filo-palestinese all’interno dell’Unione Europea, prima dell’aggiunta dei nuovi membri in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica. Ha sempre seguito la linea della disonesta intermediazione statunitense nel cosiddetto processo di pace, continuando a fornire a Israele armi e sostegno diplomatico, in un mondo in cui le sue ex colonie cercavano di imporre un’agenda di decolonizzazione che includeva anche la liberazione della Palestina.
*Questo articolo è apparso in esclusiva in lingua inglese sul Palestine Chronicle
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Hezbollah, il «guardiano» del gas del Libano
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 15 settembre 2022 – Il sogno dei libanesi è sfruttare il giacimento sottomarino di gas di Karish che lascia immaginare entrate per miliardi di dollari. La realtà è Beirut per metà al buio per la scarsa elettricità disponibile, gli aumenti del prezzo del carburante, l’inflazione fuori controllo e il crollo continuo della lira scambiata ieri a 36mila per un dollaro. E chi i dollari non li ha, gira avendo in tasca dozzine di banconote tenute strette da un elastico, necessarie anche solo per comprare qualcosa al minimarket sotto casa. Ammesso che si abbiano lire da spendere. Il 78% dei libanesi vive in condizioni di povertà. Jihad, il taxista che ci porta dal quartiere centrale di Hamra a quello periferico di Haret Hreik sente sulle sue spalle tutto il peso della crisi. «Ormai non si vive più, ogni giorno aumenta il prezzo della benzina e la lira non vale nulla. Se solo potessi partire e andare via da questo paese di politici falliti, tutti senza eccezione», ci dice dando una accelerata alla sua vecchia auto. Due giorni fa è arrivato un altro pugno allo stomaco della maggioranza dei libanesi. La Banca centrale ha revocato i sussidi per le importazioni di carburante facendo schizzare verso l’alto il prezzo di benzina e gasolio.
Tra una maledizione scagliata a questo o quel politico, Jihad ci fa notare che le lunghe code e gli ingorghi nelle strade di Beirut sono meno intensi di qualche tempo fa. «Muoversi in auto costa troppo, fare rifornimento non è più per tutti», ci spiega lasciandoci davanti all’ufficio del religioso Ali Daamoush, vicepresidente dell’esecutivo del movimento sciita Hezbollah. Esponente tra i più noti dell’ala politica del movimento sciita, Daamoush ha accettato di rispondere alle nostre domande sull’andamento della trattativa indiretta che il Libano sta portando avanti, con la mediazione statunitense, per la definizione del confine marittimo con Israele. Tel Aviv è decisa ad avviare nelle acque tra i due paesi lo sfruttamento del giacimento sottomarino di Karish entro settembre. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha reagito a questa intenzione minacciando in una intervista a Mayadeen Tv che «Se l’estrazione di petrolio e gas dal giacimento di Karish inizierà a settembre prima che il Libano ottenga i suoi diritti, allora faremo di tutto per raggiungere i nostri obiettivi…Nessuno desidera la guerra e la decisione è nelle mani di Israele, non nelle nostre». Qualche settimana fa, Hezbollah ha inviato droni – abbattuti quasi subito – verso la nave mandata da Israele per effettuare i primi rilievi a Karish. Un messaggio inequivocabile.
Daamoush smorza l’ottimismo generato dalle ultime dichiarazioni del mediatore Usa, Amos Hochstein sui progressi fatti dalla trattativa. «Si parla di segnali positivi – ci dice – ma dobbiamo vedere come andranno le cose alla fine, ci sono punti molto importanti da discutere. Noi restiamo fermi sulla nostra posizione, a ciò che ha detto il segretario Nasrallah sui diritti irrinunciabili del Libano». Quindi aggiunge di non fidarsi della mediazione statunitense: «Non vediamo negli Stati uniti una parte affidabile e credibile. Stanno sempre dalla parte di Israele. Hochstein ci offre condizioni che sono sempre favorevoli per Israele».
Il movimento sciita Hezbollah – sostenuto dall’Iran e forte di un’ala militare ben addestrata ed armata di decine di migliaia di razzi – malgrado il calo registrato dal suo schieramento politico («8 marzo») alle ultime elezioni, resta la forza più influente nella politica libanese. E non manca di far sentire il suo peso recitando, con l’approvazione di tanti libanesi e la disapprovazione di molti altri, il ruolo di unico difensore degli interessi economici del paese. Dall’esito del negoziato dipenderà la possibilità del Libano di poter sfruttare riserve di gas sottomarino al momento di entità incerta. La differenza se sarà deciso un confine marittimo piuttosto di un altro, è di miliardi di dollari, vitali per un paese che ha disperato bisogno di valuta pregiata per stabilizzare la lira e ridare fiducia ai libanesi che nel 2019 hanno manifestato in massa contro corruzione, malgoverno e l’intera classe politica.
Nell’ultimo periodo si sono intensificati raduni e manifestazioni, anche in mare, di libanesi che chiedono al governo uscente di adottare una posizione più ferma tale da garantire al paese una quota maggiore di riserve di gas. Daamoush rispondendo a una nostra domanda afferma che Hezbollah rispetterà le decisioni del governo. Poi avverte: «Pensiamo che il governo non rinuncerà ai diritti del popolo libanese. Se invece vedremo che non ci saranno benefici per la nostra gente allora faremo sentire forte la nostra voce». E ancora: «Se Israele estrarrà gas dalla zona contesa senza un accordo, allora difenderemo i nostri diritti. In quel caso sarà Israele che avrà scelto la guerra non noi». Ad agosto anche il premier israeliano Yair Lapid ha usato toni bellicosi avvertendo che il suo governo non esiterà a proteggere gli interessi del paese.
Il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie in Libano è parallelo allo stallo politico. Il premier incaricato Najib Mikati non è ancora riuscito a formare una maggioranza. Inoltre, il 31 ottobre scadrà il mandato del presidente Aoun e al momento non c’è ancora accordo sul nome del futuro capo dello Stato. Si pensa che in assenza di un nuovo gabinetto Aoun si rifiuterà di lasciare il palazzo di Baabda. I cittadini libanesi intanto già guardano con preoccupazione all’inverno che si avvicina con il carburante alle stelle e la poca elettricità disponibile. Charbel, nel suo piccolo negozio di souvenir, pensa di procurarsi quanta più legna da ardere possibile per la sua vecchia stufa. «Da anni era solo decorativa lì a casa ma ora dovrà riscaldarci per tutto l’inverno. Trovare la legna però non è facile» dice con un mezzo sospiro. Come lui proveranno a fare decine di migliaia di libanesi. Il paese famoso per i suoi cedri e gli alberi secolari ora rischia anche il disboscamento. «Non ci hanno lasciato altra scelta, comprare il gasolio ti porta via quanto spendi per sfamarti un mese», si giustifica Charbel. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto
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L’obsolescenza degli smartphone e la raccolta massiccia di dati mettono in pericolo il futuro del digitale
Vorrei segnalare un altro articolo molto interessante pubblicato da Basta!, media francese indipendente e autofinanziato (se potete, sostenetelo da qui: basta.media/don):
“L’obsolescenza degli smartphone e la raccolta massiccia di dati mettono in pericolo il futuro del digitale” di Emma Bougerol:
basta.media/l-obsolescence-des…
Questo è il sommario che apre l’articolo:
“Dai minerali indispensabili per gli smartphone all'energia consumata dai data center, la tecnologia digitale ha un pesante impatto ecologico. Anche in questo caso la sobrietà è essenziale, ma non passa necessariamente dalla riduzione dell'uso di Internet”.
Qui sotto trovate una sintesi dei temi trattati, l’articolo è distribuito con una licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 che non ne permette la traduzione.
L’articolo mette in evidenza alcuni dati dell’impatto della tecnologia digitale sull’ambiente: questa rappresenta in Francia il 10% del consumo di elettricità e il 2,5% dell'impronta di carbonio che sintetizzata in un’immagine piuttosto efficace è l’equivalente delle emissioni di CO2 di 12 milioni di automobili, che percorrano ciascuna 12.000 km all'anno.
L’articolo sottolinea poi come la valutazione dell’impatto ambientale debba tener conto di molteplici fattori: il consumo di tutti i dispositivi usati dagli utenti, ma anche i consumi della rete che trasporta questa enorme quantità di dati e interazioni e quello dei data center che li archiviano.
Il testo prosegue ricordando come la produzione dei terminali degli utenti, televisori, computer, smartphone costituisca la parte maggiore e più dannosa dell’impatto ambientale del digitale (esaurimento delle risorse, emissioni, consumo di energia, produzione di rifiuti).
Buona parte di questi danni ambientali colpiscono soprattutto i paesi in via di sviluppo in cui si estraggono i metalli preziosi e quelli in cui vengono scaricati i nostri rifiuti elettronici.
A questo aspetto si aggiunge l’esaurimento di alcuni minerali necessari per la costruzione dei dispositivi, ad esempio litio e cobalto per le batterie o il tantalio per i circuiti degli smartphone.
Anche in questo caso non è possibile pensare che la quantità di dispositivi prodotti possa essere infinita.
Un altro grave problema affrontato è quello dell’obsolescenza dei dispositivi: in Francia la vita media di uno smartphone è stimata tra i due e i tre anni, è chiaro che per ridurre l’impatto ambientale sarebbe necessario aumentare e non di poco la durata dell’utilizzo dei dispositivi, secondo un esperto dell’associazione GreenIT.fr si dovrebbe arrivare ad 8 anni per gli smartphone, 10-15 anni per i computer e 20 per i televisori.
La conclusione dell’articolo si apre con un titolo un po’ forte, "Eliminiamo il digitale ogni volta che è possibile” che però viene meglio articolato nelle righe successive: non si tratta di fermare del tutto lo sviluppo della tecnologia digitale, ma si tratta di optare per scelte “low tech” che pratichino anche alternative analogiche là dove disponibili. Questo processo non può essere un percorso individuale è fondamentale un intervento politico dello stato che deve regolamentare in qualche modo la vendita e la distribuzione dei prodotti digitali.
L’obsolescence des smartphones et la collecte massive de données mettent en péril l’avenir du numérique
Le numérique représente 10% de la consommation d'électricité en France, et 2,5% de ses émissions de CO2.Basta!
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Oscar, La Stranezza del palermitano Andò tra i 12 film italiani in gara per la candidatura
C'è anche il film "La Stranezza" del regista palermitano Roberto Andò, con protagonisti Toni Servillo e il duo pure palermitano formato da Salvo Ficarra e Valentino Picone nell'elenco delle 12 pellicole che concorreranno alla designazione del titolo candidato a rappresentare l'Italia nella selezione per la categoria International Feature Film Award dell'edizione numero 95 dell'Academy Awards, il prestigioso Premio Oscar.
gds.it/foto/cinema/2022/09/21/…
Oscar, La Stranezza del palermitano Andò tra i 12 film italiani in gara per la candidatura
C'è anche il film "La Stranezza" del regista palermitano Roberto Andò , con protagonisti Toni Servillo e il duo pure palermitano formato da Salvo Ficarra e Valentino...redazione (Giornale di Sicilia)
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