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PMI, la ripresa è digital: +28% di utile netto per chi ci punta


La ripresa passa dal digital. La digitalizzazione può apportare grandi benefici alla produttività delle aziende, contribuendo alla crescita del PIL nazionale. Le imprese sono chiamate a colmare il gap con gli altri paesi europei, e lo stanno già facendo. Come riporta l’infografica ‘Perché la digitalizzazione delle aziende fa crescere il fatturato?’ di TeamSystem, rispetto ad […]

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The MED This Week newsletter provides expert analysis and informed comments on the MENA region’s most significant issues and trends.


Francesco Rocchetti, Segretario Generale ISPI, e la giornalista Silvia Boccardi, parlano con Fabio Parola, ex ricercatore dell’ISPI e ora lobbista a Bruxelles, dello scandalo Qatargate e di come invece funziona il lobbismo al Parlamento Europeo.


La Spezia. Ennesimo omicidio di un lavoratore nel porto - Contropiano

"È ormai evidente che la questione sicurezza è completamente sfuggita di mano. Al di là delle frasi di circostanza noi lavoratori stiamo pagando anni di sconfitte sindacali e arretramenti sotto tutti i punti di vista. Anche questa volta, probabilmente, si troveranno mille giustificazioni per non dare responsabilità a coloro che in realtà sono i primi responsabili ed hanno nomi e cognomi: i soggetti privati che mai pagano per questi fatti gravissimi."

contropiano.org/news/lavoro-co…



I musei aziendali della moda in italia. Economia e prospettive – Imprenditoria e impresa nel settore AFAM


Parte oggi il corso organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi in collaborazione con Euracus, AreaSud e l’Accademia di Belle Arti di Catania, rivolto agli allievi di II livello dell’Accademia di Belle Arti di Catania e agli studenti dell’Università degli

Parte oggi il corso organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi in collaborazione con Euracus, AreaSud e l’Accademia di Belle Arti di Catania, rivolto agli allievi di II livello dell’Accademia di Belle Arti di Catania e agli studenti dell’Università degli Studi di Catania.

I MUSEI AZIENDALI DELLA MODA IN ITALIA. ECONOMIA E PROSPETTIVE – IMPRENDITORIA E IMPRESA NEL SETTORE AFAM

(Alta Formazione Artistica e Musicale)

I musei della moda e del costume sono parte della vasta platea che oggi alimenta il “Sistema Produttivo Culturale e Creativo” della nostra nazione – il dato è circoscritto alle sole istituzioni di proprietà statale – con l’1,6% del Prodotto Interno Lordo 2019 (Fonte: Antonello Cherchi, I musei statali valgono 27 miliardi di euro (l’1,6% del Pil italiano), ilsole24ore, 7 ottobre 2019).

Rispetto al tradizionale impianto, negli ultimi anni si sono imposti alcuni modelli conservativi e fruitivi che stanno in bilico tra una museologia e museografia convenzionale, ovverosia finalizzata al restauro, alla conservazione e alla pubblica fruizione del reperto tessile e vestimentario e nuove modalità di pubblicità, commercializzazione e vendita del prodotto di moda. Sconfinando il principio normativo del gadget museale – disciplinato in Italia dalla L. n. 4 del 14 gennaio 1993, cosiddetta Legge Ronchey, e successive modifiche, integrazioni – tali modelli presentano veri e propri shop in intima osmosi – architettonica, ambientale, concettuale – con lo spazio museale. I casi studio più eclatanti e recenti in Italia sono rappresentati da Armani/Silos Milano, Gucci Garden Archetypes, Firenze, Bulgari Domus Aurea, Roma.

Attraverso un programma di conversazioni/interviste con gli ideatori, curatori, direttori creativi dei casi studio portati, si intende fare luce sulle strategie di marketing culturale che vi stanno dietro, ma, soprattutto, sulla “visione” che la moda italiana intende perseguire per il prossimo futuro, nel suo ruolo di colonna portante dell’economia nazionale.

Docenti: Salvatore Spagano (Docente UNICT), Vittorio Ugo Vicari (Docente ABACT), esperti del settore

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In Ucraina la Russia è “condannata a vincere”


A dieci mesi dall'invasione dell'Ucraina, la Russia è condannata a vincere lo scontro con l'Alleanza Atlantica. Mosca martella le infrastrutture civili ucraine mentre i combattimenti si intensificano in Donbass, dove tutto è iniziato nel 2014 L'articolo

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – La guerra in Ucraina sta per entrare nel decimo mese ma i combattimenti sembrano tutt’altro che vicini alla conclusione.
Il fronte occidentale continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente Kiev affermando di mirare – come d’altronde ripete quotidianamente Volodymyr Zelensky – alla definitiva sconfitta della Federazione Russa e al completo ritiro delle sue truppe da tutto il territorio ucraino.

La Russia non può perdere
Ma la verità – e lo sanno bene le cancellerie dei paesi aderenti al Patto Atlantico – è che la Russia non può perdere, perché un passo falso in Ucraina potrebbe segnare la fine del potere di Vladimir Putin e gravi conseguenze per la Federazione.
Nei giorni scorsi Zelensky ha affermato che «se morisse Putin la guerra finirebbe», ma non è affatto scontato. Certo, a Mosca potrebbe prevalere la corrente pragmatica dell’establishment, cosciente dei limiti oggettivi della macchina militare e dell’economia russa e magari incline a cercare una ricomposizione con la Nato, alla quale del resto la Russia si era fortemente avvicinata a metà degli anni ’90 del secolo scorso (ai tempi della “Partnership for Peace”), prima che Washington la escludesse e iniziasse l’assedio.
Il contesto internazionale attuale, però, non sembra certo evolvere verso una ricomposizione tra i vari poli della competizione globale tra potenze e blocchi geopolitici. La sconfitta del più consistente tentativo finora intrapreso da Mosca di riprendersi un pezzo importante dello spazio territoriale e geopolitico occupato prima dall’impero russo e poi dall’Urss, costituirebbe un grave shock non solo per l’attuale dirigenza russa ma soprattutto per le correnti ancora più radicali dello scenario politico russo, nel quale nazionalismo e sciovinismo prendono sempre più piede.
In caso di fallimento, è proprio da questi ambienti radicali che dovrebbe difendersi Putin, la cui caduta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da parte della Russia nello strenuo tentativo di evitare un possibile collasso in uno scontro con la Nato sempre più diretto, per quanto per ora combattuto sul suolo ucraino. Le difficoltà di Mosca stanno già creando scompiglio negli “stan” dell’Asia Centrale, dove i vari regimi cercano di limitare la tradizionale influenza russa rafforzando le relazioni economiche e militari con la Cina, la Turchia e i paesi occidentali.

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Qual è l’obiettivo di Mosca?
Non è affatto chiaro, però, cosa Putin consideri sufficiente per dichiararsi vincitore. Nelle prime settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, sembrava che la cosiddetta “operazione militare speciale” puntasse non solo alla conquista del maggior numero di territori possibile ma anche a imporre a Kiev un governo fantoccio o comunque incline ad una trattativa impari con Mosca.
Poi, fallita la presa di Kiev e la decapitazione della leadership ucraina, la strategia del Cremlino sembrava mirare a occupare quantomeno tutta l’Ucraina sud-orientale per conquistare una stabile continuità territoriale con la Crimea e assimilare la maggior parte dei territori abitati dai russofoni, appropriandosi oltretutto delle zone più ricche di risorse naturali e infrastrutture industriali.
Nelle ultime settimane, invece, la strategia di Mosca sembra essere ulteriormente mutata: ora sembra che Putin miri a tenersi almeno alcuni dei territori annessi dopo aver deciso di abbandonare Kherson e le zone sulla sponda destra del fiume Dnipro, la cui difesa sarebbe costata un prezzo eccessivo, puntando nel contempo a fiaccare l’Ucraina per obbligare la sua la leadership a trattare.

Mosca martella città e infrastrutture
A questo mirano gli incessanti e implacabili bombardamenti, con droni e missili, delle infrastrutture civili (soprattutto centrali elettriche e sistemi idrici) e delle città ucraine realizzati dalle forze russe guidate da ottobre dal generale Sergej Surovikin.
Anche se Putin ha avvisato che i bombardamenti delle infrastrutture nevralgiche ucraine continueranno “in risposta” al sabotaggio del ponte di Kerč’ da parte di Kiev, appare evidente che Mosca intende piegare la popolazione civile lasciandola al buio, al freddo e senz’acqua durante il lungo e duro inverno ucraino.
Il premier ucraino Denys Smyhal ha avvisato che se gli attacchi ai sistemi elettrici ed idrici continueranno, il Pil del paese potrebbe crollare quest’anno del 50%.
Una relativa pausa invernale dei combattimenti a terra, inoltre, è utile a Mosca anche per addestrare ed inviare al fronte forze fresche, mobilitate in autunno, e riorganizzarsi logisticamente.

Usa e Ue aumentano aiuti e forniture militari
Per tentare di impedire il collasso dell’Ucraina l’Unione Europea si è impegnata a fornire a Kiev, nel corso del 2023, un pacchetto di aiuti pari a 18 miliardi, superando il veto del governo ungherese minacciato da Bruxelles del blocco dei fondi europei.
Dopo aver a lungo tentennato, invece, Washington sembra intenzionata ad inviare alcune batterie di Patriot a Kiev per migliorare la difesa antiaerea ucraina almeno sulla capitale del paese. Fornendo i Patriot, in grado di individuare e distruggere aerei e missili nemici anche a notevole distanza (ma non i droni), gli Stati Uniti sperano di diminuire l’intensità dei bombardamenti russi e dare un po’ di respiro a Kiev.
La formazione del personale in grado di utilizzare questo scudo antiaereo, però, è una procedura che richiede mesi; Mosca teme quindi che la Nato decida di far gestire inizialmente i Patriot al proprio personale militare, il che aumenterebbe ulteriormente il grado coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica nel conflitto in corso.
Proprio nei giorni scorsi, d’altronde, il tenente generale Robert Magowan, ex comandante dei Royal Marine di Londra, ha ammesso esplicitamente che alcune unità d’élite della marina britannica hanno partecipato a missioni «ad alto rischio politico e militare» e ad «operazioni segrete» sul suolo ucraino.
Gli Usa – che in totale hanno finora fornito all’Ucraina 19,3 miliardi di aiuti militari – hanno già inviato a Kiev alcuni missili HIMARS, imponendo però agli ucraini di utilizzarli solo per colpire le forze di Mosca sul suolo del paese invaso e non oltre il confine russo.
All’inizio di dicembre, comunque, Kiev ha deciso di bombardare, con droni dell’epoca sovietica potenziati, le basi russe di Ryazan ed Engels e un impianto petrolifero vicino a Kursk, centinaia di chilometri oltre il confine. Se gli attacchi hanno avuto un innegabile effetto psicologico sia in patria sia oltreconfine, la sortita non ha certo inciso sugli equilibri bellici. Mosca ha infatti risposto con massicci bombardamenti lanciando missili di ultima generazione realizzati negli ultimi mesi nonostante l’embargo alla quale la Russia è sottoposta da parte di Usa ed Ue.

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La guerra sarà lunga
Da parte sua la Nato continua a inviare segnali contraddittori. Da una parte frena, tendenzialmente, gli impeti ucraini nel timore che Mosca si convinca ad usare tutti i mezzi a sua disposizione alzando il livello dell’asticella. D’altra parte, però, l’Alleanza Atlantica non ha nessun interesse ad un cessate il fuoco che concederebbe ossigeno a Mosca e potrebbe fomentare le contraddizioni interatlantiche tra Bruxelles – fortemente penalizzata dalla polarizzazione dello scenario mondiale sia sul fronte economico che militare – e Washington e Londra – che invece se ne avvantaggiano.
La Nato sembra puntare ad un lungo conflitto nella speranza non che Kiev cacci definitivamente i russi dal proprio territorio – possibilità alquanto remota – ma che la continuazione dei combattimenti sfianchi a lungo andare la Russia causando una crisi che ridimensioni fortemente le aspirazioni geopolitiche di Mosca.
Parlando al “Consiglio per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani” Putin ha avvisato il popolo russo che la guerra in Ucraina sarà lunga e che sussiste il pericolo che si trasformi in un conflitto nucleare, anche se nessuna delle parti ammette di poter utilizzare per prima l’opzione atomica. Il presidente russo ha però vantato alcuni risultati positivi, come «l’acquisizione di nuovi territori» e il fatto che «il Mar d’Azov è diventato un mare interno della Russia».
Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ammesso che la guerra sarà lunga, insistendo sul fatto che sarà il campo di battaglia a decidere dove e quando si terranno eventuali colloqui di pace, escludendo quindi una trattativa con Mosca. Una trattativa che in realtà esiste già, per quanto dietro i riflettori, come dimostra il recente scambio tra un’atleta statunitense arrestata in Russia per traffico di stupefacenti e Viktor Bout, un ex ufficiale dell’aeronautica sovietica arrestato dagli Usa perché accusato di trafficare armi. A rivelare i contatti tra Russia e USA anche le reazioni infastidite e preoccupate di Kiev dei giorni scorsi; evidentemente gli ucraini temono un accordo tra le potenze nucleari che li bypassi.

Il Donbass sempre più martoriato
Paradossalmente, sia Putin che Stoltenberg hanno convenuto su un fatto che spesso l’informazione e la politica tendono a dimenticare: la guerra in corso non è iniziata il 24 febbraio scorso ma nel 2014, quando con il sostegno della Nato le correnti nazionaliste e scioviniste ucraine presero il potere a Kiev lanciando una “operazione militare speciale” contro le popolazioni russofone del Donbass che si opponevano al nuovo regime, a loro volta sostenute da Mosca che decise di annettersi la Crimea.
Il Donbass rimane il territorio più martoriato nei combattimenti, con le forze russe impegnate da settimane a tentare di strappare a Kiev la città di Bakhmut, strategica per l’eventuale conquista di centri come Kramatorsk, Slovjansk, Lyman e Izium.
Nelle ultime ore sembrerebbe che le forze di Mosca stiano avendo la meglio e stiano lentamente avanzando, dopo che negli ultimi due mesi non si sono registrati cambiamenti significativi della linea del fronte. Dal canto loro, le autorità dell’ormai ex Repubblica Popolare di Donetsk denunciano i più massicci bombardamenti dal 2014, che stanno riducendo le città in macerie e terrorizzando quella parte della popolazione che ha deciso di non evaquare in Russia. – Pagine Esteri

4274300* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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PERÙ. Castillo rimarrà in carcere per 18 mesi. Sale il numero dei manifestanti uccisi


La detenzione preventiva terrà l'ex presidente in carcere fino a giugno 2024. Così ha deciso il giudice supremo. Si aggrava il bilancio degli scontri tra polizia e manifestanti pro-Castillo L'articolo PERÙ. Castillo rimarrà in carcere per 18 mesi. Sale i

di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – L’ex presidente del Perù Pedro Castillo, maestro elementare e dirigente sindacale, sorpresa delle elezioni del 2021 in Perù, rimarrà in prigione per 18 mesi come misura di carcerazione preventiva. La decisione è stata presa oggi (alle 20.00 in Perù) dal giudice supremo Juan Carlos Checkley, che ha giudicato gravi le misure annunciate dallo stesso Castillo il 7 dicembre scorso. Il presidente-maestro, in un discorso alla nazione aveva denunciato tentativi di golpe da parte delle destre e, per questo motivo, aveva dichiarato di voler sciogliere il parlamento e dar vita subito ad un processo di riforma costituzionale.

I suoi avvocati hanno immediatamente presentato ricorso ma Castillo rimane imputato dei reati di ribellione, associazione a delinquere e alterazione della quiete pubblica. La difesa, curata da Torres Vásquez, dichiara insensata l’accusa di ribellione dal momento che non ci sono state azioni violente di alcun tipo, organizzate da Castillo o dai suoi sostenitori.

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Manifestazioni pro-Castillo nella regione di Ayacucho

Ma la decisione del giudice supremo ha gettato benzina sul fuoco delle manifestazioni che si stanno tenendo da giorni ormai in varie città del Perù. La situazione diventa ora dopo ora più drammatica, aumenta la violenza della repressione delle forze dell’ordine e cresce il numero dei manifestanti uccisi dalla polizia, al momento 18. I manifestanti chiedono la scarcerazione di Pedro Castillo e la convocazione di una nuova assemblea costituente.

Ad Ayacucho si sono tenuti, nelle ultime ore, gli scontri più violenti, con 7 manifestanti uccisi e 52 feriti. Il governo regionale ha accusato la premier Dina Boluarte, che ha preso il posto di Castillo dopo la mozione di sfiducia da parte del parlamento, di essere la responsabile, insieme ai ministri della difesa e dell’interno, delle uccisioni tra i manifestanti. Lo stesso governatore ha chiesto alla presidente di ordinare alla polizia di interrompere l’utilizzo di armi da fuoco contro chi protesta. Ma il governo ha, al contrario, dichiarato lo Stato di Emergenza nelle regioni più coinvolte dalle manifestazioni. La detenzione preventiva terrà l’ex presidente in carcere fino a giugno 2024. Così ha deciso il giudice supremo. Si aggrava il bilancio degli scontri tra polizia e manifestanti pro-Castillo

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Canapa: gli Stati Uniti puntano tutto su ricerca e sviluppo


I ricercatori del Texas hanno avviato un ambizioso progetto per sviluppare varietà di canapa per la doppia coltivazione di fibre e cereali che possano prosperare nelle condizioni climatiche dello Stato. Si prevede di sviluppare da dieci a venti varietà entro l’inizio del 2024, con l’obiettivo di rilasciarne altre 20-50 un anno dopo, nell’ambito di un […]

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A Pagamento


Quel che sta succedendo attorno al Parlamento Europeo merita una riflessione un po’ meno superficiale e un po’ meno di impatto. Chiaramente vedere, neanche le “bustarelle” ma le valigiate di quattrini non può che essere ripugnante, e quindi ci si augura

Quel che sta succedendo attorno al Parlamento Europeo merita una riflessione un po’ meno superficiale e un po’ meno di impatto. Chiaramente vedere, neanche le “bustarelle” ma le valigiate di quattrini non può che essere ripugnante, e quindi ci si augura che la magistratura, in questo caso belga, vada avanti con le indagini e che si arrivi al più presto ad un processo che stabilisca chi è il colpevole ed esattamente di cosa, e quindi venga poi inviato a scontare la pena.

Ma guardando un po’ più dentro, questo non sembra essere un capitolo di corruzione per interessi specifici, materiali, come quando un’azienda paga la tangente per ottenere l’appalto o la norma di legge che la favorisce in maniera particolare (che è sempre un reato, ma che inquina il mercato, la convenienza, la regolarità dentro un paese). Queste sono storie – non a caso sembrerebbe che la notizia venga da un’indagine dei servizi segreti prima esclusivamente belgi e poi allargato ad altri servizi di sicurezza nei paesi europei – questa è una storia che aggredisce non il regolare funzionamento del mercato all’interno dell’Unione Europea ma tenta di influenzarne le politiche, di indirizzarne le simpatie e le antipatie.

Non era mai successo? No, era già successo, non era successo che si trovassero le valigiate di quattrini, ma diciamo che la Russia di Putin aveva scelto la destra e la finanziava con i soldi, non solamente con le pacche sulle spalle. Le Pen in Francia aveva la campagna elettorale in gran parte finanziata da soldi e da prestiti russi. Quindi no, questa roba non è nuova, si può dire che la Russia aveva scelto la destra e sembrerebbe che il Qatar (o forse il Marocco, staremo a vedere) abbia una simpatia a sinistra. Ma più che simpatie questi sono agganci, cioè oggetti disponibili, il che ci porta alla seconda considerazione.

Posso capire chi prende soldi – per convenienza materiale – ma chi invece i soldi li dà, perché lo fa? Perché i russi finanziano la campagna elettorale di Le Pen e di qualche altro movimento di destra in Austria? Perché il Qatar dà tutti quei quattrini? Perché loro hanno capito quello che a molti europei sembra essere ancora oscuro: il Parlamento Europeo conta, la politica europea conta, e influenzarla è un vantaggio. Questo forse dovremmo cercare di capirlo anche noi, cioè vedere anche noi che quell’impiego di soldi denota un significato di quella istituzione.

Terzo elemento: il nostro e tutti i paesi dell’Unione Europea sono stati di diritto, quindi esiste – grazie al cielo – la possibilità che qualcuno indaghi e che qualcun altro – distinto da chi è indagato – giudichi, e questa è la vicenda di giustizia. Ma a noi importa anche che funzioni il Parlamento Europeo, perché i nostri sono Stati di diritto ma sono anche delle democrazie, e un parlamentare eletto deve poter esprimere liberamente il suo pensiero. Se una persona al Parlamento Europeo è convinta che nella vicenda della guerra in Ucraina abbia ragione Putin, anche se io la penso all’opposto, deve essere libero di poterlo dire, altrimenti finisce l’esistenza stessa del Parlamento. E nell’ essere libero di poterlo dire deve essere anche affrancato dall’accusa di ricevere dei soldi, altrimenti gli viene contestato un reato.

Quindi è necessario distinguere la parte criminale dall’attività politica, e nel farlo bisogna accorgersi anche di una cosa, che è successa nell’occasione di questa operazione sul Qatar, in cui un parlamentare greco è stato arrestato dalla procura belga. Bisogna fare attenzione perché (l’immunità parlamentare ovviamente non può estendersi a prendere quattrini) quel principio può essere pericoloso un domani in cui qualcuno di sgradito a un altro paese dovesse andarci a fare una conferenza e si inventano delle prove che non esistono. Sono tutti elementi di delicatezza e di importanza che però ci dicono che quello cui stiamo assistendo non è un capitolo dell’eterno libro della corruzione e della tentazione, è un capitolo dell’importanza dell’Unione Europea, dell’importanza del Parlamento Europeo e dell’importanza di difendere la propria sovranità dalle influenze pagate altrui.

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Svelate le 5 mani di poker più famose della storia


Il poker ha una storia lunga e ricca di storie e il poker moderno è diventato un vero e proprio spettacolo mediatico. Molte mani sono diventate famose nel corso degli anni per uno o più dei seguenti motivi: • luci abbaglianti • Le Telecamere, o telecamere a circuito chiuso, sono un modo efficace per migliorare […]

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Auto a noleggio lungo termine per privati e professionisti: le differenze


Noleggiare un’auto a lungo termine? Una soluzione che oggi viene scelta da tantissimi automobilisti della Penisola. Ci si trova infatti di fronte ad un sistema che propone dei vantaggi innegabili, non solo per i privati, ma anche per i professionisti e dunque per coloro che hanno aperto partita IVA. Nella guida di oggi, quindi, andremo […]

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Il Qatargate è un colpo all’italiana. Pregiudizio? Non tanto


La vicenda che ha sconvolto l’Europarlamento viene iscritta al nostro carattere nazionale: “The italian job”, intendendo che noi italiani siamo più inclini alla corruzione. L’espressione offende, certo. Ma prima o poi dovremo iniziare a domandarci per qua

La vicenda che ha sconvolto l’Europarlamento viene iscritta al nostro carattere nazionale: “The italian job”, intendendo che noi italiani siamo più inclini alla corruzione. L’espressione offende, certo. Ma prima o poi dovremo iniziare a domandarci per quale oscura ragione ce l’abbiano tutti con noi

Il cosiddetto “quatargate” che sta sconvolgendo l’Europarlamento si presta a diverse chiavi di lettura. La più facile ha a che fare con l’eclissi ufficiale del mitico primato morale della sinistra. Gli eredi del partito che per decenni si finanziò con i soldi di una potenza nemica e dittatoriale (l’Unione Sovietica), poi con i soldi dell’universo cooperativo emiliano, poi con i soldi di alcuni istituti di credito nazionali (“abbiamo una banca!”) e infine, da Buzzi a Soumahoro, con i soldi destinati all’assistenza dei migranti, ebbene, gli eredi di Enrico Berlinguer e i cantori della “questione morale” non sono migliori degli altri. Sono solo meglio organizzati e più ipocriti. Lettura sfiziosa, ma poco originale.

Più interessante, anche se più doloroso, provare a indagare le radici del fenomeno. Fenomeno che a Bruxelles viene iscritto addirittura al nostro carattere nazionale. “The italian job”, dicono. E lo dicono intendendo che noi italiani siamo più inclini di altri al sotterfugio e alla corruzione. Un pregiudizio? Mica tanto. È la conclusione cui giunsero un po’ tutti i viaggiatori europei che a partire dal Settecento attraversavano il Belpaese ammirandone le meraviglie artistiche ma deprecandone l’immoralità degli abitanti. È la conseguenza dell’aver inventato la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra e di averne fatto con indiscutibile successo prodotto da esportazione. È la conseguenza di quel “familismo amorale” che ci venne attribuito dal sociologo statunitense Edward C. Banfield negli anni Cinquanta. È la conseguenza, forse, della mancata riforma protestante e di troppe dominazioni straniere. È la logica che spinse le classi dirigenti italiane dei primi anni Novanta ad aderire a Maastricht per obbligarci, grazie al “vincolo esterno”, a quella virtù contabile che assai poco ci appartiene. Pregiudizi? Fino a un certo punto.

Qualche anno fa, due ricercatori della Columbia University e dell’Università della California passarono in rassegna le contravvenzioni per divieto di sosta inflitte ai diplomatici delle Nazioni Unite a New York. Poiché il personale dell’Onu gode dell’immunità, pagare le multe è faccenda che attiene all’educazione e al carattere personale. Ma educazione e carattere personale vantano anche una dimensione nazionale. Ebbene, nella classistica stilata dai due ricercatori americani i diplomatici italiani risultavano tra i più morosi del mondo. Per capirci, i nostri connazionali figuravano cento posizioni più in basso rispetto ai rappresentanti di nazioni considerate virtuose come Svezia e Norvegia…

“Italian job” è espressione che offende, certo. Ma prima o poi dovremo pure cominciare a domandarci per quale oscura ragione ce l’abbiano tutti con noi.

Huffington Post

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Videogiochi: le icone che non muoiono mai


Il mondo dei videogiochi è paragonabile per molti versi a quello di una slot machine: una volta che si è tirata la leva non è detto che il risultato sarà quello sperato, e questo vale per molti titoli e personaggi alla loro prima apparizione. Il risultato non era affatto scontato, nonostante gli anni Settanta ed […]

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A certificare la brusca frenata dell’economia globale sono arrivate anche le previsioni aggiornate dell’OCSE, che nell’Economic Outlook di novembre indica una crescita del Pil in ribasso al 2,2% nel 2023 e sempre più trainata dall’Asia (come dimostra…


Il pescarese Jacopo D’Andreamatteo premiato a Roma per il suo volume – hgnews.it


A inizio dicembre a Roma, nella splendida sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, si è tenuto l’evento commemorativo per il 60° anniversario di attività della Fondazione Luigi Einaudi. Tra i partecipanti, autore anche di un testo pubblicato all’interno del v

A inizio dicembre a Roma, nella splendida sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, si è tenuto l’evento commemorativo per il 60° anniversario di attività della Fondazione Luigi Einaudi. Tra i partecipanti, autore anche di un testo pubblicato all’interno del volume celebrativo dal titolo “Sessant’anni di diffusione del pensiero liberale” c’era anche Jacopo D’Andreamatteo, pescarese, da anni componente della direzione della Fondazione Luigi Einaudi nonché referente in Abruzzo della stessa. Il volume, presentato anche con interventi oltre che del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, del presidente della Fondazione Luigi Einaudi Giuseppe Benedetto anche di lhan Kyuchyuk presidente di Alde e parlamentare europeo del gruppo Renew Europe, Hakima El Haité presidente di Liberal International e del senatore Matteo Renzi.

“È stato un vero privilegio poter scrivere delle pagine della nostra fantastica storia racconta Jacopo D’Andreamatteo – figlio del compianto onorevole Piero D’Andreamatteo – e del rapporto che lega la Fondazione a Liberal International anche grazie a Giovanni Malagodi che ne è stato presidente per ben due mandati”.

Hg News

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A destra del Mes


Possono inghiottirlo come un boccone amaro, consapevoli di doverlo comunque deglutire, con il volto accartocciato e i lucciconi del piccolo cui non è stato lasciato scampo: apri la bocca. Ma possono anche masticarlo bene, traendone giovamento. Perché la r

Possono inghiottirlo come un boccone amaro, consapevoli di doverlo comunque deglutire, con il volto accartocciato e i lucciconi del piccolo cui non è stato lasciato scampo: apri la bocca. Ma possono anche masticarlo bene, traendone giovamento. Perché la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità è, per la maggioranza di destra, un’occasione. Un modo per cominciare a non fare la fine della sinistra, afflitta non tanto dall’avere perso le elezioni, ma dall’avere perso il senso dell’orientamento, dal ritrovarsi in stato confusionale. Non commetta la destra l’errore che fece la sinistra.

L’errore fu fare i furbi, finendo fessi. Archiviarono il comunismo (crollato) senza averlo rinnegato. Anzi, proprio per non rinnegarlo cambiarono nome e si finsero una cosa nuova. Da antieuropeisti divennero europeisti; da anti Nato divennero atlantisti; da comunisti si pretesero liberisti. E così via andando, ma senza mai fare i conti non con il passato remoto, ma con il loro passato personale, con le cose che le medesime persone avevano sostenuto. Ripresero identità per contrapposizione, l’antiberlusconismo al posto di falce e martello, sedendo ai governi per “senso di responsabilità”, che sarebbe la versione poetica dell’adattabilità. Il risultato è che non sanno più riconoscersi, per avere rifiutato di conoscersi.

La destra s’appresta a commettere lo stesso errore. Sono molto apprezzabili le parole di Giorgia Meloni sulle leggi razziali. Dispiace che non siano riprese con più evidenza. Sono importanti perché collocano sotto la guida di Benito Mussolini il momento vergognoso e più umiliante della nostra storia nazionale. Per molti di noi è scontato, per molti di loro no. Apprezzabili e importanti, ma è pur sempre la storia degli altri, antecedente alla nascita degli odierni politici. I conti devono farli con loro stessi, che quelli con il fascismo li ha già fatti la storia.

Il Mes è un’occasione. Siamo i soli a non avere ratificato la riforma, posto che il Mes già lo ratificammo ed è già operativo. Aspettare la Germania è stato un errore di sudditanza e ignoranza, perché la Germania lo aveva già ratificato. Comunque, ora è anche sentenziato. Siamo soli. E nel torto. Al governo lo sanno e devono trovare il modo per ratificare. Si può prendere la versione di Guido Crosetto: lo Stato è uno solo, quell’impegno è stato preso, noi siamo persone responsabili e ratifichiamo. È una via, ma anche un rimpiattarsi. Su quella strada si troveranno, fra qualche tempo, a non riconoscersi. Come capita alla sinistra che fu comunista.

Possono, invece, imboccare la più saggia alternativa: lo ratifichiamo perché è giusto farlo, perché molte delle cose che dicemmo (il guinzaglio, il cappio, lo strangolare…) erano spropositi insensati, questo non significa che il Mes sia perfetto, anzi proporremo di modificarlo ancora, il che, però, è impossibile, ci toglie voce in capitolo, se nel ratificarlo non ne riconosciamo l’indispensabilità. Eviterebbero così di far credere di scapolarla cambiando nome, perché può pure esserci qualche allocco convinto che siccome Fratelli d’Italia non è mai stato al governo si tratti di tutti debuttanti, laddove si tratta di già collaudati governanti, ma il trucchetto del nome, se abusato come fece la sinistra, porta a perdere l’identità.

Del resto, guardino al capitolo giustizia: lì non hanno giocato a nascondino, ma scelto un ministro che è l’opposto del giustizialismo della destra sventolante cappi e stazionante davanti alle procure, negli anni temperato dall’innocentismo (che è l’opposto del garantismo) berlusconiano. Sono andati dritto e sono bastate le parole di Nordio per far esplodere la sinistra, che sa quanto siano giuste, ma non trova il modo e il coraggio di riconoscerlo. Certo, ora si tratta di fare e non solo di dire, ma se avessero provato a mascherarsi, tenendo assieme giustizialismo e aggiustamenti, non avrebbero ottenuto alcun risultato. Sarebbero stati indistinguibili. E perdenti. Approfittino del Mes, che certe occasioni non si presentano tutti i giorni.

La Ragione

L'articolo A destra del Mes proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Etiopia, Cittadini Usa Intrappolati nel Tigray, Detenuti ad Addis Abeba


Cittadini statunitensi intrappolati nel Tigray devastato dalla guerra vengono detenuti e interrogati dalle autorità etiopi mentre tentano di lasciare il Paese, lo dimostrano interviste a…

Cittadini statunitensi intrappolati nel Tigray devastato dalla guerra vengono detenuti e interrogati dalle autorità etiopi mentre tentano di lasciare il Paese, lo dimostrano interviste a persone in fuga e familiari.

Le e-mail trapelate da funzionari statunitensi affermano che il governo etiope, adducendo motivi di sicurezza nazionale, ha insistito per trattenere e interrogare i cittadini statunitensi del Tigray, una posizione, dicono, che ha indotto Washington a interrompere i piani per il trasporto aereo degli americani dalla regione l’anno scorso.

I pochi fortunati a fuggire dalla regione, tagliati fuori dal mondo esterno per due anni mentre le forze governative combattevano contro i ribelli del Tigray, hanno detto all’AFP di essere stati individuati e interrogati mentre tentavano di andarsene.

Gebremedhn Gebrehiwot, un cittadino americano che è uscito dal Tigray all’inizio di quest’anno, ha detto di essere stato preso in disparte e interrogato all’aeroporto internazionale di Addis Abeba mentre cercava di imbarcarsi su un volo di ritorno.

“Avevo tutti i documenti, non c’era motivo di fermarmi”, ha detto all’AFP il diacono di San Diego. Credeva che il suo nome “tipicamente tigrino” fosse il motivo per cui era stato arrestato.

Dopo un’attesa di 90 minuti, gli è stato finalmente permesso di andarsene.

“Sono appena corso al cancello e ce l’ho fatta a malapena.”

Zenebu Negusse, 52 anni, ha detto ad AFP che anche lei è stata presa di mira mentre tentava di imbarcarsi sul suo volo diretto negli Stati Uniti.

La badante con sede in Colorado, che si trovava nel Tigray per visitare la sua anziana madre quando è iniziata la guerra nel novembre 2020, è riuscita a fuggire dalla regione su strada e si è rifugiata presso i parenti ad Addis Abeba.

Si è preoccupata di nascondere i suoi segni tribali tigrini, temendo di essere detenuta come alcuni dei suoi amici, ma il suo nome ha destato sospetti.

Ha detto che dopo uno straziante interrogatorio l’anno scorso durante il quale ha esplicitamente negato di essere tigrina, le è stato permesso di tornare a casa.

Alcuni che erano stati sul suo volo sono stati intercettati e presi in custodia, ha detto: “Sono stata fortunata. Molti altri no”.

AFP ha parlato con otto americani che hanno condiviso le loro storie e parlato della difficile situazione di amici e familiari – cittadini statunitensi o residenti permanenti – ancora nel Tigray.

L’Etiopia non riconosce la doppia nazionalità, il che significa che i funzionari possono trattare i cittadini statunitensi di origine etiope come etiopi, indipendentemente dal loro passaporto.

Evacuazione interrotta


Il governo degli Stati Uniti aveva elaborato un piano per evacuare gli americani intrappolati nel Tigray mentre i combattimenti si estendevano ad Addis Abeba nel novembre 2021.

Ma è stato interrotto all’ultimo minuto, con i funzionari statunitensi che hanno incolpato la richiesta dell’Etiopia che gli sfollati fossero soggetti a detenzione a tempo indeterminato per controllo.

“Il governo etiope … ha ritirato l’autorizzazione il giorno del (viaggio) quando gli Stati Uniti non erano d’accordo con la richiesta del governo etiope di autorizzare i passeggeri e potenzialmente trattenerli a tempo indeterminato prima di essere autorizzati a viaggiare ulteriormente”, si legge in un’e-mail di un funzionario degli Stati Uniti Senato visto dall’AFP.

Un’altra e-mail di un funzionario della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha anche accusato i “requisiti di controllo della sicurezza di Addis Abeba (per) aver impedito all’ambasciata americana di procedere con i piani di evacuazione”.

Le autorità statunitensi ed etiopi sono riuscite a “facilitare la partenza di 217 cittadini statunitensi, residenti permanenti legali, richiedenti visti immigrati e tutori di minori da Mekelle (la capitale del Tigray) ad Addis Abeba” a febbraio, ha detto ad AFP un portavoce del Dipartimento di Stato americano.

Il Dipartimento di Stato non ha commentato se alcuni sfollati siano stati detenuti ad Addis Abeba o sul numero di coloro che si sono recati negli Stati Uniti.

Non ha una stima del numero di americani ancora bloccati nel Tigray, ha detto il portavoce.

I funzionari del governo etiope non hanno risposto alle ripetute richieste di commento dell’AFP.

Profilazione etnica


Tutti gli americani intervistati da AFP hanno affermato di essere stati profilati etnicamente ad Addis Abeba dopo aver lasciato il Tigray.

Yohannes, un autista di Uber di 54 anni che ha chiesto all’AFP di non rivelare il suo cognome, ha dichiarato di essere stato messo in isolamento all’aeroporto di Addis Abeba mentre cercava di partire con la sua famiglia nel dicembre 2020.

“Ho detto che ero un cittadino statunitense, ma hanno detto che non mi avrebbero lasciato andare”.

I funzionari della sicurezza alla fine hanno ceduto dopo aver sborsato una grossa tangente, ha detto.

Era un prezzo che valeva la pena pagare per salvare suo figlio adolescente gravemente diabetico, ha aggiunto.

Il mese scorso è stato firmato un accordo di pace tra Addis Abeba e i ribelli del Tigray, ma molti americani hanno detto all’AFP di temere che i loro cari sarebbero stati arrestati anche se fossero riusciti a uscire dal Tigray.

Maebel Gebremedhin ha detto ad AFP che “circa 50” membri della famiglia sono rimasti intrappolati nel Tigray, tutti cittadini statunitensi e residenti permanenti.

“Quasi tutta la mia famiglia è lì”, ha detto l’attivista di Brooklyn, che non ha notizie di suo padre da più di un anno.

“C’è una tale paura all’interno della nostra comunità su (cosa) il governo etiope potrebbe fare alle nostre famiglie”.

Blackout


Il blackout delle comunicazioni ha colpito anche l’uomo d’affari statunitense Awet – non è il suo vero nome – che ha detto all’AFP di non aver parlato con sua moglie per oltre un anno e di non aver mai tenuto in braccio la loro bambina.

Il trentenne è volato in Etiopia l’anno scorso per riportarli a casa in Colorado, ma non gli è stato permesso di recarsi in Tigray.

Si è ripetutamente rivolto ai funzionari statunitensi chiedendo aiuto per far uscire la sua famiglia dall’Etiopia, ma senza successo.

“È sempre la stessa risposta: non abbiamo un piano di evacuazione”.

Una manciata di foto e video sono i suoi unici ricordi della figlia di due anni. E anche guardarli a volte è troppo doloroso, ha detto.

In un video visto da AFP, girato un anno fa e inviato da qualcuno con raro accesso a Internet via satellite nel Tigray, la bambina faceva fatica ad alzarsi o ad alzare le braccia magre.

“Le sue gambe erano troppo deboli a causa della mancanza di cibo”, ha detto il padre sconvolto.

“È strano sentirsi come un papà quando non hai nemmeno visto tua figlia.”

I genitori di Saba Desta si ritirarono nel Tigray dopo due decenni a Seattle che si stabilirono a Shire,città che fu pesantemente bombardata in ottobre prima della sua cattura da parte delle forze etiopi e dei loro alleati.

È stata frenesia per la preoccupazione per il padre di 70 anni, che soffre di un disturbo neurologico debilitante, che lo rende particolarmente vulnerabile in una regione con gravi carenze di medicinali.

Il 36enne aveva contattato il Dipartimento di Stato e l’ambasciata americana ad Addis Abeba per chiedere aiuto.

“Tutti mi hanno preso in giro”, ha detto ad AFP, trattenendo le lacrime.

Anche così, ha aggiunto, la vita potrebbe essere peggiore.

Conosce diverse persone detenute ad Addis Abeba, tra cui un’amica che è stata trattenuta per sei mesi e sua zia che è stata in custodia per circa una settimana.

La sua più grande paura, ha detto, era quella di far uscire i suoi anziani genitori dal Tigray, solo per essere detenuti ad Addis Abeba.

“Ho più paura di quello che potrebbe succedere loro ad Addis che in una zona di guerra come il Tigray”.


FONTE: rfi.fr/en/international-news/2…


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EGITTO-TURCHIA. El Sisi rinuncia alla pace con Erdogan. La sua priorità è il gas


Con un decreto firmato questa settimana, el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. L'Egitto ora punta forte allo sfruttamento e all'esportazione del suo gas. L'articolo EGITTO-TURCHIA. El Sisi rin

della redazione

Pagine Esteri, 15 dicembre 2022 – Resta, almeno per ora, un gesto simbolico senza effetti concreti la stretta di mano che il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi e il leader turco Recep Tayyip Erdogan si sono dati il mese scorso davanti all’emiro Tamim bin Hamad al Thani del Qatar, lasciando presagire una normalizzazione delle relazioni tra Egitto e Turchia. Questa settimana, con l’obiettivo di replicare al memorandum d’intesa tra Tripoli e Ankara nel Mediterraneo, el Sisi a sorpresa ha firmato un decreto che definisce i confini occidentali della Zona economica esclusiva (Zee) dell’Egitto. Il decreto firmato da el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. Si attende ora la risposta turca.

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La mossa unilaterale di el Sisi frena il riavvicinamento con la Turchia in atto da circa un anno. I due paesi sono avversari irriducibili dal giorno del colpo di stato che nel 2013 portò al potere el Sisi e alla rimozione dei Fratelli musulmani alleati di Erdogan. Ma lo sono anche per motivi strategici ed economici poiché hanno forti interessi nello sfruttamento delle ingenti riserve di gas sottomarino nel Mediterraneo orientale.

Il Cairo ha voluto delimitare nel Mediterraneo ciò che ritiene debba essere sotto il suo controllo e rappresenti un interesse nazionale egiziano. Le entrate miliardarie che lascia intravedere nei prossimi anni lo sfruttamento del gas sottomarino di cui anche l’Egitto è ricco – all’enorme giacimento Zohr si è aggiunta la scoperta di recente di quello di Narges IX, di fronte alla città di El Arish (Sinai) -, hanno spinto el Sisi a rompere gli indugi e a inserirsi con prepotenza nel contesto energetico emerso dalla guerra tra Russia e Ucraina e dalle sanzioni occidentali all’energia di Mosca.

A contrapporsi nella regione sono in particolare gli interessi della Turchia e dei Paesi del forum del gas nel Mediterraneo orientale (Emgf: Francia, Cipro, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Autorità nazionale palestinese). Le parti si combattono a suon di definizione delle rispettive acque territoriali e delle Zone economiche esclusive. Adesso è stato il turno dell’Egitto. Allo stesso tempo il Cairo prova ad ostacolare l’EastMed (1), il gasdotto che dovrebbe convogliare il gas di Israele e Cipro verso Italia e Grecia. Meno gas passerà per l’EastMed e più ricaverà l’Egitto con l’esportazione del suo gas liquido prodotto negli impianti di Damietta e Idku (disponibile anche per il passaggio del gas israeliano e cipriota). L’Egitto inoltre sogna di esportare verso l’Europa elettricità prodotta nel suo territorio.

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Un eventuale ridimensionamento del progetto dell’EastMed non dispiace neppure ad Ankara che punta a diventare un hub energetico con gas russo, azero e anche Gnl. La Turchia infatti ha la maggior capacità di rigassificazione della regione. Pagine Esteri

NOTE

1) Il gasdotto del Mediterraneo orientale o semplicemente EastMed è un gasdotto pianificato offshore/onshore per collegare direttamente le risorse energetiche del Mediterraneo orientale alla Grecia continentale attraverso Cipro e Creta. Ancora in fase di progettazione, trasporterà il gas naturale dalle riserve di gas off-shore nel Bacino Levantino in Grecia e, insieme ai gasdotti Poseidon e IGB, in Italia e in altre regioni europee. Avrà una lunghezza di circa 1.900 km, raggiungerà una profondità di tre chilometri e avrà una capacità di 10 miliardi di metri cubi all’anno.

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Etiopia, Jigjiga Condanna a Morte l’Ufficiale di Polizia che ha Ucciso Juweria Subcis, Deputata della Regione dei Somali


L’Alta corte di Jigjiga, la capitale dello stato regionale somalo, ha condannato a morte il 12 dicembre un membro della polizia federale che ha sparato…

L’Alta corte di Jigjiga, la capitale dello stato regionale somalo, ha condannato a morte il 12 dicembre un membro della polizia federale che ha sparato e ucciso Juweria Subcis, un membro del Comitato Centrale del Partito della Prosperità al potere e del parlamento regionale somalo, Etiopia.

“Giustizia è stata giustamente fatta senza indugio: anche se questo verdetto non riporterà indietro la nostra cara sorella, sarà un monito per ogni soldato a non puntare la pistola contro innocenti”, ha commentato Zuber, un membro della comunità somala.

La deputata Juweria è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco da un membro di un agente di polizia federale all’interno dell’aeroporto Garad Wilwal, nella capitale della regione, Jigjiga, il 25 ottobre. La sparatoria ha lasciato gravemente feriti altri tre, tra cui sua sorella, Ayan Subics, e un membro del gabinetto regionale, Abdirashid Mohammed.

L’alta corte di Jigjiga ha stabilito che il membro della polizia federale è stato ritenuto colpevole dell’omicidio del deputato Juweria Subcis e lo ha condannato a morte. Il tribunale ha comunque concesso all’assassino condannato il diritto di impugnare la sentenza, ha riferito l’emittente di stato .

Mohamed Guray, vice capo della sicurezza dello stato regionale somalo, ha confermato ad Addis Standard che all’epoca il deputato Juweria Subcis era stato “deliberatamente colpita” a morte.

Sua sorella, Fowsia Musse, cittadina americana, era tra i feriti gravi durante la sparatoria del 25 ottobre. Era in visita dalla sorella insieme al figlio di 14 anni, anch’egli ferito. La figlia di 8 anni di Musse è scappata illesa. A Musse, che ora è tornata negli Stati Uniti, è stata amputata una gamba a causa delle ferite riportate.


FONTE: addisstandard.com/asdailyscoop…


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In Ucraina la Russia è “condannata a vincere”


A dieci mesi dall'invasione dell'Ucraina, la Russia è condannata a vincere lo scontro con l'Alleanza Atlantica. Mosca martella le infrastrutture civili ucraine mentre i combattimenti si intensificano in Donbass, dove tutto è iniziato nel 2014 L'articolo

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – La guerra in Ucraina sta per entrare nel decimo mese ma i combattimenti sembrano tutt’altro che vicini alla conclusione.
Il fronte occidentale continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente Kiev affermando di mirare – come d’altronde ripete quotidianamente Volodymyr Zelensky – alla definitiva sconfitta della Federazione Russa e al completo ritiro delle sue truppe da tutto il territorio ucraino.

La Russia non può perdere
Ma la verità – e lo sanno bene le cancellerie dei paesi aderenti al Patto Atlantico – è che la Russia non può perdere, perché un passo falso in Ucraina potrebbe segnare la fine del potere di Vladimir Putin e gravi conseguenze per la Federazione.
Nei giorni scorsi Zelensky ha affermato che «se morisse Putin la guerra finirebbe», ma non è affatto scontato. Certo, a Mosca potrebbe prevalere la corrente pragmatica dell’establishment, cosciente dei limiti oggettivi della macchina militare e dell’economia russa e magari incline a cercare una ricomposizione con la Nato, alla quale del resto la Russia si era fortemente avvicinata a metà degli anni ’90 del secolo scorso (ai tempi della “Partnership for Peace”), prima che Washington la escludesse e iniziasse l’assedio.
Il contesto internazionale attuale, però, non sembra certo evolvere verso una ricomposizione tra i vari poli della competizione globale tra potenze e blocchi geopolitici. La sconfitta del più consistente tentativo finora intrapreso da Mosca di riprendersi un pezzo importante dello spazio territoriale e geopolitico occupato prima dall’impero russo e poi dall’Urss, costituirebbe un grave shock non solo per l’attuale dirigenza russa ma soprattutto per le correnti ancora più radicali dello scenario politico russo, nel quale nazionalismo e sciovinismo prendono sempre più piede.
In caso di fallimento, è proprio da questi ambienti radicali che dovrebbe difendersi Putin, la cui caduta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da parte della Russia nello strenuo tentativo di evitare un possibile collasso in uno scontro con la Nato sempre più diretto, per quanto per ora combattuto sul suolo ucraino. Le difficoltà di Mosca stanno già creando scompiglio negli “stan” dell’Asia Centrale, dove i vari regimi cercano di limitare la tradizionale influenza russa rafforzando le relazioni economiche e militari con la Cina, la Turchia e i paesi occidentali.

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Qual è l’obiettivo di Mosca?
Non è affatto chiaro, però, cosa Putin consideri sufficiente per dichiararsi vincitore. Nelle prime settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, sembrava che la cosiddetta “operazione militare speciale” puntasse non solo alla conquista del maggior numero di territori possibile ma anche a imporre a Kiev un governo fantoccio o comunque incline ad una trattativa impari con Mosca.
Poi, fallita la presa di Kiev e la decapitazione della leadership ucraina, la strategia del Cremlino sembrava mirare a occupare quantomeno tutta l’Ucraina sud-orientale per conquistare una stabile continuità territoriale con la Crimea e assimilare la maggior parte dei territori abitati dai russofoni, appropriandosi oltretutto delle zone più ricche di risorse naturali e infrastrutture industriali.
Nelle ultime settimane, invece, la strategia di Mosca sembra essere ulteriormente mutata: ora sembra che Putin miri a tenersi almeno alcuni dei territori annessi dopo aver deciso di abbandonare Kherson e le zone sulla sponda destra del fiume Dnipro, la cui difesa sarebbe costata un prezzo eccessivo, puntando nel contempo a fiaccare l’Ucraina per obbligare la sua la leadership a trattare.

Mosca martella città e infrastrutture
A questo mirano gli incessanti e implacabili bombardamenti, con droni e missili, delle infrastrutture civili (soprattutto centrali elettriche e sistemi idrici) e delle città ucraine realizzati dalle forze russe guidate da ottobre dal generale Sergej Surovikin.
Anche se Putin ha avvisato che i bombardamenti delle infrastrutture nevralgiche ucraine continueranno “in risposta” al sabotaggio del ponte di Kerč’ da parte di Kiev, appare evidente che Mosca intende piegare la popolazione civile lasciandola al buio, al freddo e senz’acqua durante il lungo e duro inverno ucraino.
Il premier ucraino Denys Smyhal ha avvisato che se gli attacchi ai sistemi elettrici ed idrici continueranno, il Pil del paese potrebbe crollare quest’anno del 50%.
Una relativa pausa invernale dei combattimenti a terra, inoltre, è utile a Mosca anche per addestrare ed inviare al fronte forze fresche, mobilitate in autunno, e riorganizzarsi logisticamente.

Usa e Ue aumentano aiuti e forniture militari
Per tentare di impedire il collasso dell’Ucraina l’Unione Europea si è impegnata a fornire a Kiev, nel corso del 2023, un pacchetto di aiuti pari a 18 miliardi, superando il veto del governo ungherese minacciato da Bruxelles del blocco dei fondi europei.
Dopo aver a lungo tentennato, invece, Washington sembra intenzionata ad inviare alcune batterie di Patriot a Kiev per migliorare la difesa antiaerea ucraina almeno sulla capitale del paese. Fornendo i Patriot, in grado di individuare e distruggere aerei e missili nemici anche a notevole distanza (ma non i droni), gli Stati Uniti sperano di diminuire l’intensità dei bombardamenti russi e dare un po’ di respiro a Kiev.
La formazione del personale in grado di utilizzare questo scudo antiaereo, però, è una procedura che richiede mesi; Mosca teme quindi che la Nato decida di far gestire inizialmente i Patriot al proprio personale militare, il che aumenterebbe ulteriormente il grado coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica nel conflitto in corso.
Proprio nei giorni scorsi, d’altronde, il tenente generale Robert Magowan, ex comandante dei Royal Marine di Londra, ha ammesso esplicitamente che alcune unità d’élite della marina britannica hanno partecipato a missioni «ad alto rischio politico e militare» e ad «operazioni segrete» sul suolo ucraino.
Gli Usa – che in totale hanno finora fornito all’Ucraina 19,3 miliardi di aiuti militari – hanno già inviato a Kiev alcuni missili HIMARS, imponendo però agli ucraini di utilizzarli solo per colpire le forze di Mosca sul suolo del paese invaso e non oltre il confine russo.
All’inizio di dicembre, comunque, Kiev ha deciso di bombardare, con droni dell’epoca sovietica potenziati, le basi russe di Ryazan ed Engels e un impianto petrolifero vicino a Kursk, centinaia di chilometri oltre il confine. Se gli attacchi hanno avuto un innegabile effetto psicologico sia in patria sia oltreconfine, la sortita non ha certo inciso sugli equilibri bellici. Mosca ha infatti risposto con massicci bombardamenti lanciando missili di ultima generazione realizzati negli ultimi mesi nonostante l’embargo alla quale la Russia è sottoposta da parte di Usa ed Ue.

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La guerra sarà lunga
Da parte sua la Nato continua a inviare segnali contraddittori. Da una parte frena, tendenzialmente, gli impeti ucraini nel timore che Mosca si convinca ad usare tutti i mezzi a sua disposizione alzando il livello dell’asticella. D’altra parte, però, l’Alleanza Atlantica non ha nessun interesse ad un cessate il fuoco che concederebbe ossigeno a Mosca e potrebbe fomentare le contraddizioni interatlantiche tra Bruxelles – fortemente penalizzata dalla polarizzazione dello scenario mondiale sia sul fronte economico che militare – e Washington e Londra – che invece se ne avvantaggiano.
La Nato sembra puntare ad un lungo conflitto nella speranza non che Kiev cacci definitivamente i russi dal proprio territorio – possibilità alquanto remota – ma che la continuazione dei combattimenti sfianchi a lungo andare la Russia causando una crisi che ridimensioni fortemente le aspirazioni geopolitiche di Mosca.
Parlando al “Consiglio per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani” Putin ha avvisato il popolo russo che la guerra in Ucraina sarà lunga e che sussiste il pericolo che si trasformi in un conflitto nucleare, anche se nessuna delle parti ammette di poter utilizzare per prima l’opzione atomica. Il presidente russo ha però vantato alcuni risultati positivi, come «l’acquisizione di nuovi territori» e il fatto che «il Mar d’Azov è diventato un mare interno della Russia».
Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ammesso che la guerra sarà lunga, insistendo sul fatto che sarà il campo di battaglia a decidere dove e quando si terranno eventuali colloqui di pace, escludendo quindi una trattativa con Mosca. Una trattativa che in realtà esiste già, per quanto dietro i riflettori, come dimostra il recente scambio tra un’atleta statunitense arrestata in Russia per traffico di stupefacenti e Viktor Bout, un ex ufficiale dell’aeronautica sovietica arrestato dagli Usa perché accusato di trafficare armi. A rivelare i contatti tra Russia e USA anche le reazioni infastidite e preoccupate di Kiev dei giorni scorsi; evidentemente gli ucraini temono un accordo tra le potenze nucleari che li bypassi.

Il Donbass sempre più martoriato
Paradossalmente, sia Putin che Stoltenberg hanno convenuto su un fatto che spesso l’informazione e la politica tendono a dimenticare: la guerra in corso non è iniziata il 24 febbraio scorso ma nel 2014, quando con il sostegno della Nato le correnti nazionaliste e scioviniste ucraine presero il potere a Kiev lanciando una “operazione militare speciale” contro le popolazioni russofone del Donbass che si opponevano al nuovo regime, a loro volta sostenute da Mosca che decise di annettersi la Crimea.
Il Donbass rimane il territorio più martoriato nei combattimenti, con le forze russe impegnate da settimane a tentare di strappare a Kiev la città di Bakhmut, strategica per l’eventuale conquista di centri come Kramatorsk, Slovjansk, Lyman e Izium.
Nelle ultime ore sembrerebbe che le forze di Mosca stiano avendo la meglio e stiano lentamente avanzando, dopo che negli ultimi due mesi non si sono registrati cambiamenti significativi della linea del fronte. Dal canto loro, le autorità dell’ormai ex Repubblica Popolare di Donetsk denunciano i più massicci bombardamenti dal 2014, che stanno riducendo le città in macerie e terrorizzando quella parte della popolazione che ha deciso di non evaquare in Russia. – Pagine Esteri

4268883* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Etiopia, Mentre il Tigray Si Calma Cresce il Conflitto in Oromia


Mentre un conflitto mortale in Etiopia inizia a placarsi, un altro sta crescendo, sfidando un governo desideroso di convincere la comunità internazionale a revocare le…

Mentre un conflitto mortale in Etiopia inizia a placarsi, un altro sta crescendo, sfidando un governo desideroso di convincere la comunità internazionale a revocare le sanzioni e rilanciare quella che una volta era una delle economie in più rapida crescita dell’Africa .

Anche se il primo ministro etiope Abiy Ahmed partecipa al vertice USA-Africa questa settimana per promuovere l’ accordo di pace del mese scorso tra il suo governo e le autorità della regione del Tigray, la regione più ampia dell’Oromia appare sempre più instabile.

Il secondo paese più popoloso dell’Africa, con 120 milioni di persone, è di nuovo alle prese con tensioni mortali tra i gruppi etnici ei loro alleati armati. Entrambi i gruppi etnici Oromo e Amhara, i più grandi del paese, denunciano omicidi e incolpano l’altro. Con le telecomunicazioni spesso interrotte e i residenti che spesso temono ritorsioni se parlano, il bilancio delle vittime della violenza in Oromia è sconosciuto.

Parlando con l’Associated Press in condizione di anonimato per timori per la loro incolumità, diversi residenti di Oromia hanno descritto attacchi mortali nelle ultime settimane.

Un testimone nel distretto di Kiramu della regione ha detto che suo padre e suo cugino erano tra le almeno 34 persone uccise dal 24 novembre. Ha incolpato i soldati sotto il controllo del governo regionale di Oromia, dicendo di aver visto le loro uniformi.

“Tutto è iniziato con uno scontro tra un’unica milizia locale e membri delle forze speciali di Oromia”


“Tutto è iniziato con uno scontro tra un’unica milizia locale e membri delle forze speciali di Oromia”, ha detto. “Le forze speciali hanno ucciso la milizia che era un membro della comunità Amhara, e poi è seguita un’uccisione di una settimana”. Ha stimato che da allora centinaia di persone siano fuggite dalla zona.

Un residente di etnia Oromo di Kiramu, tuttavia, ha accusato un gruppo armato Amhara noto come Fano di aver attaccato e ucciso civili e ha affermato di aver visto più di una dozzina di corpi e di averne seppelliti quattro il 29 novembre.

“Questo gruppo di miliziani sta uccidendo la nostra gente, bruciando villaggi e saccheggiando tutto ciò che possediamo”, ha detto ad AP Dhugassa Feyissa. “Sparano a chiunque trovino… che si tratti di dipendenti pubblici, agenti di polizia o insegnanti”.

L’Oromo e l’Amara hanno vissuto insieme per anni, ha detto, ma non avevano mai visto combattere in questo modo prima.

Anche il vice amministratore del distretto di Gidda Ayanna, anch’esso teatro di alcune delle peggiori violenze di Oromia nelle ultime settimane, ha accusato i combattenti di Amhara Fano.

“I civili nella nostra zona vengono uccisi, sfollati e saccheggiati.”


“I civili nella nostra zona vengono uccisi, sfollati e saccheggiati. Questo gruppo è pesantemente armato, quindi non può competere con gli agricoltori che sono indifesi”, ha detto Getahun Tolera, osservando che il suo distretto ora ospita circa 31.000 persone che sono fuggite dai distretti vicini. “Stiamo ancora andando di casa in casa e scoprendo corpi”.

I funzionari del governo federale etiope si sono rifiutati di commentare le uccisioni in Oromia e non ne hanno ancora parlato apertamente. Il primo ministro la scorsa settimana ha detto solo che alcuni “nemici con visioni estreme” stavano cercando di destabilizzare il Paese, senza fornire dettagli.

Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti Oromo e la milizia Amhara si stanno combattendo a vicenda in Oromia, la più grande regione dell’Etiopia, ha affermato William Davison, analista dell’International Crisis Group.

Nel mezzo di un’intensificazione della lotta del governo contro i ribelli, tutti e tre hanno preso di mira i civili, in particolare l’etnia Amhara, il che ha portato a un aumento della violenza da parte delle milizie Amhara che affermano di difendere le loro comunità”, ha affermato.

Mentre le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo, che il governo ha definito un gruppo terroristico, anche i residenti di Oromo e Amhara ed i loro alleati armati si combattono a vicenda per rimostranze vecchie e nuove.

I coloni Amhara si trasferirono per la prima volta in massa in Oromia negli anni ’80 durante una carestia nel nord dell’Etiopia. Hanno vissuto pacificamente lì fino agli ultimi tre anni. L’OLA – Oromo Liberation Army si è separato da un’organizzazione politica Oromo e, secondo quanto riferito, ha iniziato a prendere di mira Amhara, a volte come vendetta per le sue perdite alle forze governative. Secondo quanto riferito, la milizia Amhara ha iniziato a prendere di mira Oromos e le forze di sicurezza regionali sono state coinvolte.

Gli oromo sono il gruppo etnico più numeroso dell’Etiopia, seguiti dagli amhara, che hanno dominato la politica del paese per generazioni. Molti Oromo erano esultanti quando Abiy, che si identifica come Oromo, è diventato primo ministro nel 2018. Ma quell’eccitazione si è trasformata in frustrazione per la crescente violenza.

Nei giorni scorsi in alcune comunità si sono svolte manifestazioni di protesta contro le uccisioni.


Nei giorni scorsi in alcune comunità si sono svolte manifestazioni di protesta contro le uccisioni. La scorsa settimana, la Commissione etiope per i diritti umani nominata dal governo ha affermato che “centinaia” di persone sono state uccise in “modo raccapricciante” negli ultimi quattro mesi in 10 zone della regione di Oromia, e ha confermato la presenza delle forze governative, della milizia Amhara e l’OLA nelle aree in cui si verificano ripetuti omicidi.

“Gli attacchi deliberati contro i civili in queste aree sono effettuati sulla base dell’etnia e delle opinioni politiche… con l’affermazione che uno sostiene un gruppo rispetto all’altro”, ha detto la commissione, esortando il governo federale ad agire con urgenza.

Anche i partiti di opposizione stanno parlando. Il Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope, il Partito dell’Unità di tutta l’Etiopia e il Partito Enat hanno chiesto maggiore sicurezza per le comunità colpite, e un alto funzionario etiope del Movimento nazionale di opposizione di Amhara ha chiesto al governo federale di intervenire.

“La totalità di noi è diventata un paese che non mostra una forte avversione per un continuo spargimento di sangue di innocenti, ovunque possa accadere”, ha detto Belete Molla in un post su Facebook all’inizio di questo mese.

Un’altra figura politica di spicco, il politico dell’opposizione oromo Jawar Mohammed, all’inizio di questo mese ha affermato che almeno 350 persone sono state uccise e oltre 400.000 sfollati “solo nelle ultime 48 ore” nelle aree di Kiramu, Horo Guduru, Kuyu e Wara Jarso di Oromia.

“Il governo deve smetterla di fingere che non stia succedendo nulla”, ha detto Jawar in un post su Facebook. “Il conflitto sta rapidamente diventando una guerra comunitaria che coinvolge i civili. Se non contenuto presto, probabilmente si diffonderà in altre parti dei due stati regionali e oltre”.


FONTE: apnews.com/article/politics-af…


tommasin.org/blog/2022-12-16/e…





EGITTO-TURCHIA. El Sisi rinuncia alla pace con Erdogan. La sua priorità è il gas


Con un decreto firmato questa settimana, el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. L'Egitto ora punta forte allo sfruttamento e all'esportazione del suo gas. L'articolo EGITTO-TURCHIA. El Sisi rin

della redazione

Pagine Esteri, 15 dicembre 2022 – Resta, almeno per ora, un gesto simbolico senza effetti concreti la stretta di mano che il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi e il leader turco Recep Tayyip Erdogan si sono dati il mese scorso davanti all’emiro Tamim bin Hamad al Thani del Qatar, lasciando presagire una normalizzazione delle relazioni tra Egitto e Turchia. Questa settimana, con l’obiettivo di replicare al memorandum d’intesa tra Tripoli e Ankara nel Mediterraneo, el Sisi a sorpresa ha firmato un decreto che definisce i confini occidentali della Zona economica esclusiva (Zee) dell’Egitto. Il decreto firmato da el Sisi taglia a metà le Zee di Libia e Turchia, così come previste con il memorandum turco-libico. Si attende ora la risposta turca.

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La mossa unilaterale di el Sisi frena il riavvicinamento con la Turchia in atto da circa un anno. I due paesi sono avversari irriducibili dal giorno del colpo di stato che nel 2013 portò al potere el Sisi e alla rimozione dei Fratelli musulmani alleati di Erdogan. Ma lo sono anche per motivi strategici ed economici poiché hanno forti interessi nello sfruttamento delle ingenti riserve di gas sottomarino nel Mediterraneo orientale.

Il Cairo ha voluto delimitare nel Mediterraneo ciò che ritiene debba essere sotto il suo controllo e rappresenti un interesse nazionale egiziano. Le entrate miliardarie che lascia intravedere nei prossimi anni lo sfruttamento del gas sottomarino di cui anche l’Egitto è ricco – all’enorme giacimento Zohr si è aggiunta la scoperta di recente di quello di Narges IX, di fronte alla città di El Arish (Sinai) -, hanno spinto el Sisi a rompere gli indugi e a inserirsi con prepotenza nel contesto energetico emerso dalla guerra tra Russia e Ucraina e dalle sanzioni occidentali all’energia di Mosca.

A contrapporsi nella regione sono in particolare gli interessi della Turchia e dei Paesi del forum del gas nel Mediterraneo orientale (Emgf: Francia, Cipro, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Autorità nazionale palestinese). Le parti si combattono a suon di definizione delle rispettive acque territoriali e delle Zone economiche esclusive. Adesso è stato il turno dell’Egitto. Allo stesso tempo il Cairo prova ad ostacolare l’EastMed (1), il gasdotto che dovrebbe convogliare il gas di Israele e Cipro verso Italia e Grecia. Meno gas passerà per l’EastMed e più ricaverà l’Egitto con l’esportazione del suo gas liquido prodotto negli impianti di Damietta e Idku (disponibile anche per il passaggio del gas israeliano e cipriota). L’Egitto inoltre sogna di esportare verso l’Europa elettricità prodotta nel suo territorio.

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Un eventuale ridimensionamento del progetto dell’EastMed non dispiace neppure ad Ankara che punta a diventare un hub energetico con gas russo, azero e anche Gnl. La Turchia infatti ha la maggior capacità di rigassificazione della regione. Pagine Esteri

NOTE

1) Il gasdotto del Mediterraneo orientale o semplicemente EastMed è un gasdotto pianificato offshore/onshore per collegare direttamente le risorse energetiche del Mediterraneo orientale alla Grecia continentale attraverso Cipro e Creta. Ancora in fase di progettazione, trasporterà il gas naturale dalle riserve di gas off-shore nel Bacino Levantino in Grecia e, insieme ai gasdotti Poseidon e IGB, in Italia e in altre regioni europee. Avrà una lunghezza di circa 1.900 km, raggiungerà una profondità di tre chilometri e avrà una capacità di 10 miliardi di metri cubi all’anno.

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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – La società futura sarà la società d’oggi…


La società futura sarà la società d’oggi, perfezionata, […] mossa sempre più da sentimenti elevati e spirituali da Corriere della Sera, 8 novembre 1921 L'articolo #uncaffèconluigieinaudi ☕ – La società futura sarà la società d’oggi… proviene da Fondazion
La società futura sarà la società d’oggi, perfezionata, […] mossa sempre più da sentimenti elevati e spirituali


da Corriere della Sera, 8 novembre 1921

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



PD: ‘filosofie’ da cercare, ticket da dimenticare


Lo dico con tutta la cautela del caso, lo dico con le dita strettamente incrociate, lo dico con l’ironico distacco di chi sa che la dice grossa, ma l’impressione mia è che, per una volta, qualcuno nel PD agisce chiaramente. Non senza qualche sorpresa, per carità sempre di PD si parla, ma schiettamente sì: alludo […]

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L’ultimo vertice Ue dell’anno, il primo per Giorgia Meloni, tra dossier critici, un fondo per la sovranità europea e lo scandalo Qatargate.


Strategia 000.000 Covid1 milione di decessi in Cina per il Coronavirus. Questo è lo scenario pessimistico previsto nei prossimi mesi dal Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie di fronte allo smantellamento in corso della strat…


Papa Francesco come mediatore di pace: il Vaticano può porre fine alla guerra ucraina?


Alla fine del 2022, la guerra russo-ucraina è entrata in uno stato di stallo in cui nessuna delle due parti può compiere progressi significativi nel prossimo futuro. In termini sportivi, è un pareggio che rimarrà indeciso per molto tempo perché nessuna delle due parti ha una soluzione per una vittoria veloce. Sebbene durante l’ultima tarda […]

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Perché l’Islam (diviso) corteggia il nazionalismo indù


La rivalità del soft power religioso musulmano, una battaglia per l’anima dell’Islam, è appena diventata più calda. L’ultimo campo di battaglia della rivalità non è La Mecca, Medina, Il Cairo, Teheran o Istanbul. È la Delhi nazionalista indù. Questo perché, per il prossimo anno, l’India presiede il Gruppo delle 20 maggiori economie del mondo. La […]

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Costruzione dei dispositivi di IA: quali costi sociali?


Il costo sociale nella costruzione dei sistemi di Intelligenza Artificiale è alto. Ancora oggi, la produzione di questi sistemi è alimentata da lavoratori spesso sfruttati e sottopagati in tutto il mondo, che svolgono compiti ripetitivi in condizioni di l

Partendo dalla visione che il mondo delle Big Tech ci propone dell’intelligenza artificiale (IA) come dello strumento che darà un nuovo volto all’umanità, è necessaria una riflessione su come effettivamente l’IA impatti la vita dell’uomo. Come vedremo più avanti, analisi e reportage hanno svelato la matrice invisibile del lavoro umano e dell’impatto ambientale che si nascondono dietro costruzione...

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UE-Balcani occidentali: fine dell’era del ‘corteggiamento’ dell’Occidente


Il 6 dicembre è stato organizzato a Tirana il vertice Unione europea (UE) – Paesi dei Balcani occidentali. È stata l’occasione per discutere la risoluzione congiunta delle questioni emerse a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, l’intensificazione del dialogo politico e della politica di allargamento, nonché il rafforzamento della sicurezza e la costruzione della resilienza alle interferenze […]

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#NotiziePerLaScuola

“Mettiamoci alla prova”, lo strumento Invalsi per i docenti: su INVALSIopen sono disponibili alcuni esempi di domande interattive delle Prove di Italiano, Matematica e Inglese.

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Iran: divisioni politiche, la più grande minaccia per il regime


Il regime iraniano sta incontrando diversi segnali di allarme a livello nazionale che potrebbero mettere in pericolo la sua presa sul potere se non risolti o affrontati adeguatamente. Prima di tutto, è importante sottolineare che il regime iraniano è tradizionalmente un’istituzione monolitica, in cui i vari partiti e figure politiche sono uniti con una sola […]

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La deterrenza attraverso lo Stretto di Taiwan richiede un tocco diplomatico


Pochi osservatori delle relazioni USA-Taiwan avrebbero previsto gli eventi epocali che si sono verificati nel 2022. C’è stata la visita a sorpresa della presidente della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi, l’ impegno del Presidente Joe Biden a difendere Taiwan con le forze militari statunitensi in caso di attacco cinese e un forte sostegno al Taiwan Policy […]

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Ucraina: la fallimentare invasione di Vladimir Putin sta alimentando l’ascesa dell’estrema destra russa


Una nuova e significativa forza politica sta emergendo all’ombra dell’invasione russa dell’Ucraina. Mentre Vladimir Putin ha coltivato a lungo un marchio aggressivo di nazionalismo russo basato sull’identità imperiale, le sconfitte sul campo di battaglia in Ucraina stanno avendo un effetto radicalizzante sull’opinione pubblica interno e ponendo l’estrema destra al centro del mutevole panorama politico della […]

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E se gli Stati Uniti e la Cina collaborassero davvero sul cambiamento climatico?


Quando il Presidente Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping sono arrivati ​​sull’isola turistica di Bali, in Indonesia, per il loro ‘vertice’ del 14 novembre, le relazioni tra i loro due Paesi erano in una spirale discendente da far rizzare i capelli, con le tensioni su Taiwan vicine al punto di ebollizione. I diplomatici […]

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Come appartenere alla Ue? Identità, diversità e la sfida di parlare con una voce sola


Le questioni di identità all’interno dell’Europa sono state a lungo discusse. Uno studio condotto dal German Marshall Fund (Gmf) cita i risultati dell’Eurobarometro su due domande poste a tutti i Paesi dell’Ue che danno un’idea del motivo per cui i Paesi

Le questioni di identità all’interno dell’Europa sono state a lungo discusse. Uno studio condotto dal German Marshall Fund (Gmf) cita i risultati dell’Eurobarometro su due domande poste a tutti i Paesi dell’Ue che danno un’idea del motivo per cui i Paesi europei possono o meno voler entrate nell’Ue. I cittadini si identificano in primis come cittadini del proprio Paese o in egual misura come europei? Inoltre, preferirebbero che più decisioni venissero preso a livello dell’Ue? I risultati sono un po’ sorprendenti. I cittadini che si identificano principalmente come cittadini del proprio Paese sono anche i più desiderosi che le decisioni vengano prese a livello centrale nell’Ue. E viceversa: coloro che si sentono tanto europei quanto cittadini del proprio Paese sono anche i meno desiderosi che l’Ue faccia di più.

Questo dato è un po’ controintuitivo, in quanto si potrebbe supporre che la volontà dei cittadini di avere più potere decisionale nell’Ue vada di pari passo con un’identità europea più sviluppata. Questo ci dice, come minimo, che non tutti i Paesi vedono il ruolo dell’Ue allo stesso modo e che non hanno avuto le stesse ragioni per aderire all’Ue e al suo predecessore, la Comunità economica europea.

I Paesi, soprattutto del Nord Europa, che si affidano maggiormente al commercio come importante motore del loro modello economico, sono stati molto propensi a creare un mercato unico. Infatti le regole comuni e l’assenza di frontiere avrebbero incoraggiato un commercio fluido tra le nazioni. Con l’ingresso di altri Paesi nell’Unione, il mercato unico si è ampliato e così anche il raggio d’azione delle grandi nazioni commerciali. Allo stesso tempo, in quanto grande area commerciale, l’Ue si trova in una posizione migliore per negoziare accordi commerciali al di là dei suoi confini con il resto del mondo a nome di tutti i Paesi.

Il passo successivo all’integrazione commerciale è stata l’eliminazione dell’incertezza dei tassi di cambio. La volatilità delle valute nazionali interferiva con il valore di beni e servizi e impediva un commercio senza interruzioni. La creazione di una moneta unica per tutti i Paesi appartenenti al mercato unico avrebbe eliminato la volatilità delle valute. Tuttavia, anziché i grandi Paesi commerciali, fu un altro gruppo di Paesi, quelli con un’inflazione elevata, a voler adottare una moneta unica. Il motivo era quello di “importare” la stabilità dei prezzi dal Nord caratterizzato da una bassa inflazione. La formula della “moneta unica e stabile” era quindi molto più attraente per i Paesi con un’inflazione elevata che per quelli che facevano grande affidamento sul commercio.

Ma al di là delle diverse motivazioni economiche che hanno spinto i Paesi ad aderire all’Ue, la prospettiva di integrarsi in Europa ha fornito una piattaforma di modernizzazione. Per molti, in particolare per i Paesi più piccoli e mal governati, la prospettiva di entrare a far parte di un’unione economica è stata anche una spinta a modernizzare le proprie istituzioni. La cooperazione economica in un quadro comune è un modo per migliorare le strutture di governance. Esistono diverse interpretazioni del significato di «appartenenza all’Europa». Per alcuni Paesi, in particolare per quelli piccoli al confine orientale dell’Ue, dalla Finlandia fino a Cipro, la questione della difesa è molto più rilevante che per quelli della parte occidentale dell’Ue che si affacciano sull’Atlantico.

Quanto più stretta è l’integrazione con l’Ue, tanto maggiore è il senso di questa sicurezza, anche se non è supportata da esplicite disposizioni in materia di sicurezza. Il rapporto dei Paesi scandinavi, un gruppo di economie e società relativamente simili, con l’Ue dimostra questo legame tra una maggiore integrazione e lo sviluppo di un maggiore senso di sicurezza. All’estremità orientale della Scandinavia, la Finlandia è membro dell’Ue e della zona euro. Spostandosi verso ovest, Svezia e Danimarca sono membri dell’Ue, ma non della zona euro e, fino a poco tempo fa, la Danimarca aveva anche un opt-out per la difesa. Più a ovest si trovano Norvegia e Islanda, che non sono membri dell’Ue, ma con essa hanno stretti legami economici e sociali.

Partendo dalla parte orientale della Scandinavia e spostandosi verso ovest, la minaccia alla sicurezza da parte di vicini aggressivi si riduce, così come il grado di integrazione nell’Ue. Infine, oltre alla cooperazione economica, alla governance e alla sicurezza, c’è la questione dei valori. Si tratta di accedere e di adottare un sistema di valori al di là di un quadro giuridico, ed è particolarmente visibile nei Paesi con lo status di candidato.

La concessione dello status di candidato all’Ucraina è stata una grande vittoria per il Paese rispetto all’aggressione russa. L’Ucraina ha avuto accesso al sistema di valori necessario per formare alleanze profonde, e avere alleati forti e pieni di risorse è esattamente ciò di cui un Paese ha bisogno quando la sua sicurezza è compromessa. Questo non è un tentativo esaustivo di discutere cosa significhi l’Ue per ogni Paese, che sia membro attuale o futuro. La direzione in cui l’Ue si evolverà in futuro dipenderà dalla ricerca di un minimo comune denominatore. Tutti concordano sul fatto che il potere dell’Ue dipende dalla capacità di parlare con una sola voce. Non tutti sono d’accordo su quale debba essere questa voce.

Il Sole 24 Ore

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Meteosat, nuovi satelliti meteo a caccia di tempeste


Nel giorno di Santa Lucia, che le chiese cattolica e ortodossa per tradizione invocano come protettrice della vista, un Ariane 5 ha portato con successo nello spazio il satellite meteorologico MTG-I1, dalla base di Kourou, situata nella Guyana francese. La data è un caso, ma possiamo esser certi che il satellite avrà un occhio attento […]

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Pardon Assange: 45 MEPs, Stella Assange & journalist federations sign open letter to US President Biden


Today, four Pirate Party Members of the European Parliament (Greens/EFA) and Stella Assange address US President Joe Biden in an open letter co-signed by 41 EU lawmakers, … https://european-pirateparty.eu/wp-content/uploads/2022/12/Letter-to-the-Presiden

Today, four Pirate Party Members of the European Parliament (Greens/EFA) and Stella Assange address US President Joe Biden in an open letter co-signed by 41 EU lawmakers, NGOs, the International Federation of Journalists (IFJ) and many more, asking him to pardon Julian Assange. WikiLeaks co-founder Assange is currently imprisoned in the United Kingdom and waiting for extradition to the United States to stand trial on charges of espionage and computer misuse.

For over a decade, Julian Assange and WikiLeaks have been at the forefront of investigative journalism, publishing information that has revealed significant abuses of power and corruption at the highest levels of powerful institutions. The charges against him raise serious concerns about the extent to which a democratic government can criminalize the publication of truthful information.

This week, Julian Assange’s wife Stella represents her husband, a nominee for the Sakharov Prize 2022 for Freedom of Thought, at the European Parliament in Strasbourg. Together with her and all undersigned, the European Pirates respectfully call on US President Joe Biden to pardon Julian Assange.

Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the German Pirate Party, comments:

“The detention and prosecution of Assange set an extremely dangerous precedent for all journalists, media actors, and freedom of the press. No journalist should be prosecuted for publishing ‘state secrets’ of public interest because this is their job. The public has a right to know about state crimes committed by those in power, to be able to stop them and bring them to justice. Julian Assange has changed the world we live in for the better, bringing in an era where injustice can no longer be swept under the carpet.”

Marcel Kolaja, Member and Quaestor of the European Parliament for the Czech Pirate Party, comments:

“Julian Assange revealed information of significant importance to the public while performing the work of an investigative journalist. His imprisonment is in direct contradiction with American core values, such as freedom of speech and freedom of the press. His persecution for publishing the truth must stop.”

Markéta Gregorová, Member of the European Parliament for the Czech Pirate Party, comments:

“Assange should not be the model case for how whistleblowers are treated. On the contrary, we should protect him, so they are not afraid to keep publishing truthful information in the public interest. Without Julian Assange, we would have never found out about cases like the war crimes of the American soldiers against civilians in Iraq. Therefore, I believe he deserves a full presidential pardon with the immediate release from prison.”

Mikuláš Peksa, MEP and Chairperson of the European Pirate Party, comments:

I spoke with Stella Assange about the great importance of defending freedom of expression and about the right to seek and share the truth. As a Member of the European Parliament and the Pirate Party, I stand with Stella and Julian in their fight for justice. I am fundamentally against the persecution of whistleblowers and journalists. We cannot let governments silence the ones, who are exposing their wrongdoings.”


patrick-breyer.de/en/pardon-as…

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