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USA: sulla riforma della cannabis scende in campo Biden in persona
La scorsa settimana il Presidente Joe Biden ha fatto un annuncio a sorpresa sulla marijuana. Mentre la maggior parte degli Stati Uniti ha programmi di marijuana medica, le cose sono più difficili a livello federale. Il Farm Bill del 2018 ha reso legale la cannabis con un contenuto di THC delta-9 inferiore allo 0,03% (canapa), […]
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LIbSpace con Simona Benedettini
Come sta andando il sistema monetario parallelo della Russia?
Gli sforzi per evitare le sanzioni promuovendo un'alternativa alle reti finanziarie dominate dagli Stati Uniti hanno le loro sfide. Ma questo potrebbe cambiare. Mentre il mondo si muove verso una realtà multipolare, potrebbe esserci un momento in cui le alternative sono molto più preferibili al sistema dominato dagli Stati Uniti
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No, l’escalation degli attacchi aerei della Russia non è una rappresaglia per il ponte di Crimea
Il 10 ottobre la Russia ha lanciato più di 80 missili e lanciato almeno 24 droni kamikaze contro obiettivi civili in tutta l’Ucraina. Gli ultimi rapporti suggeriscono che 19 ucraini sono stati uccisi negli attacchi con oltre 100 feriti. Gli scioperi hanno lasciato vaste aree del paese senza elettricità, acqua e accesso a Internet. Il […]
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REPORTAGE. Tra uliveti e “terra di nessuno”: i lavoratori migranti nella Sicilia occidentale
di Emma Wallis, articolo pubblicato il 7 ottobre 2022 da Infomigrants* (infomigrants.net/en/)
(foto screenshot da TG RAI regionale)
(traduzione dall’inglese a cura di Pagine Esteri)
Pagine Esteri, 11 ottobre 2022 – Negli ultimi dieci anni il campo migranti di Campobello di Mazara, nella Sicilia occidentale, è diventato una “terra di nessuno insalubre”. Le autorità regionali dicono che è così pericoloso che anche la polizia non va lì. InfoMigrants ha dato un’occhiata all’interno.
Per arrivarci è necessario guidare ad ovest dal capoluogo Palermo, verso le città di Trapani e Mazara del Vallo. Fuori dalle strade principali, lungo viuzze ventose e piene di buche, attraverso città povere, dall’aspetto quasi abbandonato, costituite da tetti piatti, abitazioni a un piano, tende sbrindellate che soffiano nella brezza serale, ci sono i resti di un cementificio abbandonato.
Da un lato della strada ci sono uliveti e dall’altro cumuli di rifiuti, accatastati più in alto di un’auto. Bottiglie di plastica per lo più, pacchetti vuoti, barattoli di latta arrugginiti e mosche. Mentre ci avviciniamo all’ingresso di questo insediamento, alcuni giovani dell’Africa subsahariana osservano la strada. La loro pelle sembra gessosa e callosa, le spalle accasciate, i vestiti impolverati ea volte strappati.
È qui nella Sicilia occidentale che un campo informale si riempie ogni anno di centinaia, a volte più di 1.000 lavoratori migranti, per lo più dall’Africa subsahariana, che vengono a raccogliere. Per molti in Sicilia, questo luogo è diventato una “terra di nessuno”.
“Anche la polizia non ci va”
Il capo dell’Ufficio regionale siciliano per l’immigrazione, Michela Bongiorno e la sua squadra, affermano che può essere pericoloso entrarvi. “Non si entra da soli”, avvertono, “anche la polizia non entra”. Fanno in modo da farci incontrare i mediatori culturali e traduttori locali Jonny Affun, Albert Kalenda Kabongo e Simona Scovazzo vicino al campo per aiutarci ad accedere. Bongiorno descrive le condizioni lì come “disumane” e riferisce che all’interno si svolgono spaccio di droga e attività mafiose.
“Non c’è luce né acqua. Immagina le grandi difficoltà che stanno affrontando [i migranti]. È molto difficile, è un’area abbandonata dove nessuno ha il controllo”, spiega Jonny, un traduttore nigeriano, arrivato lui stesso come migrante dal Mediterraneo circa 16 anni fa.
E’ fine settembre, la raccolta delle olive si avvia ai primi di ottobre. I residenti del campo hanno iniziato ad arrivare. In fondo a un vicolo, dietro i mucchi di spazzatura sul davanti, si apre una specie di viottolo, fiancheggiato da poltrone abbandonate e vecchi sedili per auto. Alcuni uomini siedono tra loro mentre i cani randagi vagano intorno. Un uomo sta cucinando su un fuoco aperto, una grande pentola di metallo in equilibrio sopra le fiamme. La cenere vola nella brezza e il fumo oscura le dimore sbrindellate fatte di pezzi di legno abbandonati, lamiera ondulata e vecchi muri fatiscenti.
Leader autoproclamati
Al comando sembrano essere due senegalesi in piedi vicino al fuoco. Non vogliono essere registrati o filmati e non ci lasciano parlare con nessun altro prima che abbiano deciso se possiamo restare. L’ostilità è palpabile. L’anno scorso, alla fine di settembre, un incendio ha squarciato una parte del campo, provocando la morte di un giovane lavoratore migrante di nome Omar Baldeh. Il suo corpo è stato trovato bruciato dove aveva dormito.
L’emittente statale italiana Rai è entrata nel campo quasi un anno dopo e ha chiesto a uno dei due sedicenti leader del campo cosa fosse cambiato da allora. “Niente. Semmai è peggiorato”, fu la sua risposta. “Siamo ancora noi qui, gente del Gambia, del Mali, del Senegal e dei tunisini. Vedi degli italiani che raccolgono le olive da queste parti?”
Olive raccolte a mano
Ogni anno circa 1.000-1.300 persone vengono nella regione per lavorare tra settembre e dicembre, raccogliendo le olive a mano per la raccolta. La maggior parte di loro proviene dal Mali, dal Senegal, dal Gambia, dal Burkina Faso, dalla Tunisia, dal Marocco, dal Pakistan e alcuni ora dal Bangladesh, spiega Simona Scovazzo, mediatrice culturale che sembra conoscere molti nel campo.
“Questa è una zona compresa tra due comuni, Castelveltrano e Campobello di Mazara, dove c’è una concentrazione di olivicoltura. Qui produciamo un’oliva speciale che può essere usata per l’olio extravergine di oliva e anche da mangiare come spuntino”. Ma Scovazzo, che da una decina di anni opera sul territorio, ammette dopo la giornata di lavoro gli uomini sono costretti a vivere in condizioni che sono un mondo a parte da questa industria gastronomica.
“All’interno del campo non ci sono servizi. Non c’è acqua corrente, elettricità, servizi igienici, quindi i ragazzi qui fanno del loro meglio”, dice. “Ad esempio, faranno bollire l’acqua e poi la distribuiranno attraverso il campo. Hanno costruito piccoli spazi doccia per questo e ci sono aree “toilette”. Di notte, accendono fuochi in modo che si possa vedere, poiché non ci sono luci all’interno il campo.”
Funzionano anche i generatori a benzina, che forniscono l’elettricità a un televisore per l’intrattenimento, dice uno dei capi del campo a InfoMigrants. Ma è stato un generatore a causare l’incendio anche nel 2021, spiega Jonny.
Nessun posto dove andare
Non tutti coloro che vivono nelle cementerie abbandonate hanno contratti di lavoro. Simona Scovazzo spiega che le persone finiscono qui per motivi diversi. “Alcuni di loro semplicemente non riescono a trovare un posto in affitto, quindi vengono qui. E non vengono forniti abbastanza posti ufficiali. Altri forse hanno avuto un permesso di soggiorno ma potrebbe essere scaduto e ora, senza un indirizzo, non sono in grado di rinnovarlo”.
Altri, aggiunge, si accampano per tutta la durata del raccolto in piccole tende vicino ai campi, ricoperte di plastica per proteggersi dalle frequenti piogge durante questa stagione. Anche se alcuni affermano di essere in possesso di documenti, dice Jonny Affun, la maggior parte degli uomini del campo sono costretti a rimanere lì perché non hanno uno status legale. “Cercano di sopravvivere lì (dentro la fabbrica di cemento abbandonata) perché la maggior parte di loro sopravvive senza documenti”, aggiunge. “Alcuni anni fa lì vivevano meno migranti, ma dopo le leggi Salvini (leggi sulla migrazione e sulla sicurezza approvate nel 2018 che hanno revocato alcune protezioni e reso più difficile in alcuni casi l’ottenimento dei permessi di soggiorno e di lavoro) molti di loro hanno perso i documenti e quindi non hanno altro posto dove andare”.
Nel frattempo, la situazione all’interno del campo peggiora di giorno in giorno, spiega Affun. “Si vede la quantità di rifiuti all’ingresso. Questo perché negli ultimi due anni non è passato nessuno a sgomberare. Quei ragazzi sono sempre arrabbiati, non vogliono parlare, sono stanchi, non hanno documenti, nessun posto dove andare, nessun posto dove lavorare. Anche alcuni di loro con i documenti lì dentro, non riescono a trovare un posto da affittare. Quando chiamano e chiedono se possono affittare una casa, i cittadini chiedono: “di dove sei?”. Quando rispondono “dall’Africa”, gli viene detto “non c’è una casa da affittare”. Quindi sono costretti a vivere in quello spazio”.
Affun pensa che le autorità debbano parlare di più con i lavoratori migranti per vedere cosa vogliono. “Molte di quelle persone che lavorano, non conoscono i loro diritti e un contratto di lavoro. È davvero importante dare informazioni e insegnare a queste persone i loro diritti fondamentali”.
Nuovi progetti
La regione siciliana sta cercando di fare qualcosa. La responsabile dell’ufficio per la migrazione, Michela Bongiorno, è stata impegnata con i comuni della Sicilia occidentale per prendere possesso dei terreni confiscati alla mafia e rilanciare i borghi marinari abbandonati dai residenti andati in città in cerca di lavoro.
Alcuni lavoratori migranti sono già ospitati in un centro di accoglienza SPRAR pulito a cinque minuti di auto da Campobello, e accanto ad esso sono state costruite anche 300 nuove cabine in collaborazione con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR per ospitarne altri.
«Il problema dell’alloggio è davvero serio», dice Bongiorno. “I lavoratori stagionali che vengono per alcuni mesi dovrebbero poter vivere in condizioni igieniche, ma io sono contraria all’idea che questi campi esistano tutto l’anno. Se le persone vivono nella nostra regione per tutto l’anno, dovrebbero essere adeguatamente integrate. Ecco perché stiamo avviando nuovi progetti per farlo”.
Diritti per i lavoratori
Una nuova campagna, “Diritti negli Occhi”, mira a fornire un sistema di alloggi, trasporti e infrastrutture sponsorizzato dallo Stato affinché i lavoratori stagionali possano arrivare nei campi, vivere in luoghi igienici ed evitare lo sfruttamento. In precedenza, questi progetti erano offerti solo a chi aveva un permesso di soggiorno, ma si spera di offrire alloggi sanitari sicuri a tutti coloro che lavorano nella zona, al fine di spezzare la morsa dei contratti di lavoro abusivi e dello sfruttamento che alcuni agricoltori richiedono ai loro lavoratori e che alimenta questo ciclo di povertà e abusi.
Secondo TP24, un giornale online per la provincia di Trapani e la Sicilia occidentale, due progetti finiranno per migliorare la situazione, con un costo stimato di quasi 2,6 milioni di euro. Mirerebbero a costruire ostelli per i lavoratori stagionali e ad assicurare che tutti abbiano contratti di lavoro adeguati, anche se il tempo necessario per installarli “potrebbe essere lungo”.
Nel frattempo, dice Jonny Affun, la situazione per i lavoratori è desolante. “Alcune di queste persone lavorano dieci ore al giorno e percepiscono a malapena 30 euro di compenso. Quando finiscono la giornata sono davvero stanche, è quello che è successo al fratello guineano morto nell’incendio l’anno scorso. Era così stanco, si è addormentato e nel frattempo l’intero campo è andato a fuoco. Un altro incendio è accaduto anche quest’anno. Il governo è arrivato, parlano, parlano, ma non è stato fatto nulla. Finora non c’è una soluzione. È molto deprimente. Gli stessi incidenti accaduti allora potrebbero ripetersi di nuovo”. Pagine Esteri
Link dell’articolo in lingua inglese
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In discesa
Nelle tavolozze della politica prevalgono i colori scuri. Qualcuno manca proprio di quelli necessari a far balenare un raggio di luce. Ma la realtà, compresa la contrazione che viviamo, ha elementi che dovrebbero incoraggiare a costruire il futuro, anziché piangere sul presente.
L’intera campagna elettorale è stata costruita raffigurando un’Italia in condizioni pessime, sull’orlo del crollo o già crollante, dal che conseguiva la necessità di approntare soccorsi. L’Italia, però, sta ancora vivendo un biennio nel corso del quale è tra le economie più dinamiche e reattive fra quelle sviluppate e segnatamente fra quelle del G7.
Al contrario di quello cui eravamo (tristemente e colpevolmente) abituati, da lustri, siamo cresciuti più degli altri. Complice anche l’inflazione, inoltre, è diminuito il peso percentuale del deficit e del debito, ad una velocità sconosciuta nell’era repubblicana. Tutte le previsioni fatte precedentemente, nazionali ed internazionali, sono state corrette al rialzo, perché l’Italia è cresciuta più di quanto si era stati capaci di supporre. In queste condizioni non si è stati capaci di parlare d’altro che di povertà e disperazione, in larga parte auto-ingannandoci per poter far fiorire la fabbrica dell’assistenzialismo.
Nella seconda metà dell’anno, però, la crescita ha rallentato notevolmente. Il Fondo monetario internazionale prevede un 2023 con il segno negativo: -0.2%. Il +0.6% previsto dal governo appare ottimistico. L’eventuale recessione si definisce “tecnica” non per sminuirne la negatività, ma perché la portata è limitata e innescata da cause internazionale (tanto che per l’altra potenza industriale europea, la Germania, il Fmi prevede un -0.3%).
Ne deriva che il nuovo governo dovrà lavorare nelle condizioni peggiori? Non direi. Intanto i nuovi governanti dovranno prendere atto che la loro precedente propaganda porta male e li indebolisce: se prima, quando si cresceva, era un inferno, ora che ci si ferma, che è? Ma se impareranno a lavorare sulla realtà potranno vederne le opportunità.
Deficit e debito li ereditano in calo e non in crescita, il che non è consueto. Dovranno impegnarsi nel sapere spendere i soldi del Pnrr, ma per quanto sia arduo il cimento è pur sempre mille volte meglio di non avere soldi per investimenti. Quindi la magra del 2023 sarà premessa di cambiamenti e innovazioni che faranno da base alla crescita successiva.
L’inflazione è prevista in calo, il che toglie il suo supporto nell’alleggerire il debito, ma consente di cambiare la dinamica dei prezzi, con beneficio per i consumatori. Anche la dolorosa stagione in cui si scontano i gravi errori del passato e la dipendenza masochista dal gas russo ha un suo risvolto positivo, perché ora la paghiamo cara, ma è già in corso il lavoro che potrà consentire all’Italia di divenire snodo strategico per il gas consumato in Unione europea, mediante nuovi gasdotti e maggiore portata di quelli esistenti. Che approdano da noi. Quello che qualche svalvolato descrisse come danno è un bene.
E c’è un fronte molto importante, su cui la destra di governo potrà lasciare il segno: l’immigrazione. Nel 2022 i lavoratori italiani fra i 55 e i 64 anni sono 4 milioni e 793mila, un numero che è cresciuto negli ultimi anni. Non solo sono più numerosi dei lavoratori fra i 25 e i 34 anni, ma gradualmente usciranno dal mercato del lavoro, andando in pensione. Mancheranno lavoratori, mentre finanziamo i non lavoratori. La sfida, nel campo dell’immigrazione, non è a chi abbraccia e chi blocca di più, tanto non funziona né l’una né l’altra cosa, la sfida è regolare i flussi e scegliere gli immigrati. Non per fede o provenienza, che appare bislacca l’idea di prendere noi quelli che gli Usa respingono in Messico, ma per capacità e utilità. Dalle parole ai fatti, insomma.
Se pensano di durare più di qualche mese, l’occasione per fare e ben figurare c’è. In discesa non è pericoloso, se si guarda avanti e si mantiene il controllo.
L'articolo In discesa proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
NAOMI KLEIN: La COP27 in Egitto sarà il greenwashing di una dittatura
La conferenza per il clima delle Nazioni Unite sarà ospitata a novembre a Sharm El-Sheikh, in un Paese in cui gli attivisti, primo tra tutti Alaa Abd El Fattah, in sciopero della fame dal 2011, muoiono in carcere e chi esprime la propria opinione o manifesta il suo dissenso rischia la vita
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L'Unione Europea di Giorgia Meloni
«I cittadini stanno accettando il fatto che, chiunque governi, finirà per perseguire le stesse politiche o politiche simili. Il potere delle democrazie di cambiare la realtà socio-economica, di migliorare le condizioni di vita delle classi lavoratrici e salariate si sta riducendo; esse sono sottoposte a un doppio potere dispotico, quello delle istituzioni di controllo e sorveglianza dell’Unione Europea e di quello che è definito “il mercato”, cioè il potere organizzato di una plutocrazia che domina la vita economica e riesce sempre a imporre i propri interessi a popolazioni sempre più indifese e confuse.»
PETROLIO. Biden “deluso” dagli alleati sauditi, Riyadh resta amica di Putin
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 ottobre 2022 – «Il petrolio non è un’arma e l’Arabia saudita non intende politicizzare questa risorsa». Prova ad allentare la tensione con Washington il ministro di Stato saudita per gli affari esteri, Adel al Jubeir, dopo il taglio annunciato dall’Opec+ della produzione globale di petrolio di due milioni di barili al giorno. Intervistato dalla Fox news, Al Jubeir ha fatto il possibile per smentire che il taglio sia avvenuto di concerto con la Russia, uno dei paesi associati all’Opec+. «Il petrolio, ai nostri occhi, è un bene importante per l’economia globale, in cui abbiamo un grande interesse», ha affermato il ministro saudita prima di ricordare i legami storici tra Washington e Riyadh. Ma le sue parole non bastano a stemperare la «delusione» profonda espressa qualche ora prima da Joe Biden che si sente tradito dal principale partner arabo. Il presidente americano ha reagito ordinando al Dipartimento dell’Energia di mettere sul mercato a novembre 10 milioni di barili dalla Strategic Petroleum Reserve (SPR), la più grande riserva mondiale di greggio, istituita nel 1975. Un passo che preoccupa alcuni esperti. La riserva di emergenza è già ai livelli più bassi dal 1984. Politico la scorsa settimana scriveva che Repubblicani e Democratici valutano diverse azioni, anche punitive, contro l’Opec+ ma appaiono tutte poco credibili.
Dopo il viaggio a Gedda di tre mesi fa che, tra le altre cose, aveva sancito la riconciliazione con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – accusato di aver ordinato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi-, Biden si attendeva da Riyadh una collaborazione più stretta, a cominciare dall’isolamento della Russia. E subito dopo il mantenimento di livelli elevati di produzione del greggio per contenere il costo del barile e dare una mano alle economie occidentali minacciate da un quadro energetico sempre più preoccupante per le conseguenze delle sanzioni contro il Cremlino. E invece i sauditi, di concerto proprio con la «nemica» Mosca, mentre gli Usa fanno di tutto per colpire Vladimir Putin, sono stati decisivi per il taglio della produzione. «Stiamo valutando una serie di alternative, ma non è ancora stata presa una decisione finale», ha affermato Biden, aggiungendo di non rimpiangere il suo viaggio in Arabia Saudita. «La mia visita non ha riguardato solo il petrolio, anzi era incentrata sulla stabilizzazione del Medio Oriente e di Israele», ha precisato per sottrarsi alle critiche che lo sommergono in queste ore.
Funzionari dell’Amministrazione Usa confermano che la Casa Bianca aveva fatto il possibile per impedire il taglio della produzione dell’Opec ed evitare che il prezzo della benzina negli Usa aumenti mentre si avvicinano le elezioni di medio termine e il Partito Democratico lotta per mantenere il controllo del Congresso. Biden il mese scorso aveva spedito in Arabia saudita Amos Hochstein, l’inviato speciale per l’energia, e il funzionario della sicurezza nazionale Brett McGurk per discutere di questioni energetiche e della decisione dell’Opec+. Non è servito ad impedire il taglio alla produzione del greggio. Stando alle indiscrezioni gli inviati statunitensi avrebbero cercato di mettere i sauditi di fronte a un aut aut: «noi o la Russia». La risposta del ministro dell’energia di Riyadh, il principe Abdulaziz bin Salman, è stata eloquente. «Ci preoccupiamo prima di tutto degli interessi del regno dell’Arabia saudita, quindi degli interessi dei paesi membri dell’Opec e dell’alleanza OPEC +». In poche parole: noi con Putin non rompiamo, continuiamo a collaborare e pensiamo solo a come evitare che l’economia saudita vada in recessione.
Intervistato dalla Reuters Ben Cahill, ricercatore presso il Center for Strategic and International Studies, ha affermato che i sauditi sperano che i tagli alla produzione garantiscano entrate sufficienti. «Il rischio macroeconomico sta peggiorando. I sauditi sapevano che il taglio avrebbe irritato Washington ma stanno gestendo il mercato», ha spiegato. A Riyadh puntano l’indice contro l’insufficiente capacità di raffinazione negli Usa e non condividono l’iniziativa americana per un tetto massimo del prezzo del petrolio russo che ritengono un meccanismo di controllo non di mercato che potrebbe essere utilizzato da un cartello di consumatori contro i produttori.
Negli Usa si sono convinti che l’Opec+ si stia progressivamente allineando con la Russia e al Congresso i Democratici hanno chiesto il ritiro delle truppe statunitensi dall’Arabia saudita. «Pensavo che lo scopo principale della vendita di armi agli Stati del Golfo, nonostante le loro violazioni dei diritti umani, l’assurda guerra nello Yemen, il lavoro contro gli interessi degli Stati uniti in Libia, Sudan, fosse che il Golfo avrebbe scelto l’America e non la Russia/Cina durante una crisi internazionale» ha scritto su Twitter il senatore Chris Murphy, un Democratico. Parole che rappresentano un attacco frontale alla decisione presa da Biden nei mesi scorsi di rilanciare le relazioni con Riyadh. Pagine Esteri
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ANALISI. Iran. In strada contro morali anacronistiche
di Assopace
Pagine Esteri, 10 ottobre 2022 – La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti* per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
La spontanea protesta contro morali anacronistiche
Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo. Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.
La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.
Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.
Le sfide
Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.
A morte il dittatore
Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).
Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.
La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?
La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.
Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.
In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari” (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati». Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.
Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.
Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.
Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.
Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.
Mahsa Amini
Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.
Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».
Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.
Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York. Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.
L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.
Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».
Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).
Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.
Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.
Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto. Pagine Esteri
*Giornalista, esperta di Iran
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Inflazione in Italia: dal taglio dei consumi allo shopping per difendersi dai rincari
La situazione attuale, dovuta alla crisi energetica e ai rincari sta portando gli italiani a modificare le proprie abitudini d’acquisto e in generale il proprio stile di vita. Ciò ha un impatto molto forte su sette italiani su dieci e in certi casi comporta una maggiore attenzione ai consumi. Infatti, come sottolinea il Sole24ore, i […]
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La “Nato araba” vuole essere protagonista del mondo multipolare
Dopo anni di rivalità e ritardi, il Consiglio di Cooperazione del Golfo accelera l’integrazione. Le petromonarchie si allontanano dagli Usa e si avvicinano a Russia e Cina. Il blocco sunnita vuole essere tra i protagonisti del mondo multipolare
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La Russa: e questa sarebbe politica?
Lui, Ignazio Benito Maria La Russa, nel discorso di investitura si propone di cambiare la Costituzione. Gli altri, ovvero il duo Meloni-Salvini, lo avevano appena fatto eleggere con un accordo politico per far fuori Berlusconi, mostrare che esiste un’altra maggioranza, e facilitare (o peggio) l’operazione di modifica della Costituzione, e all'occorrenza altro
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HAITI tra il sollievo e il timore di un intervento internazionale
di Eliana Riva –
Pagine Esteri 14 ottobre 2022 – Dal terminal di Port-au-prince alle strade ci è voluto poco. Le manifestazioni contro l’aumento del carburante, la crisi ormai endemica e l’irresolutezza politica si sono trasformate in una babele. Le richieste dei manifestanti sono diventate le pretese delle bande armate che con la forza delle armi si prendono ciò che vogliono e distribuiscono il resto a proprio piacimento. Molte delle persone che presidiano le strade, sequestrano i camion che trasportano carburante e saccheggiano i convogli di aiuti umanitari, fino a qualche settimana fa erano semplici haitiani poveri e affamati che hanno visto nella violenza la più probabile possibilità di sopravvivenza. Ma le azioni violente hanno causato il caos. L’occupazione del porto ha impedito l’arrivo di carburante, il cibo non può raggiungere molte zone del paese che rimangono senza alimenti e senza acqua sicura.
Le scuole sono chiuse e anche gli ospedali stanno chiudendo poco a poco. Non è sicuro camminare per strada, i rapimenti sono all’ordine del giorno, le condizioni igieniche peggiorano diventando terreno sempre più fertile per il diffondersi del colera. Ma non è più possibile tracciare i contagi, curare i malati e contare i morti.
La politica, totalmente impotente, non è riuscita a partorire altro che un appello di aiuto, all’ONU, agli altri Stati, a chiunque possa. D’altro canto, il presidente e primo ministro ad interim Ariel Henry, neanche due settimane prima che la situazione esplodesse, aveva dichiarato all’ONU che era tutto sotto controllo. Doveva essere lui il primo ministro per nomina del presidente haitiano Jovenel Moïse prima che quest’ultimo venisse ucciso, il 7 luglio 2021. Da allora (ma lo era anche prima) la situazione politica è rimasta instabile e disgregata.
Manifestazioni più o meno pacifiche si sono tenute, nonostante le condizioni, per chiedere la fine della violenza delle bande e della speculazione politica ed economica sul prezzo di vendita dei carburanti. Ma le forze di sicurezza hanno spesso risposto con violenza ai presidi. Non riuscendo (non potendo o non avendone la forza) a contrastare le bande armate, fenomeno certo non nuovo ad Haiti, il governo ha scelto spesso la linea morbida, l’assecondamento, la trattativa. Ed oggi chiama l’aiuto militare internazionale, richiesta sottoscritta e rilanciata dal segretario generale dell’ONU, António Guterres.
L’intervento straniero è visto da molti come un possibile sollievo ma dai cittadini, passando per i gruppi politici locali fino ai rappresentanti della chiesa cattolica, in molti mostrano di temere in parte o del tutto le conseguenze di un intervento straniero. Anche chi, dall’interno, lo invoca, chiede delle garanzie e pone delle condizioni. Che sia solo per stabilire l’ordine e per lasciare il popolo haitiano libero di decidere, che sia per consentire agli aiuti umanitari di giungere a destinazione, che non rappresenti una nuova, pesante e strascicata ingerenza straniera. C’è chi si chiede “intervento umanitario o intervento militare?”
Gli Stati Uniti il 12 ottobre hanno minacciato una stretta sul rilascio dei visti per coloro che, funzionari governativi, militari, amministrativi o semplici cittadini, hanno appoggiato le bande armate e facilitato il dilagare della violenza. Gli USA promettono anche aiuti umanitari, una presenza militare per formare la polizia haitiana sulle azioni di repressione dei violenti armati. Missione impossibile dati i fatti, a meno che tra le fila delle forze di sicurezza haitiane non vengano introdotti, in maniera informale, centinaia di militari statunitensi.
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Estremismo mainstream: l’eredità della violenza di estrema destra dal passato al presente
Uno degli spettacoli più sorprendenti del 6 gennaio 2021 è stato quello di un estremista di estrema destra che portava una grande bandiera confederata attraverso le sale del Congresso. La guerra civile americana era finita oltre 150 anni prima, ma la più breve illuminazione di una causa persa da tempo morta era profondamente inquietante. Per […]
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Usare il FOIA per la trasparenza del trattamento dei dati in ambito pubblico
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La proposta di legge NOPEC non ridurrà i prezzi del petrolio
“Nessuno fotte con un Biden”, ha detto il presidente degli Stati Uniti, e i ministri del petrolio dei paesi membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC+) hanno risposto: “Tieni la mia birra”. L’OPEC+ ha quindi proceduto ad approvare tagli alla produzione di 2 milioni di barili al giorno, nonostante una causa in tribunale da […]
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Cina: il ‘Congresso dei semiconduttori’
Il 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, che si aprirà il 16 ottobre a Pechino, potrebbe anche definirsi il 'Congresso dei semiconduttori'. C'è «una crescente urgenza geostrategica per Pechino di far avanzare le sue capacità locali di semiconduttori. Il provvedimento di Biden del 7 ottobre punta al quasi-contenimento. Situazione rischiosa anche per gli USA. E' la guerra tecnologica
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La crisi di Cuba e l’empatia strategica
La capacità di Kennedy e Krusciov di capirsi, nell'ottobre 1962, ha consentito a entrambi i Paesi e al mondo di resistere alla tempesta. E una lezione per gli Stati Uniti e la Russia nel 2022. Resta la domanda se l'attuale leadership americana e russa sia incline a imparare da loro
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Come prendere di mira la cleptocrazia in Iran
Il regime teocratico iraniano è anche una cleptocrazia tentacolare e profondamente radicata. La struttura organizzativa della cleptocrazia iraniana è la vasta rete di organizzazioni parastatali collegate e in ultima analisi controllate dal potente Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC)
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Al-Shabaab in Somalia: dopo 15 anni, uno Stato de facto
Cosa anima Al-Shabaab in Somalia? liberare il Paese dalle truppe straniere; attuazione della Sharia; sconfiggere il governo federale somalo
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Ucraina, nel buio si intravede la luce?
I due leader sembrano come imprigionati l’uno dal non poter perdere e l’altro dal non poter rinunciare a vincere. Tenere a mente due fattori: impossibile per i russi uscire da una guerra in una posizione di debolezza; mai un nuovo inquilino del Cremlino vorrà iniziare il suo regno gestendo una sconfitta. La soluzione va quindi cercata con Putin, e avrà un prezzo salato, per gli ucraini e per noi europei
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Pacipopulisti
Marce sinistre
Siamo sempre lì: quando si concepisce la politica estera a partire dalla politica interna ci s’infila in un vicolo cieco dal quale diventa impossibile uscire senza la critica di sé stessi.
L’atlantismo dovrebbe essere una salda bussola politica e morale per tutti i partiti italiani e, invece, con la fine del governo Draghi e l’interregno che stiamo vivendo prima della nascita del nuovo esecutivo – dovrebbe essere presieduto da Giorgia Meloni, che dai banchi dell’opposizione si è ritrovata sulla fede atlantica del presidente del Consiglio – stiamo assistendo nello schieramento di sinistra alla riemersione di posizioni filo-russe sotto l’eterna maschera del pacifismo d’antan.
Enrico Letta, da segretario dimissionario del Pd, si ritrova oggi quasi in splendida solitudine – e gli fa onore – a manifestare per la pace nel posto giusto: a Roma davanti all’ambasciata russa.
Purtroppo, parti sempre più consistenti del suo partito – pur con lodevoli eccezioni, come quella del ministro della Difesa Guerini –subiscono il richiamo della foresta che ha le sembianze della concorrenza di un ex Presidente del Consiglio come il Professor Conte, che con la guida del M5S ha scoperto la sua triste vocazione di agitatore di folle.
In Italia si combatte sulla guerra una guerra interna di parole e slogan in cui è in gioco la subalternità del Pd e della sinistra in generale al movimento grillino. Le manifestazioni pacifiste, che si annunciano e si moltiplicano in una gara a chi arriva prima a fare il demagogo, hanno un unico scopo: l’egemonia culturale a sinistra con idee illiberali che – è la desolante conseguenza – fanno strame dell’atlantismo e della stessa Europa sulla quale il Presidente Mattarella ha giustamente richiamato l’attenzione quale vero bersaglio della guerra di Putin.
È una storia antica, che scorre come un vecchio film davanti ai nostri occhi e che ha la sua origine nella mancata affermazione di un riformismo che appena mette la testa fuori dal sacco se la vede ghigliottinata dall’eterno estremismo di turno. Tutti vogliamo la pace. Tuttavia, tra una pace che rispetta la sovrana indipendenza dell’Ucraina e una pace che accetta la guerra di conquista neo-imperiale della Russia c’è una gran bella differenza.
Nel primo caso si rimane in un mondo euro-atlantico in cui i valori delle democrazie liberali continuano a essere l’orizzonte civile delle nostre vite. Nel secondo casosi riporta indietro la storia e si precipita in una situazione precedente alla Seconda guerra mondiale in cui dittature, fascismi e regimi totalitari non solo esistevano ma rivendicavano, nei confronti del mondo della libertà, un primato morale.
È questa la dimensione della posta in gioco che c’è nella guerra che si svolge sulla porta orientale del “vecchio continente”. Ecco perché nelle manifestazioni pacifiste dei prossimi giorni – da quella organizzata dal presidente della Campania, Vincenzo De Luca, all’altra annunciata dal Professor Conte – che si contraddistinguono per la neutralità tra Ucraina e Russia e che di fatto concepiscono la pace come la resa della fiera resistenza degli ucraini, il pacifismo non è volontà di pace ma una lotta interna per la leadership del populismo all’indomani delle elezioni del 25 settembre.
Ma come Putin ha sbagliato i suoi conti con l’Ucraina, così i pacifisti populisti sbagliano i loro con il valore dell’atlantismo. Infatti, al di là della propaganda organizzata, agli italiani è chiara l’idea che l’Italia come Paese libero, sicuro e bene-stante esiste solo nell’ambito del libero mondo d’Occidente.
L'articolo Pacipopulisti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
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Confessioni di una maschera “Rock the vote”
✅ Abbiamo finalmente archiviato il passaggio elettorale. In maniera del tutto indolore per quello che ci riguarda. Non avevamo aspettative. Non le abbiamo forse mai avute. Meno che mai ultimamente. La politica italiana, quella fatta del circo mediatico parlamentare che le televisioni e le radio ci infilano in casa ad ogni ora del giorno, fa parte di un crogiolo di squallore cui non apparteniamo. Ce ne siamo chiamati fuori definitivamente, in nome di quel poco di amor proprio che ci resta.
iyezine.com/confessioni-di-una…
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Come ci accade costantemente negli ultimi trent’anni, da quando cioè la politica è diventata una dicotomica scelta, quasi plebiscitaria, tra chi stava con il magnate brianzolo, e chi stava contro, tagliando sistematicamente fuori ogni altra visione s…Marco Valenti (In Your Eyes ezine)
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Johnny Mojo
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Personalmente sto usando Fedilab senza problemi, sia per pixelfed che per mastodon. Non vorrei avere un app per ogni cosa...
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