USA: il sistema elettorale funziona, ma Trump non lo sa
L’American Enterprise Institute ha analizzato il corretto funzionamento del sistema elettorale americano, proprio a ridosso delle elezioni di medio termine, partendo dall'accuratezza del conteggio dei voti, fino all'accessibilità alle urne da parte degli americani. I risultati smentiscono Trump. Il sistema, secondo i cittadini, funziona
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Valutazione economica del volontariato: un ‘atto impuro’?
Il volontariato: valore economico vs. valorialità metaeconomica? Certamente no. L’ attività volontaria, di massima,si svolge in assenza di contropartite di natura economico-finanziaria, o con una remunerazione monetaria che viene a configurarsi come rimborso spese e non è, quindi, rapportata al ‘valore’ (economico) della prestazione offerta. La valorialità del volontario è gratuità e dono (infatti chi dona investe […]
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Perché la Russia ha Sergei Shoigu, un tuvano, come principale generale?
Secondo Sergei Kurginyan, un propagandista del Cremlino, i russi sono “l’ultima nazione vivente, che rappresenta la razza bianca” . Lo ha detto in onda nel programma Evening with Vladimir Solovyov sul canale televisivo Russia 1. Viene anche indicato come uno dei promotori della cosiddetta ideologia del “mondo russo”. Ecco un’altra cosa da guardare. Gli attuali […]
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Partenariato di convenienza tra Russia e Afghanistan
La Russia fornirà gas, petrolio e grano all'Afghanistan. I talebani vedono la Russia come un partner economico attraente. Per la Russia, i talebani sono l'opzione più stabile nel quadro di sicurezza in evoluzione della regione
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Israele-Libano: accordo sul gas, un modello di cooperazione economica senza un accordo di pace
Dopo decenni di controversie legate ai giacimenti di gas naturale in mare, e alle minacce di guerra che ne derivano, Libano e Israele hanno finalmente negoziato un accordo sui loro confini marittimi. L’accordo è descritto come storico. Dopo quasi due anni di intensi negoziati trilaterali tra Israele e Libano, sotto la mediazione degli Stati Uniti, […]
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Ucraina: chiedere diplomazia non è neoimperialismo
Semmai, le élite del Nord globale stanno mostrando i loro muscoli coloniali nell'ignorare l'impatto della guerra sul 65% della popolazione mondiale
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Guerra in Ucraina: diplomazia assente
Sia l'Occidente che la Russia dovrebbero rendersi conto che la vittoria di entrambe le parti avrebbe comunque conseguenze catastrofiche. Molte le domande aperte che possono trovare risposta soltanto se si dà spazio alla diplomazia
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La Thailandia ancor più all’avanguardia nelle politiche di liberalizzazione della cannabis
Sulla strada che porta alla liberalizzazione della cannabis, la Thailandia si pone ulteriormente all’avanguardia a livello mondiale. In un altro passo verso l’accelerazione dell’economia della cannabis, la Thailandia sta eliminando alcune restrizioni sull’importazione di semi di cannabis. Thai PBS World, il sito web di notizie in inglese del Thai Public Broadcasting Service, ha riferito nel […]
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Manifestazione “Slava Ucraini”
La Fondazione Luigi Einaudi aderisce convintamente alla manifestazione “Slava Ukraini” che si svolgerà sabato 5 novembre, alle ore 16.00 a Milano. In epoca di finto pacifismo, e di veri antiamericanismo e anticapitalismo, schierarsi in difesa dello Stato e del popolo ucraino aggrediti dalla Russia significa schierarsi in difesa dei valori liberali e democratici su cui si fonda la cultura occidentale. Valori esplicitamente negati dall’autocrate Vladimir Putin.
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PODCAST. Israele: vittoria larga della destra, Meretz (sinistra) fuori dalla Knesset
AGGIORNAMENTI 2 NOVEMBRE
ANCORA PIÙ AMPIA LA VITTORIA DELLA DESTRA
Con il 97% dei voti contati, il blocco religioso e di estrema destra di Benjamin Netanyahu si avvia a una vittoria ancora più larga, mentre lo storico partito di sinistra Meretz guidato da Zahava Gal On è fuori dalla Knesset, perché non ha superato la soglia di sbarramento elettorale (3,25%) di un soffio. Avrebbe ottenuto il 3,2. Si avvicina alla soglia anche il partito di opposizione arabo Tajammo/Balad con il 3,04% dei voti totali.
Sulla base del conteggio quasi definitivo, il blocco di Netanyahu otterrebbe 65 seggi su 120 della Knesset. Questo numero potrebbe cambiare man mano che saranno elaborate più schede, comprese circa 500.000 “buste doppie” contenenti schede espresse da soldati, detenuti e diplomatici che, peraltro, in genere favorisce i partiti di destra.
Attualmente, il Likud ne ha 31; Yesh Atid, 24; Sionismo religioso, 14; Unità nazionale, 12; Shas, 12; Ebraismo della Torah unita, 8; Yisrael Beytenu, 5; Ra’am, 5; Hadash-Ta’al, 5 e Labour ne ha 4.
Il partito islamista Ra’am è oltre la soglia elettorale, al 4,33%, così come la lista araba Hadash-Ta’al cal 3,91%.
Se Balad o Meretz non riusciranno a ottenere la rappresentanza alla Knesset, aumenteranno ulteriormente le prospettive di Netanyahu di formare una coalizione fondata su una ampia maggioranza di destra.
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Pagine Esteri, 1 novembre 2022 – Benyamin Netanyahu ha ottenuto la sua rivincita. La più alta affluenza alle urne registrata in Israele da 22 anni a questa parte ha dato al blocco di destra la maggioranza che il leader della destra desiderava per riprendersi la poltrona di primo ministro.
Gli exit polls diffusi alla chiusura delle urne alle 21 italiane, hanno inoltre evidenziato il trionfo della destra più estremista e razzista. Sionismo religioso, la lista elettorale guidata da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, ha conquistato 14-15 seggi, il doppio di quelli ottenuti nel 2021.
Ben Gvir, che ha oscurato lo stesso Netanyahu per tutta la campagna elettorale, ha festeggiato per ore con i suoi fedelissimi. Magro risultato per il centro sinistra. I partiti arabi conquistano, nonostante un aumento dell’affluenza del suo elettorato rispetto al 2021, è riuscito a confermare solo i deputati della passata legislatura e la lista Tajammo/Balad ha mancato l’ingresso in parlamento per pochi voti. Abbiamo intervistato a Gerusalemme il direttore di Pagine Esteri, Michele Giorgio.
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AMBIENTE. Si apre tra le polemiche la COP27 in Egitto
di Valeria Cagnazzo*
Pagine Esteri, 14 ottobre 2022 – Le temperature a Sharm El-Sheikh nel mese di novembre dovrebbero oscillare tra i 20 e 28 gradi: perfette per concedere ai partecipanti alla COP27 provenienti da tutto il mondo alcune riposanti pause dai dibattiti ecologici sulle sue spiagge bianchissime. La sede, si legge sul sito delle Nazioni Unite dedicato all’evento, non è stata scelta a caso: “circondata da due spettacolari aree protette, Sharm El-Sheikh è un posto che ispirerà i partecipanti a combattere il cambiamento climatico e a proteggere il pianeta”. Ci si augura quindi che i mari cristallini possano essere adeguatamente di “ispirazione” per ministri, ONG, imprese e rappresentanti della società civile dei Paesi membri delle Nazioni Unite che dalla prossima domenica 6 al 18 novembre si riuniranno in Egitto in occasione della ventisettesima “Conference of Parties” (COP), l’incontro annuale sul cambiamento climatico indetto dall’ONU a partire dal Summit della Terra del 1992 a Rio.
È entusiasta di poter fare gli onori di casa il ministro degli Affari Esteri della Presidenza Al Sisi, designato Presidente della COP27, H. E. Sameh Shoukry, che ha sottolineato il rischio di una “erosione della fiducia” in merito ad eventi del genere se il mondo sviluppato non sarà in grado di tenere fede ai suoi impegni. “Dobbiamo agire”, ha dichiarato, “e dobbiamo farlo subito, per salvare vite e mezzi di sussistenza”.
A favorire la mobilitazione dei Paesi del COP27 contribuirà Coca-Cola, sponsor ufficiale dell’evento. Nell’annunciare la partnership, la multinazionale ha dichiarato: “Il clima è un’area di interesse centrale dato che la Compagnia Coca-Cola lavora verso il suo obiettivo “science based” per il 2030 di una riduzione assoluta delle emissioni del 25% e verso la sua ambizione di essere a zero emissioni nette di carbonio entro il 2050”. A proposito dello sponsorship, “molte persone avranno pensato a uno scherzo, seppure di cattivo gusto”, ha commentato l’ONG Greenpeace, che ha ricordato il primato di Coca Cola nella produzione di rifiuti in plastica. “Ci auguriamo che l’accordo di sponsorizzazione siglato per la COP27 sul clima possa essere il preludio a un annuncio pubblico in cui Coca-Cola si erga al ruolo di leader globale nella lotta alla crisi climatica e all’inquinamento da plastica”, si legge sul sito dell’organizzazione ambientalista. “Qualora così non fosse, la sponsorizzazione risulterà uno dei casi più noti di inquinamento dei negoziati sul clima, nonché l’ennesimo caso – stavolta davvero eclatante – di greenwashing aziendale.”.
Non è solo aziendale, del resto, il greenwashing che l’evento più green dell’anno rischia di apportare. Con i fondi del marchio Coca-Cola si definiscono in questi giorni gli ultimi dettagli per la realizzazione dei padiglioni dell’evento, compresa la cosiddetta “Green Zone”(zona verde), un’area in cui, si legge sempre sulla pagina ufficiale della COP27, “imprese, giovani, società civili e indigene, accademici, artisti e aziende della moda da tutto il mondo potranno esprimere se stessi e far sentire le proprie voci. La Green Zone promuove il dialogo, la consapevolezza, l’educazione”.
Peccato, però, che mentre a Sharm El-Sheikh viene confezionato un piccolo atollo architettonico in cui i giovani di tutto il mondo possano “far sentire le proprie voci”, subito fuori dall’area del COP27 le carceri egiziane ospitano decine di migliaia di dissidenti politici, secondo l’organizzazione Human Rights Watch. Tra di loro giornalisti e attivisti per i diritti umani, in un Paese in cui si continua a morire in prigione e in cui gli oppositori del governo rischiano arresti arbitrari, torture, minacce e ripercussioni sui propri familiari, sempre secondo quanto riferito dall’ONG.
Nell’Egitto che ospiterà la COP27 e inviterà gli attivisti più giovani a confrontarsi liberamente nella “zona green”, dal 2019 è tra l’altro in vigore una legge che proibisce di “condurre sondaggi di opinione e pubblicare o rendere disponibili i propri risultati o condurre ricerche sul campo o divulgare i propri risultati” senza l’approvazione del governo.
Naomi Klein
A rimarcare una contraddizione tanto stridente è stata negli ultimi mesi la giornalista e attivista Naomi Klein, autrice del best-seller No Logo, che il 7 ottobre scorso ha firmato sul The Intercept un articolo incandescente dal titolo “Da Blah blah blah a Blood blood blood – Tenere il Summit COP27 nello Stato di Polizia egiziano crea una crisi morale per il movimento per il clima”.
Già nei mesi scorsi Klein aveva denunciato l’ipocrisia internazionale di svolgere il più importante evento sul clima nel Paese guidato dal 2013 dall’autoritario governo di Al Sisi. A cento giorni dall’inaugurazione della COP27, aveva anche firmato una lettera, insieme ad altri attivisti, per esprimere tutte le perplessità sulla scelta della sede. Il suo nuovo articolo su The Intercept parte dalla storia di Alaa Abd El Fattah, uno dei più celebri prigionieri politici egiziani.
Arrestato nel 2011 per la sua partecipazione alle proteste contro Mubarak, ha trascorso gran parte degli ultimi dieci anni in prigione, con accuse di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate o di aver diffuso notizie false. L’ultima condanna, a cinque anni, risale al 2021 proprio per quest’ultimo capo d’accusa e dal 2020 è iscritto nell’elenco nazionale dei terroristi.
Alaa Abdel Fattah
Dal 4 aprile, Abd El Fattah, intellettuale e informatico quarantunenne, tra i volti più noti della primavera araba, è in sciopero della fame per protestare contro il suo arresto arbitrario e contro quello di migliaia di altri attivisti come lui. Nonostante diversi appelli internazionali, compresi quelli, ripetuti, di Amnesty International, resta, però, in carcere. Dalla sua cella, continua a scrivere lettere alla famiglia nelle quali affronta questioni di politica, di libertà e di clima – una parte dei suoi scritti è confluita nel libro “Non siete stati ancora sconfitti”, edito in Italia nel 2021.
E’ proprio a partire da una sua lettera scomparsa che Klein si interroga sulla sensatezza di svolgere il raduno dell’ONU sull’ambiente proprio a Sharm El-Sheikh. Una lettera che Abd El Fattah ha scritto ai suoi familiari circa un mese fa e in cui manifestava le sue preoccupazioni per le vittime e gli oltre 33 milioni di sfollati dopo le alluvioni che avevano colpito il Pakistan, tra le tante drammatiche conseguenze del surriscaldamento globale. La missiva è stata, tuttavia, confiscata dalla censura egiziana prima di essere recapitata ai suoi destinatari.
“La sua famiglia vive per queste lettere”, scrive Klein, ma non è solo questo il punto. La lettera eliminata dalle autorità egiziane perché toccava tematiche “troppo politiche” è stata, infatti, scritta da un prigioniero scheletrico, che ha rinunciato ad alimentarsi perché detenuto ingiustamente, che dalla sua cella, nonostante tutto, continua a preoccuparsi per il clima del pianeta. Fuori dalle sbarre, il mondo sta per riunirsi per discutere del clima in dibattiti pomposi, dimenticandosi, però, di lui, Abd El Fattah, e della sua fame.
Nei video promozionali della COP27, sottolinea Klein, la beffa è che l’Egitto “si stia vendendo” mostrando giovani uomini con barbe folte e collane al collo, che assomigliano molto “ai veri attivisti che stanno soffrendo sotto tortura nel suo arcipelago di prigioni in rapida espansione”. Gli attori dei video bevono esclusivamente da borracce personali e utilizzano soltanto oggetti biodegradabili, e attraverso lo schermo l’impressione che si vuole trasmettere è che sia questa la prerogativa del governo di El Sisi: assicurarsi che tutti i suoi cittadini vivano in maniera ecologica. Lo scenario proposto sembra quello di un “reality show verde in riva al mare”, ironizza Klein. “Questo summit andrà ben oltre il greenwashing di uno Stato inquinante: sarà il greenwashing di uno stato di polizia. E con il fascismo in marcia dall’Italia al Brasile, non è una questione da poco”.
Dell’inquinamento egiziano, tra l’altro, i delegati internazionali non possono sapere troppo, dato che per la legge del 2019 nessun dato scientifico può essere pubblicato senza il consenso del governo. Il pugno di ferro di El Sisi, infatti, non è rivolto solo contro gli attivisti politici: Human Rights Watch ha riferito che diversi gruppi ambientalisti sono stati costretti a rivedere i loro progetti di ricerca e che uno di questi ha addirittura dovuto annullare la sua ricerca sull’ambiente a causa delle limitazioni del governo.
E allora perché, si domanda Klein, perseverare e svolgere il summit sul clima proprio in Egitto? Gli interessi economici messi in campo non sono da trascurare. In settembre, la Gran Bretagna ha annunciato un finanziamento di 100 milioni di dollari “per supportare le start-up locali” in Egitto. Un altro accordo per un valore di 11 miliardi di dollari è stato firmato tra il governo di El Sisi e l’azienda energetica Globeleq per finanziare la produzione di idrogeno verde nel Paese. Anche la Germania è tra i maggiori partner commerciali dell’Egitto, e in quest’occasione dovrà probabilmente tralasciare i dissidi etici e la nuova “politica estera basata sui valori” che la Ministra degli Esteri del Partito dei Verdi, Annalena Baerbock annunciava al momento della sua nomina, neanche un anno fa. Per molti Paesi come la Germania, tra l’altro, nella crisi del gas l’Egitto potrebbe essere un prezioso esportatore da tenersi stretto. Sono sufficienti questi accordi economici dichiarati e quelli sottobanco a far intuire che l’ipotesi che la COP27 venga annullata a un mese dall’inaugurazione si possa tranquillamente scartare.
Abdel Fattah El Sisi
Farebbe sorridere, se non recasse dietro di sé le pesantissime implicazioni per i diritti umani e per le singole esistenze dei cittadini, l’idea ironica di Klein che gli egiziani siano il terreno sacrificale per il “progresso” climatico. “Magari”, scrive, inoltre, ci fosse la remota eventualità che questo summit svolto brutalmente in un regime dittatoriale possa sortire qualche conseguenza positiva per il clima. Non solo per le contraddizioni etiche già citate, ma anche per alcuni limiti oggettivi. L’Egitto, ad esempio, fa parte dei Paesi a basse emissioni ma severamente colpiti dai cambiamenti climatici, quelli per i quali la COP27 dovrebbe concordare un’adeguata politica di risarcimenti. ”Il problema è che se quei debiti climatici vengono pagati senza confrontarsi con le reti finanziarie e militari internazionali che sostengono governanti brutali come Sisi, i soldi non raggiungeranno mai la gente. Andranno, invece, ad assicurargli più armi, a fargli costruire più prigioni e finanziare più sprechi industriali che disperdono e immiserano ulteriormente gli egiziani più bisognosi”.
E’ solo il sangue, secondo Klein, a macchiare, già prima che sia iniziato, questo summit ambientale. “Se il summit dello scorso anno a Glasgow era su “blah blah blah”, il significato di questo (…) è decisamente più inquietante. Questo summit è su “Blood blood blood” (sangue sangue sangue). Il sangue dei circa 1.000 manifestanti massacrati dall’esercito egiziano per difendere il potere del suo governante in carica. Il sangue di coloro che continuano ad essere assassinato. Il sangue di coloro che vengono picchiati per le strade e torturati in prigione, spesso a morte. Il sangue di persone come Alaa”.
E di Alaa Naomi Klein ricorda una frase, che il prigioniero scrisse nel 2019: “Sono il fantasma della primavera passata”. Sottolinea quanto sia impossibile affrontare e risolvere la questione ambientale se non vengono rispettate le libertà individuali e il rispetto per la vita umana, e quanto tutto questo “dovrebbe risultare ovvio a chiunque faccia parte del movimento per il clima”. “Dovrebbe”, appunto, perché il silenzio degli ambientalisti sull’assurdità di essere ospitati in uno scenario dittatoriale denuncia un’allarmante ipocrisia di sottofondo o una debolezza dell’attivismo per l’ambiente in tema di diritti alimentari. Per questo Naomi Klein invoca il fantasma di Alaa Abd El Fattah: “Quel fantasma infesterà il summit che sta arrivando, mandando un brivido attraverso ogni sua nobile parola. La domanda silenziosa che ci pone è netta: se la solidarietà internazionale è troppo debole per Alaa – un’icona dei sogni di libertà di una generazione – che speranza abbiamo di salvare una casa che sia abitabile?”. Pagine Esteri
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency, anche sotto pseudonimo. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.
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Il Brasile vira a sinistra: Lula presidente, sconfitto Bolsonaro
di Glória Paiva*
Pagine Esteri, 31 ottobre 2022 – I brasiliani hanno votato ieri (30/10) al secondo turno delle elezioni presidenziali e hanno scelto Luis Inácio Lula da Silva (Partito di Lavoratori – PT) come successore di Jair Bolsonaro (Partito Liberale – PL) per assumere la presidenza dal 1° gennaio 2023. Lula ha ottenuto il 50,9%, contro il 49,1% di Bolsonaro, cioè 2,1 milioni di voti in più. Il risultato segna una nuova tappa nella politica brasiliana, dopo quattro anni di una forte divisione politica e di una gestione criticata dai settori progressisti di tutto il mondo per la sua disastrosa performance su temi come la gestione della pandemia di Covid-19, l’ambiente, i diritti umani, l’aumento della povertà, il ritorno del Brasile nella mappa della fame delle Nazioni Unite, tra gli altri. Come nel primo turno, giorno 2 ottobre, è stato nuovamente elevato l’indice di astensioni, il 20,57%, rappresentando 32 milioni di cittadini.
Lula ha vinto in più comuni e nella regione del Nord Est; mentre Bolsonaro ha vinto nelle altre quattro regioni. È la prima volta nella storia della democrazia brasiliana un presidente perde la disputa alla propria rielezione e che un terzo mandato presidenziale accadrà.
Dopo il conteggio dei voti, Lula ha festeggiato con i suoi sostenitori a São Paulo, dove ha fatto un discorso per milioni di persone. Per il presidente eletto, nelle sue parole, “non ci sono due Brasile”. “È tempo di ricostruire un paese diviso”, ha dichiarato. Il petista ha detto, inoltre, che il suo impegno più urgente sarà quello di mitigare la fame, uno dei problemi più gravi degli ultimi tre anni.
Nonostante la vittoria di Lula, specialisti sostengono che la divisione politica che si è consolidata negli ultimi quattro anni in Brasile non finirà nel 2023. La polarizzazione si fa sentire nei fatti, ormai diventati quotidiani, di violenza politica e sicuramente sarà un ostacolo alla governabilità di Lula, a causa della nuova composizione del legislativo: il Partito Liberale di Bolsonaro sarà il più rappresentato sia nel Senato che nella Camera dei Deputati.
Operazioni della polizia stradale nelle regioni pró-Lula
Durante la giornata di ieri, la Polizia Stradale Federale (PRF) non ha rispettato un ordine del Supremo Tribunale Elettorale (TSE) ed ha effettuato almeno 560 operazioni sulle strade di tutto il paese per “ispezionare” il trasporto gratuito degli elettori. La metà di queste azioni sono state realizzate nella regione del Nord Est, dove Lula ha la maggioranza degli elettori. Sui social in tanti hanno denunciato difficoltà di accedere ai luoghi di votazione e ritardi fino a tre ore. Il presidente del TSE, Alexandre de Moraes, ha affermato, tuttavia, che il fatto non ha impedito agli elettori di raggiungere i loro seggi elettorali. Moraes ha chiesto nel dettaglio le informazioni sulle operazioni della PRF per valutare la possibile apertura di procedimenti contro i responsabili.
Secondo il portale G1, lo stesso Bolsonaro avrebbe sollecitato al ministro della Giustizia, Anderson Torres, al quale è subordinata la Polizia Stradale Federale, di ordinare le operazioni nelle zone in cui Lula era il favorito. Alleato di Bolsonaro, Torres si è incontrato, la settimana scorsa, con il presidente in Brasília e con gli assessori della sua campagna. Nel sabato (29), il direttore-generale della PRF, Silvinei Vasques, aveva pubblicato sul un suo profilo in una rete sociale una foto in cui dichiarava il suo voto a Bolsonaro, ma la pubblicazione è stata cancellata ore dopo.
Nell’ultima settimana, i bolsonaristi hanno sollevato l’idea di cambiare la data del secondo turno o addirittura di realizzare un “terzo turno”, in caso di parità oppure sulla base di presunti dubbi sulla legittimità dell’elezione e sull’imparzialità del TSE, nonostante la legislazione elettorale brasiliana non preveda un terzo turno. Per di più, il sistema di voto elettronico, utilizzato in Brasile dal 1996, è considerato uno dei più sicuri al mondo ed è valutato periodicamente da test pubblici di sicurezza dal 2009.
foto di Marcos Correa
La storia dei candidati
Lula, 77 anni, è stato il 35° presidente del Brasile dal 2003 al 2011, periodo in cui il paese ha vissuto un momento di espansione economica e sociale. Nato a Pernambuco, Lula lavorava come operatore di presse meccaniche nello stato di San Paolo quando iniziò a partecipare ai movimenti sindacali alla fine degli anni ’60, durante la dittatura militare. Ha guidato grandi scioperi dei lavoratori e ha contribuito a fondare il PT nel 1980. Nel 1989 si candidò per la prima volta alla presidenza, avendo perso contro Fernando Collor de Mello. È stato nuovamente candidato nel 1994 e nel 1998 e ha perso contro Fernando Henrique Cardoso. Soltanto nel 2002 è riuscito a sconfiggere José Serra, rompendo con 17 anni di gestione della destra o centro-destra.
Durante il governo di Lula si sono consolidati programmi sociali come Bolsa Família e Fome Zero, riconosciuti dalle Nazioni Unite come iniziative che hanno permesso al paese di uscire dalla Mappa della Fame e che hanno contribuito a ridurre la povertà in 50,6%, secondo uno studio della Fondazione Getúlio Vargas. Tra il 2003 e il 2011, il Brasile ha anche accumulato cospicue riserve internazionali e triplicato il suo PIL pro capite. Ciononostante, parallelamente il PT, insieme ad altri grandi partiti di allora, è stato anche coinvolto in alcuni casi di irregolarità, in particolare nello scandalo di corruzione denominato “Mensalão”, venuto alla luce nel 2005. Nel Mensalão, i parlamentari ricevevano tangenti per continuare ad appoggiare il governo nel Congresso. Lula è comunque riuscito ad avere come successore Dilma Rousseff, sua alleata e Ministro Capo della Casa Civile nel governo precedente, eletta nel 2010 e rieletta nel 2014.
Nel 2017, nell’ambito dell’operazione Lava Jato, Lula è stato condannato per corruzione e riciclaggio di denaro, e ciò l’ha portato al carcere nell’aprile 2018. Dopo 580 giorni, è stato rilasciato per decisione del Supremo Tribunale Federale (STF), che ha inteso che l’esecuzione delle sentenze dovesse avvenire solo dopo secondo grado. Negli anni successivi gli sono stati ristabiliti i diritti politici e Lula è stato dichiarato non colpevole. Inoltre, è venuto alla luce che indagini che hanno portato alla condanna di Lula non sono state imparziali e che il suo giudice incaricato, Sergio Moro, ha collaborato con l’accusa durante il procedimento.
Nato a Glicério, nello stato di San Paolo, Jair Bolsonaro è un ex militare ed è stato deputato federale per lo stato di Rio de Janeiro dal 1991 al 2018. Nel 1986 è diventato noto dopo aver pubblicato un articolo per la rivista Veja in cui criticava i bassi salari dei militari. Un anno dopo, la stessa rivista ha pubblicato un articolo accusando Bolsonaro di essere uno degli autori di un piano per far esplodere bombe in una caserma di Rio de Janeiro. Come deputato è stato protagonista di una serie di polemiche, come le sue dichiarazioni in cui lodava la dittatura militare, quando si diceva contro gli omosessuali oppure minacciava i suoi oppositori come la deputata Maria do Rosário e Jean Wyllys.
Nel 2018 è stato eletto 38° presidente del Brasile. La sua amministrazione è stata segnata dal negazionismo scientifico con cui ha trattato la pandemia, dai suoi frequenti attacchi alle istituzioni democratiche brasiliane, dall’incitamento all’intolleranza e alla violenza contro oppositori politici e le minoranze, dallo smantellamento di organismi e politiche di protezione dell’Amazzonia e dei popoli indigeni, portando al più alto tasso di deforestazione degli ultimi 15 anni. In più, Bolsonaro è stato responsabile della firma di una serie di decreti che hanno facilitato l’accesso e quintuplicato la presenza di armi in Brasile.
Nei suoi ministeri è stata notevole la presenza di tanti militari in incarichi civili e di figure completamente svincolate dai temi dei rispettivi uffici, come la pastora evangelica Damares Alves, Ministro delle Donne, della Famiglia e dei Diritti Umani, e i due Ministri dell’Ambiente, Ricardo Salles (2018-2021) e Joaquim Leite (2021-2022), entrambi noti difensori dei cosiddetti “ruralisti”, grandi capi dell’agrobusiness in Brasile.
Per di più, Bolsonaro e la sua famiglia sono stati accusati di numerosi scandali di corruzione, come l’acquisto di 51 proprietà in contanti, il cosiddetto schema “rachadinha” (appropriazione indebita di fondi destinati all’assunzione di dipendenti pubblici), il cosiddetto “Bolsolão do MEC” (schema di corruzione nel Ministero della Pubblica Istruzione) e le richieste di tangenti da parte del Ministero della Sanità al laboratorio produttore del vaccino Astra-Zeneca contro il COVID.
Un mese turbolento
I 30 giorni tra il primo e il secondo turno sono stati un periodo di intensa turbolenza politica in tutto il Brasile, con violenza politica, scambio di accuse da parte dei candidati e un’ondata di disinformazione sui social ancora più forte rispetto al primo turno. Uno studio dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ) fa notare che la circolazione delle fake news è aumentata del 23% su Telegram, del 36% su WhatsApp e del 57% su Twitter nelle ultime quattro settimane. Complessivamente, secondo lo studio, la media giornaliera delle fake news in circolazione è cresciuta da 196,9 mila, prima del primo turno, a 311,5 mila dopo.
Secondo la ricerca, i principali argomenti durante la campagna (e anche il bersaglio delle fake news) sono stati il tema dell’integrità e della sicurezza del sistema elettorale, più volte messo in discussione dal presidente, il tema dei valori cristiani, la presunta non affidabilità della stampa tradizionale e le questioni socio-ambientali, di genere e della famiglia. Questi ultimi due sono spesso inseriti nell’agenda bolsonarista per sostenere la sua propaganda come candidato in difesa della tradizionale famiglia brasiliana e contro le agende progressiste, come i diritti degli LGBTQ+ e la lotta per la depenalizzazione dell’aborto.
Anche i casi di violenza politica sono aumentati di circa il 40% nell’ultimo mese rispetto al primo turno, con almeno 60 casi registrati, secondo Amnesty International. L‘ultimo episodio ha avuto come protagonista la deputata federale bolsonarista Carla Zambelli, che è stata filmata nelle strade di San Paolo con una pistola in mano mentre inseguiva un elettore di Lula disarmato. Pagine Esteri
* Glória Paiva è una giornalista, scrittrice e traduttrice brasiliana
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LIBANO-ISRAELE. Firmato l’accordo sui confini marittimi. Beirut: non è «normalizzazione»
di Michele Giorgio –
(Unità navale dell’Unifil a Naqoura, foto di Bastian Fischborn)
Pagine Esteri, 28 ottobre 2022 – Quando tutto era pronto, un incidente ha ritardato ieri pomeriggio la cerimonia della firma dell’accordo sulla delimitazione del confine marittimo tra Libano e Israele e lo sfruttamento delle riserve di gas sottomarino in quell’area. La delegazione giunta da Beirut è entrata nella base dell’Unifil (Onu) a Naqoura solo dopo l’uscita di una nave militare israeliana dalle acque territoriali libanesi. Poi tutto è proceduto come da programma. Sedute in stanze separate, le delegazioni libanese e israeliana hanno consegnato i loro documenti all’inviato dell’Amministrazione Usa, Amos Hochstein che ha mediato i negoziati. Poche ore prima il presidente libanese Michel Aoun aveva firmato il testo dell’accordo, altrettanto ha fatto il premier israeliano Yair Lapid. Delimitato il confine marittimo, i due paesi possono sfruttare nelle proprie acque i giacimenti di gas Karish, che ricade nella zona economica esclusiva di Israele, e quello di Qana che in buona parte sarà sfruttato dal Libano. Lo Stato ebraico riceverà una parte dei ricavi di Qana dalla francese Total incaricata dal governo di Beirut di avviare le esplorazioni del sito.
È stato il Libano a chiedere il complicato protocollo di ieri per evitare che la firma dell’accordo fosse visto come una «normalizzazione» delle relazioni tra i due paesi. Il paese dei cedri non dimentica di aver subito diverse offensive israeliane distruttive e l’occupazione tra il 1978 e il 2000 di una parte del suo territorio meridionale. Opposto l’atteggiamento israeliano. Il premier Lapid, anche a scopo elettorale, ha insistito sull’intesa raggiunta tra due paesi formalmente in guerra descrivendola come un riconoscimento da parte libanese dello Stato ebraico. «Questo è un risultato straordinario per Israele», ha detto. L’accordo ha aggiunto, «è una conquista diplomatica. Non capita tutti i giorni che un paese nemico riconosca lo Stato di Israele in un accordo scritto, davanti alla comunità internazionale». L’intesa ha proseguito, «rappresenta una conquista economica. Ieri è iniziata la produzione di gas dalla piattaforma Karish. Israele riceverà il 17 per cento dei profitti da Qana-Sidone, il campo libanese. Questo denaro andrà nell’economia israeliana e sarà utilizzato per la salute e il benessere, l’istruzione e la sicurezza». A suo sostegno è intervenuto qualche ora dopo Joe Biden che ha esaltato l’accordo definendolo «storico» e ha previsto che «garantirà gli interessi di entrambi i Paesi e sarà una base per la stabilità e la prosperità della regione».
A Beirut hanno suonato una musica ben diversa. Il presidente Aoun ha negato su Twitter che l’accordo possa avere «implicazioni politiche». La demarcazione del confine marittimo meridionale, ha spiegato, «è un’opera tecnica che non ha implicazioni politiche o effetti contrari alla politica estera libanese». Ancora più esplicito è stato il leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, considerato dagli analisti il vero vincitore politico del negoziato indiretto con Israele. «Noi di Hezbollah consideriamo quello che è accaduto una grande vittoria per il Libano», ha detto Nasrallah durante un discorso televisivo sottolineando che l’intesa non significa «normalizzazione» dei rapporti né un «riconoscimento» implicito di Israele da parte di Beirut e che «Israele non ha ricevuto garanzie di sicurezza». Ricordando che Hezbollah aveva minacciato di attaccare Karish se Tel Aviv avesse avviato lo sfruttamento del giacimento senza un accordo con il Libano, ieri Nasrallah ha annunciato la revoca dello «stato di allerta militare» proclamato dal suo movimento.
A Beirut il governo, Hezbollah e l’oligarchia economica cantano vittoria. Restano però forti i dubbi sulla reale portata economica futura dello sfruttamento del gas e dell’accordo con Israele. Qualche giorno fa Sibylle Rizk, presidente del Consiglio dell’iniziativa libanese per il petrolio e il gas (Logi), su l’Orient Today spiegava che «Il gas non salverà il Libano» che vive una crisi finanziaria devastante. Prima di tutto, ha scritto, la linea di demarcazione stabilita dall’accordo «non è basata sul diritto internazionale che impone che il confine marittimo inizi dal confine terrestre». Contrariamente a quanto affermano le autorità, ha sottolineato Rizk, «il Libano non ha ottenuto pieni diritti sul campo di Qana…e rimangono molti passi da compiere prima che venga effettuata una scoperta di gas naturale. E, se una tale scoperta avverrà, ci vorranno diversi anni prima che il Libano riceva effettivamente la sua quota di entrate».
Gli esperti calcolano che il Libano potrà contare, non prima del 2030, su 6-8 miliardi di dollari distribuiti su un periodo di 15 anni. In confronto, le perdite nel settore finanziario ammontano a 72 miliardi di dollari. L’accordo, perciò, non apre la strada alla prosperità. Pagine Esteri
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Ben(e)detto 4 novembre 2022
«Il merito non è altro che uno strumento con cui si acuiscono le differenze di classe tra studenti» dicono gli studenti della Sapienza. Come dar loro torto? È solo la mediocrazia che ci rende tutti ugualmente scemi.
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Socialismo – Ludwig von Mises a cura di Lorenzo Infantino
Analisi economica e sociologica a cura di Lorenzo Infantino
Prefazione di Friedrich A. von Hayek
Socialismo è l’opera più strettamente legata al nome di Ludwig von Mises, figlio della Grande Vienna ed esponente di primo piano della Scuola austriaca di economia. L’originaria pubblicazione è stata accompagnata da un lungo e vasto dibattito fra gli esponenti più avvertiti della cultura liberale e di quella socialista. E il testo si è consacrato nel tempo come un classico, come un imprescindibile punto di riferimento, a cui hanno attinto generazioni di studiosi. Quella di Mises si può considerare come la più devastante critica che sia stata formulata nei confronti del collettivismo. L’analisi di Mises fornisce la rigorosa dimostrazione dell’impossibilità del calcolo economico in una società che abbia soppresso la proprietà privata e, con essa, il mercato e il sistema dei prezzi. Non è quindi senza ragione che Oskar Lange, economista di ispirazione socialista, non ha esitato ad affermare che spetta interamente al professor Mises il merito di avere costretto i sostenitori del piano unico di produzione e distribuzione a misurarsi con il problema del calcolo economico. Mises è andato tuttavia ben oltre. Studioso di estese conoscenze, ha impiegato un ricco repertorio di strumenti per evidenziare il legame esistente fra economia di mercato, libertà individuale di scelta e istituzioni democratiche. Ha mostrato così l’indissolubile rapporto che unisce il collettivismo economico a quello politico. Ha gettato luce sul fatto che la proprietà privata può essere direttamente soppressa o può essere «sterilizzata»; il che avviene mediante un sistema di interventi e di misure che ne rendano, com’è accaduto sotto il nazionalsocialismo, esclusivamente formale l’esistenza. Ha inoltre visto, anticipando una letteratura che si è sviluppata in epoca posteriore all’apparizione della sua opera, l’origine del totalitarismo nella promessa di «salvezza», con cui al collettivismo viene affidata la missione di riplasmare l’uomo e il mondo. In aggiunta a ciò, attraverso una straordinaria e sistematica gamma di riflessioni, il libro getta una potente luce sull’opera di dissipazione delle risorse, posta in essere da schiere di «redistributori». Oltre a conseguire l’esatto contrario di quel che promettono, costoro aprono la strada, con l’illusione che possa essere «mite», a un potere «immenso» e «minuzioso».
Video recensione a cura di Rocco Versace
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Editore: Rubbettino Editore
Collana: Biblioteca Austriaca, 2020, pp 640
ISBN: 9788849860627
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Ben(e)detto 3 novembre 2022
Se dovessi fondare un partito lo chiamerei Alitalia o Stabilimento balneare oppure RdC. Sarebbe garanzia di immortalità.
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Muleta nera
Qualche volta il toro vince e incorna il torero. Capita quando non si lascia distrarre e mette bene a fuoco l’avversario. Quasi sempre, però, perde, perché si lascia distrarre dal drappo rosso, dalla muleta. Prova ad incornare quella e viene infilzato a morte. Passi che l’opposizione ha appena finito di perdere le elezioni, passi che il governo al debutto ha sempre un fascino che trascina la comunicazione, ma non si può correre in massa appresso alla muleta nera, facendo finta di star facendo la guerra di resistenza. Ci si sta solo facendo distrarre.
Se la destra proclama l’opportunità che il merito trionfi negli studi, non è che si possa aprire un dibattito su quanto possa essere asociale il merito. Intanto perché il merito è una bellissima cosa e poi perché la sola sensata da fare è chiedere: cioè? Come pensate di farlo valere, il merito? Come lo misuriamo? Sui banchi o anche in cattedra? Mentre la reazione di un drappello di svaganti intellettuali, che quando sono in vena d’autocritica s’incensano dicendosi “elitari”, è stata quella di vestire i panni di chi difende i somari. Sia quelli in cattedra che quelli dei banchi.
Quando la Corte costituzionale comunicò che l’ergastolo ostativo era da cancellare, la destra balzò a dire: giammai. Ora lo hanno cancellato, mettendo in un decreto il testo di una proposta di legge che non avevano votato, nella scorsa legislatura. Astutamente, però, hanno manifestato festosa vittoria. Il bello è che quanti quella proposta l’avevano votata sono caduti nella trappola, hanno dato per assodato che ancora esista il vincolo della collaborazione con la giustizia e si sono intestati una bislacca battaglia per la liberazione degli ergastolani. Roba raffinata.
A Modena il rave party è stato sgomberato nel modo più sereno, senza pugni né duri né morbidi. Bravi gli operatori presenti. Dopo di che il governo ha varato un decreto che grida vendetta al cielo, scombiccherato, senza che ci fosse alcuna urgenza, scritto in stato di alterazione logica e sintattica. Ma sono stati abili con la muleta nera: linea dura contro l’illegalità.
E anziché dileggiarne gli errori, la cui consapevolezza traspare anche dalle dichiarazioni del ministro degli Interni, si sono buttati sull’accusa di volere uccidere le libertà e creare un regime autoritario, come se la libertà consistesse anche nell’occupare roba altrui, guadagnare soldi in violazione della legge, spacciare e consumare droga fino a sballarsi cervello e budella. E anche questa è fatta.
La muleta nera è così efficace, nell’intestarsi quel che ogni persona civile desidera, ovvero legge e ordine, che quando la destra al governo decide di reintegrare subito i medici non vaccinati e condonare le multe fatte con un consenso quasi unanime del Parlamento, oppositori e pensatori si rimettono a parlare dei vaccini e non s’accorgono che quel condono è l’esatto opposto di legge e ordine: fregatevene della legge e campate nel disordine.
Così i tori si perdono i rilievi di Letizia Moratti, di sicuro non schierabile a sinistra, la quale (giustamente) rileva il pericoloso cambio di rotta e il rischio di sprecare il lavoro sanitario fatto. E si perdono il Carlo Nordio libero pensatore, che andrebbe presentato al Nordio ministro, ricordandogli quel che sosteneva: è stolto portare tutto al penale ed è illusorio alzare le pene, tanto più che i giudici tenderanno a comminare le pene più lievi.
Anziché irridere la muleta nera, ricordando che la pericolosità sociale non è mai uscita dal codice penale, che quelli di Modena sono processabili per una collezione di reati esistenti da decenni, che la stragrande maggioranza degli italiani vaccinati non merita d’essere presa in giro, preferiscono provare a incornare il drappo del “regime”. Rinunciando a stare ai fatti ed avvertire che: sotto la muleta, niente.
Intanto il pil cresce e il gas cala, ma nell’arena il torero che fu all’opposizione se ne giova e il toro che tirò la carretta ora tira cornate a vanvera.
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L’Africa al centro dello scontro tra potenze
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 4 novembre 2022 – L’invasione russa dell’Ucraina ha rinfocolato il conflitto tra le diverse potenze impegnate nel continente africano. Di fatto l’Africa è diventata la principale arena della competizione tra le diverse potenze e le rispettive multinazionali alla ricerca di risorse, sbocchi economici, corridoi, alleanze politiche, militari e commerciali.
L’Africa, un’arena sempre più affollata
Negli ultimi anni il numero di paesi in gara per il controllo delle risorse e dei territori africani è costantemente cresciuto. Alle tradizionali potenze coloniali – in particolare Francia e Gran Bretagna – rimaste a spadroneggiare nonostante la conquista dell’indipendenza formale da parte dei paesi africani a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, si sono uniti ben presto gli Stati Uniti, interessati a condizionare i nuovi governi contro l’influenza dell’Unione Sovietica sulle correnti nazionaliste e progressiste e a perseguire i propri interessi economici e geopolitici.
Dopo il crollo dell’Urss, l’Africa si è gradualmente affollata di nuovi attori, protagonisti di una spoliazione del continente più o meno vorace, man mano che le potenze coloniali originarie perdevano posizioni. La Cina, la Russia e la Turchia sono entrate prepotentemente nell’agone, approfittando del rinnovato risentimento delle popolazioni africane e di alcuni governi nei confronti del dominio neocoloniale e perseguendo strategie di penetrazione di diverso tipo. Mentre Pechino consolida la sua egemonia economica, basata sulla realizzazione di grandi infrastrutture, Mosca forza le tappe offrendo assistenza militare e armi a governi e aziende alle prese con l’insorgenza islamista o semplicemente con i movimenti di opposizione. Da parte sua il sultano Erdogan si propone come partner alla pari in nome delle comune osservanza musulmana e di una presunta fratellanza terzomondista.
Ma se si guarda soprattutto il fronte degli investimenti e dei partenariati, risalta la crescente presenza nell’agone africano di molti altri paesi: dall’India al Giappone, dall’Indonesia alla Corea del Sud per quanto riguarda l’Asia, a praticamente tutti i paesi arabi – in particolare Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar – fino al Canada e all’Australia.
La Cina consolida il suo primato
Al di là dei casi specifici, in questo enorme risiko economico, geopolitico e militare, si possono individuare alcune tendenze generali.
Innanzitutto si può osservare il consolidamento dell’influenza cinese e di quella turca. Pechino continua a proporsi come partner economico a tutto campo, soffrendo l’accelerazione militare impressa alla competizione globale dal conflitto ucraino. Ma i cinesi perseguono anche la realizzazione di alcune basi militari nel continente, dopo quella già aperta a Gibuti; le indiscrezioni affermano che Pechino starebbe caldeggiando l’apertura di un proprio avamposto militare in Guinea Bissau o in Tanzania. Nel frattempo, sul fronte del commercio bilaterale con l’Africa, Pechino ha distanziato notevolmente i propri competitori, segnando nel 2021 un +35% rispetto all’anno precedente e raggiungendo i 254 miliardi di dollari di scambi. Un record che ha avvantaggiato notevolmente anche le esportazioni africane a Pechino, arrivate a 106 miliardi di dollari e cresciute in un anno addirittura del 44%. Nel frattempo, però, l’indebitamente africano nei confronti delle banche cinesi cresce a ritmo doppio rispetto a quello nei confronti di Usa, Francia, Germania e Giappone.
Anthony Blinken in visita in Sud Africa
Europa e Stati Uniti in difficoltà. Washington rilanciaPer quanto riguarda le tendenze generali, è evidente la diminuzione netta della presenza europea nel continente, accelerata dal rapido arretramento del controllo francese sull’Africa centro-occidentale, con il sempre più consistente rischio che il tradizionale impero coloniale di Parigi – la Françafrique – si sfaldi. Anche la scelta di Londra, accentuata dopo la fuoriuscita del paese dall’Unione Europea, di investire fortemente sul Commonwealth per rinsaldare i legami con le ex colonie sparse nel mondo, non sembra stia dando particolari frutti nello scenario africano.
È altrettanto evidente anche la diminuzione della presa statunitense nell’area; basti considerare i flussi commerciali tra Washington e l’Africa che nel 2008 ammontavano a 142 miliardi di dollari e nel 2021 sono scesi a soli 64 miliardi. Dopo anni di scarso interesse e di quasi nullo attivismo, nel novembre del 2021 e poi nell’agosto scorso Joe Biden ha inviato in Africa il segretario di Stato Anthony Blinken, che ha visitato Ruanda, Repubblica Democratica del Congo e Sudafrica offrendo ai propri interlocutori “democrazia, investimenti, sicurezza ed energia pulita”.
Nel tentativo di rendere più appetibile un rinnovato ruolo di Washington nel continente, Blinken ha precisato che «l’Africa non è l’ultimo campo di gioco in una competizione tra grandi potenze. (…) Non è così che porteremo avanti il nostro impegno qui. Il nostro impegno per un partenariato più forte con l’Africa non consiste nel cercare di superare tutti gli altri. Quello che cerchiamo più di tutto è un vero partenariato tra gli Stati Uniti e l’Africa. Non vogliamo una relazione squilibrata o transazionale».
Però poi, nel tentativo di frenare il proprio declino, l’amministrazione Biden sta cercando di blindare i propri interessi nel continente attraverso una serie di provvedimenti legislativi, al vaglio del Congresso, che mirano a contratare la “maligna” influenza russa e cinese e a punire i paesi africani che si sono rifiutati di condannare l’aggressione di Mosca a Kiev per non danneggiare le crescenti relazioni militari ed economiche con il regime di Putin. Proprio ieri, la Casa Bianca ha deciso di escludere il Burkina Faso dall’accordo di cooperazione e sostegno economico denominato “African Growth and Opportunity Act” (Agoa), che facilita le esportazioni negli Stati Uniti di merci prodotte in Africa, lamentando la mancata attuazione di progressi democratici da parte delle giunte militari salite al potere dopo i due colpi di Stato verificatisi quest’anno.
La Russia allunga il passo
Non è un caso che un altro dei paesi recentemente esclusi dal programma, il Mali, sia tra quelli che più si sono avvicinati a Mosca, che da parte sua ha appena annunciato l’invio nel paese di 100 milioni di dollari in carburante, fertilizzanti e generi alimentari. Nello specifico l’accordo, annunciato ieri dal Ministro dell’Economia maliano Alousséni Sanou, prevede che la Russia fornisca a Bamako 60 mila tonnellate di idrocarburi, 25 mila tonnellate di grano e 35 mila tonnellate di fertilizzanti.
La Russia è indubbiamente la potenza che più si è avvantaggiata nello scacchiere africano, alla ricerca di nuove sponde per ovviare alle sanzioni e al tentativo di isolamento internazionale da parte del blocco che fa capo a Washington e Bruxelles.
Dopo la rottura delle relazioni tra Bamako e Parigi, che ha portato alla fine dell’operazione militare Barkhane e dello schieramento nel paese della task force Takuba – entrambe a guida francese – Mosca ha fornito equipaggiamento militare al nuovo regime e schierato nel paese i mercenari della compagnia di sicurezza privata Wagner e propri consiglieri militari per far fronte all’insorgenza jihadista.
In generale, i colpi di stato realizzati in Africa nell’ultimo anno (Burkina Faso, Ciad, Guinea, Mali e Sudan) hanno favorito soprattutto la penetrazione russa, sostenuta spesso da frazioni consistenti delle classi dirigenti locali e da parte della popolazione che la considerano una valida alternativa tanto al classico neocolonialismo statunitense ed europeo quanto alla sempre più invadente presenza economica cinese. Nelle manifestazioni antigovernative dei mesi scorsi, soprattutto in Mali e in Burkina Faso, si sono viste spesso sventolare le bandiere russe e bruciare quelle francesi. Dopo aver piantato la propria bandiera nella Repubblica Centrafricana estromettendo Parigi, Mosca ha anche segnato non pochi punti portando a casa un importante accordo militare firmato il 12 aprile con il governo del Camerun, altro paese tradizionalmente influenzato dalla Francia.
Manifestazione filo-russa a Bamako
Uno scontro di interessi mascherato da conflitto ideologico
In generale molti governi, piuttosto che scegliere un unico sponsor, cercano di giocare di sponda tra due o più interlocutori internazionali in competizione, per ottenere qualche vantaggio economico o militare, in attesa di capire se lo scontro globale tra potenze produrrà duno o più vincitori duraturi.
Mosca continua comunque a conquistare posizioni grazie ad una certa fascinazione di molti regimi africani per il modello di potere autoritario di Mosca, per l’assistenza militare e la vendita di armi che permette loro di restare in sella o di conquistare il potere, e infine per la dipendenza della maggior parte del continente dal grano russo e ucraino.
Paradossalmente, non solo le potenze orientali che si sono affacciate più recentemente sul suolo africano, imbracciano abilmente l’argomento dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo per perorare e legittimare i propri interessi, ma anche le tradizionali potenze coloniali occidentali hanno cominciato ad utilizzare categorie simili per denunciare i successi delle potenze concorrenti. Mentre in una recente visita in Etiopia il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha promesso al continente di aiutarlo a portare a termine il processo di decolonizzazione, gli inviati europei e statunitensi accusano Mosca e Pechino di “imperialismo”. I tempi della inconciliabile contrapposizione ideologica tra il blocco capitalista e quello sovietico sono ormai lontani, ma le potenze in competizione per l’accaparramento delle risorse africane sembrano comunque inclini ad ammantare le proprie mire di una dimensione ideale e valoriale di dubbia consistenza. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
LINK E APPROFONDIMENTI:
middleeastmonitor.com/20221015…
agi.it/estero/news/2022-08-08/…
agi.it/estero/news/2022-08-11/…
limesonline.com/cartaceo/la-ci…
rfi.fr/fr/afrique/20221103-les…
africanews.com/2022/04/21/came…
congress.gov/bill/117th-congre…
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«Da tempo purtroppo mi sono accorto che è inutile informarsi: in un regime neoliberista verificare ed eventualmente contestare i “fatti” spacciati dall’apparato mediatico è vano; non perché non sia possibile dimostrarne, alla fine, l’eventuale mendacità, ma perché quando faticosamente ci si riesca, nel frattempo quei fatti già non contano più nulla per nessuno: il culto della novità e la pratica dell’innovazione continua, rapidissima e fine a sé stessa, ha come effetto l’oblio del passato, incluso quello recente, cancellato ancor prima che diventi passato da nuove pressanti novità che, sia pure per poche ore, assorbono tutta l’attenzione, peraltro scarsissima grazie a un sistematico addestramento, anche scolastico, alla superficialità.»
Pensieri di notte
Forse è davvero il momento di tirare i remi in barca. Forse è giunto il momento di lasciar perdere. Odio, cattiveria e ignoranza mi stanno soffocando. O forse sto solo diventando vecchia, troppo vecchia per certe cose. O forse, ancora, è il momento di pensare ad altro, a vivere questo spazio con la leggerezza che molti riescono ad avere, ma che a me è sempre stata impossibile da raggiungere. La verità è che non mi diverto più, che le polemiche e le discussioni su temi inutile e stupidi mi hanno stancata.
E se il mondo virtuale fosse uno specchio della mia esistenza reale? Se fosse quella ad avermi stancata? Se in questo momento la bilancia tra l'odio e l'amore che da oltre quarant'anni provo contemporaneamente verso me stessa pendesse ora dalla parte del secondo?
Non ho una risposta a questa domanda, la sola cosa che so è che sono stanca, di tutto e terribilmente schifata e non vedo vie d'uscita nel breve periodo.
Per questo forse è il momento di trovare, almeno nel mondo virtuale, una nuova dimensione, più intima, più privata, lontana dalle discussioni sterili e inutilmente faziose e ideologiche.
Questo non significa smettere di pensare e osservare le cose con occhio critico, ma semplicemente non discutere di esse in un luogo e con persone che non meritano che io perda del tempo.
Chissà, magari tornerò a scrivere quello che mi passa per la mente, brandelli di sogni, pensieri, desideri, a raccontare storie o scrivere racconti.
Forse non sarebbe poi così male, come modo per affrontare questo periodo così pieno di cose brutte.
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J. Alfred Prufrock
in reply to Chiara R • •@Chiara R da parte mia, ti leggo con piacere.
Personalmente, salvo rari e brevi periodi, anch'io ho perso l'abitudine e il piacere di scrivere e condividere. Forse manca il tempo, forse è per i motivi che hai descritto per te.
Rimane l'interesse di leggere chi scrive su Internet, credo sia normale per chi era qui alla fine degli anni 90
In particolare in questi spazi che hanno ancora un po' il sapore del Web di una ventina d'anni fa, di irc, usenet, delle homepage e dei primi blog.
Quando influencer non era un mestiere e il prodotto non eravamo noi.
Chiara R likes this.
Barfly
in reply to Chiara R • •