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BRASILE. La simbologia dell’insediamento di Lula celebra l’unione e la diversità
di Glória Paiva –
Pagine Esteri, 3 gennaio 2023 – Il 1° gennaio, a Brasilia, Luiz Inacio Lula da Silva ha prestato giuramento come nuovo presidente del Brasile insieme al suo vice Geraldo Alckmin, iniziando il suo terzo mandato come protagonista del più grande evento di passaggio di potere nella storia del paese. La giornata è stata segnata da una grande festa popolare, da immagini molto emblematiche e dalla trasformazione di alcuni riti e protocolli.
Di primo mattino, gli addetti alle pulizie sono stati visti gettare sale grosso (utilizzato per “ripulire il malocchio” secondo la superstizione popolare) sulla rampa del Palazzo del Planalto. Prima delle 10, la piazza Três Poderes è diventata rapidamente affollata, con 40.000 persone all’interno e altre migliaia all’esterno, che guardavano tutto su grandi schermi. Per alleviare il caldo dei 27 gradi, i vigili del fuoco hanno schizzato acqua sulla folla colorata di rosso, il colore del Partito dei Lavoratori.
Nella tradizionale sfilata in auto scoperta, la Rolls Royce presidenziale, Lula e la first lady, Rosangela da Silva (detta “Janja”) hanno incluso, per la prima volta, il vicepresidente e sua moglie, Lu Alckmin, in linea con la sua campagna elettorale e il cosiddetto “fronte unico” per la democrazia. Lula ha anche pianto in diverse occasioni, ha fatto un cuoricino con le mani per la folla e ha persino interrotto la firma del suo mandato per onorare lo Stato del Piauí, raccontando un aneddoto sulla penna che gli è stata data da uno dei suoi sostenitori nella campagna presidenziale del 1989.
C’è stato anche un evento musicale intitolato “Festival del Futuro”, con 60 musicisti che si sono esibiti volontariamente per 17 ore di fila, celebrando i nuovi nomi della musica brasiliana e cantando anche canzoni storiche della lotta contro la dittatura militare.
Persino la tradizionale salita del presidente e del vice sulla rampa del Palazzo del Planalto ha avuto una componente originale: la cagnolina di nome Resistência, salvata dalle strade di Curitiba da Janja quando Lula era detenuto, nel 2018. Resistência ha fatto la passeggiata scodinzolando accanto all’entourage di Lula pochi istanti prima del passaggio della fascia presidenziale.
La popolazione rappresentata nella consegna della fascia
La partenza di Bolsonaro a Miami, il 30 dicembre, e la sua riluttanza ad ammettere la vittoria di Lula hanno inconsapevolmente propiziato l’immagine straordinaria che si è prodotta nel passaggio della fascia presidenziale. Nel rito, istituito nel 1910, il presidente eletto riceve l’ornamento dal suo predecessore. Prima di Bolsonaro, solo João Figueiredo si era rifiutato di consegnare la fascia al suo successore, nel 1985. Fino all’ultimo minuto, la squadra di Lula ha mantenuto il segreto su chi avrebbe consegnato la fascia.
Quando è arrivato il momento, otto persone si sono presentate al Planalto: un bambino nero di 10 anni, il capo indigena del popolo Kayapó, un metallurgico, un insegnante, una cuoca, un influencer con paralisi cerebrale, un artigiano e, infine, una raccoglitrice di rifiuti, Aline Sousa. Nera e madre di sette figli, Aline rappresenta uno dei più grandi segmenti della popolazione del Brasile, eppure, uno dei più vulnerabili. La fascia è stata passata di mano in mano fino a raggiungere Aline, che l’ha messa sul petto di Lula.
La scena ha suscitato grande commozione: politici e partecipanti presenti all’atto sono stati fotografati con le lacrime agli occhi, di fronte a quella che sembrava essere una riparazione simbolica per gli ultimi quattro anni, in cui le fasce più fragili della società brasiliana sono state escluse dalle priorità del governo federale.
Sebbene il rito di consegna della fascia non sia obbligatorio, è un’immagine importante per i valori che trasmette: l’alternanza pacifica del potere. Non è stata una sorpresa, quindi, che Bolsonaro e il suo vice, il generale dell’esercito Hamilton Mourão, si siano rifiutati di farlo, segnalando che il bolsonarismo non accetta così pacificamente questa alternanza.
Ciò che resta del bolsonarismo
Secondo gli esperti, il bolsonarismo, ideologia che ormai trascende la figura di Bolsonaro, sarà una delle grandi sfide del governo Lula, che trova un Senato e una Camera dei Deputati con grandi gruppi bolsonaristi tra i suoi membri.
Nei tre discorsi pronunciati durante la cerimonia di insediamento – al Congresso, al Palazzo del Planalto e al Festival del Futuro –, Lula ha promesso di governare “per tutti”, privilegiando l’unità, nonostante abbia detto anche che la Giustizia riterrà responsabili coloro che incitano atti antidemocratici e gli autori del cosiddetto “genocidio” conseguente alle politiche pubbliche durante la pandemia di covid-19. Nei suoi discorsi, Lula ha parlato della necessità di “ricostruire il paese sulle terribili rovine” lasciate dalla precedente amministrazione, insistendo sul suo impegno per il contrasto alle disuguaglianze e per la tutela dell’ambiente. Ha reiteratamente rafforzato l’idea di “democrazia per sempre” e ha fatto appello ai bolsonaristi, chiedendo “la fine dell’odio e delle fake news”.
La violenza dei gruppi estremisti è stata addirittura uno dei fattori di preoccupazione per il cerimoniale di Lula. Un tentativo di attacco terroristico il 24/12 ha portato a un rafforzamento della sicurezza nell’evento. Nell’occasione, il bolsonarista George Washington de Oliveira Sousa ha confessato di aver installato un esplosivo in un camion vicino all’aeroporto di Brasilia. Sousa avrebbe agito in collusione con altri manifestanti accampati nei pressi del quartier generale dell’esercito nella capitale federale. Secondo la Polizia Civile, il gruppo ha persino attivato l’ordigno, che fortunatamente non è esploso.
Ricostruzione democratica
Le proteste portate avanti dai manifestanti bolsonaristi sono state giustamente chiamati atti antidemocratici, per aver insistito su un intervento delle Forze Armate e per aver promosso vandalismo e violenza. Accampati da novembre davanti alle caserme dell’esercito in alcune capitali brasiliane, i gruppi sono diminuiti da quando Bolsonaro ha lasciato il Brasile.
Nel governo precedente, le fondamenta democratiche del Brasile sono state messe in discussione da una gestione caratterizzata dall’assenza di un progetto sociale, da disinformazione, discorsi di odio, accenni al militarismo, al negazionismo scientifico e all’intolleranza religiosa e politica. Tutto ciò, anziché combattere la polarizzazione della società, l’ha solo approfondita.
Nonostante questi ostacoli, la democrazia brasiliana ha dimostrato la sua resistenza. Il sistema di voto elettronico, tanto attaccato nella precedente amministrazione, ha dimostrato la sua sicurezza ed efficacia; i poteri legislativi hanno mantenuto il rispetto della Costituzione; la Giustizia Elettorale ha compiuto notevoli sforzi per la lotta alle fake news e per la difesa dei risultati delle urne. Le Forze Armate non si sono piegate alle richieste di intervento dei movimenti bolsonaristi. Durante l’insediamento di Lula, il battaglione della guardia presidenziale si è schierato in fila davanti al passaggio del presidente, sulla rampa del Palazzo del Planalto, come prevede il rito istituito dopo la Dittatura, nel 1988, che simboleggia la sottomissione delle Forze Armate al potere civile.
Lula, la cui maggioranza dei voti è stata espressa da donne, poveri e dalla popolazione del Nordest, ha ribadito più volte, nei suoi discorsi di giorno 1º, che la democrazia è stata la grande vincitrice di queste elezioni. Con una festa di inaugurazione colorata, allegra, piena di lacrime e di musica, con persone provenienti da tutto il paese, dalle famiglie tradizionali alla comunità LGBTQI+, con popoli indigeni, neri e bianchi, la festa di inaugurazione è stata un chiaro segno che la democrazia brasiliana, soffocata negli ultimi anni, desidera respirare un’aria di più rispetto, diversità e inclusione. Pagine Esteri.
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Virman Cusenza – Giocatori d’azzardo
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GERUSALEMME. L’ombra di Ben Gvir sulla Spianata delle moschee
di Michele Giorgio
(nella foto Itamar Ben Gvir con, a destra, il suo alleato il ministro delle finanze Bezalel Smotrich)
Pagine Esteri, 3 gennaio 2023 – «Itamar Ben Gvir non deve salire al Monte del Tempio (la Spianata delle moschee, ndr)…È una provocazione deliberata che costerà vite umane». Ad affermarlo ieri non è stato un esponente politico palestinese ma Yair Lapid, capo dell’opposizione israeliana e premier fino alla scorsa settimana. Una ulteriore conferma che la «visita» che Ben Gvir, non più un semplice deputato ma ora ministro della Pubblica sicurezza, alla Spianata delle moschee rischia di innescare proteste e scontri violenti a Gerusalemme. Ieri pomeriggio il primo ministro Benyamin Netanyahu si è incontrato con Ben Gvir. Sarebbe riuscito, secondo alcune fonti, a convincerlo a rinviare la visita. Ma la notizia non era fondata. Il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit questa mattina ha “passeggiato” sulla Spianata, incurante delle proteste palestinesi. Il
Le «visite» di rappresentanti della destra religiosa israeliana non sono nuove al sito considerato il terzo luogo santo dell’Islam dopo Mecca e Medina. La «passeggiata» che lo scomparso capo della destra e primo ministro Ariel Sharon fece nel settembre del 2000 sulla Spianata, in una fase di intenso scontro politico e diplomatico tra israeliani e palestinesi, accese la miccia della seconda Intifada contro l’occupazione. Delicato è anche questo momento in cui l’ascesa al potere in Israele dell’estrema destra religiosa genera tensioni e preoccupazioni, anche all’interno dello Stato ebraico. Ben Gvir è un accanito sostenitore del cambiamento dello status quo sulla Spianata in vigore dal 1967 e riconfermato dal trattato di pace del 1994 tra Israele e Giordania. Gli ebrei già pregano al loro sito più sacro, il Muro del Pianto – i musulmani sulla Spianata e i cristiani al Santo Sepolcro – ma l’estrema destra e i movimenti messianici vogliono imporre lo svolgimento di riti ebraici e la spartizione del sito islamico. Una questione che non riguarda solo i palestinesi. Mercoledì scorso re Abdullah di Giordania, custode dei luoghi santi islamici e cristiani, ha ammonito il governo Netanyahu a «non superare linee rosse» a Gerusalemme. Il movimento islamico Hamas ieri ha lanciato l’allerta e facendo capire di essere pronto a una nuova guerra con Israele: «Chiamiamo la nostra gente a difendere la moschea di Al Aqsa», ha esortato il portavoce Harun Nasser al Din. Una reazione è giunta anche dall’Autorità nazionale palestinese. «La minaccia di Ben Gvir di assalire Al-Aqsa come ministro della sicurezza – ha scritto su Twitter Hussein al Sheikh – è il culmine di una sfida palese e spudorata che richiede una risposta palestinese, araba e internazionale».
Il nuovo governo israeliano segnala che non terrà conto più di tanto delle posizioni internazionali. È stata minima infatti la reazione del governo Netanyahu alla decisione dell’Assemblea generale dell’Onu che ha approvato una risoluzione – 87 voti favorevoli, 53 astenuti e 26 contrari (tra i quali l’Italia) – che chiede alla Corte internazionale di giustizia (Cig) di esprimere un parere consultivo sulle conseguenze legali dell’occupazione israeliana, sugli insediamenti coloniali, le misure volte ad alterare la composizione demografica nei Territori occupati, il carattere e lo status di Gerusalemme. Il ministro del turismo israeliano Haim Katz ha commentato il voto a suo modo annunciando investimenti «in Giudea e Samaria, la nostra Toscana» usando termini ebraici per indicare la Cisgiordania. Nel 2004 i giudici internazionali stabilirono che il Muro costruito da Israele in Cisgiordania era illegale.
Proseguono anche nel 2023 le incursioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati. Ieri due palestinesi, Mohammad Houshieh e Fouad Abed, sono stati uccisi durante scontri a Kafr Dan (Jenin) scoppiati mentre i militari demolivano le case dei due palestinesi che lo scorso settembre spararono contro un posto di blocco uccidendo un militare. È di quattro morti invece il bilancio di un bombardamento israeliano sull’aeroporto internazionale di Damasco messo «fuori servizio» per alcune ore. Pagine Esteri
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La scuola del merito e delle classi dominanti - Cumpanis
«Al centro della scuola del ministro, non ci sono i ragazzi con i loro reali bisogni formativi ma solo la volontà di fornire alle imprese un serbatoio di robot, precari e senza diritti, che si umiliano (“l’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita”) ed eseguono perfettamente tutti i compiti assegnati loro dal padrone di turno.»
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GERUSALEMME. L’ombra di Ben Gvir sulla Spianata delle moschee
di Michele Giorgio
(nella foto Itamar Ben Gvir con, a destra, il suo alleato il ministro delle finanze Bezalel Smotrich)
Pagine Esteri, 3 gennaio 2023 – «Itamar Ben Gvir non deve salire al Monte del Tempio (la Spianata delle moschee, ndr)…È una provocazione deliberata che costerà vite umane». Ad affermarlo ieri non è stato un esponente politico palestinese ma Yair Lapid, capo dell’opposizione israeliana e premier fino alla scorsa settimana. Una ulteriore conferma che la «visita» che Ben Gvir, non più un semplice deputato ma ora ministro della Pubblica sicurezza, alla Spianata delle moschee rischia di innescare proteste e scontri violenti a Gerusalemme. Ieri pomeriggio il primo ministro Benyamin Netanyahu si è incontrato con Ben Gvir. Sarebbe riuscito, secondo alcune fonti, a convincerlo a rinviare la visita. Ma la notizia non era fondata. Il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit questa mattina ha “passeggiato” sulla Spianata, incurante delle proteste palestinesi. Il
Le «visite» di rappresentanti della destra religiosa israeliana non sono nuove al sito considerato il terzo luogo santo dell’Islam dopo Mecca e Medina. La «passeggiata» che lo scomparso capo della destra e primo ministro Ariel Sharon fece nel settembre del 2000 sulla Spianata, in una fase di intenso scontro politico e diplomatico tra israeliani e palestinesi, accese la miccia della seconda Intifada contro l’occupazione. Delicato è anche questo momento in cui l’ascesa al potere in Israele dell’estrema destra religiosa genera tensioni e preoccupazioni, anche all’interno dello Stato ebraico. Ben Gvir è un accanito sostenitore del cambiamento dello status quo sulla Spianata in vigore dal 1967 e riconfermato dal trattato di pace del 1994 tra Israele e Giordania. Gli ebrei già pregano al loro sito più sacro, il Muro del Pianto – i musulmani sulla Spianata e i cristiani al Santo Sepolcro – ma l’estrema destra e i movimenti messianici vogliono imporre lo svolgimento di riti ebraici e la spartizione del sito islamico. Una questione che non riguarda solo i palestinesi. Mercoledì scorso re Abdullah di Giordania, custode dei luoghi santi islamici e cristiani, ha ammonito il governo Netanyahu a «non superare linee rosse» a Gerusalemme. Il movimento islamico Hamas ieri ha lanciato l’allerta e facendo capire di essere pronto a una nuova guerra con Israele: «Chiamiamo la nostra gente a difendere la moschea di Al Aqsa», ha esortato il portavoce Harun Nasser al Din. Una reazione è giunta anche dall’Autorità nazionale palestinese. «La minaccia di Ben Gvir di assalire Al-Aqsa come ministro della sicurezza – ha scritto su Twitter Hussein al Sheikh – è il culmine di una sfida palese e spudorata che richiede una risposta palestinese, araba e internazionale».
Il nuovo governo israeliano segnala che non terrà conto più di tanto delle posizioni internazionali. È stata minima infatti la reazione del governo Netanyahu alla decisione dell’Assemblea generale dell’Onu che ha approvato una risoluzione – 87 voti favorevoli, 53 astenuti e 26 contrari (tra i quali l’Italia) – che chiede alla Corte internazionale di giustizia (Cig) di esprimere un parere consultivo sulle conseguenze legali dell’occupazione israeliana, sugli insediamenti coloniali, le misure volte ad alterare la composizione demografica nei Territori occupati, il carattere e lo status di Gerusalemme. Il ministro del turismo israeliano Haim Katz ha commentato il voto a suo modo annunciando investimenti «in Giudea e Samaria, la nostra Toscana» usando termini ebraici per indicare la Cisgiordania. Nel 2004 i giudici internazionali stabilirono che il Muro costruito da Israele in Cisgiordania era illegale.
Proseguono anche nel 2023 le incursioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati. Ieri due palestinesi, Mohammad Houshieh e Fouad Abed, sono stati uccisi durante scontri a Kafr Dan (Jenin) scoppiati mentre i militari demolivano le case dei due palestinesi che lo scorso settembre spararono contro un posto di blocco uccidendo un militare. È di quattro morti invece il bilancio di un bombardamento israeliano sull’aeroporto internazionale di Damasco messo «fuori servizio» per alcune ore. Pagine Esteri
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Il Battaglione Azov in visita in Israele «si purifica» a Masada
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 22 dicembre 2022 – Accusati di antisemitismo e di essere neonazisti, eppure accolti con calore in Israele. Militari del famigerato Battaglione Azov, oggi chiamato Reggimento Azov, sono giunti la scorsa settimana, assieme a una delegazione ucraina, a Gerusalemme dove hanno incontrato tra gli altri ufficiali riservisti delle forze armate israeliane. Scopo del viaggio, di cui si è appreso solo due giorni fa da articoli apparsi su alcuni giornali locali, è stato quello di discutere con gli interlocutori israeliani dell’andamento della guerra con la Russia e di smentire quanto si dice a proposito dei sentimenti razzisti dei combattenti dell’Azov.
Sabato la delegazione ucraina è andata nell’area del Mar Morto dove ha visitato il sito archeologico di Masada, la cittadella dove l’esercito romano nel 73, al termine della prima guerra giudaica, mise sotto assedio un gruppo di ribelli zeloti arroccati in una fortezza. Alla fine, i Romani riuscirono ad espugnarla trovandovi i cadaveri di quasi tutti gli assediati che si erano suicidati in massa. Un luogo che, stando a ciò che riferiscono i media israeliani, ha ispirato la guida della delegazione, Ilya Samoilenko, uno degli ufficiali dell’Azov che si sono barricati mesi fa nelle acciaierie dell’Azovstal, al punto da spingerlo a paragonare la difesa di Mariupol dall’attacco russo a quella di Masada contro i Romani. «Quando oggi in Israele si parla della difesa di Mariupol, gli israeliani, comprendendo prima di tutto le differenze militari tra la guerra di 2000 anni fa e oggi, ripetono costantemente: Mariupol è la tua Masada», ha proclamato, attraverso un portavoce, Samoilenko, accompagnato in Israele da Yuliya Fedosyuk, dell’Associazione delle famiglie dei difensori dell’Azovstal. In Israele Samoilenko ha lungamente parlato dei soldati ucraini che hanno combattuto al suo fianco e che sono detenuti in Russia.
Il Reggimento Azov oggi afferma di essere diverso dal Battaglione Azov e di aver congedato i neonazisti che ne facevano parte. Proprio Samoilenko, durante l’assedio dell’Azovstal, descrisse in un’intervista le accuse secondo cui il reggimento è neonazista parte della «propaganda russa». L’Azov, disse, «è cambiato. Ha epurato il suo oscuro passato. L’unico radicalismo che abbracciamo è la nostra volontà di difendere l’Ucraina». A sostegno delle sue affermazioni la stampa israeliana, evidentemente imbarazzata da una visita tanto ingombrante, ha pubblicato un fiume di dichiarazioni di analisti ed esperti, locali e internazionali, che si affannano a confermare il «cambiamento radicale» avvenuto nell’Azov nel passaggio da Battaglione a Reggimento. I lupi in sostanza sarebbero diventati agnelli, semplici patrioti che combattono agli ordini della Guardia Nazionale dell’Ucraina e bravi padri di famiglia. I dubbi invece restano forti ed è ancora vivo il ricordo di crimini compiuti nel 2013-14 dal Battaglione Azov durante le violenze e spargimenti di sangue che aprirono la strada al colpo di stato contro il presidente filorusso Viktor Yanukovich.
Il suprematista ucraino Andriy Biletsky a colloquio con due miliziani dell’Azov
In rete circolano articoli e notizie, di cui non è possibile verificare il fondamento, di vendite avvenute negli anni passati di fucili Tavor israeliani agli uomini dell’Azov ritenuti dall’Onu e dai centri per i diritti umani responsabili di crimini di guerra nel Donbass tra cui torture, violenze sessuali e attacchi contro abitazioni civili. Uno dei fondatori dell’Azov, è stato un deputato nel parlamento ucraino. Sostiene la necessità di «ripristinare l’onore della razza bianca» e ha proposto leggi che vietano il «mescolamento razziale». Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine sul quotidiano Il Manifesto
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#uncaffèconLuigiEinaudi☕ – Importa che non si radichi l’idea nefasta…
Importa che non si radichi l’idea nefasta, trista eredità del ventennio, che ci sia qualcuno incaricato di opinare, di vegliare, di decidere per conto nostro
da I limiti ai partiti, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 20 maggio 1944
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Il calcio (purtroppo) non è più Pelé
Con tutto il rispetto, con tutto il rispetto vero, consapevole, pensato e quindi misurato, ma con tutto il rispetto per la persona, ma specialmente per la morte, la sua in questo caso, fa impressione e, diciamola tutta, anche un po’ schifo leggere titoli sparati in prima pagina (una volta si sarebbe detto: a otto colonne) […]
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#xmpp spiegato male
Una delle cose più difficili per me è convincere gli amici a usare sistemi IM diversi da WA o Telegram.
Ed è difficile soprattutto perché tutto è così "appificato" che qualsiasi cosa vada oltre lo "scarica quest'app" per funzionare, viene bollata come "cosa da nerd".
E forse non è errato pensarla così, se pensate a come presentare xmpp. Intanto, come lo nominereste? Icsempipì? Jabber? Poi: quale app? Dove scaricarla? Quale provider? Se queste parole suoneranno familiari nel contesto di chi ha scelto il fediverso come social, per la maggior parte degli altri possessori di smartphone sarà ostrogoto. "I provider... Oddio!".
Non si è parlato ancora di OMEMO, selfhosting, ragioni etiche e di privacy, decentralizzazione, alternative a gafam, libertà di scelta del client: anche l'approccio più semplice e pronto all'uso è già troppo, troppo difficile.
Mi sono cimentato nella scrittura di un post col numero minimo di istruzioni terra-terra per fare provare XMPP a qualche amico, ma non sono riuscito a farla semplice come avrei sperato. È pieno di passaggi delicati che, probabilmente, faranno desistere anche chi avrebbe desiderato assecondarmi e provarci.
Che poi: facile lo è davvero, da usare. Ma manca qualcosa che renda il tutto davvero autoesplicativo, che permetta di dire "toh, scarica quest'app" e il resto sia un percorso guidato dove fare pochi passaggi per impostare tutto.
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è un peccato. Senza una buona app sul play store non si va da nessuna parte, il passaggio a un catalogo di applicazioni alternativo (f-droid) non è cosa da tuttə.
L'unica è trovare degli sponsor a Daniel, così può mettere Conversations gratuita.
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Papa Benedetto XVI: un’eredità di brillantezza intellettuale e controversie
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Il sistema IRIDE per il riposizionamento dell’Italia dello spazio
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L’Occidente è minacciato
INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Aula Magna dell’Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre “Leggi” o tre “ordini di vita”: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema “fede e ragione”, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”.[3] L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue – egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”
[4]L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
[7]A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος”. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo “Io sono”, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: “Io sono”. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la “Settanta” –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
[10]Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
[11]La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle “critiche” di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina “scientifica”, del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: “Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno”.[13] L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.
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Dieci notizie e dieci fatti per ricordare il 2022
Dicevano gli antichi che dieci sono le dita delle mani e dieci quelle dei piedi. Venti, dunque, è il numero della sufficienza, cioè un primo orizzonte di realtà con cui vivere e camminare. Mi attengo a questa regola, andando a ritroso nell’anno che abbiamo appena attraversato. Difficile dire anno buono o cattivo. Bisognerebbe compararlo. E […]
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Due pesi, due misure: continua l'occupazione illegale dell'Iraq. Qualcuno se n’è accorto? - Kulturjam
"A differenza dell’Ucraina, per difendere la propria sovranità l’Iraq non può contare sulla concessione massiccia di aiuti umanitari e di materiali bellici, a suon di miliardi, da parte dell’Unione Europea per liberare il proprio Nord Est dalle truppe occupanti, perché quelle truppe sono europee e sono proprio i Paesi europei, oltre a Israele, a beneficiare principalmente del petrolio iracheno sottratto illecitamente da quella zona."
La fotografia di Jungjin Lee
La fotografa sud coreana Jungjin Lee crea paesaggi fotografici che mescolano tecniche e materiali della tradizione orientale e occidentale.
Le immagini di Lee sono paesaggi che rappresentano uno stato mentale. Ogni fotografia è il risultato di un processo fortemente mediato, che accentua e nasconde le capacità mimetiche della fotografia, per creare un'estetica che si avvicina alla tradizionale pittura a inchiostro asiatica.
In certe immagini, terra e cielo sembrano aver smarrito il loro orizzonte. Il grigio si fonde con il grigio, fino a dissolversi. Cieli, nuvole, mari diventano spesso astrazioni, bande di luce e oscurità. Universi vuoti, che nonostante tutta la loro fisicità, rimangono unici e misteriosi. Immagini ricche di metafore che sembrano rendere accessibile l'invisibile.
fotografiaartistica.it/fotogra…
Festeggiare Capodanno distruggendo quattro auto più la propria, cercando anche di fare finta di nulla
Il 1 gennaio le gazzette hanno ripreso un comunicato stampa dal sito del Comune di Firenze.
Questo il testo.
Con #Ferrari danneggia quattro auto e se ne va, individuato dalla Polizia municipale - Per l’uomo anche il ritiro della #patente
Durante la notte di #Capodanno ha danneggiato quattro auto andandoci a sbattere con una Ferrari e poi è scappato, ma è stato rintracciato dalla Polizia municipale poche ore dopo e multato.
L’uomo è il proprietario della Ferrari, un #imprenditore fiorentino. Durante i festeggiamenti di Capodanno, per cause in corso di accertamento, è uscito di strada in via #Paisiello e si è scontrato con quattro auto in sosta provocando loro gravi danni. Ma invece di lasciare le proprie generalità se ne è andato abbandonando lì la Ferrari, anch’essa incidentata. Alla scoperta dell’accaduto, la Polizia municipale ha in poco tempo rintracciato il proprietario dell’auto che è stato multato per eccesso di velocità e rifiuto di dare i propri dati. Avendo poi esaurito i punti residui sulla #patente, questa gli è stata ritirata.
Uscito da chissà quale mescita e chissà in che condizioni, un ricco è andato a sbattere contro quattro auto in sosta e ha cercato di fare il ricco anche dopo: l'attenzione della gendarmeria è bene sia riservata a quegli importuni che vendono fazzoletti ai semafori. Ovviamente l'hanno rintracciato in pochi minuti e gli hanno redatto un verbale comprensivo di tutto.
E non doveva essere la prima volta che faceva il ricco: esaurire i punti sulla patente (normalmente venti) richiede una determinazione e una costanza nei comportamenti da ricco degne di cause assai migliori.
Visto che negli ultimi anni la "libera informazione" ha dato ancora più spazio del solito a imprenditori che non facevano che lamentarsi del #fatturato e che giuravano di essere a un passo dalla rovina, c'è anche da lasciarsi andare a qualche illazione sull'utilizzo degli #incentivi alle #imprese.
Poliverso & Poliversity reshared this.
#uncaffèconluigieinaudi☕ – Guardiamoci dall’adorare sotto nuovi nomi il vecchio idolo…
Guardiamoci dall’adorare sotto nuovi nomi il vecchio idolo. La libertà non si ottiene e non si conserva se non nella lotta di ogni giorno e di ogni ora
da I limiti ai partiti, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 20 maggio 1944
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2023: Mattarella detta l’agenda
Misurato nei toni, istituzionale come l’occasione e il tempo esige, preciso, sobrio, austero; curato nella forma che – non ci si stancherà mai di ripeterlo – in democrazia è l’essenza della sostanza, il messaggio di fine/inizio anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiaramente è rivolto al Paese e alla classe politica di governo e di […]
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Dall’Etiopia meridionale al Sudafrica // La migrazione dei giovani
In ottobre e novembre, in Malawi e Zambia sono stati ritrovati più di 50 cadaveri di etiopi. Le indagini condotte in ciascun paese indicano che gli etiopi trovati morti sulla strada erano diretti in Sudafrica. Questa discussione esamina la natura del percorso di viaggio, i fattori trainanti dietro la migrazione e la sofferenza degli etiopi.
Lo scorso ottobre, in Malawi sono stati trovati 29 cadaveri. Secondo la polizia dell’epoca, 25 dei morti erano etiopi. Circa un mese dopo, si è ripetuto lo stesso incidente scioccante. La polizia dello Zambia ha annunciato di aver trovato i corpi di 27 uomini ritenuti rifugiati etiopi a novembre. I corpi sono stati trovati abbandonati in una fattoria vicino alla capitale dello Zambia.
Le indagini finora indicano che questi etiopi hanno perso la vita mentre viaggiavano per entrare in Sudafrica. La maggior parte di coloro che si recano in Sud Africa attraverso questa rotta migratoria sono originari dell’Etiopia meridionale, in particolare delle aree di Hadia e Kembata. Oltre ai giovani che muoiono dall’Etiopia e attraversano i confini, le foreste e gli oceani di diversi Paesi per raggiungere il Sudafrica, le sofferenze ei soprusi sono intensi, ma la migrazione non ha mostrato una tendenza a diminuire.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) ha pubblicato uno studio lo scorso maggio. Lo studio è stato condotto intervistando 382 su 793 etiopi in dieci carceri in Tanzania. L’86% degli intervistati era single. Il 99 per cento di loro sono uomini. La loro età media è di 20 anni. Il 30 per cento ha completato la scuola superiore. Il 99 per cento degli intervistati sono migranti della regione meridionale, in particolare delle zone di Hadia e Kembata.La migrazione dei giovani: dall’Etiopia meridionale al Sudafrica.
Questa preparazione della discussione esamina la natura del percorso di viaggio, i fattori trainanti della migrazione e la sofferenza degli etiopi. Uno di quelli che hanno partecipato alla discussione è Ato Ghezhegne Sumamo, che ha fatto la sua vita nella città di Johannesburg, in Sud Africa. Ato Gheheghne è un attivista della comunità etiope e lavora con il governo del paese nella prevenzione della criminalità in Sud Africa.
La direttrice dell’Istituto per gli studi sulla pace e la sicurezza dell’Università di Addis Abeba, la dott.ssa Fana Gebresenbat, è una ricercatrice senior del progetto Migration for Equality and Development (MIDEQ). Alla discussione ha partecipato Yordanos Almaz Seifu, uno scienziato sociale che studia la rotta migratoria dall’Etiopia al Sudafrica.
Audio e video sull’argomento:
discussione: La migrazione dei giovani: dall’Etiopia meridionale al Sudafrica
ውይይት፤ ወጣቶቹን የሚያረግፈው ስደት፦ ከደቡብ ኢትዮጵያ ወደ ደቡብ አፍሪካ
FONTE: dw.com/am/%E1%8B%88%E1%8C%A3%E…
Governo Meloni: migranti e vaccinati alla ‘gogna’
E cominciamo questo nuovo anno con una domanda, anzi due. Due domande di logica elementare, non polemiche: semplicemente a fondamento logico. Io, vale la pena di precisarlo checché ne diciate, non faccio mai polemiche: magari uso parole forti ironiche sbeffeggianti, ma cerco sempre di essere razionale e ragionevole. Certo, lo vedete bene anche io ho […]
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@Barfly sì, hai ragione... il link è sparito pochi minuti dopo la pubblicazione
EDIT: è finalmente tornato attivo il link 😀
Non siamo partiti bene
Etiopia, Perseguire Crimini Contro l’Umaintà: Dov’é La Legge?
Per mantenere la sua promessa di combattere l’impunità, l’Etiopia deve emanare una legislazione che criminalizzi le gravi violazioni dei diritti umani.
Nel giugno 2018, il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali ha dichiarato al Parlamento che il governo post 1991 ha usato torture e uccisioni per terrorizzare il suo popolo. Perpetrate nei centri di detenzione della polizia, nelle segrete e nelle carceri di tutto il paese, le violenze sanzionate dallo stato raccontate dal primo ministro equivalgono a crimini contro l’umanità nel diritto penale internazionale . Cioè, un attacco diffuso o sistematico diretto contro la popolazione civile.
La dichiarazione di Abiy rappresentava un caso eccezionale di un leader del governo etiope in carica che ammetteva pubblicamente il coinvolgimento dello Stato in crimini contro l’umanità. Seguirono promesse di responsabilità. Il (allora) procuratore generale usò esplicitamente l’espressione “crimini contro l’umanità” quando giurò di assicurare alla giustizia i presunti colpevoli.
A differenza delle promesse di responsabilità, le accuse di crimini contro l’umanità in Etiopia non sono nuove. Tali affermazioni sono state recentemente ascoltate da organizzazioni precedentemente silenziose come la Commissione etiope per i diritti umani (EHRC).
Nel 2021, l’EHRC ha concluso che i crimini contro l’umanità sono stati perpetrati in relazione alla violenza seguita all’assassinio del famoso cantante oromo Hachalu Hundessa. L’EHRC e il Joint Investigation Team (JIT) delle Nazioni Unite hanno scoperto nel marzo 2022 che tutte le parti coinvolte nel conflitto nel Tigray avevano perpetrato crimini contro l’umanità.
Approfondimenti:
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Per perseguire efficacemente i crimini contro l’umanità, è necessaria una legislazione nazionale
Le conclusioni della SIC sono in fase di revisione da parte della Task Force interministeriale ( IMTF ), istituita dal governo alla fine del 2021 per indagare sulle gravi violazioni dei diritti umani internazionali e delle leggi umanitarie commesse nel conflitto nel nord dell’Etiopia. Il governo ha promesso di consegnare i colpevoli alla giustizia se l’inchiesta condotta dall’IMTF sulla guerra del Tigray confermerà le conclusioni del JIT.
L’Etiopia ha compiuto sforzi per mantenere le sue promesse. Nel dicembre 2020, il ministero della Giustizia ha organizzato un seminario di brainstorming ad Addis Abeba per esaminare le sfide e le prospettive di perseguire i crimini contro l’umanità nei tribunali etiopi. Hanno partecipato diversi funzionari ed esperti delle forze dell’ordine, tra cui l’autore di questo ISS Today .
Il seminario ha ribadito una scoperta già ben nota negli ambienti accademici: il diritto penale etiope non vieta i crimini contro l’umanità. In effetti, l’espressione “crimini contro l’umanità” ai sensi dell’articolo 28 della Costituzione etiope è un termine improprio inteso a denotare crimini internazionali. Il riferimento alla frase di cui all’articolo 44 del codice penale etiope è un altro malinteso che si riferisce agli altri due fondamentali crimini internazionali, genocidio e crimini di guerra.
Sebbene il seminario abbia evidenziato che l’integrazione completa dei crimini contro l’umanità nella legge etiope fosse fondamentale, non c’è stato uno sforzo significativo per farlo. Il ritardo potrebbe essere attribuito alle riserve di alcuni pubblici ministeri e partecipanti al seminario che non erano entusiasti di avere una legge nazionale. Hanno ritenuto che l’Etiopia sarebbe in grado di perseguire i crimini contro l’umanità facendo riferimento al diritto penale internazionale pertinente o concentrandosi sui reati sottostanti/presupposto.
La richiesta ai pubblici ministeri di concentrarsi sui reati presupposti è inutile poiché molti sono sconosciuti nella legge etiope
Tuttavia, per perseguire efficacemente i crimini contro l’umanità, è necessaria una legislazione nazionale. In primo luogo, i tribunali etiopi non possono applicare direttamente il diritto penale internazionale consuetudinario, che incarna le norme che disciplinano i crimini contro l’umanità. Possono utilizzare disposizioni penali sancite da convenzioni internazionali di cui l’Etiopia è parte. Ma l’Etiopia non è uno stato parte dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che include i crimini contro l’umanità. Inoltre, a differenza del genocidio e dei crimini di guerra , non esiste una convenzione internazionale sui crimini contro l’umanità.
In secondo luogo, concentrarsi sul perseguimento dei reati presupposto dei crimini contro l’umanità trascura le nozioni fondamentali e l’origine del crimine. Reati presupposti quali omicidio, stupro e lesioni colpose gravi sono “reati ordinari”. I crimini contro l’umanità sono crimini internazionali più gravi in termini di gravità e danno, e portano elementi contestuali unici – come l’attacco diffuso o sistematico – che non sono da imputarsi per nessuno dei suoi reati sopra citati.
Criminalizzando crimini così orrendi, la comunità internazionale cerca di salvaguardare la pace, la sicurezza e il benessere del mondo. Il ruolo del governo nel perseguire i crimini contro l’umanità è, quindi, quello di agire non solo per conto delle vittime ma anche della comunità internazionale. Ciò non può realizzarsi quando il reato è erroneamente qualificato e perseguito come un reato ordinario che porta interessi puramente nazionali.
Contrariamente alle promesse dell’Etiopia, perseguire i crimini contro l’umanità come crimini ordinari difficilmente può essere considerato diverso dall’incapacità o dalla riluttanza a perseguirli. Potrebbe essere visto come un tentativo di proteggere i colpevoli dalla giustizia senza considerare le norme pertinenti su limitazioni legali, immunità, ordini superiori e responsabilità di comando.
Comunque sia, la richiesta ai pubblici ministeri di concentrarsi sui reati presupposti è inutile in quanto molti di essi sono sconosciuti nella legge etiope. L’apartheid, la tortura, la sparizione forzata, lo sfollamento interno, la deportazione, lo sterminio e la persecuzione non sono criminalizzati come reati distinti.
L’assenza del diritto sui crimini contro l’umanità ha portato alla politicizzazione della violenza e dei processi
L’assenza della legge sui crimini contro l’umanità nel Paese non pone solo un problema ipotetico. Ha praticamente portato alla politicizzazione della violenza e dei processi, afferma un alto procuratore che ha parlato con l’Istituto per gli studi sulla sicurezza in condizione di anonimato.
Temesgen Lapiso, ex direttore generale del ministero della Giustizia, concorda. Dice che i potenziali casi di crimini contro l’umanità sono stati spesso descritti erroneamente come crimini contro l’ordine costituzionale e la sicurezza interna dello stato. Ciò include violenze e sfollamenti contro Amharas nella regione di Benishangul-Gumuz (2015), Oromos nella regione somala etiope (2017) e Gedeos nell’Etiopia meridionale (2020).
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Allo stesso modo, i casi di crimini contro l’umanità riconosciuti da Abiy nel 2018 sono stati perseguiti come reati ordinari. L’ex capo dell’intelligence Getachew Assefa e diversi imputati sono stati incriminati per corruzione e abuso di potere.
Nonostante i suoi impegni, l’Etiopia non sarà in grado di mantenere le sue promesse a meno che il suo diritto interno non consideri i crimini contro l’umanità. Ciò potrebbe essere fatto in un processo legislativo relativamente semplice, in quanto comporta essenzialmente l’adozione delle definizioni internazionali del reato. Supponendo che esista la volontà politica, una bozza del ministero della Giustizia potrebbe essere approvata dal Consiglio dei ministri e trasmessa senza indugio al Parlamento.
Autore: Tadesse Simie Metekia, ricercatore senior, progetto ENACT, ISS Addis Abeba
FONTE: issafrica.org/iss-today/prosec…
L’Eritrea Risponde all’Articolo dell’Ex Inviato Speciale USA al Corno, Jeffrey Feltman
Lettera aperta alla rivista Foreign Affairs
30 dicembre 2022
Il 26 dicembre di questa settimana, il Foreign Affairs Magazine ha pubblicato un articolo intitolato: “La dura strada verso la pace in Etiopia”, dell’ex inviato speciale degli Stati Uniti, Jeffrey Feltman.
Nonostante il titolo fuorviante, le intenzioni implicite e trasparenti di Feltman sono di alimentare una nuova e più ampia guerra nella regione.
Questo non è sorprendente in molti modi. In effetti, quando Feltman è stato nominato inviato speciale degli Stati Uniti presso l’HOA, il suo primo e imbarazzante atto pubblico è stato quello di denigrare ed etichettare in termini molto peggiorativi i suoi potenziali ospiti: i governi e i leader di Eritrea, Etiopia e Somalia. Per lui, i vertici tripartiti tra Eritrea, Etiopia e Somalia erano architetture maligne che rappresentavano, nella sua prospettiva distorta, “una minaccia per la pace e la stabilità regionali”. Lo storico accordo di pace e amicizia tra Eritrea ed Etiopia è stato gettato nella stessa luce negativa.
Approfondimenti sull’accordo di pace Etiopia Eritrea:
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Queste dichiarazioni pubbliche provocatorie non potevano essere scrollate di dosso, nemmeno allora, come gaffe diplomatiche che derivavano dalla mancanza di tatto o esperienza. Hanno illustrato, fin dall’inizio, i sinistri obiettivi della sua missione che si riducevano a resuscitare il TPLF con ogni mezzo e attraverso vari sotterfugi.
I sogni irrealizzabili di Feltman sono stati ovviamente completamente frustrati con la scomparsa del TPLF. La sua ira irrazionale è quindi diretta, in questo momento, principalmente contro l’Eritrea.
L’attuale fissazione di Feltman per l’Eritrea è, in effetti, un’ossessione borderline. Nell’articolo che avrebbe dovuto discutere del processo di pace in Etiopia, cita l’Eritrea più di trenta volte e il presidente Isaias Afeworki più di venticinque volte. Cerca volutamente di demonizzare l’Eritrea; è la leadership e la sua gente insistendo costantemente e soprannominando l’Eritrea come il “più grande potenziale spoiler”. Questo è un caso lampante di “la pentola che chiama il bollitore nero”. Nella sua storia, anche prima della sua indipendenza, l’Eritrea è sempre stata coerente e basata sui principi nella promozione della pace e della stabilità regionali; sulla costruzione di meccanismi e modalità per legami reciprocamente vantaggiosi di cooperazione economica regionale; sull’azione regionale concertata e collettiva per combattere e sradicare l’estremismo fondamentalista, ecc.
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Incapace di controllare le sue frustrazioni, Feltman vira verso atti orribili di estrema caccia alle streghe dell’Eritrea. Sostiene la “solidarietà e l’azione internazionale” per strangolare l’Eritrea. Raccomanda la “reimposizione” della sanzione illecita del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro l’Eritrea e la privazione del suo seggio sovrano presso l’HRC delle Nazioni Unite. Egli istiga i vicini dell’Eritrea nel Corno e nella più ampia regione del Medio Oriente/Golfo a rinunciare ai loro interessi naturali e ad allearsi contro questo piccolo paese. Cerca di fomentare la discordia e il conflitto tra Eritrea ed Etiopia attraverso perfide insinuazioni e congetture.
E nel frattempo, Feltman finge di ignorare le origini e le dinamiche della guerra di insurrezione e della scelta del TPLF; perché la regione è stata immersa in questo pantano in primo luogo. In tal caso, è importante sottolineare nuovamente questi fatti salienti per mettere le cose nella giusta prospettiva:
- La feroce guerra durata quasi due anni nel nord dell’Etiopia è stata innescata solo e soltanto perché il TPLF ha lanciato attacchi militari massicci, premeditati e coordinati contro tutti i contingenti del Comando Nord nella notte del 3 novembre 2020. Il TPLF ha dispiegato 250.000 miliziani e Forze speciali che aveva addestrato nel corso degli anni per l’operazione che i suoi comandanti hanno soprannominato “blitzkrieg”.
- Gli obiettivi dichiarati del TPLF nel lanciare la sua spericolata guerra di insurrezione erano di neutralizzare totalmente il comando settentrionale; catturare tutte le sue armi pesanti (che costituivano circa l’80% dell’ordinanza totale dell’EDF) e rovesciare il governo federale.
- L’annullamento dello storico accordo di pace e amicizia tra Eritrea ed Etiopia e i successivi atti di continua destabilizzazione dell’Eritrea sono stati parte integrante e pronunciata della guerra di insurrezione del TPLF.
- La guerra di insurrezione del TPLF non si è limitata ai suoi sconsiderati assalti militari nel novembre 2020. Anche quando la prima offensiva è stata sventata e sullo sfondo di successivi cessate il fuoco unilaterali e umanitari dichiarati dal governo federale, il TPLF ha persistito nella sua guerra sforzi per scatenare la seconda offensiva da giugno a settembre nel 2021 e la terza offensiva il 24 agosto di quest’anno. In tutti questi atti, il TPLF ha sequestrato e incanalato l’assistenza umanitaria ei camion del WFP per i suoi sforzi bellici; e, ha arruolato decine di migliaia di bambini soldato come carne da cannone nelle sue costose tattiche di guerra a ondate umane.
Questi fatti illustrano, al di là di ogni ombra di dubbio, che i malvagi obiettivi di Feltman sono distruggere la pace permanente e irreversibile nella nostra regione. La domanda scottante è se si tratti di una sua posizione isolata o di una posizione comune, condivisa, magari con una confezione più sottile, da altri ambienti dell’amministrazione statunitense.
Ambasciata dello Stato dell’Eritrea
Negli Stati Uniti d’America
Washington DC
30 dicembre 2022
FONTE: shabait.com/2022/12/30/open-le…
Informa Pirata
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