LIBRI. Venezuela: caso Alex Saab, una vicenda che ci riguarda
Pagine Esteri, 28 ottobre 2022 – È appena andato in stampa il libro Alex Saab, lettere di un sequestrato, a cura di Geraldina Colotti, con prologo dell’avvocato penalista Davide Steccanella, postfazione di Olivier Turquet e una intervista all’avvocata Laila Tajeldine, coordinatrice internazionale del movimento FreeAlexSaab. Il volume è edito da Multimage nella collana “i libri di Pressenza” (www.multimage.org).
Pagine Esteri pubblica parte della prefazione di Geraldina Colotti
Ci sono figure che, in alcune circostanze storiche, finiscono per portare il peso, concreto e simbolico, delle contraddizioni espresse dal conflitto di classe a livello globale. È senz’altro il caso del diplomatico venezuelano Alex Saab, sequestrato e deportato negli Stati uniti in spregio alle convenzioni internazionali. Una reddition in piena regola, nel solco di quelle attuate dagli Stati uniti dopo l’11 settembre contro i cosiddetti “combattenti nemici”. Un pericoloso precedente, che spinge più in alto l’asticella dell’illegalità e della sopraffazione da parte di chi, sventolando la retorica dei diritti e della democrazia, si considera esente dal dovere di rispettarle.
Calpestare l’immunità di un diplomatico, accreditato come ambasciatore plenipotenziario del Venezuela in Africa, non è proprio un atto corrente. Gli Stati Uniti se lo sono permessi nel quadro dell’assedio internazionale al Venezuela, che Saab ha cercato di spezzare, importando alimenti e medicine nonostante le misure coercitive unilaterali imposte dagli Usa e dai loro alleati.
Imprenditore di origine palestinese, Saab ha aiutato il Venezuela a costruire una strategia di sopravvivenza. Ha rifornito a proprio rischio e pericolo le borse di alimenti dei Clap (Comités Locales de Abastecimiento y Producción), gli organismi ideati da Maduro nel 2016, che hanno portato direttamente nelle case alimenti e prodotti di prima necessità, per evitare speculazioni. In questo modo, il governo bolivariano ha cercato di far fronte alla crisi creata dalla drastica caduta degli introiti. A causa delle “sanzioni”, il paese – che custodisce le prime riserve al mondo di petrolio -, ha visto diminuire le proprie entrate del 99%.
Approfittando della subalternità del governo di Capo Verde, incurante dei pronunciamenti degli organismi internazionali, ma molto attento ai voleri di Washington, durante una sosta per il rifornimento di carburante, la Cia ha fatto scendere a forza dall’aereo il diplomatico e l’ha portato in un carcere. Lì, a dispetto del suo status giuridico che gli garantiva l’immunità, è stato isolato e torturato, e infine portato nottetempo negli Usa anche se l’iter dei ricorsi messo in campo dalla difesa non era ancora terminato.
Bisognava dare un messaggio preciso: guai a spezzare l’assedio al Venezuela. Come provano i documenti e come gli Stati Uniti dimostrano di sapere perfettamente, Saab aveva ricevuto l’incarico diplomatico di inviato speciale, nel 2018. Gli Usa mentono sapendo di mentire quando affermano che Saab non aveva presentato le proprie credenziali a Washington, dando per inteso che nessun atto internazionale può essere valido se non è “riconosciuto” da loro.
Quale sia il criterio per “validare” o meno un governo o un incarico, è stato dimostrato dalla farsa dell’autoproclamato “presidente a interim” del Venezuela, Juan Guaidó, inscenata dall’allora amministrazione Trump e dai suoi alleati internazionali (Unione Europea e governi neoliberisti latinoamericani). Il vero obiettivo era quello di mettere le mani sulle risorse del Venezuela, sottraendole al legittimo proprietario: il popolo venezuelano, che ha eletto i propri rappresentanti in numerose tornate elettorali.
In concreto, si è trattato di impossessarsi dell’oro e degli attivi all’estero della Repubblica bolivariana del Venezuela mediante operazioni di vera e propria pirateria internazionale. Al riguardo, è ancora in corso una battaglia legale tra la giustizia bolivariana e le banche del Regno Unito, che continuano a trattenere l’oro venezuelano (e a incamerarne gli interessi) con il pretesto che il governo britannico non “riconosce” come presidente del Venezuela quello legittimo, Nicolas Maduro, ma quello virtuale unto dagli Usa, Juan Guaidó.
È andata nello stesso modo per le imprese venezuelane con sede all’estero: come la Citgo negli Stati uniti, grande succursale della petrolifera di Stato, Pdvsa, o come la Monomeros, che produce fertilizzanti ed è basata in Colombia. Entrambe sono state saccheggiate dalla banda dell’autoproclamato, tanto incapace quanto impresentabile ormai persino per i suoi stessi padrini.
E se, dopo l’elezione del progressista Gustavo Petro alla presidenza della Colombia, la Monomeros sembra poter ritornare ai suoi legittimi proprietari, la Citgo resta al centro del gigantesco piano di estorsione messo in atto dagli Usa mediante le misure coercitive unilaterali imposte al Venezuela. Un piano ideato per “torcere il braccio” al paese, come dichiarò a suo tempo il democratico Obama approvando il primo decreto esecutivo che avrebbe messo in moto il meccanismo, nel quale considerava il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria” per la sicurezza degli Stati Uniti.
Un piano che i think tank imperialisti attualizzano costantemente, valutandone gli effetti, per passare a una fase ulteriore. Avviene così per Cuba da oltre sessant’anni, ma anche per il Nicaragua e per tutti quei paesi del Sud che, dal secolo scorso a oggi, hanno voluto decidere il proprio destino senza tutele, o risultano d’ostacolo all’imperialismo Usa.
Pertanto, si saggia la resistenza di Alex Saab come si saggia quella del popolo venezuelano e del suo governo, che ha ripetutamente messo al centro la liberazione del suo diplomatico, anche cercando di scambiarlo con alcuni mercenari Usa detenuti nelle carceri venezuelane. Finora, però, anche se la montatura giudiziaria contro il diplomatico si è sgretolata e sono cresciute le autorevoli prese di posizione in sua difesa a livello internazionale, la magistratura statunitense continua a procrastinare la decisione sull’immunità diplomatica di Alex Saab, che porterebbe alla sua liberazione. Pagine Esteri
NOTA PER I LETTORI
Sul canale youtube di Pressenza (youtube.com/watch?v=LipiU137Gu…), trovate anche un documentario, che racconta la vicenda del diplomatico venezuelano sequestrato, torturato e deportato negli Stati Uniti, dove si trova in attesa di processo.
Chi volesse conoscere la vicenda e mobilitarsi contro questo abuso che calpesta la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale, può prenotare il libro presso la casa editrice.
L’editore offre il libro in prevendita con uno sconto del 50% al prezzo di copertina, che è di 15 euro, per gli ordini a partire dalle 5 copie. Le prenotazioni vanno mandate a ordini@multimage.org e sono valide per tutti i compagni e le compagne che aderiscono alla campagna. Insieme all’ordine, la ricevuta di pagamento (le forme di pagamento si trovano qui: multimage.org/info/ordinare/). Indicare l’indirizzo di spedizione, le spese di spedizione sono a carico nostro.
Il libro che è già stato chiuso in ISBN apparirà sugli stores online nei prossimi giorni. Oltreché sul sito della Multimage alla sezione multimage.org/info/ordinare/
si può trovare in una scelta di librerie che trovate qui
Inoltre si può ordinare in tutte le librerie di Italia e della Svizzera italiana.
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PODCAST. SUDAN: il golpe militare un anno dopo. Non cessa la resistenza popolare
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 25 ottobre 2022 – Nonostante i sostegni dietro le quinte ricevuti nella regione e a livello internazionale, i militari golpisti sudanesi un anno dopo non riescono a contenere le proteste popolari.
Il loro potere resta debole. Abbiamo intervistato Lorenzo Scategni, volontario italiano a Khartoum e osservatore della realtà politica e sociale sudanese.
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Patrick Breyer on Twitter takeover: Switch now!
Commenting on the takeover of Twitter by the controversial billionaire Elon Musk, Member of the European Parliament Patrick Breyer (Pirate Party) explains:
“The Twitter takeover is another reason to sign up for privacy-friendly, decentralized alternative services like Mastodon. NSA and FBI have no access to European nodes and anonymity is guaranteed. Twitter already knows our personalities dangerously well due to its pervasive surveillance of our every click. Now this knowledge will be falling into Musk’s hands.”
Breyer himself operates a Twitter account, but at the same time distributes his messages via the decentralized alternative service Mastodon.
SIRIA. All’avanzata di Al Qaeda si aggiunge il colera
di Michele Giorgio*
(la foto è di Sara Hoibak/UNHCR)
Pagine Esteri, 24 ottobre 2022 – La Siria non fa notizia in Europa. Eppure, queste ultime settimane hanno visto il paese arabo di nuovo sotto i riflettori per diversi sviluppi, quasi sempre drammatici. Incluso il bombardamento aereo subito venerdì notte da parte di Israele, il primo da un mese a questa parte. Sul piano umanitario, con l’inverno che si avvicina e l’elettricità e il carburante che scarseggiano, la Siria ha dovuto aggiungere il colera ai problemi che affrontano milioni di suoi abitanti, alle prese con le conseguenze della guerra che ha devastato il paese e delle sanzioni statunitensi. Fino a qualche giorno fa erano una cinquantina i decessi causati dall’infezione e almeno 700 i contagiati.
Sul terreno è riapparsa la minaccia dell’Isis che nei giorni scorsi ha colpito un autobus militare uccidendo una quindicina di soldati. Più di tutto, Ha’yat Tahrir al Sham (Hts, in precedenza noto come Fronte al Nusra), il braccio siriano di Al Qaeda, ha conquistato altro terreno nella provincia di Idlib, nella Siria nord-occidentale, approfittando dei conflitti armati tra le formazioni sotto l’ombrello del cosiddetto Esercito nazionale siriano (Ens), pagato e armato dalla Turchia. Hts è entrato nel conflitto che vedeva il Fronte del Levante da un lato e le fazioni del Sultano Suleiman e la divisione Hamza dall’altro. Hts a un certo punto aveva anche preso il controllo della città di Afrin, fino a quel momento nelle mani delle fazioni filo-turche, tanto da spingere truppe e reparti corazzati turchi a schierarsi intorno alla cittadina strategica di Kafr Jana. «La Turchia è intervenuta per fermare il conflitto tra le fazioni del Ens e impedire a Ha’yat Tahrir al-Sham di avanzare ulteriormente», ha riferito l’agenzia Reuters citando un esponente dell’ala politica dell’Ens.
Ad Afrin, i qaedisti avevano immediatamente portato i loro «funzionari amministrativi» mostrandosi pronti a prendere possesso in modo permanente della città. Poi il 18 ottobre, sotto la pressione turca, sono dovuti uscire da Afrin. Nonostante l’apparente ritiro, testimoni denunciano che Hts ha ancora nella città uomini dei suoi servizi di sicurezza oltre a dipendenti civili. Prima di intervenire nei combattimenti, Hts aveva gli occhi puntati sul nord di Aleppo, alla ricerca di territori dove espandere il suo controllo politico e religioso e sfruttare le risorse e il commercio locale. Una strategia ben oliata che sino ad oggi ha portato i qaedisti ad agire indisturbati anche in territori a ridosso di quelli controllati dall’Esn. L’obiettivo primario per Hts resta comunque quello del controllo su tutti i valichi della Siria nordoccidentale, una situazione che lo renderebbe un attore protagonista che la Turchia non potrebbe ignorare nella gestione futura di un territorio che era e resta siriano ma che Ankara non ha alcuna intenzione di restituire a Damasco.
Il Washington Institute for Near East Policyha rivelato gli Stati uniti hanno fatto pressioni sulla Turchia affinché intervenisse e fermasse Hts. «Gli americani hanno minacciato di permettere alle Forze democratiche siriane (SDF) a guida curda di entrare nell’area se i turchi non avessero costretto i qaedisti ad uscire da Afrin», ha scritto l’istituto. Comunque sia andata, gli americani in questi anni non hanno mai mostrato preoccupazioni per il ruolo di Hts in territorio siriano – non l’hanno mai preso di mira a differenza dell’Isis -, anzi, l’hanno perfino considerato utile contro il governo centrale a Damasco. Ma ora temono che l’espansione della formazione qaedista possa rendere più rapido il declino dell’Ens con il rischio che a rappresentare l’opposizione anti-Bashar Assad restino soltanto gruppi jihadisti. E l’imbarazzo per Washington sarebbe notevole.
Nel frattempo, la Turchia e il Libano ripetono di voler rimpatriare al più presto centinaia di migliaia di profughi siriani. L’opposizione turca agita il peso sull’economia nazionale degli oltre tre milioni di rifugiati allo scopo di mettere in difficoltà l’islamista Erdogan in vista delle elezioni del prossimo anno. Beirut, per bocca dello stesso presidente Michel Aoun, annuncia di aver raggiunto un’intesa con Damasco per far rientrare in Siria decine migliaia di profughi già dai prossimi giorni contro il parere dell’Onu e le posizioni di Usa e Ue. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre dal quotidiano Il Manifesto
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CINEMA. Nuovi film arabi e palestinesi: “The damned don’t cry” e altri a cui prestare attenzione
di Joseph Fahim – Middle East Eye*
(traduzione dall’inglese di Alessandra Mincone)
Pagine Esteri, 24 ottobre 2022 – Le stagioni dei premi potrebbero essere uno dei fenomeni più strani del cinema contemporaneo. Ogni anno, i critici si lamentano dell’inutilità della corsa agli oscar, e giurano di evitare un’impresa che diventa sempre più inerte. Eppure a settembre, a Venezia e a Toronto, ogni qual volta che un film di Hollywood sembrava far colpo, gli stessi critici non sono riusciti a fare a meno di prevedere potenziali candidati per gli oscar.
Mentre la frenesia lasciava posto alla stanchezza, molti film non-americani si sono dispersi nel miscuglio. Per finire, con un’altra riaffermazione del dominio globale della macchina cinematografica americana.
Tant’ è stato il malessere della festa del cinema di quest’anno, che sebbene fosse stata un’edizione eccezionalmente forte, è stata comunque dominata dal cinema statunitense: sono state dieci le produzioni americane in primo piano, solo tra quelle in competizione, e altre sette quelle fuori concorso, tra cui l’attuale campione del botteghino americano “Don’t worry, darling”. Il risultato era prevedibile: il cinema americano ha risucchiato l’atmosfera dal resto, direzionando le copertine della stampa mainstream e alimentando da solo i giornali a sufficienza.
Affascinante è stato il fatto che, quest’anno, Venezia era confezionata di giovani: non solo appassionati di cinema, ma anche di “stalker della celebrità”, come Harry Styles e Florence Pugh, accampati sul tappeto rosso a caccia di filmati per accrescere i loro profili TikTok. Se il potere delle stelle non sempre garantisce una poltrona a un mendicante, per lo meno attrarrà il traffico su Internet.
Quest’anno, Venezia è stata tutta incentrata sull’incremento dei clickbait e della larghezza della banda. Il cinema non americano, al contrario, è stato relegato ai margini e la grande pubblicità, quella che i registi di tutto il mondo sognavano, alla fine non è arrivata. Toronto era una rappresentazione sfacciata di Hollywood; i film non americani hanno sempre dovuto lottare, per attirare l’attenzione in un festival, considerato un trampolino di lancio per la stagione degli Oscar.
Entrambi i festival, si sono svolti alla fine della stagione estiva dei campioni d’incasso, e l’attenzione riservata al cinema americano, in entrambi, è stata esagerata.
Già nell’era pre pandemica, le piccole compagnie non-americane minori hanno lottato per attirare un pubblico generale. I teatri, compresi i cinema indipendenti, per sopravvivere, sono diventati sempre più assoggettati alle offerte di Hollywood.
La crisi economica globale e le turbolenze politiche, stanno gonfiano il bisogno di evadere le tariffe – (producendo) un cinema senza cervello e usa e getta, che Hollywood realizza con maggior esperienza.
La paura è che, in questo mondo a corto di soldi, solo gli spettacoli di Hollywood siano degni dell’uscita al cinema, lasciando voci più coraggiose provenienti da altrove, a cercare il loro pubblico nello spazio, disordinato, delle piattaforme streaming.
Il cinema arabo appartiene a quest’ultima categoria, con la selezione araba che riceve una piccola percentuale rispetto alla copertura data a Blonde o al nuovo film di Spielberg. È un peccato, perché molte di quelle immagini offrivano nuove ed eccitanti prospettive.
I dannati non piangono
Il film arabo di spicco a Venezia 2022 è stato “The Damned don’t cry”, il secondo lungometraggio del regista anglo-marocchino Fyzal Boulifa, che vinse dei riconoscimenti nel 2019 per il suo debutto con “Lynn+Lucy”, anch’esso presentato in anteprima a Venezia. Mentre “Lynn+Lucy” era un dramma che mette a nudo la vita della classe operaia inglese, interamente incentrato su personaggi bianchi, “The Damned don’t cry” è un film marocchino in tutto e per tutto. Aicha Tebbae, in una delle esibizioni arabe più smaglianti dell’anno, è la vivace Fatima-Zahra, un’ex prostituta di Casablanca e una madre di mezza età. Desiderando un nuovo inizio dove nessuno la conosce, si trasferisce a Tangeri insieme al figlio Selim (Abdellah El Hajjouji), adolescente maleducato e arrabbiato.
La relazione di amore e odio tra Selim e sua madre diventa più spinosa quando lei mostra interesse per un autista di autobus fedelmente sposato, e inconsapevole del trascorso di lei. Selim, nel frattempo, inizia a mettere in discussione la sua sessualità quando un accordo con un ammirato gay francese, progredisce in una faccenda più burrascosa.
“The Damned don’t cry”, da un lato è la storia di una madre atipica che non si scusa per il suo passato. Fatima-Zahra riconosce la sua posizione di svantaggio in una società in cui non potrà mai essere se stessa – e quindi si trasforma in un camaleonte che può cambiare colore, rispetto a come gli uomini vogliano che sia. La rappresentanza di cui una volta godeva grazie al suo aspetto è ormai sbiadita, e quindi accettare il corteggiamento di un uomo noioso come l’autista dell’autobus e abbracciare la religione, diventa la sua via d’uscita da una potenziale vita di solitudine e costrizione economica.
D’altra parte, “The Damned don’t cry” è un audace racconto di un giovane uomo sessualmente confuso che può esplorare la sua sessualità solo attraverso la servitù o la prostituzione. Sebbene affabile e inizialmente simpatico, il francese che accoglie Selim si rivela afflitto da una mentalità neocolonialista, che soggioga subdolamente il suo giovane amante marocchino.
Ma più di ogni altra cosa, la pellicola è un’intrepida esplorazione del mistero che è il legame madre-figlio arabo. Selim e Fatima-Zahra hanno una relazione di dipendenza caratterizzata da anni di incrollabile risentimento e delusione, l’uno verso l’altro. Come molte madri e figli arabi, i due non sono quello che vogliono che siano: Fatima-Zahra è imbarazzante per Selim, mentre Selim è troppo sconsiderato e inaffidabile per essere l’uomo di casa. La loro presenza è distruttiva l’una per l’altra, ma i due non possono vivere a lungo senza l’altro. Boulifa cattura questa dinamica con astuzia e maturità.
Strada non proprio rivoluzionaria
L’aspetto più notevole del film è il modo in cui si dà nuova vita al melodramma, il genere più associato al cinema arabo. Lo stesso non si può dire del secondo film marocchino a Venezia, “Queens, il primo lungometraggio di Yasmine Benkiran, che fallisce nel tentativo di affrontare il “buddy road movie”.
Zineb (Nisrin Erradi) scappa di prigione per salvare la figlia Ines (Rayhan Guaran), undicenne combina guai che viene gettata in un centro di protezione dell’infanzia. Accompagnata da Ines, Zineb dirotta un camion e costringe una sfortunata meccanica – giovane moglie infelice, Asma (Nisrine Benchara) – a portarli al sicuro nella lontana regione (di atlas). Le tre vengono rintracciare da una neopromossa poliziotta, Batoul (Jalila Talemsi), che deve dimostrare il suo valore al suo collega predecessore, Nabil (Hamid Nider).
Quello di Daradji è un ritratto distopico di un Iraq abbandonato del dopoguerra, una terra desolata senza dio, popolata da bambini orfani derubati della loro innocenza. Zineb, Asma e Ines trovano conforto e coraggio l’una nell’altra, mentre Batoul ottiene la sua indipendenza essendo single ed eccellendo nel suo lavoro. La testarda Zineb è il personaggio più accattivante del film, ostinata a usare qualsiasi mezzo per sopravvivere nel patriarcale Marocco.
Purtroppo, Benkiran non può far apparire un veicolo automobilistico adatto per il suo carattere, e a metà strada diventa chiaro che gli spettatori ci sono dentro a un prezzo prevedibile.
Sebbene il film sia visivamente sorprendente, in parte grazie all’uso del deserto come terra di nessuno, liberatoria, priva di regole di genere, Benkiran fa poco o nulla per la tipologia di un road movie. Un film guardabile che spreca le possibilità elettrizzanti offerte dal suo genere, “Queens” alla fine soffre della riluttanza di Benkiran a correre dei rischi, e invece occupa una via di mezzo, senza invenzioni. Questo è un film che non decolla mai.
La morte del sogno americano
Più ambizioso è “Hanging Gardens”, il primo lungometraggio di Ahmed Yassin al-Daradji, passato alla storia per essere stato il primo film iracheno selezionato ufficialmente per il Festival di Venezia.
Il bambino impoverito As’ad (Hussain Muhammad Jalil) e suo fratello di 28 anni Taha (Wissam Diyaa) sono orfani di guerra che lottano per sbarcare il lunario, rovistando tra i detriti della guerra, alla periferia di Baghdad.
La loro relazione inizia a rompersi quando As’ad trova una bambola del sesso apparentemente lasciata dai soldati americani. As’ad sviluppa una fissazione per la bambola e in poco tempo crea un bordello mobile che distorce, gradualmente, la sua prospettiva della realtà.
Inquietante e sfacciatamente perverso, quello di Daradji è un ritratto distopico di un Iraq abbandonato del dopoguerra; un deserto senza dio popolato da bambini orfani, derubati della loro innocenza. In modo ammirabile, lo sguardo del regista è freddo e distante; il suo approccio è più distaccato dalla tipica filatura irachena, senza mai scadere nel sentimentalismo.
A differenza dei più recenti film iracheni, “Hanging Gardens” non tenta di catturare gli orrori dell’invasione americana né le sue tragiche conseguenze. Mescolando fantasia e realtà, accresce una rara immagine irachena, che dimora nella psiche distrutta dei giovani frustrati, che ignorano la loro sessualità e lottano con desideri repressi. È a pieno titolo un ritratto dell’Iraq che gli Stati Uniti hanno lasciato alle spalle. La bambola americana sostituisce l’illusorio sogno americano che l’Iraq non ha mai conosciuto; una fantasia venduta a un popolo senza niente a cui aggrapparsi. La loro liberazione è stata un’infinità di macerie e fantasie perverse.
Fantasia e occupazione maschile
Ugualmente toccante ma cinematograficamente meno avventuroso è “Alam” di Firas Khoury, un altro film d’esordio, presentato in anteprima a Toronto. La storia è incentrata sul raggiungimento della maggiore età di Tamer (Mahmoud Bakri), uno studente delle superiori diviso tra le faccende quotidiane dell’essere palestinese in Israele e la sua adolescenza emergente.
Costretto a un’apatia politica dal padre iperprotettivo e dallo stato israeliano occupante, l’esistenza dormiente di Tamer viene scossa quando la nuova studentessa Maysaa (Sereen Khass) prende parte alla sua classe. Infatuato, Tamer realizza che l’unico modo per avvicinarsi a Maysaa è partecipare a una pericolosa missione in cui è lei coinvolta: rimpiazzare la bandiera israeliana sul tetto della loro scuola con una bandiera palestinese, nei giorni che precedono l’anniversario della Nakba.
Khoury apre un portale nel mondo, poco visto dei giovani palestinesi in Israele, un mondo che sembra somigliare le tante autocrazie della regione. Tamer e i suoi amici passano le loro giornate bevendo, facendo festa e parlando del sesso che non hanno fatto mai. In un posto in cui la loro storia e identità vengono distorte e spazzate via, dove la resistenza ha dimostrato più e più volte di essere futile, l’ebbrezza, che sia di alcol, di sesso o di amore, è la sola fonte di conforto. La sostituzione della bandiera, una reazione di Tamer e i suoi compagni di scuola contro il revisionismo storico che sono costretti ad accettare, assume diversi significati: un’impresa ribelle, una riaffermazione dell’identità derubata, un respingimento contro l’occupante, e in conclusione un atto di autorealizzazione. Nella scena più profonda del film, Tamer ricorda uno zio il quale gli insegna che la vera libertà non è alzare la bandiera del proprio paese, la vera libertà è poterla bruciare.
Khoury esplora queste idee con premura e delicatezza, sottolineando la relazione convoluta tra l’elusiva nazionalità palestinese e la libertà, tra il nazionalismo e l’autodeterminazione. Sfortunatamente, queste idee sono minate da un dramma letargico e da una cinematografia poco calorosa. “Alam” soffre di un ritmo lento, trascinato dall’eccessiva esposizione e dal corteggiamento poco convincente tra Tamer e Maysaa. Una mancanza sia di carisma che di sentimento, rendono difficile vedere cosa vede la brillante Maysaa in Tamer. Da parte sua, il viaggio introspettivo di Tamer è più genuino, e riprende una storia d’amore infantile, che spesso sembra poco più che una fantasia maschile.
Cinematograficamente, “Alam” ha una visuale piatta, salvo per alcuni momenti sparsi: Khoury implementa una traduzione letterale della sua storia, senza adottare alcun punto di vista sul materiale visivo alla mano. Lui gioca con le convinzioni dei drammi adolescenziali, inquadrando la storia della sua crescita entro l’unico contesto palestinese, ma fallisce nel cercare un linguaggio visivo che catturi le frustrazioni e le aspirazioni della giovinezza. Nonostante le sue carenze, “Alam” rimanda a una visione essenziale, se non alla trascendente esperienza cinematografica che sarebbe potuto essere.
“The damned don’t cry” sarà proiettato al London Film Festival dal 5 ottobre. “Alam” è in scena al concorso ufficiale del Festival di Roma dal 13 ottobre. Pagine Esteri
*questo articolo è stato pubblicato il 5 ottobre dal portale Middle East Eye
link originale middleeasteye.net/discover/ara…
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NOBEL 2022: Annie Ernaux, i Palestinesi, l’Egitto
Della Redazione
(foto da wikipedia.commons)
Pagine Esteri, 21 ottobre 2022 – In un mondo dominato dall’ideologia del libero mercato, che negli ultimi trent’anni ha ammaliato anche parte della sinistra e ha rafforzato le destre, l’esercizio del diritto alla libertà d’espressione per contrastare ogni forma di oppressione è sempre più difficoltoso, perfino nelle “democrazie” occidentali.
Il problema è emerso anche il 6 ottobre 2022, quando è stato annunciato che il Premio Nobel per la Letteratura era stato assegnato ad Annie Ernaux “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Così recita la motivazione comunicata dall’Accademia di Svezia nell’annunciare la premiazione conferita alla scrittrice francese, nata nel 1940 in un villaggio della Normandia e che sin dal romanzo d’esordio, “Gli armadi vuoti”, del 1974, ha voluto abbinare la scrittura autobiografica alla sociologia, creando una auto-socio-biografia come lei stessa l’ha definita.
Ernaux, femminista di sinistra, è una sostenitrice del movimento Bds che chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele perché nega i diritti del popolo palestinese. Appena si è saputo che Ernaux aveva vinto il Nobel non pochi media, non solo in Israele, hanno reagito cercando di dare una immagine negativa della scrittrice francese. In particolare, è stata attaccata per avere firmato insieme a circa 100 personalità del mondo della cultura due documenti: nel 2018, una petizione che invitava a boicottare la stagione culturale franco-israeliana, descritta nel testo come un mezzo per “ripulire” l’immagine di Israele; e, nel 2019, una lettera che chiedeva a France Télévisions di non trasmettere l’Eurovision Song Contest in programma a Tel Aviv. Il motivo di questa richiesta, spiegavano i firmatari della lettera, stava nel fatto che era stato organizzato in un quartiere di Tel Aviv sorto sulle macerie di Sheikh Muwannis, uno dei numerosi villaggi arabi che nel 1948 furono distrutti dalle forze militare del nascente Stato di Israele durante le fasi che portarono all’espulsione o alla fuga dalla loro terra di centinaia di migliaia di palestinesi. A ricordarlo peraltro era stata proprio una associazione pacifista israeliana Zochrot (Ricordarsi/Memorie), nata per diffondere la conoscenza della Nakba (Catastrofe) tra gli ebrei d’Israele e difendere i diritti umani dei palestinesi, incluso il diritto al ritorno dei profughi del 1948. È una posizione politica espressa sempre più ovunque nel mondo da persone di origine ebraica il cui coraggioso pacifismo è sempre più spesso oscurato dai media mainstream internazionali.
Annie Ernaux
Commenti entusiasti alla premiazione di Ernaux sono invece comparsi nel sito di Association France Palestine Solidarité e in svariati media arabi. Il 7 ottobre 2022, il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabī, basato a Londra, ha ricordato le due suddette petizioni firmate dalla scrittrice francese a favore del popolo della Palestina. Nello stesso articolo sono poi state indicate le tappe principali della carriera di Ernaux. In seguito, questo modello è stato replicato e ampliato da altri media arabi. Il Nobel conferito a Ernaux è stato commentato soprattutto negli ambienti letterari egiziani, per più motivi che legano il passato al presente. In Egitto, fu realizzata e pubblicata, nel 1994, la prima traduzione araba di un testo della scrittrice francese. Due figure prestigiose del mondo accademico egiziano scomparse non da molto, Amina Rachid (1938-2021) e Sayyid al-Bahrawi (1953-2018), tradussero allora il quarto romanzo dell’autrice, Il posto (1983) per la casa editrice Dār Sharqiyyāt del Cairo. Questo intreccio di ricordi è solo una delle ragioni per cui, il 9 ottobre 2022, il settimanale Akhbār al-Adab (Le notizie della letteratura) ha pubblicato un numero speciale per celebrare subito il Nobel conferito a Ernaux. Gli articoli inclusi nel dossier spiegano l’originalità della produzione letteraria della scrittrice francese, creatrice di un autobiografismo in grado di veicolare un messaggio universale.
Tutto ciò ricorda inevitabilmente quanto avvenne nell’ottobre 1988, quando il Nobel per la Letteratura fu assegnato a Nagib Mahfuz (1911-2006), con questa motivazione: “perché attraverso opere ricche di sfumature – ora chiaramente realistiche, ora ambiguamente evocative – ha creato un’arte narrativa araba che può applicarsi a tutta l’umanità”. Il primo novembre dello stesso anno, il mensile cairota al-Hilāl (La mezzaluna) pubblicò un numero speciale dedicato allo scrittore egiziano. Il dossier uscì con il titolo “Congratulazioni” seguito dal sottotitolo: “Nagib Mahfuz, primo arabo a vincere il Premio Nobel per la Letteratura”. E va aggiunto che è ancora l’unico autore arabo ad avere ottenuto il più prestigioso riconoscimento letterario internazionale che, però, sembra un monopolio dell’Occidente.
Mahfuz stesso si definì come “l’uomo venuto dal Terzo Mondo” nel suo discorso per la cerimonia di conferimento del Nobel. Nel 1988, alle donne e agli uomini presenti all’Accademia di Svezia, il letterato egiziano lanciò questo appello: “Salvate le persone ridotte in schiavitù in Sudafrica! Salvate gli affamati in Africa! Salvate i palestinesi dai proiettili e dalle torture! O meglio, salvate gli israeliani dal profanare la loro grande eredità spirituale! Salvate chi ha debiti dalle rigide leggi dell’economia! Attirate l’attenzione dei leader responsabili sul fatto che la loro responsabilità verso l’Umanità deve precedere il loro impegno nel seguire le leggi di una scienza che il Tempo ha forse superato”.
In un articolo incluso nel summenzionato dossier 2022 di Akhbār al-adab, Walid El Khachab ricorda che Annie Ernaux e Amina Rachid si conoscevano personalmente. Erano diventate amiche in Francia negli anni ’70, poiché entrambe credevano nelle idee della sinistra e lottavano per portarle avanti, “difendendo sia le classi popolari sia i diritti del popolo palestinese”. Rachid si interessò del quarto romanzo di Ernaux, “Il posto”, forse perché è il primo in cui l’autrice, figlia di operai divenuti piccoli commercianti, “esprime chiaramente la propria coscienza di classe”, rivelando il suo senso di colpa per avere abbandonato l’ambiente in cui era nata e cresciuta, dacché si era abituata a una tipica vita borghese. Rachid stessa certamente apprezzò le qualità estetiche della letteratura di sinistra, rivoluzionaria ma non missionaria, e della scrittura femminile e autobiografica, presenti nel testo, quindi decise di tradurlo in arabo circa un decennio dopo la sua pubblicazione in francese.
El Khachab incontrò Ernaux al Cairo proprio negli anni ‘90, quando in Egitto comparve sulla scena letteraria una nuova generazione avanguardistica, predominata da scrittrici in termini sia numerici sia qualitativi. Una delle più celebri è Mayy Telmissany (n. 1965), che ha raccontato il sé in molte opere di successo, come il romanzo Dunyazad, del 1997 (Ev Casa Editrice, 2010). Non a caso, nel suo articolo per Akhbār al-adab, la stessa scrittrice e accademica egiziana definisce il Nobel vinto da Annie Ernaux come “il trionfo dell’autobiografismo”. La premiazione dell’arte narrativa dell’autrice francese è l’emancipazione della scrittura autobiografica dalla posizione marginale in cui tradizionalmente i critici la collocano all’interno del campo letterario canonico. Una marginalizzazione paradossale, se si considera il prestigio di cui gode Proust per “La ricerca del tempo perduto”, un vero monumento dell’autobiografismo. Secondo Telmissany, le tecniche narrative usate in questo capolavoro sono simili a quelle impiegate da Ernaux per raccontare una storia d’amore con un amante russo, in Passione semplice, del 1992, un testo privo di giudizi morali e pieno di ironia. Della scrittrice francese sono state finora tradotte in arabo sette romanzi, tra cui L’evento (2000), incentrato sul problema dell’aborto clandestino e il cui adattamento, “La scelta di Anne-L’Événement”, ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021.
Ernaux si ispira al sé, alle proprie esperienze e a quelle della sua famiglia, per dire la verità anche quando è scomoda, racconta storie di vita in cui numerose persone possono riconoscersi, usa parole semplici creando testi caratterizzati dall’assenza di riferimenti ideologici espliciti. Queste caratteristiche si trovano anche in molte opere della narrativa emersa in Egitto negli anni ’90, una scrittura nata dal rifiuto delle “grandi” narrazioni della “nazione” e dalla volontà di concentrarsi sull’individuo, sulla psicologia e sul corpo, per sovvertire i valori etici e politici oppressivi predominanti nella società egiziana e non solo, e di proiettarsi nel mondo globalizzato secondo una visione transculturale.
D’altra parte, Telmissany ricorda che Ernaux è erede della letteratura della resistenza e della letteratura impegnata teorizzata da Sartre. Sin dagli anni ’70, la scrittrice ha portato avanti il proprio impegno tanto nell’arte verbale, sperimentando varie forme di scrittura autobiografica, come il diario, quanto nella vita, “assumendo posizioni politiche coraggiose, come la difesa della causa palestinese”. Ernaux si chiede sempre “chi sono io?”, per approfondire la conoscenza di se stessa e del suo rapporto con la società. È importante, sottolinea Telmissany, chiedersi “chi sono io nel mondo?”, è indizio dell’onestà necessaria per immergersi nella “ricerca di una risposta a questa domanda, che è di sinistra nella sua essenza, perché riguarda i diritti umani e le libertà”. Pagine Esteri
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LIBANO-ISRAELE. Firmato l’accordo sui confini marittimi. Beirut: non è «normalizzazione»
di Michele Giorgio –
(Unità navale dell’Unifil a Naqoura, foto di Bastian Fischborn)
Pagine Esteri, 28 ottobre 2022 – Quando tutto era pronto, un incidente ha ritardato ieri pomeriggio la cerimonia della firma dell’accordo sulla delimitazione del confine marittimo tra Libano e Israele e lo sfruttamento delle riserve di gas sottomarino in quell’area. La delegazione giunta da Beirut è entrata nella base dell’Unifil (Onu) a Naqoura solo dopo l’uscita di una nave militare israeliana dalle acque territoriali libanesi. Poi tutto è proceduto come da programma. Sedute in stanze separate, le delegazioni libanese e israeliana hanno consegnato i loro documenti all’inviato dell’Amministrazione Usa, Amos Hochstein che ha mediato i negoziati. Poche ore prima il presidente libanese Michel Aoun aveva firmato il testo dell’accordo, altrettanto ha fatto il premier israeliano Yair Lapid. Delimitato il confine marittimo, i due paesi possono sfruttare nelle proprie acque i giacimenti di gas Karish, che ricade nella zona economica esclusiva di Israele, e quello di Qana che in buona parte sarà sfruttato dal Libano. Lo Stato ebraico riceverà una parte dei ricavi di Qana dalla francese Total incaricata dal governo di Beirut di avviare le esplorazioni del sito.
È stato il Libano a chiedere il complicato protocollo di ieri per evitare che la firma dell’accordo fosse visto come una «normalizzazione» delle relazioni tra i due paesi. Il paese dei cedri non dimentica di aver subito diverse offensive israeliane distruttive e l’occupazione tra il 1978 e il 2000 di una parte del suo territorio meridionale. Opposto l’atteggiamento israeliano. Il premier Lapid, anche a scopo elettorale, ha insistito sull’intesa raggiunta tra due paesi formalmente in guerra descrivendola come un riconoscimento da parte libanese dello Stato ebraico. «Questo è un risultato straordinario per Israele», ha detto. L’accordo ha aggiunto, «è una conquista diplomatica. Non capita tutti i giorni che un paese nemico riconosca lo Stato di Israele in un accordo scritto, davanti alla comunità internazionale». L’intesa ha proseguito, «rappresenta una conquista economica. Ieri è iniziata la produzione di gas dalla piattaforma Karish. Israele riceverà il 17 per cento dei profitti da Qana-Sidone, il campo libanese. Questo denaro andrà nell’economia israeliana e sarà utilizzato per la salute e il benessere, l’istruzione e la sicurezza». A suo sostegno è intervenuto qualche ora dopo Joe Biden che ha esaltato l’accordo definendolo «storico» e ha previsto che «garantirà gli interessi di entrambi i Paesi e sarà una base per la stabilità e la prosperità della regione».
A Beirut hanno suonato una musica ben diversa. Il presidente Aoun ha negato su Twitter che l’accordo possa avere «implicazioni politiche». La demarcazione del confine marittimo meridionale, ha spiegato, «è un’opera tecnica che non ha implicazioni politiche o effetti contrari alla politica estera libanese». Ancora più esplicito è stato il leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, considerato dagli analisti il vero vincitore politico del negoziato indiretto con Israele. «Noi di Hezbollah consideriamo quello che è accaduto una grande vittoria per il Libano», ha detto Nasrallah durante un discorso televisivo sottolineando che l’intesa non significa «normalizzazione» dei rapporti né un «riconoscimento» implicito di Israele da parte di Beirut e che «Israele non ha ricevuto garanzie di sicurezza». Ricordando che Hezbollah aveva minacciato di attaccare Karish se Tel Aviv avesse avviato lo sfruttamento del giacimento senza un accordo con il Libano, ieri Nasrallah ha annunciato la revoca dello «stato di allerta militare» proclamato dal suo movimento.
A Beirut il governo, Hezbollah e l’oligarchia economica cantano vittoria. Restano però forti i dubbi sulla reale portata economica futura dello sfruttamento del gas e dell’accordo con Israele. Qualche giorno fa Sibylle Rizk, presidente del Consiglio dell’iniziativa libanese per il petrolio e il gas (Logi), su l’Orient Today spiegava che «Il gas non salverà il Libano» che vive una crisi finanziaria devastante. Prima di tutto, ha scritto, la linea di demarcazione stabilita dall’accordo «non è basata sul diritto internazionale che impone che il confine marittimo inizi dal confine terrestre». Contrariamente a quanto affermano le autorità, ha sottolineato Rizk, «il Libano non ha ottenuto pieni diritti sul campo di Qana…e rimangono molti passi da compiere prima che venga effettuata una scoperta di gas naturale. E, se una tale scoperta avverrà, ci vorranno diversi anni prima che il Libano riceva effettivamente la sua quota di entrate».
Gli esperti calcolano che il Libano potrà contare, non prima del 2030, su 6-8 miliardi di dollari distribuiti su un periodo di 15 anni. In confronto, le perdite nel settore finanziario ammontano a 72 miliardi di dollari. L’accordo, perciò, non apre la strada alla prosperità. Pagine Esteri
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Segnalato nella newsletter di Guido #Scorza
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Segnalato nella newsletter di Guido #Scorza
ec.europa.eu/commission/pressc…
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‘Un padre su misura’: testimonianze di rapporti difficili
Scrivere del rapporto tra genitori e figli non è semplice. La relazione è spesso ricca di conflittualità e sfumature difficili da comprendere all’esterno. Questi conflitti sono stati da sempre oggetto dell’interesse, dell’avvocato Laura Gaetini, esperta in diritto di famiglia, che a questo tema ha dedicato il suo secondo libro dal titolo ‘Un padre su Misura’. […]
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Servizi di noleggio: a Bari cresce la richiesta per i furgoni 9 posti
Ci sono situazioni in cui potrebbe nascere la necessità di trasportare un piccolo gruppo di persone. Condizione questa che può capitare sia ai privati sia ai professionisti. Ecco perché è interessante notare come siano in crescita le richieste per i furgoni 9 posti. Questa possibilità infatti risulta in voga in tutta Italia ma in particolare […]
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Ucraina e il progetto evolutivo di Berlusconi
Nella dichiarazione di voto, al Senato, Berlusconi torna allo 'spirito' di Pratica di Mare, e manda un segnale chiaro: 'voglio che vi diate da fare per fare la pace che richiede di passare da Putin'. La Lega sembra dargli una mano. Tutto è in linea con il Trattato del Quirinale
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Sabino Cassese: “L’opposizione si liberi del passato, presidenzialismo utile alla stabilità”
Il giurista: «La forza della democrazia sta nell’aver incluso chi ha antiche radici autoritarie»
ROMA. Il professor Sabino Cassese ha appena finito di ascoltare il discorso della presidente Giorgia Meloni e, a caldo, suggerisce una delle sue notazioni sulfuree: «Ha usato tre toni di voce. Uno squillante, leggendo rapidamente la lunga lista di buoni propositi. Uno intermedio, riflessivo, per sottolineare alcune impostazioni. Infine, uno quasi sussurrato, senza leggere, per far capire chi era la locutrice. Un buon “acting”». Sabino Cassese, come si sa, è uno dei più importanti giuristi del secondo dopoguerra, ma anche un profondo conoscitore da “dentro” della politica italiana e in questa intervista a La Stampa colloca il discorso di Giorgia Meloni in un contesto più ampio di quello contingente.
Molta attualità politica e uno sguardo generico sui prossimi cinque anni?
«Un programma di governo, dichiaratamente di durata decennale, va giudicato in base a sei criteri: l’orizzonte ideale nel quale si muove, la collocazione internazionale proposta, la prospettiva temporale indicata, gli obiettivi prescelti, i mezzi preferiti, infine, le assenze, i temi che non ci sono».
Non le è parso un discorso senza un ’idea di Paese e di Europa?
«Se si considerano i primi tre criteri insieme, va riconosciuto che nel discorso sono presentati un solido orizzonte ideale, una robusta collocazione internazionale e una lunga durata. L’orizzonte ideale è quello della Costituzione, di tipo liberale e democratico, antifascista, con un riferimento all’Occidente; in più, sia la sottolineatura del vincolo rappresentati-rappresentanti, sia il riconoscimento del valore dell’opposizione. Tra questi si insinuavano toni anti-oligarchici, che mostrano la penetrazione del populismo in tutte le forze politiche italiane.
Quanto alla collocazione internazionale, mi sembra che sia stata chiara l’adesione all’Unione Europea e all’Alleanza atlantica, così come è stata chiara la critica all’invasione russa. I toni critici dell’Unione Europea c’erano, ma in termini di una sua insufficienza; insomma, per fare di più, non di meno. Quanto alla prospettiva temporale, è chiaramente decennale, come risulta dalla critica a 10 anni di governi deboli e instabili e dalla indicazione di 10 anni come prospettiva futura. Il governo conta su questa e sulla prossima legislatura».
Nei commenti c’è chi si sofferma di nuovo sulla questione fascista: la distanza le pare convincente e sufficiente?
«Non soltanto la distanza dal fascismo, ma anche le chiare indicazioni relative a libertà e democrazia. Sarebbe bene che l’opposizione si liberasse del punto di vista fascismo-antifascismo, giudicando il governo per quello che propone e per quello che fa. La forza di 75 anni di democrazia sta anche in questo, di avere abituato alla democrazia coloro che hanno le loro antiche radici in un regime autoritario».
Le priorità di Meloni le paiono quelle giuste?
«Più che esprimere un giudizio personale, provo a fare il seguente esercizio. Prendo il volume più aggiornato e interessante sulla storia repubblicana, quello curato da Luca Paolazzi su “75 anni di storia economico-sociale e 23 di stallo” e contiene 150 pagine di dati comparativi su Italia e altri Paesi. Gli obiettivi indicati dal nuovo governo centrano quasi tutti i problemi analizzati in quelle pagine su finanza e crescita, con un approccio pragmatico e rassicurante, insistendo sull’avanzo primario, sul risparmio privato.
Un rapporto tra Stato e economia di impianto liberista, favorevole a deregolazione e de-burocratizzazione, ma che punta su reti pubbliche. Attenzione per i tre grandi problemi del Paese, scuola, sanità, divario Sud – Nord. Accenti diversi da quelli dei suoi alleati di governo in materia di pensioni (con attenzione per la flessibilità e per le garanzie dei giovani) e sull’immigrazione (con attenzione più alle partenze che agli arrivi), più allo sviluppo dell’Africa mediterranea che alla chiusura dei porti e la geniale idea di un piano Mattei che riprenda l’esperienza di quel grande imprenditore».
Il presidenzialismo? Non se ne farà nulla anche stavolta?
«Il capitolo dei mezzi non si ferma al presidenzialismo. Riguarda anche l’autonomia differenziata, ma attenuata dal rafforzamento delle risorse per Roma e dall’accento sulle autonomie locali. Riguarda anche la burocrazia con reintroduzione dei criteri del merito. Riguarda anche la giustizia, con processi solleciti. Sulla riforma presidenziale non c’è stata una chiara scelta tra le decine di soluzioni che si presentano, ma è stata indicata l’opzione che tende a premiare la stabilità dell’esecutivo. Questo è un obiettivo importante in un Paese che in 75 anni inaugura il proprio 68º governo».
Quindi una valutazione positiva?
«Si, complessivamente, anche se la critica di bonus e ristori doveva continuare con programmi di investimento; sul fisco, a temi condivisi da tutti, come la lotta alla evasione e la riduzione del cuneo fiscale, si accompagnano anche idee molto criticate come la tregua fiscale e la tassa piatta. La critica alla limitazione delle libertà nella fase acuta della pandemia poteva essere risparmiata, anche perché non accompagnata da indicazioni su quello che farebbe il nuovo governo se si trovasse di nuovo davanti a una recrudescenza della pandemia. Il riferimento ai lavoratori autonomi costituisce un richiamo di tipo elettorale. E i lavoratori dipendenti? Interessante il riferimento all’ Europa: ha unito l’interesse nazionale ad un destino comune».
Un forte apparato retorico e tanti messaggi di metodo: sono libera, faremo cose che ci costeranno consenso, non tradiremo. Il profilo di una destra sociale fuori dal Palazzo, un romanticismo pronto alla “bella sconfitta”? O anche un’alterità effettiva da parte di una “underdog” combattiva che potrebbe rompere consuetudini?
«Un discorso da combattente, forse troppo lungo, che non mostrava le crepe che vi sono nella coalizione di governo, uno dei due punti deboli, insieme a quello delle strutture serventi e degli apparati di staff, della classe dirigente a cui far capo».
Intervista di Fabio Martini su La Stampa
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20° Congresso del Partito Comunista Cinese: cosa è successo… e cosa non è successo
Domenica, sette uomini vestiti in modo quasi identico con abiti blu scuro, camicie bianche e cravatte conservatrici (tutti rossi tranne uno) hanno marciato in ordine di importanza politica sul palco della Grande Sala del Popolo di Pechino. L’esibizione ha posto fine a mesi di suspense e voci sulla leadership cinese e ha rivelato la nuova […]
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Libertà delle donne nel mirino delle destre
A Mahsa Amini e Hadis Najafi per un Iran laico. Ed a tutte le donne del pianeta È da poco terminato il profluvio, oltre 1 ora, del discorso del/della Presidente del Consiglio Meloni Giorgia, ovvero ‘una’ donna, senza battutine, che assevera e conferma che ci si trova dinanzi ad un governo delle destre mai avuto nella storia […]
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Ucraina: un teatro sempre più affollato
Il teatro di guerra ucraino si sta affollando sempre più. Ora protagonisti nel sostegno al malandato esercito russo sarebbero ex commando afgani e Iran. Due imperi allo scontro: l'impero occidentale, piuttosto smunto, smagrito, e l'impero russo-sino-mediorientale, corpulento, seppure qua e là ammaccato
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Cosa significherebbe per la Cina una Russia indebolita
Più a lungo si trascina la guerra in Ucraina, più la Russia dipenderà dalla Cina, e più diseguali saranno le relazioni. Dopo oltre tre secoli di relazioni Russia-Cina, sembra che si stia chiudendo il cerchio e la Russia stia diventando sempre più subordinata alla Cina, senza alternative
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Il Kazakistan può dare nuova vita alla CICA?
Il recente vertice della CICA aveva in obiettivo continuare la trasformazione e il consolidamento del blocco in un'organizzazione rilevante ed efficace del 21° secolo, una entità più dinamica ed efficace che promuova l'integrazione regionale, la cooperazione e lo sviluppo
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Come gli Stati Uniti possono facilmente modificare le loro relazioni con l’Arabia Saudita
La recente decisione dell’Arabia Saudita di manipolare i mercati energetici globali è stata un atto ostile motivato politicamente. Il picco dei prezzi del petrolio aggraverà l’inflazione negli Stati Uniti aiutando la Russia nella sua invasione dell’Ucraina proteggendo Mosca dall’impatto delle sanzioni. Dopo l’annuncio che l’OPEC+ avrebbe ridotto drasticamente la produzione di petrolio, il presidente Biden […]
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Cina: Xi ha bisogno di concretezza
Molti i successi ma moltissimi gli insuccessi in questi 10 anni. Il punto in cui Xi è terribilmente insufficiente è nell'attuazione delle politiche enunciate. Ora 'Xi ha bisogno di parlare con modestia e portare un bastone (riformato) più grande'
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Conferenza “Scienza e Liberalismo”
Giovedì 10 novembre, alle ore 18.00, presso l’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, in via della Conciliazione 10, a Roma, il Prof. Angelo Maria Petroni terrà una conferenza dal titolo “Scienza e Liberalismo”.
Il liberalismo è coevo della scienza moderna. Nella conferenza verrà argomentato che liberalismo e scienza si originano dalla stessa visione antropologica, e che il progresso scientifico dipende dalla solidità delle istituzioni liberali.
L’iniziativa è realizzata in collaborazione con l’Accademia Nazionale dei Lincei – Centro Linceo Interdisciplinare Beniamino Segre.
Interviene:
Prof. Angelo Maria Petroni, Professore presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi
È possibile partecipare fino ad esaurimento posti.
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Valeria Fascione: un assessore nello spazio
Napoli è una delle culle delle costruzioni aeronautiche europee: le favorevoli condizioni atmosferiche e una larga visibilità dei cieli che la contornano hanno incoraggiato tutti gli esperimenti di volo realizzati ma anche le numerose lavorazioni all’aperto di grossi manufatti -quali ad esempio le ali in legno e tela- le cui cuciture venivano effettuate principalmente dalle […]
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Oppositori
Devono scegliere
Le opposizioni non avranno una comune linea politica. Non è mai successo e non avrebbe senso. Il guaio non è che esistano opposizioni con idee e politiche diverse, ma che ne siano prive. O che siano frastornate. Termini come “opposizione dura”, o “ragionevole” o ancora “responsabile” non significano un accidenti. L’opposizione che spera di diventare maggioranza deve scegliere i temi su cui vuole caratterizzarsi e che utilizzerà per far cadere il governo. E qui, al momento, si brancola nel buio.
Nel discorso della presidente Meloni si devono andare a cercare certi vocaboli, impreziositi dall’enfasi della pronuncia, per rintracciare l’oppositrice che fu. Uno, per esempio: “potentati”. Della serie: noi popolo siamo contro i potenti. E vabbè, ora sei potente e vediamo. In quel discorso, però, andando alla sostanza, lasciando da parte l’uso emotivo della storia personale, c’è una conversione che pone un problema agli oppositori, ove mai vogliano essere effettivamente tali e puntare ad essere futuri vincitori.
Concretamente: l’Italia continuerà nel totale sostegno dell’Ucraina e nella condanna dell’invasione russa. Questa la posizione del governo. Sappiamo bene che in maggioranza, determinanti, ci sono presenze che la pensano all’opposto. Il tema, per chi si oppone è: si lavora sulle spaccature interne alla maggioranza, in modo da indebolire Meloni e accelerare la crisi, oppure si lavora consolidando la condanna russa e gli aiuti agli ucraini, in questo modo aiutando Meloni e marginalizzando i putiniani governativi?
Il che comporta una seconda scelta: si prova a tenere unita l’opposizione, così cominciando a dire frescacce generiche, malpanciste e falso pacifiste, o si abbandona al suo destino il populismo d’opposizione e se ne costruisce una che sia degna di governare? Non è che le domande siano retoriche e le risposte scontate, affatto.
Solo che le prime opzioni comportano un miglioramento del livello politico italiano e la necessità di un ricambio mica solo di una segreteria, ma di una cultura e una mentalità; le seconde rendono più facili le campagne elettorali, sono le scelte che i governanti di oggi fecero ieri, quando erano oppositori, ma dequalificano la classe politica e la popolano di retori a tre palle un soldo.
Al governo c’è un ministro della giustizia che (finalmente) parla esplicitamente dell’ovvio derivato del processo accusatorio: la separazione delle carriere. L’opposizione può scegliere se incalzarlo, morderlo quando incontrerà ostacoli imponenti, sollecitarlo alla scontro anziché alla mediazione, oppure può avversarlo e intestarsi per l’avvenire l’essere consustanziale alle camarille togate e al corporativismo autoreferenziale.
Se il governo, come dice il ministro responsabile, decide di riprendere la via dell’energia nucleare, l’opposizione può scegliere se farsi venire i mancamenti falso ecologisti o se sfidarlo nel passare dalle parole ai fatti.
Se il ministro dell’agricoltura si propone di aumentare i terreni coltivati, l’opposizione può scegliere di passare ancora del tempo a sollazzarsi sulla “sovranità” alimentare, mentre è oggettivamente ridicola la suggestione dell’autarchia produttiva, ma può, invece, far osservare che quei terreni qualcuno dovrà poi lavorarli e, come l’esperienza insegna, se solo si conosce la realtà, saranno per lo più immigrati. Nel prossimo decreto flussi ce ne mettiamo una paio di centinaia di migliaia? Sarebbero, gli oppositori, non solo gente che s’oppone, ma anche propone. Il che fa perdere il vantaggio della facile rimonta, ma fa guadagnare un motivo serio per rimontare.
Se, invece, intendono discutere ancora a lungo su se sia più femminista la quota rosa o il rosa a palazzo, se i generi sessuali siano due o n tendente all’infinito, su chi fa il segretario di cosa e chi si allea con chi, sappiano di potere continuare in tutta tranquillità, perché non gliene frega niente a nessuno. Tranne che a loro.
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BRASILE. Gli ex elettori del Partito dei Lavoratori potrebbe portare Bolsonaro alla vittoria
di Glória Paiva* –
Pagine Esteri, 27 ottobre 2022 – “È vergognoso che metà del popolo brasiliano voti per un ladro condannato in due gradi di giudizio”, ha commentato via messaggio un mio caro amico, il giorno dopo il primo turno delle elezioni brasiliane. Questo amico, un medico della sanità pubblica che ha votato per il Partito dei Lavoratori (PT) per decenni di seguito, dal 2018 è un elettore di Bolsonaro. Come lui sono davvero in tanti e la loro posizione avrà un peso fondamentale per l’esito definitivo delle elezioni che si terranno, in secondo turno, la prossima domenica 30 ottobre.
Era la mattina del 3 ottobre 2022 e molti di quei 57 milioni di brasiliani a cui il mio amico si riferiva, che avevano votato per Luiz Inácio Lula da Silva (PT), ancora si stavano svegliando con una sorta di “sbornia elettorale”: Lula non solo non aveva vinto al primo turno, ma ne era uscito con una pericolosa differenza di cinque punti percentuali su Jair Bolsonaro, in uno scenario lontano dai 14 punti previsti dai sondaggi d’opinione.
Che cosa è successo?, si sono chiesti elettori, giornalisti e, soprattutto, membri della campagna di Lula, sbalorditi. Gli istituti di ricerca “avevano sbagliato di grosso”, segnalavano articoli giornalistici, o “sono corrotti e vanno indagati”, incitavano i bolsonaristi. Secondo alcune analisi, ciò che gli istituti non avevano considerato è stata la forza del voto dell’ultimo minuto per Bolsonaro, prodotto dai sondaggi stessi o dalle campagne di disinformazione. Oppure, come seconda ipotesi, non è stato previsto l’impatto delle astensioni: più di 32 milioni di persone, ovvero il 20,9% dell’elettorato, non hanno votato, un numero record dal 1998.
In un modo o nell’altro, il bolsonarismo si è rivelato una corrente politica molto più forte e imprevedibile di quanto si immaginava, concentrando il voto della popolazione che guadagna più di cinque salari minimi, un settore decisivo dell’elettorato.
Ma come mai, mi sono chiesta, il mio amico medico ha sposato le idee di un presidente che ha promosso un farmaco dimostratamente inefficace nella lotta al COVID-19? Che, nel suo negazionismo scientifico, ha ritardato l’acquisto di vaccini e screditato le misure igieniche raccomandate dall’OMS, provocando oltre 400.000 morti che avrebbero potuto essere evitate? Un presidente che non perde occasione per attaccare le istituzioni democratiche e lodare i torturatori della dittatura militare? Che ostacola tutte le indagini svolte contro di sé e la sua famiglia? Che ha composto un ministero di fanatici, militari e religiosi, nemici dei diritti umani, dei diritti indigeni, delle donne, dell’ambiente, dei poveri e delle minoranze…?
Il discorso di Bolsonaro risuona allo stesso modo tra gli oltre 51 milioni di elettori che l’hanno votato al primo turno? Bolsonaro si presenta come un difensore della famiglia, dei valori cristiani e tradizionali, del militarismo e del patriottismo. È anche un difensore del neoliberismo illimitato e del “buon cittadino”, che, nella sua logica, deve girare armato per l’autoprotezione. Contrario alla “vecchia politica”, portavoce delle classi alte e medie, dell’agribusiness e di quelli desiderosi di porre fine alla corruzione che ha segnato la politica brasiliana da sempre. Quale, tra questi aspetti retorici, sarebbe quello vincitore secondo il giudizio di questo elettore in particolare?
Il 3 ottobre stesso, gli mando un messaggio: “Cosa ne pensi di Bolsonaro?”. E lui risponde: “Mi piaceva Simone Tebet (candidata di centro del MDB, arrivata terza al primo turno). Ma nonostante le bugie che dicono su di lui, Bolsonaro è diventato l’unica opzione per sfuggire alla sinistra corrotta nel ballottaggio”. Le bugie a cui fa riferimento sono le notizie quotidiane sul governo Bolsonaro: la stampa egemonica, secondo la retorica bolsonarista, è corrotta e, quindi, inaffidabile, così come le istituzioni che lo infastidiscono, come il Supremo Tribunale Federale e il Supremo Tribunale Elettorale.
La risposta rivela cosa c’è dietro il suo voto e potrebbe essere uno degli aspetti più decisivi per il secondo turno, che si terrà il 30 ottobre. Come una parte importante dell’elettorato dell’attuale presidente, il mio amico medico non è necessariamente un bolsonarista convitto: lui, semplicemente, rifiuta terminantemente il PT. Così come lo fa una grande parte della base elettorale, di centrodestra, di Tebet, nonostante la senatrice abbia dichiarato il sostegno a Lula il 7 ottobre. Questa stessa base, dicono alcuni analisti, potrebbe votare per Bolsonaro al secondo turno, insieme a un segmento ancora incognito di quei 20,9% di astensionisti.
Giorni dopo, ricevo via WhatsApp un PDF casereccio che giustifica la posizione politica del mio amico. È un documento di 40 pagine con le copertine del settimanale brasiliano “Veja” dal gennaio 2003 a luglio 2006, una pubblicazione nota per essere un portavoce della destra liberale e poco attinente alle regole del buon giornalismo. Il file presentava diversi scandali politici aventi come protagonisti il PT e i suoi alleati in quel periodo.
Secondo alcune tesi, l’orientamento anti-PT sarebbe nato nei primi anni del governo Lula (2003-2011) sulla base di vari motivi, dalla corruzione alle questioni morali e persino di un profondo odio di classe. Congiuntamente ci sarebbero anche l’adesione delle élite brasiliane alle idee conservatrici dal punto di vista dei costumi, al neoliberismo nell’ambito dell’economia e a una fortissima tesi di anticomunismo, che ancora prevale – infatti, tra gli argomenti dei bolsonaristi, c’è la paura che il Brasile possa “diventare un nuovo Venezuela”.
È stato nel secondo mandato di Dilma Rousseff (PT) che l’antipetismo è diventato un fenomeno di espressione politica. Nel 2014, una serie di manifestazioni di estensione senza precedenti hanno occupato le principali città brasiliane. Le proteste, che inizialmente contestavano l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici, hanno cominciato a criticare la Confederations Cup e il Mondiale di Calcio, la corruzione politica e la crisi economica. Nel 2016, le manifestazioni delle magliette verdi e gialle chiedevano l’impeachment della presidente, con un importante sostegno della stampa egemonica. Tutto ciò, insieme all’isolamento politico di Rousseff e ad un’articolazione dell’élite politica, giudiziaria ed economica in un nuovo progetto di potere, è culminato nell’uscita forzata della presidente due anni prima della fine del suo mandato e nell’arresto di Lula.
Il 7 aprile 2018, l’ex presidente è stato arrestato per i reati di corruzione e riciclaggio di denaro nell’operazione denominata “Lava Jato” (Car Wash), e ciò gli ha impedito di partecipare alle elezioni. Iniziata a marzo 2014, quella è stata la più grande indagine sulla corruzione condotta in Brasile e ha portato alla luce un mega-schema che coinvolgeva politici da sinistra a destra, nonché grandi società pubbliche e private.
Nelle presidenziali del 2018, la polarizzazione del sistema politico, fino a quel momento incentrata sul PT (a sinistra) e sul PSDB (a destra), ha iniziato a dividersi in altri due assi: “petismo” e “antipetismo”. Con Lula in prigione e il PSDB senza un candidato forte – i cui principali esponenti erano accusati, anche loro, di corruzione – l’estrema destra di Bolsonaro è stata l’unica forza politica a presentare un’alternativa per il governo in quel momento.
Dopo oltre 500 giorni di detenzione, Lula è stato rilasciato l’8 novembre 2019, dopo che il Supremo Tribunale Federale ha ribaltato l’incarcerazione dopo il secondo grado. Parallelamente, un’indagine del sito The Intercept Brasil ha rilevato che il giudice responsabile dell’arresto di Lula, Sergio Moro, aveva ceduto informazioni privilegiate all’accusa e al Ministero Pubblico, agevolando l’azione penale con consigli e indizi – lo stesso Moro che poi è diventato il ministro della Giustizia di Bolsonaro e che oggi è un membro importante della sua campagna.
Nel 2021, la Corte ha annullato le condanne di Lula e lo ha dichiarato non colpevole sulla base di due argomenti: che non doveva essere processato presso la 13ª Corte di Curitiba, ma a Brasilia, e che il suo giudizio non è stato imparziale.
Nonostante tutti questi sconvolgimenti e la performance globalmente criticata del governo Bolsonaro, alcuni mezzi di comunicazione spesso ancora rappresentano Lula e Bolsonaro come due poli estremi, di peso equivalente. La campagna bolsonarista ne approfitta: quattro anni dopo, il suo principale argomento retorico è ancora la sua presunta postura anticorruzione, contro un Lula “ex detenuto”.
L’ideologia bolsonarista si è radicata nella società, fenomeno osservato anche nelle elezioni per il legislativo: il 2 ottobre, diversi alleati, ex ministri e sostenitori del presidente sono stati eletti deputati, governatori e senatori. Nel 2023, il PL di Bolsonaro sarà il partito più rappresentato in Senato e nella Camera dei Deputati.
Il deputato eletto Guilherme Boulos (Paolo) aveva detto che, nel caso di un ballottaggio, questi sarebbero stati i 30 giorni più difficili della storia politica brasiliana recente. Infatti è così. Una marea di disinformazione, violenza e intimidazione politica, attacchi nelle chiese a figure religiose contrarie a Bolsonaro e il drammatico episodio in cui l’ex deputato bolsonarista Roberto Jefferson ha sparato e lanciato granate contro i poliziotti che cercavano di arrestarlo per violazione della detenzione domiciliare, ha segnato le ultime settimane, risultando in una montagna russa per i sondaggi elettorali.
A pochissimi giorni, ormai, dal secondo turno, alcuni istituti di ricerca hanno previsto un pareggio tecnico tra Lula e Bolsonaro. L’attuale presidente è riuscito a ridurre la distanza in relazione al suo oppositore, migliorando la valutazione del suo governo con una serie di politiche pubbliche, ad esempio l’anticipo dei pagamenti dell’Ausilio Brasil (programma di trasferimento del reddito che ha sostituito il Bolsa Família) e la riduzione del tasso di interesse per i piccoli imprenditori. Il 25 ottobre, tuttavia, il sondaggio Ipec mostrava Lula con il 50% delle intenzioni di voto, contro il 43% di Bolsonaro.
La campagna di Lula, a sua volta, rappresenta sempre di più una dicotomia che si è stabilita tra il bolsonarismo e la democrazia. Già da prima si era riunita in una grande coalizione con altri settori di sinistra e con i suoi ex oppositori, avendo addirittura invitato uno dei fondatori del PSDB, Geraldo Alckmin (attualmente PTB), per il ruolo di candidato a vicepresidente. Nelle ultime settimana, Lula ha avuto un significativo sostegno di personaggi come Tebet, l’ex presidente di destra, Fernando Henrique Cardoso, e persino il titubante Ciro Gomes (centro-sinistra), ex candidato risultato in 4º nel primo turno, nonchè di grandi imprenditori.
Il secondo turno, il 30 ottobre, prevede una disputa accanita come mai prima e di risultati difficili da anticipare fino all’ultimo. Nel ballottaggio del 2002, contro José Serra (PSDB), Lula godeva di un comodissimo vantaggio di 29 punti. E nel 2006, contro Geraldo Alckmin, la differenza era di 19 punti. A prescindere dall’esito, molto probabilmente il Brasile rimarrà diviso anche dopo lo spoglio dei voti di giorno 30, con una mappa politica interamente ridisegnata e incertezze sulla solidità delle sue istituzioni democratiche.
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* Glória Paiva è una giornalista, scrittrice e traduttrice brasiliana
L'articolo BRASILE. Gli ex elettori del Partito dei Lavoratori potrebbe portare Bolsonaro alla vittoria proviene da Pagine Esteri.
INCHIESTA. Permessi di lavoro in Israele a caro prezzo per i manovali palestinesi
di Michele Giorgio –
(nella foto di Emil Salman, lavoratori palestinesi aspettano in fila a un posto di blocco israeliano vicino Hebron)
Pagine Esteri, 27 ottobre 2022 – Ahmad preferisce «l’illegalità». «Certo, si guadagna bene a lavorare nella zona ebraica di Gerusalemme o in Israele» ci dice «ma il permesso di lavoro costa troppo, preferisco correre il rischio di essere arrestato ed espulso». Abitante di un villaggio alle porte di Betlemme, 23 anni, non sposato, Ahmad prova a guadagnarsi da vivere facendo qualsiasi lavoro, quasi sempre il muratore, accettando pagamenti in nero. «Guadagno meno (dei lavoratori con il permesso) ma almeno non sono tenuto a pagare ogni mese fino a 2500 shekel (circa 700 euro, ndr) per avere le carte in ordine». Ma gran parte dei 140mila manovali palestinesi che al mattino entrano in Israele e a sera fanno ritorno in Cisgiordania non possono permettersi l’arresto. È fondamentale per loro avere la possibilità di lavorare in Israele dove ricevono una buona paga giornaliera – in media intorno ai 300 shekel (85 euro) con punte fino a 600 shekel (170 euro) – mentre nei Territori occupati la disoccupazione è elevata e i salari sono notevolmente più bassi. Qualcuno commenta che la «pace economica» teorizzata dalle autorità israeliane è aver ridotto ai minimi termini l’economia della Cisgiordania e reso i palestinesi dipendenti in massa dal lavoro nello Stato ebraico.
Certo è che il lavoro in Israele è ormai irrinunciabile per tanti manovali palestinesi. Non sorprende che la concessione dei permessi sia diventata un ottimo affare per quelli privi di scrupoli, israeliani e palestinesi. Con il sistema attuale, i lavoratori pendolari pagano ciascuno 2.500 shekel al mese in contanti per un permesso in Israele. Il denaro viene diviso tra un appaltatore israeliano e un intermediario palestinese. «Cosa mi resta? Ben poco» spiega Kamal, un altro muratore. «Prendo 400 shekel al giorno, circa 8.000 shekel al mese» ci racconta «2.500 shekel se ne vanno per il permesso, 1.500 per i trasporti da e per Israele e altre centinaia per il cibo al lavoro. Alla fine, mi restano più o meno 3.500 shekel (mille euro) che il carovita rende insufficienti per una famiglia di 4-5 persone».
La tv israeliana Kan nei giorni scorsi ha mandato in onda un’indagine intitolata: «Le famiglie criminali che dominano il mercato del lavoro palestinese». L’industria dell’estorsione, ha aggiunto, è un processo sistematico che avviene con la conoscenza della polizia. Si tratta di una attività molto redditizia. Nel 2021 i suoi profitti, secondo gli studi condotti dall’Israeli National Security Research Center, hanno sfiorato il miliardo di shekel (280 milioni di euro). Il giornalista investigativo Anas Abu Arqoub sottolineava nel programma che questo «furto» sistematico è la conseguenza del fallimento riforme attese da tempo ma mai arrivate.
Alcuni studi legali hanno provato a combattere il fenomeno intentando un’azione collettiva contro una società israeliana specializzata in «permessi». L’esito è stato inquietante. Testimoni e avvocati hanno ricevuto pesanti minacce. L’avvocato Mariam Al Masry ha raccontato: «Ho contattato un certo numero di lavoratori palestinesi i cui permessi sono registrati presso una determinata azienda. Mi è apparso chiaro che la maggior parte di essi non lavorava per quella azienda, dicevano di aver avuto i permessi tramite intermediari e di aver pagato somme di denaro elevate per ottenerli».
Il giornale Haaretz riferiva qualche tempo fa che lo sfruttamento dei lavoratori palestinesi deriva da un sistema messo in piedi da Israele per cosiddette «esigenze di sicurezza». Il processo di assunzione vero e proprio inizia con uno dei 2400 appaltatori israeliani ufficialmente registrati che presenta una domanda per un permesso di lavoro per un manovale palestinese all’Autorità per la popolazione e l’immigrazione. Al termine del periodo di lavoro, l’appaltatore dovrebbe informare le autorità per far cessare la validità del permesso. Ma negli anni si è radicata una pratica illecita: invece di restituire i permessi, gli appaltatori li vendono tramite un intermediario palestinese ad altri manovali che sono disposti a pagare somme importanti. Ed è solo l’inizio. L’intermediario tiene per sé 600 shekel (circa 190 euro). L’appaltatore prende il resto, quindi emette una busta paga falsa ai «suoi» dipendenti che non includono il numero effettivo di giorni in cui il dipendente ha lavorato o il suo salario reale. Per il lavoratore palestinese non c’è scampo, se smette di pagare, l’intermediario sospende il suo permesso di lavoro. «Dai soldi all’intermediario ogni mese, non importa quanto hai lavorato. Il sistema ti costringe a dipendere da loro. Per questo ho scelto di venirne fuori», spiega Ahmad che ora preferisce lavorare in nero nella ristrutturazione di appartamenti.
La «tassa sul permesso», come la chiamano da queste parti, viene pagata dai più giovani, dal momento che i lavoratori di età pari o superiore a 55 anni non sono più tenuti a ricevere un permesso per andare in Israele. L’ILO nel 2019 ha stimato in circa 100 milioni di euro i profitti illeciti generati dalla vendita dei permessi ai palestinesi. Pagine Esteri
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Al via la quinta edizione del concorso "Il sole per amico: impariamo a proteggere la pelle", promosso dall'Intergruppo Melanoma Italiano e dal Ministero dell’Istruzione.
Info ▶️ miur.gov.
INCHIESTA. Permessi di lavoro in Israele a caro prezzo per i manovali palestinesi
di Michele Giorgio –
(nella foto di Emil Salman, lavoratori palestinesi aspettano in fila a un posto di blocco israeliano vicino Hebron)
Pagine Esteri, 27 ottobre 2022 – Ahmad preferisce «l’illegalità». «Certo, si guadagna bene a lavorare nella zona ebraica di Gerusalemme o in Israele» ci dice «ma il permesso di lavoro costa troppo, preferisco correre il rischio di essere arrestato ed espulso». Abitante di un villaggio alle porte di Betlemme, 23 anni, non sposato, Ahmad prova a guadagnarsi da vivere facendo qualsiasi lavoro, quasi sempre il muratore, accettando pagamenti in nero. «Guadagno meno (dei lavoratori con il permesso) ma almeno non sono tenuto a pagare ogni mese fino a 2500 shekel (circa 700 euro, ndr) per avere le carte in ordine». Ma gran parte dei 140mila manovali palestinesi che al mattino entrano in Israele e a sera fanno ritorno in Cisgiordania non possono permettersi l’arresto. È fondamentale per loro avere la possibilità di lavorare in Israele dove ricevono una buona paga giornaliera – in media intorno ai 300 shekel (85 euro) con punte fino a 600 shekel (170 euro) – mentre nei Territori occupati la disoccupazione è elevata e i salari sono notevolmente più bassi. Qualcuno commenta che la «pace economica» teorizzata dalle autorità israeliane è aver ridotto ai minimi termini l’economia della Cisgiordania e reso i palestinesi dipendenti in massa dal lavoro nello Stato ebraico.
Certo è che il lavoro in Israele è ormai irrinunciabile per tanti manovali palestinesi. Non sorprende che la concessione dei permessi sia diventata un ottimo affare per quelli privi di scrupoli, israeliani e palestinesi. Con il sistema attuale, i lavoratori pendolari pagano ciascuno 2.500 shekel al mese in contanti per un permesso in Israele. Il denaro viene diviso tra un appaltatore israeliano e un intermediario palestinese. «Cosa mi resta? Ben poco» spiega Kamal, un altro muratore. «Prendo 400 shekel al giorno, circa 8.000 shekel al mese» ci racconta «2.500 shekel se ne vanno per il permesso, 1.500 per i trasporti da e per Israele e altre centinaia per il cibo al lavoro. Alla fine, mi restano più o meno 3.500 shekel (mille euro) che il carovita rende insufficienti per una famiglia di 4-5 persone».
La tv israeliana Kan nei giorni scorsi ha mandato in onda un’indagine intitolata: «Le famiglie criminali che dominano il mercato del lavoro palestinese». L’industria dell’estorsione, ha aggiunto, è un processo sistematico che avviene con la conoscenza della polizia. Si tratta di una attività molto redditizia. Nel 2021 i suoi profitti, secondo gli studi condotti dall’Israeli National Security Research Center, hanno sfiorato il miliardo di shekel (280 milioni di euro). Il giornalista investigativo Anas Abu Arqoub sottolineava nel programma che questo «furto» sistematico è la conseguenza del fallimento riforme attese da tempo ma mai arrivate.
Alcuni studi legali hanno provato a combattere il fenomeno intentando un’azione collettiva contro una società israeliana specializzata in «permessi». L’esito è stato inquietante. Testimoni e avvocati hanno ricevuto pesanti minacce. L’avvocato Mariam Al Masry ha raccontato: «Ho contattato un certo numero di lavoratori palestinesi i cui permessi sono registrati presso una determinata azienda. Mi è apparso chiaro che la maggior parte di essi non lavorava per quella azienda, dicevano di aver avuto i permessi tramite intermediari e di aver pagato somme di denaro elevate per ottenerli».
Il giornale Haaretz riferiva qualche tempo fa che lo sfruttamento dei lavoratori palestinesi deriva da un sistema messo in piedi da Israele per cosiddette «esigenze di sicurezza». Il processo di assunzione vero e proprio inizia con uno dei 2400 appaltatori israeliani ufficialmente registrati che presenta una domanda per un permesso di lavoro per un manovale palestinese all’Autorità per la popolazione e l’immigrazione. Al termine del periodo di lavoro, l’appaltatore dovrebbe informare le autorità per far cessare la validità del permesso. Ma negli anni si è radicata una pratica illecita: invece di restituire i permessi, gli appaltatori li vendono tramite un intermediario palestinese ad altri manovali che sono disposti a pagare somme importanti. Ed è solo l’inizio. L’intermediario tiene per sé 600 shekel (circa 190 euro). L’appaltatore prende il resto, quindi emette una busta paga falsa ai «suoi» dipendenti che non includono il numero effettivo di giorni in cui il dipendente ha lavorato o il suo salario reale. Per il lavoratore palestinese non c’è scampo, se smette di pagare, l’intermediario sospende il suo permesso di lavoro. «Dai soldi all’intermediario ogni mese, non importa quanto hai lavorato. Il sistema ti costringe a dipendere da loro. Per questo ho scelto di venirne fuori», spiega Ahmad che ora preferisce lavorare in nero nella ristrutturazione di appartamenti.
La «tassa sul permesso», come la chiamano da queste parti, viene pagata dai più giovani, dal momento che i lavoratori di età pari o superiore a 55 anni non sono più tenuti a ricevere un permesso per andare in Israele. L’ILO nel 2019 ha stimato in circa 100 milioni di euro i profitti illeciti generati dalla vendita dei permessi ai palestinesi. Pagine Esteri
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