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Non c’è forca che tenga. L’Iran non riesce a soffocare la rivolta nel sangue


A ogni assassinio di Stato, la protesta si alimenta. Il regime in difficoltà. Ma la discesa in campo del figlio dello Scià complica l’intesa fra le opposizioni A Javānrūd una ragazza curda senza l’hijab è in piedi davanti alle forze basij durante la cer

A ogni assassinio di Stato, la protesta si alimenta. Il regime in difficoltà. Ma la discesa in campo del figlio dello Scià complica l’intesa fra le opposizioni

A Javānrūd una ragazza curda senza l’hijab è in piedi davanti alle forze basij durante la cerimonia del quarantesimo giorno di fine del lutto per la morte di sette martiri che in questa città hanno preso parte alla rivoluzione scoppiata in Iran quasi quattro mesi fa. Gridano slogan contro Alì Khamenei e maledicono Ruhollah Khomeini: “Morte al Velayat-e Motlaqe Fagih” (morte alla tutela della guida suprema sulla vita sociale e politica). In questo slogan è racchiuso tutto il significato della pacifica rivoluzione scoppiata il 16 settembre 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne Mahsa Amini, curda di Saqqez, avvenuta dopo che era stata massacrata di botte in un furgone della cosiddetta “polizia morale” che tre giorni prima l’aveva arrestata perché non indossava il velo come prescrive la legge islamica.

Le manifestazioni di protesta contro questa barbara uccisione, partite dalle città curde dell’Iran, si sono subito estese in tutto il paese, compresa la provincia a maggioranza sunnita del Belūcistān, fino a sfociare in una vera e propria rivoluzione che ora vede queste due regioni ancora come traino della battaglia per il rovesciamento della Repubblica islamica.

Questo elemento costituisce un aspetto molto significativo che non va ignorato. Gridare “Morte al Velayat-e Motlaqe Fagih” ha un doppio significato. Non è solo l’espressione del rifiuto della massima autorità religiosa del paese e dell’oppressione della religione nella vita sociale e politica di un popolo, ma esprime il rifiuto di ogni autoritarismo. Esprime la rivendicazione di una piena democrazia laica rispettosa dei diritti di ogni persona e di ogni minoranza.

Non vi è alcun dubbio sul fatto che è nel Sīstān-Belūcistān e nel Kurdistan iraniano che la rivoluzione per la liberazione dell’Iran dal regime teocratico, guidata dalla cosiddetta “generazione Z”, sia un passo avanti rispetto al resto del paese. In queste regioni è l’intero popolo, sempre a mani nude, ad essere insorto contro la Repubblica islamica. Alcuni centri delle province curde come quelli di Javānrūd, Sanandaj, Bukan, Mahabad, nel Kurdistan iraniano, sono di fatto in mano agli insorti e la situazione è drammatica.

Mentre nella megalopoli di Teheran, così come a Esfahan, a Karaj e a Mashad, le proteste non sono estese e costanti, e i manifestanti non hanno per nulla il controllo delle strade e delle piazze, il fuoco della rivoluzione è tenuto vivo dai curdi e dai beluci. Non è un caso se sono le città curde e quelle del Belūcistān a pagare il prezzo più elevato della feroce repressione. Buona parte dei cittadini arrestati, torturati e uccisi dalle forze paramilitari pasdaran sono appunto curdi o della minoranza beluci, così come la maggior parte dei condannati a morte.

A Javānrūd le guardie rivoluzionarie hanno trasferito migliaia di loro uomini equipaggiati con armi da guerra e hanno arruolato numerose milizie straniere filoiraniane da loro addestrate. Si tratta di milizie sciite provenienti da Iraq, Siria, Libano e dall’Afghanistan. Attaccano le abitazioni dei civili, irrompono nelle loro case e portano via intere famiglie.

A Mahabad si è celebrato il quarantesimo giorno trascorso dall’assassinio di Shamal Kahramaneh al grido di “Javānrūd non è sola, Mahabad è la sua sostenitrice”.

Cerimonia funebre anche per Mehran Basir, un giovane di 29 anni ucciso a Foman il 24 novembre. Il 31 dicembre si è svolta la cerimonia del quarantesimo giorno anche per Mehdi Kabuli, un adolescente di 15 anni ucciso dagli agenti di sicurezza a Gorgan. Il 5 gennaio a Izeh si terrà la cerimonia funebre per il quarantesimo giorno dall’assassinio di Hamed Selahshur, di 22 anni, torturato in prigione fino alla morte. Il giovane Hamed era stato segretamente sepolto fuori città perché la sua famiglia temeva che le autorità sequestrassero il suo corpo per estorcere una confessione forzata, ora lo hanno riesumato per seppellirlo nel “cimitero di famiglia” a Izeh.

Come è noto il regime sequestra i corpi dei manifestanti uccisi e chiede ai familiari una sorta di riscatto per la loro restituzione e precisamente chiede una confessione pubblica che smentica la voce di un loro decesso per mano dello stato. La Repubblica islamica ha paura anche dei morti e dei loro funerali perché le cerimonie funebri si trasformano in imponenti manifestazioni. Insomma, il regime teocratico ha comportamenti e organizzazione di tipo mafioso.

La rivoluzione sembra inarrestabile, ogni funerale produce una manifestazione a cui partecipa un oceano di persone e ciò fa desistere il regime dall’infliggere nuove impiccagioni. Le autorità iraniane pensavano di soffocare le rivolte con l’arma del terrore, ma ciò non sta riuscendo perché ad ogni assassinio la risposta è una ulteriore crescita della ribellione. Crescono la rabbia e l’indignazione, cresce l’odio verso questo orribile regime sanguinario considerato semplicemente criminale e del tutto privo di legittimità, dunque destinato ad essere spazzato via.

Intanto, sabato 31 dicembre 2022, diverse personalità di spicco in esilio che si oppongono alla Repubblica islamica hanno pubblicato una dichiarazione congiunta sui loro social definendo l’anno 2023 come quello della liberazione dell’Iran. “Il 2022 è stato l’anno glorioso della solidarietà degli iraniani di ogni credo, lingua e orientamento. Con lo stesso impegno e solidarietà, il 2023 sarà l’anno della vittoria per la nazione iraniana”, si legge nella dichiarazione firmata dal principe Reza Ciro Pahlavi, dalle attrici Nazanin Boniadi e Golshifteh Farahani, dall’attivista per i diritti umani e giornalista Masih Alinejad, da Hamed Esmaeilion, portavoce dell’Associazione delle famiglie delle vittime del volo PS752 abbattuto dai pasdaran esattamente tre anni fa (l’8 gennaio 2020) e dall’ex calciatore Ali Karimi. Il principe Reza Pahlavi in risposta alle critiche di coloro che sostengono che non vi è una voce unitaria contro il regime, ha detto: “Ecco perché dobbiamo unirci affinché le forze pro-democrazia aprano il dialogo con il mondo”.

E Nazanin Boniadi a “Iran International” ha sottolineato i continui tentativi con vari gruppi di opposizione per lavorare uniti e formare una coalizione.

Questa dichiarazione che invita le forze pro-democrazia a formare una coalizione non è stata sottoscritta da alcun esponente di partiti politici come quelli curdi, repubblicani o radicali. C’è solo un personaggio politico ad aver firmato questa dichiarazione, ed è il principe Reza Pahlavi, un personaggio carismatico a cui i repubblicani e i curdi guardano con sospetto perché non valutano positivamente la passata esperienza monarchica. Questo metodo di escludere alcune componenti fondamentali della società e della politica iraniana attive nella pacifica rivoluzione in corso ricorda quello seguito nel 1979, quando la speranza di una rivoluzione democratica per liberare il paese dall’oppressivo regime monarchico dei Pahlavi, fu vanificata e il moto rivoluzionario fu egemonizzato da una personalità religiosa fondamentalista carismatica come quella di Khomeini.

Per questo incomincia a serpeggiare, in particolare nella comunità curda, preoccupazione per il tentativo di alcuni esponenti della borghesia persiana in esilio, in particolare residente negli Stati Uniti e in Europa, di monopolizzare la rivoluzione ignorando partiti, minoranze e le entità non persiane presenti nel paese che rappresentano la componente più attiva e agguerrita di questo spontaneo movimento rivoluzionario partito dal basso.

Si teme quindi che all’interno della diaspora iraniana vi sia un tentativo di favorire la discesa in campo del principe Reza Pahlavi ritenuto forse in grado di risvegliare il sentimento nazionalista e di una Grande Persia che sia in grado di riscattarsi da quarantaquattro anni di disonore e di oscurantismo rappresentato dal regime teocratico.

Davanti a un movimento rivoluzionario senza leader, per una componente molto influente della borghesia iraniana in esilio, puntare sul nazionalismo persiano e sulla figura del principe Reza Pahlavi potrebbe rappresentare la strada più veloce e sicura per il cambio di regime. Ma i curdi, perseguitati da sempre sotto ogni dittatura, non vogliono essere servitori di nessuno: non intendono morire per un “Re persiano”, questo è il messaggio che arriva dal Kurdistan che vede la dichiarazione di un principe, di due attrici e di un giocatore di calcio, come un tentativo di scippare la rivoluzione e di presentare Reza Ciro Pahlavi, che per i monarchici è ancora il pretendente al trono, come il suo capo politico forte anche del sostegno che riceve grazie ai canali televisivi finanziati dai sauditi e che hanno sede a Londra.

Anche se il principe dichiara di non avere alcuna intenzione di ritornare sul trono, per il suo entourage e per il partito monarchico è pur sempre “Reza II” e dunque si preme fortemente per un ritorno della dinastia dei Pahlavi.

Ma gli slogan che si odono nelle piazze e nelle strade di tutte le città del paese, da Teheran a Sanandaj e da Esfahan a Zahedan e che gridano “Curdi, beluci, azeri; libertà e uguaglianza”, fanno intendere che per la “generazione Z” sono maturi i tempi affinché tutte le componenti etniche e religiose come quelle del Kurdistan e del Belūcistān, che da circa quattro mesi stanno dando un contributo fondamentale alla rivoluzione, dovrebbero avere un pieno riconoscimento e una piena collocazione di un assetto statuale consistente in una democrazia laica con una forte impronta federalistica.

Hugginfton Post

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Carceri: la strage non si ferma


Provate a immaginare la scena. Carcere di Bollate. Sono le tre del pomeriggio. In cella non c’è nessuno.Un detenuto di 34 anni cerca di togliersi la vita impiccandosi. Quasi ce la fa, non fosse che all’ultimo minuto gli agenti della polizia penitenziaria si accorgono di quello che accade. L’uomo viene portato in codice rosso all’ospedale […]

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Eugen Rochko: "Non sono così convinto sulla questione delle citazioni come lo ero nel 2018. Personalmente, non sono un fan, ma è chiaro che c'è molta richiesta in tal senso. La stiamo prendendo in considerazione."

"Se lo facessimo, vorremmo che fosse possibile scegliere di non farlo, in modo simile a come intendiamo consentire la disabilitazione delle risposte. Non è del tutto banale."


I don't feel as strongly about quote posts as I did in 2018. Personally, I am not a fan, but there is clearly a lot of demand for it. We're considering it.

informapirata ⁂ reshared this.



VIAGGI E STORIA. I Balcani, dalla Slavonia ai monasteri ortodossi del Fruska Gora


Nel primo articolo della nuova rubrica di Pagine Esteri, Paolo Pantaleoni ci guida tra i paesaggi, le bellezze naturalistiche e la complessa geopolitica della penisola balcanica L'articolo VIAGGI E STORIA. I Balcani, dalla Slavonia ai monasteri ortodossi

di Paolo Pantaleoni* –

Pagine Esteri, 4 gennaio 2022 – La pianura della Sava disegna paesaggi monotoni in una Slavonia avvolta dal caldo di metà settembre.

Ciò che per secoli è stato il frutteto d’Europa oggi è ostaggio della monocoltura maidicola che disegna il nuovo orizzonte.

L’autostrada A3, che da Zagabria corre verso la frontiera orientale dell’Unione Europea, attraversa una pianura che sembra non avere fine.

Le roveri bianche che resero celebre la Slavonia nei tre secoli passati non ci sono quasi più, vittime di una gestione dissennata dei tagli delle risorse boschive.

Mai come in questo periodo, nel nuovo millennio, Zagabria e Belgrado sono distanti tra loro, nonostante le due città sorgano paradossalmente lungo le sponde dello stesso fiume.

La Sava è una sorta di cordone ombelicale che unisce tre differenti paesi slavi e che ha fatto da confine tra la dominazione ottomana e quella austriaca.

Un legame che Zagabria reciderebbe volentieri per avvicinarsi alla Mitteleuropa germanofona e rigorista, mentre Belgrado, che ha conosciuto in tempi recenti la devastazione delle bombe della Nato, continua a guardare sempre più ad Oriente ed alla Russia.

Nella direzione di un taglio netto con le radici degli slavi del sud guardava il lavoro dell’Istituto di Lingua e Linguistica Croata, nato nel 1991 per realizzare la separazione linguistica tra croato e serbo-croato.

Vennero coniati dei neologismi, introdotti nuovi vocaboli con il risultato di ridurre la mutua intellegibilità tra serbo e croato.

Nelle varie facoltà di lingue in molti paesi del mondo, se si fa eccezione per le sole università croate, non esistono cattedre di croato, e nemmeno di serbo.

Per i linguisti le torsioni nazionaliste restano lontane, e la lingua serbo-croata è sopravvista alla dissoluzione della ex Jugoslavia, nonostante i tentativi del governo di Zagabria di procedere nel senso opposto, creando una neolingua che è oggi un elemento portante dell’identità nazionale.

Quella croata è un’identità nazionale di recente creazione.

Nella Jugoslavia socialista del dopoguerra, un croato difficilmente si sarebbe definito tale, dato che per secoli tra i croati è stata prevalente l’identità territoriale rispetto a quella nazionale.

Sarebbe stato facile incontrare persone che si sarebbero definite dalmate, oppure istriane, oppure ancora zagabresi ma la piccola patria di Tudjman aveva bisogno di una nuova narrazione capace di alimentare lo spirito nazionalista in chiave indipendentista.

Alla frontiera tra Croazia e Serbia, in entrata verso i confini dell’Unione Europea, incontriamo una fila chilometrica di auto con targa tedesca, con a bordo le famiglie turche che rientrano in Germania dopo le ferie estive nel paese di origine.

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Fruska Gora – Foto di Paolo Pantaleoni

L’Unione Europea non si limita a finanziare il controllo delle frontiere sul versante croato, ma finanzia abbondantemente il governo serbo, affinché vigili sulla rotta balcanica dove chi fugge dai conflitti dal Medio Oriente, o dall’Asia Centrale, incontra la violenza e la brutalità di poliziotti e volontari serbi, bulgari, croati ed ungheresi (a seconda della tratta percorsa), in cui soprusi e vessazioni appesantiscono ulteriormente il bagaglio di sofferenza di chi cerca un futuro migliore.

La violenza di una classe politica, che in Italia disquisisce tra profughi veri e non veri, e tra rifugiati e migranti economici, è solo una vessazione ulteriore che irride la dignità umana.

Oltre la frontiera della UE, si apre la piana dello Srem dove la retorica nazionalista di Milosevic diede accoglienza ai serbi in fuga dalle Kraijne.

Era l’agosto del 1995, la guerra in Bosnia stava volgendo al termine (sarebbe terminata entro tre mesi), e per fare coincidere la realtà sul campo con quanto sarebbe stato sottoscritto nel testo finale dell’accordo di pace a Dayton (che deve il nome ad un’anonima base militare statunitense dell’Ohio), quei mesi finali furono caratterizzati da episodi di violenza inaudita per creare aree etnicamente omogenee prima del cessate il fuoco definitivo.

Serbi e croati lanciarono offensive violente per prendere il controllo di territori che sapevano non avrebbero dovuto cedere nel processo negoziale.

Fu quello il periodo in cui massacri e pulizia etnica ebbero un’impennata drammatica e qualche settimana prima, nell’indifferenza della comunità internazionale, a Srebrenica era avvenuto un genocidio.

Quello che Milosevic chiamava “il popolo celeste” era un ammasso infinto di contadini in fuga; persone semplici e con pochi soldi al seguito, che formavano colonne sterminate di trattori e mezzi di fortuna, in fuga dalla pulizia etnica croata e bosniaca dell’Operacjia Oluja (Operazione Tempesta).

Per quelle persone, che sui rimorchi dei trattori avevano tutti i loro beni, il governo di Milosevic allestì delle tendopoli improvvisate, immerse nel freddo e nel fango della piana dello Srem, in cui una massa di disperati si offriva per pochi dinari ai proprietari terrieri serbi per i lavori agricoli, in condizioni di sfruttamento e vessazione.

Quelle tendopoli della piana dello Srem, a metà anni ’90, anticiparono la vergogna dei ghetti del bracciantato agricolo nel sud Italia ed in Andalusia.

Oltrepassata la piana dello Srem il nostro percorso devia a nord verso le foreste di tiglio ed i monasteri ortodossi del Fruska Gora, oggi patrimonio Unesco, diventati in tempi recenti il luogo dell’identità ultranazionalista serba.

Con il collasso dell’ex Jugoslavia molti serbi, rimasti orfani dell’identità collettiva data da un partito che era anche riferimento totemico ed elemento di identificazione collettiva, hanno spostato lo spazio e la dimensione della propria identità dal partito alla religione, nello specifico quella largamente maggioritaria tra i popoli slavi.

Come per il festival degli ottoni a Gucka, anche il Fruska Gora è ostaggio della peggior propaganda nazionalista, e capita, la domenica mattina, di incontrare a messa persone in divisa da cetnico, o di venire salutati con il saluto cetnico fatto con pollice, indice e medio della mano destra a mimare un tre e con le restanti dita piegate.

Il gesto simboleggia le tre C (che diventano tre S nella translitterazione latina) che fanno da acronimo a Sloga Srbina Spasava (traducibile con l’Unità Salva la Serbia).

Ci saluta così un ragazzo sulla trentina, il fisico appesantito, esce da un minimarket non lontano da uno dei monasteri patrimonio Unesco, ci fornisce informazioni stradali e, nel congedarsi, ci saluta con le tre dita della mano su cui ha tatuata la data del 1389.

Per la retorica nazionalista serba la battaglia di Kosovo Polje (la piana dei merli) è una colpa collettiva da cui occorre redenzione.

Non a caso il criminale Mladic chiamava i musulmani bosniaci “i turchi”, e la memoria del genocidio di Srebrenica da parte serba semplicemente non esiste, ed il negazionismo di un crimine spaventoso coincide con il racconto della rivincita dei serbi sui turchi, 610 anni dopo Kosovo Polije.

Nel giugno del 1389 i serbi guidati da Lazar Hrebeljanovic provarono a fermare l’avanzata ottomana nei Balcani (Sofia era caduta in mano turca cinque anni prima) venendo sconfitti, ma riuscendo comunque ad uccidere il sultano Murad I grazie al gesto eroico del cavaliere Milos Obilic.

Il nazionalismo ultraconservatore serbo si autoalimenta anche con figure storicamente più recenti.

Le foto ed i gadget di Draza Mihajlovic campeggiano in tutti i monasteri, quando venni la prima volta una decina di anni fa, Mihajlović era ancora bandito dalla memoria collettiva serba, condannato a morte e fucilato nel 1946 per alto tradimento e collaborazione con il nemico.

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Monastero di Šišatovac – © Foto di Paolo Pantaleoni

Nel Maggio del 2015 la Corte Suprema Serba lo ha pienamente riabilitato, per compiacere la chiesa ortodossa e la galassia nazionalista che sosteneva l’allora presidente Nikolic e che oggi sostiene in larga parte l’attuale presidente Aleksandar Vucic.

L’Esercito Jugoslavo in Patria di Mihajlovic si costituì nel 1941, dopo il collasso del regio esercito Jugoslavo successivo all’invasione tedesca.

Costituito su base etnica, e su valori conservatori, riunì gli ufficiali e le truppe serbe fedeli al re Pietro II.

Il disegno iniziale dei cetnici di Mihajlovic era quello di costituire una resistenza nazionalista all’invasione nazifascista, per arrivare alla costituzione di un Regno di Serbia sulle ceneri del Regno di Jugoslavia.

Inizialmente sostenuti dagli alleati con lanci di armi e viveri, le truppe di Mihajlovic trovarono rapidamente un accordo con italiani e tedeschi, pur non dichiarandosi mai alleati degli invasori, e dirottarono i loro sforzi nella guerra antipartigiana, in chiave anticomunista, e contro i nazionalisti croati per fare della Serbia una nazione etnicamente omogenea.

Formalmente non belligeranti con Italiani e Tedeschi, più volte (come nella battaglia della Neretva) i cetnici di Mihajlovic combatterono a fianco di fascisti, nazisti ed ustasha croati contro le formazioni partigiane del Maresciallo Tito.

Aiutati informalmente dai servizi segreti italiani (che temevano rivendicazioni nazionaliste da parte degli alleati croati su Istria e Dalmazia), i cetnici combatterono una guerra parallela contro gli ultranazionalisti croati, i quali, istituito stato fantoccio con a guida Ante Pavelic, si adoperarono per eliminare dal territorio sotto il proprio controllo le popolazioni non croate e non cattoliche a partire da serbi ed ebrei.

Quelle che nacquero nel Fruska Gora come fortezze della fede ai tempi della dominazione Ottomana, per preservare l’identità religiosa ed i tesori dell’arte sacra ortodossa, furono edificate tra il XV ed il XVII secolo.

Le bombe della Nato del 1999 fecero ciò che gli Ottomani nemmeno tentarono, danneggiando diversi monasteri con i bombardamenti diffusi su tutto il paese. (Fine prima parte)

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4614020*Paolo Pantaleoni, nato e cresciuto a Rimini. Di formazione umanistica, ha studiato presso l’Università di Bologna, abbandonando con successo gli studi in Scienze Politiche a favore di quelli in Storia. Militante sociale, per un decennio si è occupato di cooperazione decentrata in Palestina. Appassionato di cucina, per lavoro si occupa di sicurezza nei luoghi di lavoro ed igiene degli alimenti in una società di ristorazione. Nel tempo libero si divide tra il guardare il mondo con curiosità e lentezza e praticare le proprie passioni. Viaggiatore, camminatore, escursionista ed apicoltore ha una venerazione per la pesca con la mosca artificiale.

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Gli errori cinesi sul virus


È al tempo stesso spaventoso e rassicurante il clamoroso fallimento cinese nella gestione della pandemia. È spaventoso per le conseguenze sanitarie: quel fallimento sta facendo ammalare milioni di cinesi e mette tutto il resto del mondo a rischio di una n

È al tempo stesso spaventoso e rassicurante il clamoroso fallimento cinese nella gestione della pandemia. È spaventoso per le conseguenze sanitarie: quel fallimento sta facendo ammalare milioni di cinesi e mette tutto il resto del mondo a rischio di una nuova ondata pandemica. È invece rassicurante per due motivi. Il primo è geo-politico. I teorici dell’inevitabile tramonto dell’Occidente forse si sbagliano. Forse la Cina non riuscirà a diventare, nemmeno fra qualche decennio, una superpotenza così forte da poter davvero tenere testa agli Stati Uniti. Né, come hanno previsto alcuni, la Cina tornerà presto ad essere, come era nel Seicento e nel Settecento (prima che iniziasse la Rivoluzione industriale in Gran Bretagna), il Paese più ricco e prospero del globo. L’autocrazia ha un prezzo. Il prezzo è l’eccesso di rigidità che impedisce ai governanti di fronteggiare sfide impreviste con pragmatismo e capacità di correggere, in corso d’opera, gli errori.

Il secondo motivo è che il fallimento cinese dimostra urbi et orbi la superiorità delle società aperte e democratiche rispetto alle autocrazie. Una superiorità molto concreta, non astratta o ideologica: è impietoso il confronto fra il modo efficace – una volta superata la prima fase di disorientamento e di sbandamento – con cui il mondo occidentale ha saputo fronteggiare la pandemia e il fallimento cinese. Fallimento che i cinesi, a dispetto di ogni evidenza, si ostinano a negare.

Come mostrano anche le proteste delle autorità cinesi contro quei Paesi che, come l’Italia, sottopongono a controllo sanitario i viaggiatori in arrivo dalla Cina. Nonché il loro rifiuto di accettare i vaccini occidentali offerti dalla Ue. Hanno una cosa in comune la mala gestione cinese dell’emergenza Covid e l’incapacità russa disconfiggere l’Ucraina. Pur con le loro grandi differenze le autocrazie cinese e russa sono accomunate dalla incapacità/impossibilità di comprendere quale potente risorsa sia la libertà individuale, quale forza essa sprigioni e con quali benefici effetti per i gruppi umani in cui essa è sufficientemente tutelata. I paralleli storici sono sempre arditi ma si può dire che Putin sia incorso in un errore simile a quello commesso, all’inizio del quinto secolo avanti Cristo, dal potente impero persiano quando invase la Grecia: venne sconfitto perché sottovalutò quanta energia potessero accumulare e spendere in battaglia gli uomini liberi delle città greche.

Per le stesse ragioni, Putin ha sottovalutato gli ucraini. Nonché gli occidentali, ivi compresi i pacifici europei, consapevoli, fin dall’inizio del conflitto, del fatto che sostenendo l’Ucraina stanno proteggendo le proprie libertà. Che le autocrazie non comprendano quali conseguenze benefiche per la collettività sia in grado di generare la libertà individuale è normale, scontato. Ma che dire di tutti quegli occidentali
che pur da sempre abituati a godere delle libertà che le nostre società assicurano anche a loro, tuttavia le disprezzano o comunque non ne comprendono i vantaggi? Da dove nasce questa specie di blocco mentale?

I nemici occidentali delle libertà occidentali, per lo più, non dicono oggi, come dicevano un tempo, che le democrazie liberali rappresentino il male. Ma, proprio come allora, la loro bestia nera è sempre il mercato. Come se, senza mercato, possano sussistere società aperta, democrazia, libertà individuali. Puntano il dito contro i «fallimenti del mercato» (che certamente, periodicamente, si verificano) ma vogliono curarli a colpi di Stato, espandendo il ruolo e la presenza dello Stato. Fingono di non sapere che i «fallimenti dello Stato» (da Pechino a Mosca, da Teheran a Caracas, e in tanti altri posti) provocano conseguenze infinitamente più gravi, più devastanti, e durature. Anche lasciando da parte i casi più drammatici ed evidenti, per limitarci a un esempio di casa nostra, quanto è servito fin qui l’eccesso di statualità che da sempre affligge l’economia del Mezzogiorno d’Italia per curarne i mali?

Dietro l’ostilità per il mercato si intravvede la diffidenza per la libertà individuale e per il mondo «caotico» che, apparentemente, essa alimenta. Un caos da curare, secondo certi medici, con dosi massicce di statualità, sostituendo il comando statale (inevitabilmente di pochi) alla libertà di azione dei tanti. Grazie a quella libertà d’azione le società aperte occidentali hanno un dinamismo che manca ad altre società e, in più, i loro sistemi democratici hanno la capacità di correggere gli errori e gli effetti perversi che le azioni dei tanti possono provocare. Proprio la pandemia dimostrai vantaggi della società aperta, e del mercato che ne è una componente indispensabile. È grazie alla libertà di
impresa che, in brevissimo tempo, abbiamo potuto disporre di vaccini in grado di combattere la malattia. Dove non c’è società aperta, dove lo Stato pretende di sostituirsi al mercato, niente del genere può accadere. Non solo la mancanza di libertà impedisce di trovare soluzioni efficaci per fronteggiare le emergenze. Ma, per giunta, le misure adottate dalle autocrazie risultano sempre aberranti, impongono costi sociali altissimi e aggravano anziché risolvere i problemi.

La «cura» usata a lungo dalle autorità cinesi, la chiusura totale e feroce di intere città, l’imprigionamento dei propri sudditi, è servita a generare sofferenza nella popolazione ma non a debellare la malattia. Si è trattato di misure praticabili solo ove non esistono cittadini ma sudditi, ove la libertà individuale è inesistente. Misure che le democrazie occidentali non avrebbero mai potuto adottare. È sufficiente pensare che qui da noi sono bastate certe blande, ma necessarie, misure emergenziali per fare gridare alcuni allo scandalo: ricordate il green pass e le sciocchezze sulla «dittatura sanitaria»? Per sapere cosa fosse una vera dittatura sanitaria bisognava visitare la Cina. Giusto a proposito di «fallimenti dello Stato». Non si può dare per scontato che nel conflitto fra società aperte e società chiuse, fra democrazie e autocrazie, la vittoria finale debba andare necessariamente alle prime. Ma, per lo meno, sappiamo che il nostro mondo possiede risorse (morali prima ancora che materiali) che altri non hanno.

Il Corriere della Sera

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Materia oscura, nuove misurazioni vanno a favore della gravità modificata - Passione Astronomia

"Uno studio delle curve di rotazione delle galassie segna un punto a favore della gravità modificata, teoria alternativa alla materia oscura prevista dal modello cosmologico standard."

passioneastronomia.it/materia-…



Parte la “costituente” centrista: paga l’UE


Il formato non è dei più agevoli, anche se forse + un omaggio al contemporaneo (e tormentato) confresso del Partito democratico. Ma nelle sette ore e mezza di dibattiti previste a Milano per il 14 gennaio, Matteo renzi e Carlo Calenda intendono lanciare l

Il formato non è dei più agevoli, anche se forse + un omaggio al contemporaneo (e tormentato) confresso del Partito democratico. Ma nelle sette ore e mezza di dibattiti previste a Milano per il 14 gennaio, Matteo renzi e Carlo Calenda intendono lanciare la prima tappa della “assemblea costituente dei Liberali e Democratici Europei” (per citare alcuni dei promotori). Tradotto: il partitone unico riformista, centrista, europeista, azionista, eccetera. Con una buona stella a benedere la partenza: a finanziare parte del maxi-evento di Milano – a cui parteciperà anche la candidata alle regionali Letizia Moratti – sarà il Parlamento europeo, attraverso i fondi del gruppo Renew Europe.

Un passo indietro. Da tempo l’area centrista sogna una rassemblement. Alle elezioni del 25 settembre Renzi e Calenda si sono presentati insieme e poi hanno unito Azione e Italia Viva in una federazione aperta anche a diverse sigle della galassia liberale e ancora in attesa di Più Europa, ormai in rotta col PD.

Con l’anno nuovo, il progetto dovrebbe portare alla nascita di un nuovo partito sul modello del gruppo Renew Europe (che a Bruxelles unisce i liberali dell’Alde e il Partito democratico europeo), nato attorno a En Marche! di Emmanuel Macron. Per farlo, serve appunto un percorso costituente.

In questo contesto si arriva all’appuntamento del 14 gennaio a Milano, dove Renzi e Calenda interverranno come “invitati” della rete “Liberali democratici europei” per accelerare il progetto. Con loro anche Letizia Moratti, sostenuta da Azione e IV alle regionali lombarde ma già pronta ad essere uno dei volti nazionali del partito che sarà, complici sondaggi che al momento la vedono ben lontana dal poter diventare governatrice.

In campagna elettorale però ogni evento è prezioso, a maggior ragione se “spesato”. Come specificato in fondo alla locandina di presentazione dell’incontro, infatit, la giornata è organizzata “con il sostegno finanziario del Parlamento europeo”. In particolare, spiegano fonti di Renew Europe, con i soldi destinati da Bruxelles alle attività dei gruppi parlamentari, dato che l’incontro verterà su “come rafforzare Renew Europe e Partito democratico Europeo” e su “L’unità dei liberaldemocratici” (e tra i relatori ci sarà l’eurodeputato renziano Sandro Gozi).

Detto di Renzi, Calenda e Moratti, a Milano ci sarà pure Benedetto Della Vedova, segretario nazionale di Più Europa, a testimonianza della nuova collocazione centrista del partito di Emma Bonino, che per le regionali ha mollato Pierfrancesco Majorino e la coalizione sinista-M5S.

E poi, come ogni percorso federativo richiede, non mancherà un pantheon intellettuale dei riformisti: il giornalista Oscar Giannino; il presidente della Fondazione Luigi Einaudi Giuseppe Benedetto; l’avvocato (con sfilza di incarichi, tra cui quello nel board dello studio legale Orrick) Alessandro De Nicola. Tutti convinti che questa sia la volta buona per il grande Centro.

Lorenzo Giarelli

Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2023, pag 7

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FedelMente e LaicaMente


Non ho mai capito, da laico, la distinzione fra pontefici conservatori e progressisti. Sono pur sempre i custodi di una dottrina bimillenaria, che viene letta e riletta, interpretata e reinterpretata, ma sempre con l’impegno, o la pretesa, di aderire a qu

Non ho mai capito, da laico, la distinzione fra pontefici conservatori e progressisti. Sono pur sempre i custodi di una dottrina bimillenaria, che viene letta e riletta, interpretata e reinterpretata, ma sempre con l’impegno, o la pretesa, di aderire a quanto scritto nei testi di riferimento. Sfuggendomi la distinzione guardo con scetticismo l’automatica catalogazione di Joseph Ratzinger fra i conservatori, quando non direttamente fra i reazionari. Il che non riguarda solo chi lo ha criticato, ma anche chi lo ha per quello apprezzato. Ho l’impressione che tutto ciò si basi più su equivoci che sui fatti e i pensieri.

È stato un teologo, in quanto tale apprezzato da Karol Wojtyla (progressista o conservatore?) e per quello chiamato a presidiare la dottrina e la fede. Wojtyla fu pontefice con un marcato ruolo politico, uno dei protagonisti della fine dell’impero sovietico. Oltre che tante altre cose, naturalmente. Spero non sia blasfemo osservare che dopo quel pontificato è come se avessero chiamato il capo ufficio studi a ricoprire il ruolo di amministratore delegato: non gli mancava la competenza, ma l’approccio. Difatti incontrò notevoli ostacoli, dovette vedersela con faide interne al Vaticano (al punto che il suo braccio destro, Georg Gänswein, parla esplicitamente di <<presenze demoniache>>) e perse, introducendo per primo l’istituto delle dimissioni. Più che una innovazione una capitolazione.

Molti, in occasione della sua morte, hanno ricordato il discorso di Ratisbona, tenuto nel 2006. I più, però, ammirandolo per quel che volle chiarire fosse un errore, tralasciando il più succoso resto. Ratzinger, citando altre fonti, sembrò sostenere che l’Islam non potesse che essere sopraffazione e morte. Ma lui stesso si disse <<vivamente rammaricato>> per quella interpretazione e precisò che era stata <<una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero>>. Non si vede perché cancellare quelle sue parole.

Il resto del discorso, assai interessante, si riferiva ad un duplice possibile accesso alla divinità: ragionato o assoluto. Disse che <<non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio>>. Teneva assieme fede e mente. Su quella natura non sono titolato a discettare, ma è la storia a dirci che la ragione costò a non pochi il rogo, sicché era ed è da salutarsi con gioia il riconoscimento della sua liceità e opportunità. Naturalmente non vi è “ragione” senza libertà di ragionare.

Il nodo profondo del pontificato di Ratzinger era il suo ragionare interno alla cultura e alla storia europee, con i lumi e con il sangue, con gli ideali e le guerre di religione, talché all’ecclesia toccasse essere comunità di fede e non altro. Ho l’impressione sia quello il nodo cui lo legarono. Scelsero un successore, gesuita, proveniente dall’America Latina, slegato da quei dilemmi e pronto a dire <<chi sono io per giudicare>>.

Cosa c’entri il conservatorismo e il progressismo resta oscuro, benché la distinzioni richiami l’entusiasmo di quanti ammirano la chiesa, purché non faccia, né coi fedeli né con gli infedeli, la chiesa.

La Ragione

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Il 4 gennaio è la Giornata mondiale del Braille. La giornata viene celebrata in memoria della nascita di Louis Braille, inventore del rivoluzionario metodo di scrittura e lettura per non vedenti e ipovedenti.


Google verserà allo Stato dell’Indiana $ 20 milioni nella battaglia legale che ha visto contrapporsi lo Stato del Midwest e Big G per presunte pratiche ingannevoli di tracciamento della posizione. Gli Hoosier, come vengono chiamati gli abitanti dell’Indiana, “verranno protetti in ogni modo dalle intrusioni delle Big Tech” ha affermato il procuratore generale dello Stato...


Vanity Fair, sul numero in edicola, con la bella penna di Nina Verdelli affronta la questione spinosa dei test genetici, inclusi quelli ormai venduti online per pochi euro o offerti – si fa per dire – gratis ai lavoratori e ha voluto sentirmi.


#uncaffèconLuigiEinaudi☕ – Si formino, oltre ed accanto ai partiti…


Si formino, oltre ed accanto ai partiti, comitati e movimenti intesi a propugnare idee che non trovano luogo od accoglimento nei programmi dei partiti da I limiti ai partiti, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 20 maggio 1944 L'articolo #uncaffèconLuig
Si formino, oltre ed accanto ai partiti, comitati e movimenti intesi a propugnare idee che non trovano luogo od accoglimento nei programmi dei partiti


da I limiti ai partiti, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 20 maggio 1944

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



La ‘stanchezza’ gioca brutti scherzi … anche a Mattarella!


Se non fosse, come noto, prerogativa indiscussa del direttore la titolazione degli articoli, suggerirei, con riferimento al discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un titolo che alluda al dato di fatto storico che, col tempo, anche i migliori possono essere stanchi. Tra l’altro, la ‘regia’, forse intesa a sottolineare i cambiamenti di argomento, serviva […]

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OK, parliamo di quell'editoriale. Quello che ha insistito non solo sul fatto che la privacy è pericolosa, ma anche sul fatto che non inserire affermativamente la sorveglianza negli strumenti di comunicazione è una posizione ideologica radicale.

Schiacciare gli argomenti dell'editoriale è facile. Sono SHALLOW. E molti hanno schiacciato, spesso con la gentilezza di un professore che valuta una bozza di saggio di uno studente che non volevano scoraggiare completamente. Ti indirizzerò al thread successivo... 1/

web.archive.org/web/2023010119… dorseys-twitter-signal-privacy.html

Ma quello che sta succedendo qui non è sostanza. Ed è su questo che voglio concentrarmi. Quelli di noi che hanno investito nella difesa della privacy devono capire che questo editoriale non è stato scritto per persone con esperienza e il suo scopo non sarà turbato dalla confutazione degli esperti. Non siamo il pubblico. 2/

L'editoriale funziona per creare l'apparenza di un "dibattito" su una questione più o meno risolta. E questa è una funzione potente, rafforzata dalla sua collocazione nel NYT. In questo modo, può fungere da "citazione Potemkin", fornendo un riferimento apparentemente credibile a sostegno di cattive leggi e piattaforme sulla privacy. 3/

Quali leggi? Quali piattaforme politiche? Non lo so. Ma il requisito dell'identificazione dell'età approvato in CA questa settimana e le normative che richiederebbero alle app di comunicazione di scansionare e sorvegliare i contenuti attualmente in corso nell'UE e nel Regno Unito ci danno alcuni indizi. 4/

Soprattutto perché queste leggi, in effetti, impedirebbero alle persone che sviluppano tecnologia di NON costruire capacità di sorveglianza e censura di massa. Che, sebbene estremamente mal argomentato, è effettivamente la spinta principale dell'editoriale.

In breve, abbiamo ragione, le nostre argomentazioni sono solide e abbiamo fatto la lettura. Ma se vogliamo difendere la privacy, dovremo essere coordinati e audaci, e non commettere l'errore di presumere che essere corretti sia di per sé una strategia. Abbiamo molto lavoro da fare nel 2023! FINE

mastodon.uno/@Mer__edith@masto…

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Il Giappone raddoppia le spese militari


Il governo di Tokyo decide un aumento record delle spese militari. Il Giappone spenderà il 2% del Pil e avrà missili in grado di colpire la Cina. Gli Stati Uniti plaudono L'articolo Il Giappone raddoppia le spese militari proviene da Pagine Esteri. http

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 22 dicembre 2022 – Non è la prima volta, negli ultimi anni, che il Giappone aumenta la spesa militare e decide di rafforzare il suo esercito, contravvenendo alle imposizioni “pacifiste” dettate dagli alleati – in particolare dagli Stati Uniti – dopo la sconfitta di Tokyo nella Seconda Guerra Mondiale.

Spese militari al 2% del Pil
Questa volta, però, il governo di Fumio Kishida ha deciso l’aumento più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale delle spese per la Difesa, che passano nel 2023 da 5200 miliardi a 6500 miliardi di yen, l’equivalente di 47 miliardi di dollari.
Come se non bastasse, il boom della spesa militare aprirà la strada ad un aumento fino al 2% del Prodotto interno lordo, portandola al livello dei paesi della Nato, alleanza militare di cui pure il paese non fa parte.

Il premier punta infatti ad aumentare il bilancio della Difesa per gli anni che vanno dal 2023 al 2027 fino a 318 miliardi di dollari, con un raddoppio di fatto rispetto al quinquennio che si sta chiudendo. Poco importa che l’articolo 9 della Costituzione giapponese, analogamente a quanto previsto dall’articolo 11 della Magna Carta italiana, reciti che «Il popolo rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali».

Le opposizioni denunciano il carattere militarista della decisione e il pericolo che questa scateni un’ulteriore escalation con Pechino e Pyongyang, e sottolineano che l’aumento delle spese militari sottrae importanti risorse ad un paese già sottoposto ad una forte crisi fiscale e ad un indebitamento pubblico da record. L’approvazione dell’aumento delle spese per la Difesa è stata preceduta da una polemica interna al Partito Liberal Democratico – principale forza del governo insieme al Komeito – tra coloro che proponevano di utilizzare i titoli di stato per coprire le nuove spese e il premier che invece ha optato per un aumento delle tasse. La Legge Finanziaria include un aumento graduale della tassazione sulle imprese a partire dal 2024 e altri provvedimenti volti a reperire le necessarie risorse addizionali.

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Manifestazione pacifista a Tokyo

Pronti a colpire la Cina
Il boom delle spese militari servirà a rafforzare le forze armate e a finanziare un piano di massiccio riarmo per sostenere la competizione militare nella regione dell’Indo-Pacifico. L’obiettivo del Giappone, affermano fonti del governo Kishida, è dotarsi di una forza convenzionale di deterrenza in grado di tenere testa alle ambizioni militari della Repubblica Popolare Cinese e di difendersi dalle minacce della Corea del Nord.

Tokyo intende aumentare significativamente la proiezione a lungo raggio della propria capacità militare, e a questo scopo ha deciso l’acquisto dagli Stati Uniti di alcune centinaia di Tomahawk; i missili da crociera statunitensi hanno infatti una gittata massima di 1600 km, che permetterebbe al Giappone di colpire obiettivi in territorio cinese in caso di conflitto.
L’esecutivo Kishida si è inoltre impegnato ad aumentare la gittata dei propri missili anti-nave, a sviluppare armi ipersoniche e a creare una forza speciale di auto-difesa contro i cyber-attacchi. Tokyo si è detta anche interessata a partecipare alla realizzazione dei caccia di sesta generazione Tempest, alla quale partecipano già la britannica BAE Systems e l’italiana Leonardo.

A spingere Tokyo ad adottare una politica di difesa più aggressiva, afferma il Washington Post, sarebbe stata anche l’invasione russa dell’Ucraina. «Il Giappone voleva limitare la sua spesa in materia di difesa ed evitare l’acquisto di sistemi d’arma d’attacco. Tuttavia, la situazione internazionale non ci consente di farlo» ha spiegato al quotidiano l’ex ambasciatore giapponese a Washington Ichiro Fujisaki.

Nella scia di Shinzo Abe
La realtà è che già durante il lungo governo del nazionalista Shinzo Abe, esponente della corrente più conservatrice del Partito Liberal Democratico (al governo quasi ininterrottamente dal 1955), Tokyo ha intrapreso il cammino verso una politica estera più aggressiva e militarista.
Prima del suo assassinio nel luglio scorso, Abe ha operato per centralizzare le politiche di sicurezza; ha riformato la Costituzione per affermare il cosiddetto “diritto all’autodifesa collettiva” del paese consentendo alle forze armate di intervenire in un conflitto non solo per difendere il Giappone ma anche un alleato contro un attacco esterno; infine, ha più volte aumentato gli stanziamenti per la Difesa fino a portare Tokyo al nono posto della classifica mondiale della spesa militare.
È anche vero, però, che l’invasione russa dell’Ucraina e i timori di un imminente attacco cinese a Taiwan hanno fatto aumentare il sostegno dell’opinione pubblica giapponese – tradizionalmente pacifista – al riarmo e alla creazione di un esercito forte e moderno.
All’inizio di dicembre una fonte del governo giapponese aveva già rivelato che l’esecutivo intende aumentare la presenza del proprio esercito nell’isola sudoccidentale di Okinawa “in previsione di un possibile scontro con la Cina su Taiwan». Il Ministro della Difesa Yasukazu Hamada prevede di portare a due il numero di reggimenti di fanteria di stanza sull’isola. Inoltre Tokyo prevede di triplicare le unità di difesa contro i missili balistici nelle Nansei, un arcipelago in parte contiguo a Taiwan, mentre le Forze di autodifesa aerea giapponesi sono state inviate per la prima volta nelle Filippine per partecipare a esercitazioni congiunte.

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Il premier giapponese Fumio Kishida

Gli Usa plaudonoLa nuova versione della Strategia di sicurezza nazionale varata dal governo di Fumio Kishida – a lungo ministro degli Esteri nei governi di Shinzo Abe – definisce la Cina «una sfida strategica senza precedenti», allineandosi così alla visione di Washington.

Non stupisce quindi l’entusiasmo manifestato nei confronti della storica decisione da parte degli Stati Uniti, che nel paese del Sol Levante mantengono da sempre un sostanzioso contingente militare dislocato in diverse basi. Da tempo la Casa Bianca chiede a Tokyo un maggiore protagonismo militare nel Pacifico in funzione anti-cinese. L’ambasciatore di Washington a Tokyo, Rahm Emanuel, ha definito la misura «una pietra miliare epocale» nelle relazioni tra i due paesi, indispensabile per fare dell’Indo-Pacifico un «territorio libero e aperto». Per il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, «L’obiettivo del Giappone di aumentare significativamente gli investimenti nella difesa rafforzerà e modernizzerà anche l’alleanza Usa-Giappone».

Pechino: “non siamo una minaccia”Di segno opposto, ovviamente, la reazione di Pechino. Il governo cinese ha infatti denunciato che Tokyo «accusa falsamente la Repubblica Popolare Cinese di ricattare il Giappone attraverso misure economiche coercitive e di intraprendere attività militari minacciose che destano grande preoccupazione nella comunità internazionale».
L’ambasciata cinese in Giappone ha affermato che la nuova Strategia di sicurezza di Tokyo viola numerose intese raggiunte negli ultimi anni tra i due governi e alimenta le tensioni regionali invece di promuovere la stabilizzazione e la pace. «La Cina ha sempre aderito alla strada dello sviluppo pacifico, ha perseguito una politica nazionale di natura difensiva e non ha mai istigato né partecipato a una corsa agli armamenti», ha affermato la sede diplomatica di Pechino, difendendo la posizione del proprio governo su Taiwan e sulle isole Senkaku, che la Cina considera parte del proprio territorio nazionale. L’ambasciata ha infine invitato il Giappone a non giustificare il proprio riarmo con la «teoria della minaccia cinese» e a scegliere la strada del consenso politico considerando i due Paesi come «partner e non come reciproche minacce».

Ma proprio nei giorni scorso le unità navali del Giappone sono entrate in stato di allerta dopo l’individuazione di alcune unità militari cinesi, tra le quali la portaerei Liaoning, nelle acque territoriali rivendicate sia da Tokyo sia da Pechino. Secondo il Ministero della Difesa giapponese si tratterebbe della nona “incursione” cinese da novembre.

Nel tentativo di frenare le rivendicazioni di Pechino nel Mar cinese meridionale, Tokyo ha negli ultimi anni rafforzato la cooperazione diplomatica e militare con le Filippine e il Vietnam, paesi coinvolti in altrettanti contenziosi con Pechino per il controllo di alcune aree. Nei mesi scorsi, inoltre, Tokyo ha tentato di stringere i rapporti con l’Indonesia che finora ha sempre cercato di porsi come mediatrice nei conflitti regionali.

Anche la Repubblica Popolare di Corea ha reagito negativamente all’aumento record delle spese militari da parte del Giappone, definendolo un «pericoloso errore che muterà in maniera netta il contesto di sicurezza regionale». «Il Giappone sta causando una grave crisi di sicurezza nella Penisola coreana e nell’Asia orientale, adottando una nuova strategia di sicurezza che ammette a tutti gli effetti l’attacco preventivo contro Paesi terzi» afferma una nota del Ministero degli Esteri di Pyongyang. – Pagine Esteri

4602434* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Come il nome stesso dell’esperimento suggerisce, Universe 25, ce ne sono stati altri 24 prima, e quasi tutti hanno portato al medesimo risultato. Il paradiso, inevitabilmente, diventava un inferno.

UNIVERSO 25 - FEDERICO FRANCO

Nel 1962, il ricercatore John B. Calhoun realizzò l’habitat ideale per roditori. Un luogo dove le cavie non avrebbero mai dovuto preoccuparsi di nulla, con cibo, acqua e un rifugio a disposizione per tutti. Un’utopia a misura di topo, la cui società nel giro di un anno raggiunse il suo massimo splendore, per poi ...

#scienza #sovrappopolamento #Universo25

federicofrancopsicobiologia.it…

in reply to Antonino Campaniolo 👣

penso che il morale della favola fosse che dovremmo evitare di comportarci da topi e prevenire il collasso della società
Questa voce è stata modificata (2 anni fa)


“Ci siamo svegliati il 24 febbraio in un’altra vita…”


Cari ucraini! Quest’ anno è iniziato il 24 febbraio. Senza prefazioni né preludi. In modo netto. Presto. Alle 4 del mattino. Era buio. E’ stato assordante. E’ stato difficile per molti di noi, spaventoso per alcuni. Sono passati 311 giorni. Può essere anc

Cari ucraini! Quest’ anno è iniziato il 24 febbraio. Senza prefazioni né preludi. In modo netto. Presto.
Alle 4 del mattino. Era buio. E’ stato assordante. E’ stato difficile per molti di noi, spaventoso per alcuni.
Sono passati 311 giorni. Può essere ancora buio, rumoroso e complicato per noi. Ma sicuramente non avremo mai più paura. E non ci vergogneremo mai. E’ stato il nostro anno. L’anno dell’Ucraina. L’anno degli ucraini. Ci siamo svegliati il 24 febbraio. In un’altra vita. Eravamo un altro popolo. Un’altra Ucraina. I primi missili hanno alla fine distrutto il labirinto delle illusioni.
Abbiamo visto chi era chi. Di cosa sono capaci gli amici e i nemici e, soprattutto, di cosa siamo capaci noi. Il 24 febbraio, milioni di noi hanno fatto una scelta. Non una bandiera bianca, ma una bandiera blu e gialla. Non una fuga, ma un incontro. L’incontro con il nemico.
Resistere e combattere.
[…] Quest’ anno potrebbe essere definito un anno di perdite per l’Ucraina, per l’intera Europa e per il mondo intero. Ma è sbagliato. Non dovremmo dire questo. Noi non abbiamo perso nulla. Ci è stato tolto.
L’Ucraina non ha perso i suoi figli e le sue figlie – loro sono stati uccisi dagli assassini. Gli ucraini non hanno perso le loro case – sono state distrutte dai terroristi. Non abbiamo perso le nostre terre – sono state occupate dagli invasori. Il mondo non ha perso la pace – la Russia l’ha distrutta.

Volodymyr Zalensky, discorso di fine anno alla nazione Ucraina

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Guerra di numeri tra Kiev e Mosca sulle vittime nell’attacco alla base russa nella regione di Donetsk. Mosca continua i bombardamenti sulle città mentre è stallo sul fronte sud.


Netanyahu può dare la priorità al pivot asiatico di Israele?


Il partito Likud di Benjamin Netanyahu è pronto a formare una stabile coalizione di estrema destra di 64 seggi dopo le elezioni legislative del novembre 2022. La forma di questo governo, insieme al processo penale personale di Netanyahu, influenzerà il modo in cui questo nuovo governo affronta le relazioni di Israele con l’Asia. Durante il […]

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Guerra Russia – Ucraina: che aspetto ha la vittoria?


La guerra russo-ucraina è entrata in una nuova fase. Durante i 10 mesi di guerra, l’Ucraina è riuscita a recuperare parte dei suoi territori occupati dalla Russia, e anche a prevenire il collasso dell’economia. L’inverno non ha fermato le operazioni militari. La leadership militare ucraina sottolinea che la guerra non può essere messa in pausa, […]

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La digitalizzazione e la trasparenza sono vitali per la ricostruzione dell’Ucraina


Quando ti sei abituato alle continue interruzioni di corrente, ai regolari allarmi antiaerei e alle strade deserte della sera di Kiev, un viaggio d’affari negli Stati Uniti può sembrare di essere trasportato in un’altra dimensione. Tuttavia, quando ho visitato Washington DC nelle ultime settimane del 2022, ho subito scoperto che la situazione in Ucraina era […]

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Lula insediato, centrale la sovranità nel corso futuro del Brasile


La cerimonia di insediamento di Lula, il 1° gennaio, ha seguito tutti i passaggi tradizionali seguiti dal trasferimento pacifico del potere dal ritorno della democrazia alla fine degli anni ’80. I rappresentanti nel terzo mandato senza precedenti di Lula, per non parlare di ciò che lo stesso nuovo Presidente ha detto sulla sua visione di […]

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Tigray, L’ Ayder Hospital di Mekellé rimane a corto di forniture mediche nonostante l’accordo di pace // Etiopia


I medici dell’ospedale Ayder Comprehensive Referral Hospital, Mekellé, il più grande nella regione del Tigray devastata dalla guerra, hanno dichiarato ad Addis Standard che “la…

I medici dell’ospedale Ayder Comprehensive Referral Hospital, Mekellé, il più grande nella regione del Tigray devastata dalla guerra, hanno dichiarato ad Addis Standard che “la fornitura di medicinali rimane carente” nonostante l’accordo di pace.

Il dottor Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale, che era amministrato dal governo federale prima della guerra, ha detto che stanno ancora aspettando che i medicinali riprendano le cure mediche salvavita.

“Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio”, ha affermato il dott. Kibrom.

Ha aggiunto che organizzazioni internazionali come la Croce Rossa e il WFP stanno fornendo forniture mediche, ma è minimo, aggiungendo che in quanto istituzione federale, l’ospedale dovrebbe essere sovvenzionato dal governo federale.

L’ospedale ha twittato lunedì chiedendo aiuto al Ministero federale della sanità e ad altre organizzazioni.

“È noto che il 60-70% delle decisioni critiche nella diagnosi e nel trattamento coinvolge dati di laboratorio quantificabili. Più di due anni dopo la guerra, l’ospedale Ayder non ha ricevuto reagenti di laboratorio”


It is known that 60%-70% of critical decisions in diagnosis and treatment involve quantifiable laboratory data. More than two years since the war #AyderHospital has not received laboratory reagents. We request @FMoHealth and other organizations to help us. @WHO @ICRC pic.twitter.com/trgFken2uM

— Ayder Hospital CHS_MU (@ayder_hospital) January 2, 2023

Secondo il dott. Kibrom, la filiale dell’Etiope Pharmaceutical Supply Agency (EPSA) a Mekelle ha risposto alla richiesta dell’ospedale affermando che il governo federale non ha inviato forniture mediche.

A ottobre, il dottor Kibrom ha dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi che possono essere mantenuti solo ad Addis Abeba.

La mancanza di farmaci essenziali come medicinali chemioterapici per la cura contro il cancro, gli antibiotici e i reagenti di laboratorio persiste ancora e, considerando le sfide che l’ospedale ha dovuto affrontare durante la guerra, il governo federale dovrebbe dedicarvi un’attenzione particolare, ha affermato il dott. Kibrom.

Il ministero federale della Salute ha tuttavia affermato, in una relazione sullo stato di avanzamento pubblicata a dicembre , che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray, comprese Mekelle e Shire.

Secondo il rapporto, farmaci anti-malaria, insulina per il trattamento del diabete, medicinali per la dialisi renale, farmaci per la tubercolosi, antipertensivi, prodotti per la pianificazione familiare tra gli altri medicinali salvavita oltre 78 milioni di birr sono stati spediti a Mekele attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità ( OMS) e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR).

Inoltre, il ministero ha affermato che 158,3 tonnellate di medicinali essenziali e forniture mediche sono state inviate a Mekele e alle strutture sanitarie vicine da partner internazionali e delle Nazioni Unite e che altre forniture sono state preparate dai servizi di forniture farmaceutiche etiopi.


Approfondimenti:


FONTE: addisstandard.com/news-tigrays…


tommasin.org/blog/2023-01-03/t…



Benedetto XVI: l’ addio al Papa emerito Ratzinger, figura ‘nobile e gentile’


«Dopo il grande Papa Giovanni Paolo II i signori Cardinali hanno eletto me pontefice, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Furono le prime parole con le quali il cardinale Joseph Ratzinger si presentò al mondo, nell’immediatezza della sua elezione al soglio pontificio, affacciandosi al balcone di San Pietro come Benedetto XVI il 19 aprile […]

L'articolo Benedetto XVI: l’ addio al Papa emerito Ratzinger, figura ‘nobile e gentile’ proviene da L'Indro.



Il Garante tedesco, lancia due nuovi opuscoli per i bambini Inauguriamo oggi una nuova rubrica nella quale periodicamente racconteremo le iniziative e i provvedimenti delle altre Autorità di protezione dei dati personali europee e non europee. L’Autorità garante federale tedesca per la protezione dei dati personali e la libertà d’informazione (BfDI) ha pubblicato due nuove...


Dal 9 al 30 gennaio 2023 si aprono le #IscrizioniOnline!

Sarà possibile presentare la...

Dal 9 al 30 gennaio 2023 si aprono le #IscrizioniOnline!

Sarà possibile presentare la domanda per tutte le classi prime delle scuole statali primarie e secondarie di I e II grado e per i corsi di istruzione e formazione dei Centri di formazione pro…



Report Corno d’Africa, Etiopia Tigray – EEPA n. 343 – 2 gennaio 2023


Negoziati di pace (per 02 gennaio) Il meccanismo di monitoraggio, verifica e conformità dell’UA (MVCM) è stato lanciato ufficialmente a Mekelle, nel Tigray, giovedì 29…

Negoziati di pace (per 02 gennaio)

  • Il meccanismo di monitoraggio, verifica e conformità dell’UA (MVCM) è stato lanciato ufficialmente a Mekelle, nel Tigray, giovedì 29 dicembre, guidato dal maggiore generale keniota Stephen Radina, insieme al colonnello Rufai Umar Mairiga della Nigeria e al colonnello Teffo Sekole del Sudafrica.
  • Secondo l’ufficio dell’ex presidente Uhuru Kenyatta e mediatore dell’accordo sulla cessazione delle ostilità (CoH), “la missione di tre membri formata dall’Unione africana ha il compito di monitorare, verificare e far rispettare l’accordo di pace di novembre”.
  • Kenyatta ha detto che i lavori dovrebbero essere completati entro il 7 gennaio, nel Natale ortodosso.
  • Il MVCM è composto da dieci esperti militari provenienti da diversi paesi africani.
  • Radina ha detto che l’MVCM ha fatto progressi: “Ho visitato una guarnigione di meccanizzazione ad Agula, dove ho visto un assortimento di armi pesanti e la volontà di consegnare e continuare il processo di pace”.
  • Il capo negoziatore dell’accordo CoH per lo stato del Tigray, Getachew Reda, ha confermato che un battaglione di ENDF era arrivato a Mekelle “per prendere in consegna le armi”, come da accordo.
  • Il Ethiopian reporter afferma che quando il disarmo sarà completamente attuato, le forze eritree e amhara si ritireranno dalla regione del Tigray, secondo i funzionari del governo federale.
  • Ethio360 afferma che il primo ministro Abiy ha dichiarato in un incontro con il Prosperity Party: “Stiamo entrando in un chiaro conflitto con l’Eritrea. Ciò è dovuto ai problemi dell’Eritrea.”
  • Abiy ha detto che l’Etiopia avrebbe utilizzato il porto eritreo di Assab. Un paese del Medio Oriente doveva ricostruire il porto ma Isayas non sta rispettando questo accordo. L’Etiopia doveva fornire energia elettrica all’Eritrea, ma Isayas rifiutò. Abyi ha detto che l’Eritrea sta addestrando la milizia Amhara, Afar e OLF – Oromo Liberation Front, che mina il governo etiope.
  • Rivolgendosi a 50 partiti di opposizione ad Addis Abeba presso l’African Leadership Excellence Academy il 28 dicembre, Amb Redwan, capo negoziatore del CoH per l’Etiopia, ha parlato della questione del Tigray occidentale.
  • Il Tigray occidentale, o Wolkait, è controllato dalle truppe eritree e dalla milizia Amhara.
  • Redwan ha affermato che la questione di Wolkait sarà affrontata attraverso un meccanismo proposto dal Consiglio della Federazione, inteso nel senso che la questione sarà decisa attraverso un referendum.
  • Redwan ha sottolineato che il governo federale non ha intenzione di riorganizzare i confini.
  • Redwan ha affermato che, “a differenza di alcune forze”, il governo federale non aveva intenzione di distruggere il TPLF.
  • Redwan ha chiarito che nel Tigray sarà formato un governo ad interim, composto dal TPLF, dal governo federale e dai partiti di opposizione nel Tigray.
  • L’ex diplomatico eritreo e attuale giornalista Fathi Osman afferma in RFI che è improbabile che l’Eritrea si ritiri dal Tigray, affermando che l’Eritrea sta addestrando militari a Gondar, la capitale dello stato regionale di Amhara e ha un’influenza politica in Etiopia a cui non vorrà rinunciare .
  • L’Autorità federale etiope per la ricerca e la conservazione del patrimonio culturale ha annunciato di aver istituito una task force per indagare sull’impatto della guerra sul patrimonio nel Tigray e in Etiopia.
  • A seguito dell’accordo CoH, la task force sta indagando su come il patrimonio è influenzato nelle regioni di Tigray, Amhara e Afar, tra cui il sito del patrimonio mondiale dell’UNESCO di Aksum, le chiese scavate nella roccia e una delle prime moschee in Africa (Moschea Al-Nejashi), nel Tigray, tutti colpiti dalla guerra.
  • La dichiarazione afferma che la task force esamina anche “tesori culturali meno visibili, inclusi manoscritti, dipinti, tradizioni orali e manufatti detenuti da chiese e monasteri sparsi nelle aree rurali del Tigray nonostante la loro natura non documentata”.

Situazione nel Tigray (al 02 gennaio)

  • Ci sono più segnalazioni da varie fonti che indicano che c’è ancora una presenza significativa di truppe eritree ad Aksum, Shire, Adwa e nei villaggi vicini, mentre altre mostrano truppe in partenza.
  • Ethiopian Airlines ha ripreso i suoi voli regolari oggi 02 gennaio, da Addis Abeba a Shire come parte dell’attuazione dell’accordo CoH, afferma il Tigray Communication Affairs Bureau.
  • Haftom Gebregziabher, direttore della Wegagen Bank Mekelle Branch, ha dichiarato a Tigray Television che la banca riprenderà i suoi servizi in città il 2 gennaio dopo 18 mesi.

Situazione in Eritrea (per 02 gennaio)

  • Nella sua dichiarazione per il nuovo anno, il presidente Isayas Afeworki ha affermato che sebbene i focolai di Covid siano stati relativamente bassi nel 2022, c’è stata una “crisi economica e di sicurezza” causata dalle futili minacce del “dominio della giungla dei “signori” che stanno rivitalizzando il loro campo unipolare nell’anno in uscita.
  • Ha affermato che nella regione i “signori” stanno promuovendo la loro agenda e creando una crisi attraverso i loro interventi cospiratori. Stanno rinvigorendo la loro “isteria” di un conflitto ostile contro l’Eritrea.
  • Isaias ha affermato che nonostante tutte queste situazioni internazionali e regionali, il popolo eritreo, nazionale ed estero, ha resistito consapevolmente, tenacemente, unitamente, di cui dovrebbe essere orgoglioso.
  • Isaias ha affermato che le forze di difesa eritree (EDF) hanno condotto storiche controffensive e hanno sventato i tentativi delle forze che minacciavano l’Eritrea. Ha aggiunto di essere orgoglioso del risultato di EDF, “oltre le parole”.
  • Isayas ha affermato che sembra che “i poteri dominanti, i loro messaggeri e le loro azioni cospirative” non si fermeranno nel 2023 e gli eritrei dovranno fare solidi preparativi per la resistenza.
  • Ha sottolineato la necessità di rafforzare gli sforzi di sviluppo dell’Eritrea nel nuovo anno. Ha detto che l’Eritrea ne uscirà vittoriosa, perché sta facendo scelte giuste e indipendenti.
  • È stato annunciato che il presidente Isaias rilascerà un’intervista questa settimana ai media locali.

Situazione internazionale (per 02 gennaio)

  • Non è stata adottata una risoluzione per revocare i finanziamenti alla Commissione internazionale delle Nazioni Unite di esperti in diritti umani sull’Etiopia, istituita per indagare sulle violazioni dei diritti umani in Etiopia.4597281

Link di approfondimento:


FONTE: martinplaut.com/2023/01/03/eep…


tommasin.org/blog/2023-01-03/r…




Gabriele Vagnato di professione influencer, scelto, tra l’altro, da Fiorello come inviato di Viva Rai 2, qualche mese fa decide di emulare Le Iene e – così lo racconta lui stesso – “entrare nella testa di un ladro” di biciclette, raccontando, naturalmente, al mondo intero, minuto per minuto, il suo esperimento sociale. L’idea è tanto semplice quanto...


È da leggere il rapporto della Polizia Postale 2022 appena pubblicato. Racconta di un’attività straordinaria dalla parte dei più fragili ma, purtroppo, al tempo stesso offre uno spaccato di una società digitale lontana anni luce da quella che vorremmo nella quale, specie i più piccoli, non possono sentirsi al sicuro. C’è tanto da lavorare. Arriva,...



L’occasione è utile per ricordare che chi ricevesse telefonate promozionali senza aver prestato il relativo consenso, che sia o non sia iscritto al registro delle opposizioni può inoltrare una segnalazione al Garante compilando questo modulo.
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Informa Pirata
Ciao @Claus vovevo solo puntualizzare il fatto che non sono Guido... 😀 questa è solo la ripubblicazion del post di Guido Scorza sulla sua newsletter


“La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società. Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini.” Sergio...


“La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società. Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini”. Sono...


Negli Stati Uniti il Congresso sembra deciso a provare il tutto per tutto per regolamentare in maniera più stringente l’universo dei social media a cominciare, senza alcuna sorpresa, dalla cinese TikTok. In Italia, da non perdere la guida per i genitori su Internet e bambini messa a punto dall’associazione Carolina che dice no a Internet...



BRASILE. La simbologia dell’insediamento di Lula celebra l’unione e la diversità


A sostituire Bolsonaro, che si è rifiutato di passare la fascia presidenziale al suo successore, persone comuni, rappresentanti del popolo e delle fasce più vulnerabili della società brasiliana L'articolo BRASILE. La simbologia dell’insediamento di Lula

di Glória Paiva –

Pagine Esteri, 3 gennaio 2023 – Il 1° gennaio, a Brasilia, Luiz Inacio Lula da Silva ha prestato giuramento come nuovo presidente del Brasile insieme al suo vice Geraldo Alckmin, iniziando il suo terzo mandato come protagonista del più grande evento di passaggio di potere nella storia del paese. La giornata è stata segnata da una grande festa popolare, da immagini molto emblematiche e dalla trasformazione di alcuni riti e protocolli.

Di primo mattino, gli addetti alle pulizie sono stati visti gettare sale grosso (utilizzato per “ripulire il malocchio” secondo la superstizione popolare) sulla rampa del Palazzo del Planalto. Prima delle 10, la piazza Três Poderes è diventata rapidamente affollata, con 40.000 persone all’interno e altre migliaia all’esterno, che guardavano tutto su grandi schermi. Per alleviare il caldo dei 27 gradi, i vigili del fuoco hanno schizzato acqua sulla folla colorata di rosso, il colore del Partito dei Lavoratori.

Nella tradizionale sfilata in auto scoperta, la Rolls Royce presidenziale, Lula e la first lady, Rosangela da Silva (detta “Janja”) hanno incluso, per la prima volta, il vicepresidente e sua moglie, Lu Alckmin, in linea con la sua campagna elettorale e il cosiddetto “fronte unico” per la democrazia. Lula ha anche pianto in diverse occasioni, ha fatto un cuoricino con le mani per la folla e ha persino interrotto la firma del suo mandato per onorare lo Stato del Piauí, raccontando un aneddoto sulla penna che gli è stata data da uno dei suoi sostenitori nella campagna presidenziale del 1989.

C’è stato anche un evento musicale intitolato “Festival del Futuro”, con 60 musicisti che si sono esibiti volontariamente per 17 ore di fila, celebrando i nuovi nomi della musica brasiliana e cantando anche canzoni storiche della lotta contro la dittatura militare.

Persino la tradizionale salita del presidente e del vice sulla rampa del Palazzo del Planalto ha avuto una componente originale: la cagnolina di nome Resistência, salvata dalle strade di Curitiba da Janja quando Lula era detenuto, nel 2018. Resistência ha fatto la passeggiata scodinzolando accanto all’entourage di Lula pochi istanti prima del passaggio della fascia presidenziale.

La popolazione rappresentata nella consegna della fascia

La partenza di Bolsonaro a Miami, il 30 dicembre, e la sua riluttanza ad ammettere la vittoria di Lula hanno inconsapevolmente propiziato l’immagine straordinaria che si è prodotta nel passaggio della fascia presidenziale. Nel rito, istituito nel 1910, il presidente eletto riceve l’ornamento dal suo predecessore. Prima di Bolsonaro, solo João Figueiredo si era rifiutato di consegnare la fascia al suo successore, nel 1985. Fino all’ultimo minuto, la squadra di Lula ha mantenuto il segreto su chi avrebbe consegnato la fascia.

Quando è arrivato il momento, otto persone si sono presentate al Planalto: un bambino nero di 10 anni, il capo indigena del popolo Kayapó, un metallurgico, un insegnante, una cuoca, un influencer con paralisi cerebrale, un artigiano e, infine, una raccoglitrice di rifiuti, Aline Sousa. Nera e madre di sette figli, Aline rappresenta uno dei più grandi segmenti della popolazione del Brasile, eppure, uno dei più vulnerabili. La fascia è stata passata di mano in mano fino a raggiungere Aline, che l’ha messa sul petto di Lula.

La scena ha suscitato grande commozione: politici e partecipanti presenti all’atto sono stati fotografati con le lacrime agli occhi, di fronte a quella che sembrava essere una riparazione simbolica per gli ultimi quattro anni, in cui le fasce più fragili della società brasiliana sono state escluse dalle priorità del governo federale.

Sebbene il rito di consegna della fascia non sia obbligatorio, è un’immagine importante per i valori che trasmette: l’alternanza pacifica del potere. Non è stata una sorpresa, quindi, che Bolsonaro e il suo vice, il generale dell’esercito Hamilton Mourão, si siano rifiutati di farlo, segnalando che il bolsonarismo non accetta così pacificamente questa alternanza.

Ciò che resta del bolsonarismo

Secondo gli esperti, il bolsonarismo, ideologia che ormai trascende la figura di Bolsonaro, sarà una delle grandi sfide del governo Lula, che trova un Senato e una Camera dei Deputati con grandi gruppi bolsonaristi tra i suoi membri.

Nei tre discorsi pronunciati durante la cerimonia di insediamento – al Congresso, al Palazzo del Planalto e al Festival del Futuro –, Lula ha promesso di governare “per tutti”, privilegiando l’unità, nonostante abbia detto anche che la Giustizia riterrà responsabili coloro che incitano atti antidemocratici e gli autori del cosiddetto “genocidio” conseguente alle politiche pubbliche durante la pandemia di covid-19. Nei suoi discorsi, Lula ha parlato della necessità di “ricostruire il paese sulle terribili rovine” lasciate dalla precedente amministrazione, insistendo sul suo impegno per il contrasto alle disuguaglianze e per la tutela dell’ambiente. Ha reiteratamente rafforzato l’idea di “democrazia per sempre” e ha fatto appello ai bolsonaristi, chiedendo “la fine dell’odio e delle fake news”.

La violenza dei gruppi estremisti è stata addirittura uno dei fattori di preoccupazione per il cerimoniale di Lula. Un tentativo di attacco terroristico il 24/12 ha portato a un rafforzamento della sicurezza nell’evento. Nell’occasione, il bolsonarista George Washington de Oliveira Sousa ha confessato di aver installato un esplosivo in un camion vicino all’aeroporto di Brasilia. Sousa avrebbe agito in collusione con altri manifestanti accampati nei pressi del quartier generale dell’esercito nella capitale federale. Secondo la Polizia Civile, il gruppo ha persino attivato l’ordigno, che fortunatamente non è esploso.

Ricostruzione democratica

Le proteste portate avanti dai manifestanti bolsonaristi sono state giustamente chiamati atti antidemocratici, per aver insistito su un intervento delle Forze Armate e per aver promosso vandalismo e violenza. Accampati da novembre davanti alle caserme dell’esercito in alcune capitali brasiliane, i gruppi sono diminuiti da quando Bolsonaro ha lasciato il Brasile.

Nel governo precedente, le fondamenta democratiche del Brasile sono state messe in discussione da una gestione caratterizzata dall’assenza di un progetto sociale, da disinformazione, discorsi di odio, accenni al militarismo, al negazionismo scientifico e all’intolleranza religiosa e politica. Tutto ciò, anziché combattere la polarizzazione della società, l’ha solo approfondita.

Nonostante questi ostacoli, la democrazia brasiliana ha dimostrato la sua resistenza. Il sistema di voto elettronico, tanto attaccato nella precedente amministrazione, ha dimostrato la sua sicurezza ed efficacia; i poteri legislativi hanno mantenuto il rispetto della Costituzione; la Giustizia Elettorale ha compiuto notevoli sforzi per la lotta alle fake news e per la difesa dei risultati delle urne. Le Forze Armate non si sono piegate alle richieste di intervento dei movimenti bolsonaristi. Durante l’insediamento di Lula, il battaglione della guardia presidenziale si è schierato in fila davanti al passaggio del presidente, sulla rampa del Palazzo del Planalto, come prevede il rito istituito dopo la Dittatura, nel 1988, che simboleggia la sottomissione delle Forze Armate al potere civile.

Lula, la cui maggioranza dei voti è stata espressa da donne, poveri e dalla popolazione del Nordest, ha ribadito più volte, nei suoi discorsi di giorno 1º, che la democrazia è stata la grande vincitrice di queste elezioni. Con una festa di inaugurazione colorata, allegra, piena di lacrime e di musica, con persone provenienti da tutto il paese, dalle famiglie tradizionali alla comunità LGBTQI+, con popoli indigeni, neri e bianchi, la festa di inaugurazione è stata un chiaro segno che la democrazia brasiliana, soffocata negli ultimi anni, desidera respirare un’aria di più rispetto, diversità e inclusione. Pagine Esteri.

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